Resoconto stenografico
AUDIZIONE
La seduta comincia alle 10,40.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca le comunicazioni del Governo sugli sviluppi della situazione in Medio Oriente e sul seguito della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 1701 dell'11 agosto 2006.
Prima di dare la parola ai rappresentanti del Governo, intendo rivolgere un ringraziamento a tutti i parlamentari presenti a questa seduta, nonché al ministro degli affari esteri D'Alema, e al ministro della difesa Parisi.
Do ora la parola al ministro degli affari esteri D'Alema.
MASSIMO D'ALEMA, Ministro degli affari esteri. La ringrazio, presidente. Ringrazio anche per la tempestività di questa seduta, che consente al nostro paese, insieme alla riunione che si è appena svolta del Consiglio dei ministri, di essere fra i primi paesi - il primo con questo grado di formalità - che rispondono all'appello delle Nazioni Unite contenuto nella risoluzione n. 1701.
La risoluzione n. 1701, approvata all'unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha posto fine al drammatico conflitto tra Israele e il Libano, anche se in verità il Governo libanese non è stato parte, ma vittima di questo conflitto, un conflitto che, come tutti ricordiamo, fu innescato dall'azione di commando, dall'azione terroristica del gruppo di Hezbollah al confine con Israele e proseguì poi con i bombardamenti massicci del Libano, il lancio di missili sul territorio di Israele e i combattimenti nel sud del Libano.
L'Italia è stata, fin dal primo momento, uno dei paesi che hanno agito per porre fine a questo conflitto, per arginarne la portata, per evitare che il conflitto stesso si espandesse alimentando una spirale di guerra e di violenza in tutto il Medio Oriente. Abbiamo continuato a svolgere questo ruolo anche nei giorni in cui, com'era non solo inevitabile ma anche giusto, il negoziato si è spostato a New York, nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove l'Italia non siede; e tuttavia, anche in quei giorni, il nostro Governo ha continuato a svolgere un'opera di stimolo e di incoraggiamento, perché si giungesse ad un accordo tra i paesi membri del Consiglio di sicurezza, allo scopo di porre fine al conflitto, così come noi avevamo detto fin dal primo momento. Porre fine al conflitto non per ritornare allo status quo ante, ma per sviluppare un processo positivo in grado di garantire, al tempo stesso, la sovranità del Libano e la sicurezza di Israele.
Testimonianza di questo impegno del nostro paese sono stati i numerosi contatti che innanzitutto il Presidente del Consiglio ha tenuto con tutti i leader impegnati nella crisi; di particolare significato la telefonata con il Presidente Bush, e poi anche le iniziative a livello del Ministero della difesa e del Ministero degli affari esteri.
La risoluzione n. 1701 ha posto fine al conflitto e, fino a questo momento, ha ottenuto successo, nel senso che ha garantito la cessazione delle ostilità; ed è di queste ore la notizia positiva che il dispiegamento delle forze armate libanesi è iniziato nel sud del paese e che l'esercito libanese ha raggiunto la città di Kiam, a 7 chilometri dal confine con Israele, e che progressivamente le forze israeliane hanno avviato il loro ritiro dal sud del Libano. Fino a questo momento, le forze libanesi operano affiancate dal contingente UNIFIL, che è in attesa di quel rafforzamento cospicuo che la risoluzione prevede e a cui la comunità internazionale dovrà provvedere nei prossimi giorni.
La risoluzione prevede, appunto, il ritiro delle forze armate israeliane, il dispiegamento contestuale nel sud del Libano delle forze armate libanesi e dell'UNIFIL, rafforzate in uomini, mezzi e mandato. La risoluzione prevede altresì l'avvio di negoziati politici tra Israele e Libano, per giungere ad una soluzione duratura nel quadro di una serie di principi ed elementi, sui quali le parti dovranno accordarsi, sostenuti dal Segretario generale. Fra l'altro, la risoluzione consente di avviare a soluzione il contenzioso tra Israele e Libano a proposito delle cosiddette fattorie di Sheba, che ha costituito da sempre la motivazione che ha alimentato il movimento anti-israeliano nel Libano, che ha teso a caratterizzarsi come movimento di irredentismo nazionale, di liberazione di una porzione, sia pure limitata, di territorio libanese ancora occupata da Israele.
La risoluzione prevede che tra i principi che devono essere affermati vi sia il pieno rispetto della linea blu, lo stabilimento di una «zona cuscinetto» tra il fiume Litani e la linea blu, libera da forze armate ed armi che non siano delle forze armate libanesi o dell'UNIFIL, e la messa in opera delle rilevanti disposizioni previste dagli accordi di Taif e dalle risoluzioni n. 1559 e n. 1680, incluso il disarmo delle milizie, per il quale la risoluzione si rivolge al Libano, al Governo libanese, alle forze armate libanesi, riservando alle forze dell'UNIFIL un compito di supporto.
La risoluzione autorizza, quindi, in vista dei compiti sopra delineati, il rafforzamento di UNIFIL fino a un massimo di 15 mila uomini e l'ampliamento del suo mandato rispetto a quello attuale, per includere in particolare la verifica della cessazione delle ostilità, l'accompagnamento dello spiegamento dell'esercito libanese nel sud del paese lungo la linea blu, il sostegno alle attività umanitarie e il sostegno alle forze armate libanesi in vista dello stabilimento della prevista buffer zone, libera da combattenti e armamenti, salvo quelli appunto, come ho ricordato, del Governo libanese e dell'UNIFIL.
La risoluzione delinea, poi, il quadro delle regole di ingaggio dell'UNIFIL rafforzata; sono regole che si stanno esaminando - sarà il ministro Parisi a soffermarsi su questi argomenti -, nel senso che in questi giorni, in particolare ieri, alle 21 ora italiana, è iniziata una riunione a New York, dove si sta svolgendo positivamente il lavoro per precisare il mandato e per definire le regole di ingaggio, in modo da assicurare che la missione sia in grado di resistere a tentativi di uso della forza, volti ad impedirgli di svolgere i propri compiti, in base al mandato conferitogli, che sono quelli di assicurare la libertà di movimento e di proteggere il personale dell'ONU, gli operatori umanitari, le installazioni e il materiale dell'ONU, nonché i civili sotto la minaccia imminente di violenza fisica.
La risoluzione estende, infine, il mandato dall'11 fino al 31 agosto 2007 ed esprime l'intenzione di considerare, in una successiva risoluzione, ulteriori rafforzamenti del mandato e altre misure per contribuire alla messa in opera del cessate il fuoco permanente e di una soluzione duratura. Il Segretario generale dovrà riferire
al Consiglio di sicurezza - riferirà entro la giornata di oggi - sull'applicazione della risoluzione stessa e sui nuovi passi da compiere.
Complessivamente, il nostro giudizio è che la risoluzione ha rappresentato una svolta positiva. Essa è stata accolta dalle parti in conflitto come un messaggio di cessazione delle ostilità ed effettivamente bisogna riconoscere che ciò che la risoluzione prevede, cioè la cessazione immediata da parte di Hezbollah di ogni attacco verso il Israele e la cessazione immediata di ogni operazione militare offensiva da parte di Israele, ha trovato già immediata attuazione.
Dal punto di vista della forza internazionale, la missione si caratterizza come una missione ONU, dei caschi blu, a tutti gli effetti. In definitiva, ha prevalso questa tesi rispetto ad altre ipotesi, che erano state delineate, di una forza multinazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite. Naturalmente, il fatto che si tratti di una missione ONU significa che si debbono studiare con particolare attenzione regole e modalità organizzative e di comando, in modo che la missione possa risultare efficace.
Noi non ci nascondiamo le difficoltà dei compiti che sono di fronte alla missione e, più in generale, alla comunità internazionale. È evidente che la situazione del Libano permane fragile e carica di rischi. È evidente che il processo politico di rafforzamento del Governo libanese e, in particolare, il processo politico che deve portare a un monopolio della forza da parte del Governo libanese, che è condizione per l'esercizio effettivo di una sovranità, è un processo politico e militare, per gli aspetti militari, assai problematico. Non ci nascondiamo, quindi, la complessità dei compiti che sono di fronte ai paesi che vogliono rispondere positivamente all'appello delle Nazioni Unite.
Tuttavia, siamo convinti che il nostro paese debba rispondere positivamente e che l'esito di questo drammatico conflitto possa rappresentare un punto di svolta nella vicenda mediorientale e avviare una fase nuova, caratterizzata non soltanto dalla tregua, ma anche dalla ripresa - questo è il nostro auspicio - di un più robusto processo di pace, in grado di avviare a soluzione le ragioni di conflitto che persistono in tutta quell'area, di contribuire ad isolare e sconfiggere le forze estremiste e radicali di tipo terroristico e di garantire, al tempo stesso, la sicurezza di Israele e il riconoscimento del diritto all'esistenza dello Stato di Israele e i diritti dei popoli arabi che vivono nella regione, a cominciare dal diritto dei palestinesi ad avere una propria patria.
È evidente, infatti, che la soluzione del conflitto tra Libano e Israele deve essere considerata in un quadro più generale, nel quale rimane cruciale, come ha già sottolineato nella sua conversazione con il Presidente Bush anche il Presidente del Consiglio Prodi, il tema israelo-palestinese, che rappresenta, senza dubbio, il cuore della crisi mediorientale, ossia la grande questione cui occorre dare una risposta per disinnescare le ragioni di un conflitto che rischia, altrimenti, di allargarsi ed estendersi, come via via, in diversi momenti, abbiamo visto nel corso dei lunghi anni della storia di tale conflitto.
Credo che, da una parte, l'obiettivo della comunità internazionale sia quello della stabilizzazione del Libano. Il Libano è uno dei pochi paesi democratici dell'area, dove si è votato democraticamente. Certo, si tratta di una democrazia in costruzione, dopo lunghi anni di guerra civile e di interferenza straniera.
Il Governo libanese è un Governo al quale tutta la comunità internazionale guarda con simpatia, non senza nascondersi le effettive ambiguità e la complessità della situazione libanese. Infatti, può apparire non semplice comprendere a prima vista che il Governo libanese, che noi vogliamo aiutare, che è sostenuto dall'Occidente e che è visto con simpatia dagli Stati Uniti d'America, sia un Governo di cui, tuttavia, fa parte Hezbollah, che mi sembra difficilmente liquidabile come un gruppetto terroristico, essendo un movimento di natura assai complessa. Infatti, esso è innanzitutto un partito politico, che gode di un vasto consenso democratico e
di una robusta rappresentanza parlamentare e che fa parte del Governo di quel paese. Lo dico perché è piuttosto difficile andare in Libano e non incontrare Hezbollah per chiunque vi si rechi, dato che fa parte del Governo, il quale, non noi, ma le Nazioni Unite dicono che dobbiamo sostenere ed aiutare.
Ma, come avviene in altri paesi di quell'area, purtroppo, questo sistema democratico convive con una realtà intollerabile di milizie di partito, che costituiscono anche il lascito di un lungo periodo di guerra civile. Quando parlo di milizie di partito, non mi riferisco soltanto alla milizia Hezbollah. Il Libano è un paese nel quale lo scontro tra milizie di diverse fazioni, per lunghi anni, ha insanguinato il paese e la società libanese. È dunque evidente che il consolidamento della democrazia passa attraverso il sostegno della comunità internazionale al Primo ministro Siniora e alle forze armate libanesi, perché effettivamente il regime democratico si fondi su un monopolio statale della forza, che è condizione perché la democrazia non sia insidiata da gruppi, da fazioni e da azioni violente e di natura terroristica.
Un problema analogo si pone tra i palestinesi, dove anche convive una fragile democrazia, con una pluralità di gruppi armati che sfuggono ad un controllo delle autorità politiche e che hanno rappresentato, da sempre, un motivo di tensione drammatica e uno dei fattori che hanno alimentato una spirale di violenza.
È dunque evidente che l'azione della comunità internazionale deve tendere a fare in modo che i processi democratici si consolidino, che il proliferare di gruppi armati lasci il posto ad una presenza militare responsabile, sotto la responsabilità politica delle autorità dei diversi paesi e nei territori palestinesi, e che il processo di pace riprenda il cammino del negoziato e della ricerca di soluzioni condivise. Questo vale sia per il contenzioso ancora aperto fra Libano ed Israele, sia, a maggior ragione, per la necessità di rimettere in movimento, sulla base della Road map, un processo di pace tra Israele e palestinesi.
Nel corso di queste settimane abbiamo discusso apertamente, a più riprese, con le autorità israeliane. Quando dico «noi» non mi riferisco soltanto all'Italia, perché le posizioni politiche che abbiamo sostenuto in questo dialogo sono quelle europee, che trovano un preciso riscontro nei documenti approvati in modo unanime dai ministri degli esteri europei.
L'Europa ha riconosciuto il diritto di Israele a difendersi e, all'indomani dell'attacco da parte di un commando di Hezbollah ad una postazione di frontiera israeliana, nessuno ha messo in discussione che Israele avesse diritto di reagire ad un attacco illecito contro il suo territorio. Nello stesso tempo, dopo alcuni giorni di guerra e dopo bombardamenti assai estesi, che hanno danneggiato in modo assai rilevante il Libano, il Consiglio affari generali invitava Israele a sospendere le attività militari, in particolare all'indomani della strage di Cana, per evitare ulteriori sofferenze alle popolazioni civili e per evitare il rischio di una spirale di guerra incontrollata e dall'esito assai rischioso per le stesse forze armate israeliane, che si sarebbero trovate impegnate a combattere un movimento di guerriglia e non un esercito regolare, all'interno di un paese straniero, in condizioni assai difficili e problematiche anche dal punto di vista della determinazione di chiari obiettivi militari.
Il Governo di Israele ha ritenuto di non dover accogliere questo appello che veniva da una parte della comunità internazionale. Il conflitto è proseguito, ritengo non senza motivi di dubbio all'interno stesso della società israeliana. D'altro canto, la discussione che si è aperta in Israele sul senso di questo conflitto e sulle sue conseguenze è piuttosto seria. Non credo che avere invitato Israele a fermarsi 15 giorni fa sia stato un atto di ostilità verso Israele. Personalmente, penso che l'Europa abbia manifestato amicizia verso Israele nel consigliare di fermarsi e di affidarsi alla comunità internazionale. Nessuno ha mai
pensato che il conflitto dovesse cessare per ritornare alla situazione di prima, ma fin dal primo momento noi abbiamo offerto la nostra disponibilità ad intervenire, affinché una forza internazionale si ponesse lungo il confine di Israele per garantirne la sicurezza e per assicurare la cessazione di attacchi da parte di gruppi terroristici al di là della linea blu.
Dunque, non abbiamo soltanto chiesto che cessasse il fuoco delle armi: fin dal primo momento abbiamo messo in campo la disponibilità della comunità internazionale e dell'Europa per garantire in modo attivo la sicurezza di Israele e non soltanto la sovranità e l'integrità del Libano. Alla fine, questa posizione ha prevalso; alla fine, dopo che ci sono stati molti morti tra i civili in Libano, in Galilea e molti caduti nelle forze armate israeliane e fra i combattenti libanesi.
Ora l'importante è che il processo di pace ottenga rapidamente dei risultati, non soltanto dal punto di vista del consolidamento della tregua e dell'avvio di un negoziato politico, ma anche da quello della ricostruzione del Libano e di un'azione umanitaria che la comunità internazionale deve condurre insieme al Governo libanese. Infatti, se dovessimo lasciare il campo ad un'azione umanitaria di segno islamista, che è largamente in corso, credo che il rischio di un rafforzamento delle posizioni politiche più estreme sarebbe assai grave.
Anche per ragioni politiche, quindi, oltre che per elementari ragioni di umanità, è necessario che la comunità internazionale sia in campo per la ricostruzione del Libano e per il sostegno alle popolazioni colpite. L'Italia è presente. È un impegno forte: oltre 500 tonnellate di aiuti portati in quelle zone dalla nave San Marco, la presenza della Protezione civile e della Croce rossa, l'impegno del Ministero dell'ambiente, su richiesta del Governo libanese, per affrontare la drammatica emergenza ambientale determinata dal bombardamento di depositi di carburante lungo la costa, con conseguente vasto inquinamento del Mediterraneo. L'Italia è presente con un impegno molto grande anche sul piano bilaterale, oltre che sul piano multilaterale.
In questo quadro - è l'ultima osservazione che voglio svolgere -, non vogliamo dimenticare la situazione dei territori palestinesi. È stato sottolineato anche da diversi capi di Stato arabi: in particolare, voglio ricordare l'incontro con il Presidente Mubarak, che ha avuto particolare intensità, per le preoccupazioni che egli ha voluto esprimere, d'altro canto anche in modo pubblico, sul fatto che lo sviluppo degli avvenimenti possa incoraggiare in modo significativo le posizioni più radicali nell'insieme del mondo arabo. Mi ha colpito che anche paesi come la Giordania, l'Arabia saudita e l'Egitto, che nelle prime ore avevano espresso posizioni critiche verso l'azione di Hezbollah, sottolineandone il carattere avventurista e inaccettabile, via via, sotto la pressione delle opinioni pubbliche di questi paesi, hanno dovuto correggere le loro posizioni, fino alle aperte dichiarazioni di sostegno, di valorizzazione e di esaltazione della lotta condotta dai gruppi di Hezbollah. Insomma, se si dice che una delle conseguenze della guerra è avere rafforzato la posizione politica dei gruppi estremisti, non si compie una pericolosa azione politica contro Israele: ci si limita a dire la verità, ciò che chiunque può constatare; senza arrivare all'estremo de The Economist, la cui copertina reca Nasrallah wins the war, che senza dubbio è un'esagerazione. Lo si dice come motivo di preoccupazione rispetto al rischio che questa spirale di guerra finisca per rafforzare posizioni estreme anche in paesi che con Israele hanno firmato la pace e che con Israele intrattengono normali relazioni diplomatiche.
Ecco perché credo che l'Europa e la comunità internazionale debbano raccogliere l'appello che viene da questi paesi: l'appello del Presidente Mubarak, quello del Governo dell'Arabia saudita o del Re di Giordania, che è quello di intervenire in questa complessa crisi per dare forza ad una prospettiva di pace sulla base del negoziato e per offrire una speranza a
popoli che, se privi di ogni speranza, rischiano di affidarsi sempre di più a posizioni di tipo estremistico e radicale.
In tale quadro, guardiamo con interesse a qualche spiraglio che si apre nel campo palestinese: mi riferisco all'annuncio di queste ore di un possibile accordo per un Governo di unità nazionale. Credo sarebbe un fatto positivo, fermo restando, naturalmente, che un nuovo Governo palestinese, a nostro avviso, deve adempiere alle condizioni poste dalla comunità internazionale: il riconoscimento di Israele, il riconoscimento degli accordi sottoscritti dall'autorità palestinese, la rinuncia alla violenza come condizione perché possa rimettersi in movimento un processo di pace. È in questa direzione che lavora il Presidente Abu Mazen.
Sono convinto che la cessazione del conflitto e il dispiegarsi di una forza internazionale nel Libano è certamente un aiuto in questo momento alle forze più moderate, perché esse possano riprendere in mano la situazione e perché, fermata l'azione militare, possa riprendere il difficile lavoro della politica, del negoziato e della costruzione della pace.
PRESIDENTE. Grazie, ministro D'Alema. Do ora la parola al ministro della difesa Parisi.
ARTURO PARISI, Ministro della difesa. La domanda che oggi è al centro della nostra attenzione è quella del «se» e non quella del «come», alla quale un ministro della difesa è chiamato più puntualmente a dar conto. Poche sono, perciò, le considerazioni che oggi posso aggiungere in ordine alla missione sulla quale ci ha introdotto il ministro degli affari esteri per quanto riguarda le premesse, il significato e le finalità. In nome della verità che dobbiamo al Parlamento e al paese per quel che riguarda la dimensione militare, sento di dover innanzitutto riconoscere che essa si prospetta come una missione lunga, impegnativa, costosa e rischiosa; tuttavia, non per questo, meno doverosa. Sulla stampa, si è fatto riferimento alla categoria della «passeggiata»: non sarà una passeggiata. È un'espressione che tutti, da più parti, abbiamo usato.
Alle parole del ministro degli esteri posso solo aggiungere che poche missioni come questa sono capaci di dar seguito in modo evidente al mandato iscritto nell'articolo 11 della nostra Costituzione, che ci chiama al ripudio della guerra attraverso iniziative attive al servizio della pace, sulla base della condivisione di un impegno e di una responsabilità, nel quadro delle organizzazioni internazionali. Per questo, la consapevolezza della lunghezza dell'impegno, dei costi e dei rischi della missione non può e non deve fermarci nell'assumerci le nostre responsabilità. Nello stesso tempo, proprio la determinazione ad assumerci le nostre responsabilità, deve spingerci a ponderare, limitare e governare in modo realistico e prudente rischi e pesi impliciti nella missione stessa.
Oggi è il giorno nel quale dobbiamo esprimere il nostro «sì», nel quale il Governo propone di rispondere «sì» alla partecipazione delle forze nazionali al rafforzamento della missione UNIFIL in Libano; un «sì» che formuliamo in risposta all'appello dell'ONU, un «sì» che esprimiamo guidati dalle scene di dolore, di sangue e di morte dei giorni scorsi e che ancora ci interpellano dai teleschermi. È stato ricordato: 1.200 morti in un mese significano 40 morti al giorno, 40 vite perdute, 40 famiglie in lutto. Per questo, ci riconosciamo in questa tregua, una tregua di poco più di 100 ore, (erano le ore 7 di lunedì scorso), che ha risparmiato centinaia di morti, se la media fosse stata quella di 40 morti al giorno. Per questo, ci sentiamo impegnati, incondizionatamente impegnati, perché le ostilità ed il fuoco cessino e la tregua si trasformi in una pace stabile.
Nelle prossime ore, ci applicheremo al «come» della missione (in queste ore, mentre ancora dormono oltre Atlantico, si lavora sul dettaglio riguardante le modalità della missione) e al «come» della nostra partecipazione (ed è questo il tema di cui darò conto, in particolare, nella predisposizione degli strumenti preposti alla definizione di questo aspetto). Tuttavia,
deve essere chiaro, che per noi, il «come» è a valle del «sì». Se è vero che la tregua ha già risparmiato centinaia di vite, non possiamo dimenticare che il ritardo del cessate il fuoco ha prodotto centinaia di morti.
Ieri, i giornali riportavano il pianto di David Grossman per la morte del suo Uri. Come restare insensibili di fronte al pianto di un padre, di tutti i padri e di tutte le madri che in questi giorni piangono da entrambe le parti i loro figli? È una domanda che non possiamo non porci, a cominciare dal ministro della difesa, se mi consentite, guidati dalla preoccupazione del fallimento. Guai se dovessimo fallire!
Per questo motivo, offrendo solo pochi elementi sulla dimensione militare della nostra partecipazione alla missione in Libano, devo ricordare che il punto di partenza di ogni ragionamento è costituito dal fatto che la risoluzione n. 1701 dell'11 agosto, che si basa sulle precedenti risoluzioni n. 425 e n. 426 del 1978, definisce, di fatto, il nuovo intervento come un ampliamento e una ridefinizione della missione UNIFIL. Conviene rileggere l'acronimo: United Nations Interim Force in Lebanon. Lo ripeto: interim. È questo interim che avevo in mente, quando dicevo: lunga per il futuro, pensando alla lunghezza del passato.
Ricordo che la missione UNIFIL è stata costituita con la risoluzione n. 425 nel marzo del 1978 da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a seguito dell'intervento di Israele in territorio libanese, in risposta all'aggressione di un commando palestinese avvenuta in territorio israeliano (una situazione non troppo dissimile da quella che è all'origine di questa nuova determinazione). Le successive risoluzioni hanno prorogato, con cadenza semestrale, la durata della missione.
Le prime truppe UNIFIL arrivarono nell'area nel marzo del 1978 (sono trascorsi 28 anni) e la risoluzione n. 425 indicava lo stretto rispetto dell'integrità territoriale, della sovranità e dell'indipendenza politica del Libano entro i confini riconosciuti in campo internazionale e, conseguentemente, richiamava Israele a cessare immediatamente la sua azione militare contro l'integrità del territorio libanese e a ritirare subito le sue forze da tutto il territorio. Lo ricordo per iscrivere questo impegno dentro una storia, non per attenuare l'impegno, ma per commisurarlo all'obiettivo che noi ci proponevamo. In quella occasione, tre erano gli obiettivi: ottenere il ritiro delle forze di Israele, ristabilire la pace e la sicurezza internazionale ed assistere il Governo del Libano nella ripresa della sua effettiva autorità nell'area.
La missione UNIFIL, poi, si svolse, come tutti sappiamo, con variazioni nel tempo, sino a raggiungere un massimo di 7 mila unità e ad approdare all'attuale dispiegamento di 2 mila unità che la definisce, attraverso un'azione che, tra l'altro, ha visto presenti e vede presenti ancora i nostri militari (abbiamo impegnati 52 militari e quattro elicotteri di stanza a Naqoura, dove ha sede il comando UNIFIL, con una serie di compiti che vanno dagli sgomberi sanitari alla ricognizione, ricerca e soccorso e al collegamento tra il comando UNIFIL e le dipendenti unità operative della forza, fino all'attività antincendio).
La risoluzione n. 1701, che è stata da poco approvata, richiama espressamente gli accordi che hanno portato alla costituzione di UNIFIL, ma, per quello che riguarda il piano sostanziale di competenza della Difesa, amplia l'area di intervento fino a interessare tutto il territorio tra la linea blu ed il fiume Litani; estende il mandato e la capacità di intervento in misura significativa e, pertanto, accresce il numero di militari impegnati, portandoli dai 2 mila attuali a 15 mila e, comunque, in una misura che ci si attende nettamente superiore alla consistenza mai raggiunta in precedenza (lo ricordo per indicare i limiti totali dell'intervento nel quale dobbiamo operare le nostre scelte); in particolare, attraverso il combinato disposto del paragrafo 8 e dei paragrafi 11 e 12, in aggiunta al mandato di cui già disponeva UNIFIL nella prima fase, elenca una serie di obiettivi già ricordati dal ministro degli esteri nella sua introduzione.
Possiamo solo dire che si tratta di un impegno consistente, volto al controllo del sud del Libano, in concorso e supporto dell'esercito libanese. Da una missione UNIFIL che aveva compiti di mera osservazione, si è passati ora a prospettare una forza con un profilo più attivo, chiamata ad operare affinché la pace sia conseguita e mantenuta.
Per questo, il Governo italiano, consapevole dell'importanza di questa occasione, ritiene di chiedere al Parlamento la disponibilità del paese a condividere un impegno per la pace nel Libano, rafforzando la nostra presenza nella missione UNIFIL in modo determinante, in riferimento ai nuovi impegni attribuiti alla forza internazionale. Tuttavia, all'interno di questa disponibilità, ci sembra inevitabile isolare delle condizioni, che sono - come ho detto in apertura - condizioni «a valle del sì», condizioni che non riguardano la partenza, ma che assicurano l'arrivo, condizioni che riguardano quattro punti fondamentali, a partire dai quali noi definiremo le modalità dell'intervento.
Il primo punto riguarda quello che viene chiamato - in un gergo che si va affermando - il concetto operativo, che le Nazioni Unite sono chiamate in questo momento a precisare - come sta accadendo -, traducendo quegli elementi presenti nella risoluzione che tuttavia non sono immediatamente disponibili come strumenti normativi per i comandanti che operano sul campo.
A valle di questo, vi sono le regole di ingaggio, che noi chiediamo siano chiare e rispettose del mandato e capaci di offrire ai comportamenti un riferimento sicuro per le scelte da adottare sul terreno.
Il terzo problema, sul quale stiamo lavorando - non come chi attende e chiede una risposta, ma come chi partecipa all'elaborazione di una risposta -, è rappresentato dalla catena di comando, che è preposta a questa nuova fase di UNIFIL e che dovrà confrontarsi con i problemi già registrati in precedenti missioni svoltesi sotto il comando ONU, durante le quali non è stata resa disponibile per i comandanti sul campo quella nitidezza nella individuazione delle responsabilità e del mandato della quale hanno bisogno le missioni affinché la domanda forte che ad esse si rivolge si trasformi in una risposta efficace.
Ultima questione, la partecipazione dei paesi che contribuiscono alla forza, che è ancora in via di definizione.
Tutti e quattro i punti, per i quali noi ci sentiamo impegnati a condividere e sollecitare un chiarimento, costituiranno il quadro di riferimento nella definizione dell'intervento e della proposta, che noi sottoporremo, attraverso gli strumenti normativi corrispondenti, al Parlamento, per tradurre il nostro «sì», che proponiamo oggi, in un'azione che sia capace di perseguire e di conseguire gli obiettivi della missione stessa.
Questo, però, deve avvenire avendo come riferimento - questi sono punti che posso dare per elementi sicuri - la consistenza della missione - inevitabilmente condizionata dagli apporti degli altri paesi, che al momento non sono disponibili - , nella consapevolezza che un paese come l'Italia deve, in senso relativo, rispondere ad una domanda già rappresentata nello svolgimento dell'iniziativa sino ad ora portata avanti, condividendone la responsabilità e mostrando la disponibilità ad associarla alla conduzione della missione stessa, qualora se ne determinassero le condizioni.
Lo stesso si può dire per la composizione della missione, che deve essere inevitabilmente connotata dalla presenza di reparti capaci di corrispondere a quella domanda di interposizione attiva che definisce il profilo della missione, con un riferimento certo ai requisiti previsti nello statuto dell'ONU dal capitolo VI, che in questa missione sono caricati di un'attesa ulteriore, che anticipa e prevede molti degli elementi del capitolo VII.
Terzo punto: la capacità di dislocazione sul terreno del contingente. Da questo punto di vista, la Difesa e lo stato maggiore lavorano, da una parte, per rispondere a quelle domande che noi consideriamo un requisito fondamentale per partire, dall'altra per far sì che la partenza
avvenga il prima possibile. In dichiarazioni pubbliche, ho usato in forma provocatoria l'espressione «mezz'ora dopo», ma si tratta, evidentemente, di una immagine che rappresenta la nostra determinazione, guidata dalla consapevolezza che altro tempo non può essere lasciato allo svolgimento di una tregua che, se non accompagnata da comportamenti conseguenti, potrebbe essere messa in discussione.
Questi elementi, volti ad assicurare una presenza nella missione UNIFIL rafforzata, sono i riferimenti del Governo per l'articolazione in termini operativi della proposta che il Governo si augura di presentare il prima possibile, affinché le premesse individuate, delle quali oggi siamo chiamati a discutere a livello politico, abbiano delle conseguenze operative all'altezza delle stesse premesse.
PRESIDENTE. Ringrazio il ministro della difesa Parisi.
Per quanto riguarda l'organizzazione dei lavori della seduta, sentiti i colleghi presidenti delle altre Commissioni, che ringrazio e saluto, si considera opportuno ripartire il tempo a disposizione dei gruppi secondo un criterio adottato in varie occasioni: 10 minuti per i gruppi costituiti sia alla Camera sia al Senato; 6 minuti per i gruppi costituiti soltanto alla Camera o al Senato; otto minuti per ciascuno dei gruppi Misti costituiti nei due rami del Parlamento.
Do ora la parola al presidente Casini, che è il primo iscritto a parlare.
PIER FERDINANDO CASINI. Non è facile intervenire in questo dibattito: da un lato, come parlamentare, mi sento di esprimere soddisfazione per la metodologia corretta che è stata seguita; infatti, oggi discutiamo in sede parlamentare prima ancora che il Governo assuma quello che è solamente un orientamento, enunciato in termini generici (senza le delibere di un organo collegiale); dall'altro, provo un sentimento assolutamente opposto. Infatti, ascoltando le relazioni, in particolare quella del ministro della difesa, appare chiaro che siamo chiamati a deliberare in ordine ad una procedura e nel contesto di avvenimenti che sono in fieri. Lo stesso ministro della difesa - correttamente, peraltro - ha riportato tutta una serie di dubbi che il Governo ha e tutta una serie di vincoli che esso, in sede di Nazioni Unite, chiede vengano ammessi e allegati a questa pratica, come precondizione necessaria perché il Governo possa decidere di rafforzare il contingente UNIFIL.
Il ministro D'Alema ha definito l'Italia, in termini elogiativi, il primo paese che porta nelle sedi istituzionali questa discussione, però mi viene il dubbio che questa finisca per essere, al di là delle intenzioni di chi oggi ha parlato qui, una mossa quasi intempestiva per eccesso di accelerazione, per eccesso di zelo.
Non c'è dubbio, infatti, che successivamente all'approvazione di questa risoluzione delle Nazioni Unite si sono determinate condizioni molto diverse, anche per paesi che sono fortemente impegnati con noi nella sede europea. Certamente, tutti conosciamo le problematiche della Germania connesse alla presenza dei militari e, anche se in molti sostenevano che questa sarebbe potuta essere l'occasione perché rimuovesse una sorta di atteggiamento tradizionale, si è premurata di affermare che tale atteggiamento permane. Dal canto suo, la Gran Bretagna è già fortemente impegnata in altri scenari. Quanto alla Francia, ha spiegato a tutti che avrebbe guidato il contingente militare e, forse, è ancora disponibile; attualmente, si parla di 200 militari.
Vorrei essere chiaro: nessuno deve porsi in una condizione di aprioristica contrapposizione. Maggioranza e opposizione sono chiamate a dare una risposta comune in termini di responsabilità nazionale. Tuttavia, i dubbi cui faccio riferimento credo siano dubbi di buonsenso. In un certo qual modo, li ho colti anche nelle parole del ministro Parisi, il quale ha fatto bene a sottolineare, con quattro aggettivi, le caratteristiche di questa missione: lunga, impegnativa, costosa e rischiosa.
ARTURO PARISI, Ministro della difesa. Nonché doverosa.
PIER FERDINANDO CASINI. Infatti, signor ministro, questo Parlamento non si è mai diviso sul tema del multilateralismo, nonostante quel che si può dire per polemica politica. Noi consideriamo il multilateralismo un valore; in base alla nostra cultura nazionale, lo riteniamo un valore. Non a caso, operiamo in una cornice multilaterale in Afghanistan, in Kosovo e nel contesto di tutte le missioni. Nell'ambito della stessa missione in Iraq, riguardo alla quale ci sono state visioni diverse, le nostre truppe sono intervenute in un contesto diverso da quello iniziale, al quale non abbiamo partecipato. La finalità comune della pace è non solo la finalità costituzionale ma anche un orientamento ben preciso di tutti noi.
La risoluzione dell'ONU è stata positiva perché ha determinato un cessate il fuoco. La tregua sembra «reggere». Purtroppo, l'esperienza ci porta a dire che, in Medio Oriente, di rado le risoluzioni dell'ONU sono state attuate integralmente; sono rimaste sempre «monche». I nodi del Medio Oriente e del Libano sono venuti al pettine. Il Governo italiano fa bene a insistere nel voler seguire la vicenda palestinese. Esprimo anch'io l'auspicio che gli sforzi di Abu Mazen possano concretizzarsi, mediante questa sorta di Governo di unità nazionale.
Tuttavia, desidero illustrare ai colleghi una riflessione di fondo che muove proprio dalla vicenda che abbiamo dolorosamente vissuto. A mio avviso, c'è stata non una guerra contro il Libano ma una guerra in Libano. È tramontata l'idea di una possibile convivenza, di una sorta di doppia natura dello Stato libanese. L'invio di truppe, oggi, deve servire ai libanesi per rendere effettiva la loro statualità. Il mea culpa che la comunità internazionale deve recitare - e che, sinceramente, non ho ascoltato dal ministro degli esteri - è dovuto al fatto che in questi anni vi è stata una sorta di complicità del silenzio dinanzi al riarmo massiccio di Hezbollah, dinanzi ad una influenza esterna sempre più forte da parte di Siria e Iran e dinanzi ad una «rivoluzione dei cedri» che aveva suscitato tante aspettative e che, alla fine, è stata, in qualche modo, svuotata all'interno della statualità libanese. Non dimentichiamo che le indagini dell'ONU sull'omicidio di Hariri sono ancora aperte e che, in realtà, i siriani hanno tratto da questa vicenda lo spunto per spiegare a tutti noi che non hanno alcuna responsabilità. Invece, noi sappiamo - è di queste ore - di un drammatico scambio di battute molto gravi tra il figlio di Hariri e Jumblatt, da un lato, ed il leader siriano Assad, dall'altro. Battute gravi che dimostrano come, fino ad oggi, il tema della statualità libanese sia stato lungamente ignorato da parte della comunità internazionale ed anche dell'Europa. Tutti abbiamo finto di non vedere quanto era chiaro, e cioè che lo Stato libanese era una fragile finzione. Purtroppo oggi siamo nella condizione decisiva e determinante per cui il Libano deve «decollare», in un contesto in cui, certamente, l'estremismo rischia di essere più forte, deve riuscire ad acquisire una sua autonomia di Stato. Altrimenti, i problemi affrontati da questa risoluzione sono destinati ad esplodere nuovamente, di qui a qualche mese.
Il tema della sicurezza di Israele è contenuto nella risoluzione e negli impegni del Governo. Per parte mia, ripeto quanto ho affermato in sede parlamentare perché ritengo sia una richiesta nazionale. Il Governo Berlusconi, durante cinque anni, ha impostato il rapporto con Israele in un modo speciale, particolare, e non credo ciò sia avvenuto a discapito di altri paesi e dei paesi arabi, in particolare. Credo che il Governo attuale non possa disperdere questo rapporto speciale, e credo anche che sia abbastanza inutile porsi il problema se la reazione di Israele sia stata o meno sproporzionata. Nessuno di noi, infatti, ha valutato adeguatamente la minaccia che, forse, Israele avvertiva con maggiore pregnanza. Del resto, se nell'ultimo giorno del conflitto sono stati sparati 300 razzi sulle città israeliane, ciò vuol dire che l'arsenale, lungamente denunciato dagli israeliani nella nostra indifferenza, esisteva, era
una minaccia reale e non una finzione. Quell'arsenale, ministro D'Alema, c'è ancora. Il tema del disarmo degli Hezbollah non possiamo affrontarlo noi, come qualcuno vorrebbe, perché c'è una risoluzione che attribuisce un mandato e non è possibile che ogni Parlamento approvi le proprie regole per i propri militari, spiegando loro che cosa debbano andare a fare. Un singolo Stato può accettare o non accettare la risoluzione e, non essendo d'accordo, può decidere di non partecipare alla missione. Tuttavia, se accetta la risoluzione delle Nazioni Unite, deve attenersi ad essa. Non è possibile che ciascuno Stato, singolarmente, vada a fare quello che vuole fare.
Il tema della sicurezza di Israele, però, deve essere affrontato anche con una sensibilità particolare. Non vorrei polemizzare, ministro D'Alema. Tuttavia, ella non si può stupire della meraviglia che ha suscitato la sua visita, a fianco di un esponente di Hezbollah, in un quartiere, pur martoriato, di Beirut. È ovvio che questo susciti un'indignazione nella comunità ebraica, ed è ovvio che susciti una perplessità, anche trasversale, tra le forze politiche. Sono convintissimo che lei non è un nemico di Israele ma credo che, forse, una maggiore cautela, in un caso del genere, sarebbe stata importante, dato il ruolo, che sta ricoprendo, di ministro degli affari esteri del nostro paese.
Il mandato dell'ONU è necessariamente ambiguo. Se ne è resa conto anche la Francia che, dopo aver approvato la risoluzione n. 1701, ci ha spiegato che il mandato è ambiguo. Questa ambiguità si coglie leggendo il paragrafo 16, nel quale si afferma, tra l'altro, che il Consiglio di sicurezza decide di estendere il mandato dell'UNIFIL fino al 31 agosto 2007 ed esprime la sua intenzione di considerare in una successiva risoluzione un'ulteriore estensione del mandato che autorizzi l'uso della forza. In realtà, il tema centrale è quello delle regole di ingaggio. Alcuni militari italiani - quando cito Cabigiosu, Fraticelli e Angioni, mi riferisco a galantuomini che tutti noi stimiamo e che hanno servito il nostro paese - hanno spiegato quanto siano state deleterie le esperienze passate, in cui l'ONU è stata la «cabina di regia» nell'organizzazione delle missioni militari. È chiaro che, su questo, il mandato che il Governo deve dare ai nostri negoziatori in sede ONU deve essere ferreo. Lo ha già affermato il ministro e io lo ripeto. Altrimenti, esponiamo inevitabilmente a un rischio sproporzionato i partecipanti a questa missione.
In conclusione, vorrei farvi notare un piccolo dettaglio. La missione sarà lunga e i pericoli, secondo me, aumenteranno dopo la prima fase. Pensiamo a quello che sta accadendo in Medio Oriente, e pensiamo al dossier nucleare aperto sull'Iran che verrà a scadenza ai primi di settembre, quando l'Iran dovrà spiegarsi con la comunità internazionale e con le Nazioni Unite. Tutti sappiamo dei rapporti tra Iran, Siria ed Hezbollah, ed ognuno potrà svolgere le equazioni o trarne le deduzioni che vuole. Evidentemente, noi riteniamo che sia importante che l'Italia assecondi lo sforzo multilaterale delle Nazioni Unite. Ma vorrei porre, a tale proposito ed in conclusione, una questione di carattere metodologico.
Noi, oggi, che cosa siamo chiamati a dire? Cosa dovremo dire più tardi, quando ci riuniremo nelle sedi di Commissione presso la Camera e presso il Senato? Secondo il mio modesto parere, dovremo dire qualcosa qualora il Governo riterrà fondamentale non solo ascoltare le forze politiche, che si stanno esprimendo, ma anche un voto formale. Naturalmente, non possiamo impedire al Governo di chiedere un voto formale, ma per raggiungere un'ampia unità ritengo che l'espressione del voto formale dovrebbe essere la più generica possibile, dal momento che la negoziazione è ancora aperta e gli stessi ministri, in Parlamento, vengono a spiegare che o le cose sono così oppure quello che noi faremo è ancora tutto da discutere.
Ciò le fa onore, ministro Parisi, e io non ritengo che questo costituisca un punto negativo: lei, se è una persona perbene e non vuole mettere a repentaglio i nostri militari (come credo che sia) fa
bene a dire quello che ha detto; ma se lei dice quello che ha detto, svela ciò che tutti sanno, e cioè che la risoluzione dell'ONU è necessariamente ambigua e che alle Nazioni Unite vi è una fase di negoziazione. Se tale fase di negoziazione è aperta, noi dobbiamo dare forza al Governo, ma utilizzando una generica pronuncia, poiché non possiamo entrare in dettagli e particolari che sono preclusi dalla stessa trattativa in corso.
PRESIDENTE. Do la parola all'onorevole Crema, che ha sei minuti di tempo a disposizione per il suo intervento. Ovviamente, intendo dire che il suo gruppo ha sei minuti a disposizione.
GIOVANNI CREMA. Infatti, presidente, per il gruppo de La Rosa nel Pugno ci alterneremo io ed il collega Mellano.
Concordo con chi mi ha preceduto nel valutare positivamente la seduta di quest'oggi e nel sottolinearne l'assoluta correttezza sul piano parlamentare e istituzionale. Parimenti, mi auguro che, al termine della seduta delle Commissioni riunite di Camera e Senato, si raggiunga un voto il più ampio possibile sul piano parlamentare, con il coinvolgimento pieno, quindi, di tutta la rappresentanza politica ed istituzionale.
Abbiamo seguito con grande attenzione le relazioni dei due ministri, e quindi del Governo. Credo che si debba sottolineare il grande realismo, la grande serietà e la consapevolezza del momento importante che stiamo vivendo e, soprattutto, quello che potrà accadere nei prossimi giorni una volta dato il via libera alla missione internazionale. Ritengo quindi sia da valutare con attenzione, ma con positività, il lavoro svolto dal nostro Governo in questi giorni. Il panorama politico internazionale, poi, qui rappresentato dal ministro degli esteri in modo realistico, ritengo sia conseguente ad una situazione che è di fronte ai nostri occhi.
Se è giusto il richiamo, da parte del ministro D'Alema, dell'esigenza di valutare, al livello del Libano e della sua rappresentanza politica interna, la consistenza del movimento Hezbollah (quindi la sua partecipazione diretta al Governo e come interlocutore parlamentare e istituzionale), credo però che occorra anche rimarcare - e questo mi pare sia mancato nel suo intervento - l'esistenza di precisi rapporti di carattere politico e di solidarietà da parte degli Hezbollah, anche sul piano politico - mi limito a questo -, con il fondamentalismo islamico antiisraeliano (vedi Siria e Iran). Ciò è altrettanto grave e preoccupante, e va messo in conto. E un Governo responsabile, di grande peso internazionale, qual è quello del nostro paese, non solo non deve tacere, bensì, con grande realismo, deve fin da ora valutare - quando ci viene chiesto a livello politico e parlamentare (l'ha fatto con grande correttezza il ministro Parisi) di esprimere un voto favorevole - le conseguenze, nel momento in cui esprimeremo il consenso (e per quanto mi riguarda la solidarietà di maggioranza vi è e vi sarà anche in sede di voto): intendo sia i costi sia la durata, e poi i rapporti internazionali, la pericolosità della situazione e la sicurezza di chi andrà ad operare sul territorio.
Lo spiegamento delle truppe e dei contingenti in un territorio così ostile deve portare il Segretario generale dell'ONU e i suoi collaboratori a precisare in maniera rigorosa la catena di comando e a dissipare tutte le preoccupazioni conseguenti all'altissimo livello del confronto militare di questi giorni, che invece le amplifica. Infine, le esperienze negative, anche recenti, delle missioni sotto diretta gestione ONU non possono essere paragonate a quelle che nei prossimi giorni e nelle prossime settimane ci potremmo trovare di fronte in quei territori, con comportamenti ostili da entrambe le parti.
Tutto questo non può essere sottovalutato da un Governo responsabile e da un Parlamento responsabile, come sono i nostri, nel dare applicazione alla risoluzione dell'ONU n. 1701. Cioè è indispensabile passare dal «sì» al «come», per quanto ci riguarda.
Non ho molto altro da dire, anche perché il poco tempo a nostra disposizione non ci aiuta. Penso sia estremamente importante
(ed è quanto abbiamo già sostenuto anche in altre recenti esperienze di coinvolgimento del nostro paese) per chi, come me, ha valutato criticamente le iniziative unilaterali assunte nella mancanza di solidarietà (innanzitutto dei paesi dell'Unione europea) che ciò debba essere fatto in assoluta condivisione e partecipazione di gran parte dei paesi appartenenti all'Unione europea. Credo, infatti, sia necessaria la cautela con la quale si stanno muovendo non solo la Francia, ma anche altri importanti paesi della comunità politica, in modo che tutto ciò avvenga in un clima di grande solidarietà e con un concorso di pari impegno.
PRESIDENTE. Do la parola all'onorevole Fini.
GIANFRANCO FINI. Anch'io, come il presidente Casini, sento la necessità di iniziare il mio breve intervento esprimendo una posizione per certi aspetti di imbarazzo. Non vi è ombra di dubbio, infatti, che, come parlamentare e, se me lo consentono i colleghi, come ex ministro degli esteri avverto anch'io l'importanza del dibattito che è in corso in questa sede, ma al tempo stesso mi chiedo, alla luce della risoluzione presentata e degli interventi dei ministri degli esteri e della difesa, che cosa dovremmo votare al termine del nostro dibattito.
GIANFRANCO FINI. Credo che, votare degli auspici o delle nobili intenzioni, sottolineare talune necessità che ravvisa tutta la comunità internazionale, sia per alcuni aspetti «doveroso» (per usare l'espressione del ministro Parisi) ma, e spero di dimostrarlo politicamente, inutile. È questa la ragione per cui, almeno per ciò che riguarda il gruppo cui appartengo, ritengo, anche alla luce di eventuali repliche che i ministri intenderanno fare, di rimandare ad ulteriori momenti di approfondimento la valutazione sulle conseguenze del voto che viene richiesto.
Per quale motivo vi è questa condizione o, se volete, questo stato d'animo? Anch'io, come del resto ha già colto l'onorevole Casini, ho trovato nell'intervento del ministro D'Alema una espressione che dà corpo alla definizione di «eccesso di zelo». L'Italia, con l'atto che il Parlamento si accinge - credo - a compiere, sarà il primo paese a rispondere in modo politicamente impegnativo alla richiesta della comunità internazionale.
Francamente, non credo che le ragioni della determinazione che l'Italia si accinge ad assumere risiedano nell'articolo 11 della Costituzione; spero che i colleghi dell'opposizione non se ne risentano se noto, nel riferimento a tale articolo, piuttosto un argomento tra i tanti utilizzati per evidenti ragioni connesse alla situazione dell'attuale maggioranza che una esplicita manifestazione della solerzia e dello zelo italiani. Del resto, il ministro Parisi, con molta onestà intellettuale, ha ribadito in questa sede quanto aveva già dichiarato: è una missione ad alto costo, rischiosa, pericolosa, che non sarà una passeggiata. Francamente, non citate l'articolo 11 della Carta per sostenere che dobbiamo essere i primi, i più solerti ed i più bravi; proprio tale articolo, infatti, aveva, nella volontà dei padri costituenti, una ragione ben diversa da quella alla base di una scelta che peraltro è giusto compiere, ma unicamente ad una condizione: a condizione che vi siano ragionevoli motivi per ritenere che la missione delle Nazioni Unite nello scenario mediorientale sia prevedibilmente destinata ad avere successo.
Sul tema dell'intervento dell'Italia nell'ambito dell'Unione europea tornerò, perché ho trovato molto deludente la relazione del ministro D'Alema proprio sul coté europeo. Ma per quale motivo l'Italia, e auspicabilmente l'Unione europea, dovrebbero essere «iperattivi» e recepire prontamente ed immediatamente l'invito della comunità internazionale? Ebbene, scorgo un solo ragionevole motivo che risiede nel convincimento che la comunità internazionale non debba perdere un'occasione in cui può, forse, essere protagonista.
Ma il ministro Parisi ha ricordato un dato di fatto: l'UNIFIL è in quello scenario da venti anni e non ha certamente ottenuto risultati politici tali da «archiviare» uno dei tanti elementi di conflitto presenti nella questione arabo-israeliana.
Vi sono dunque oggi le condizioni per ritenere che sia davvero mutato qualcosa? Ebbene, al riguardo sono molto scettico. UNIFIL, con una consistenza portata a 25-30 mila uomini, può raggiungere l'obiettivo indicato con chiarezza dalla risoluzione n. 1701 e sul quale si è diffuso con altrettanta chiarezza il ministro D'Alema? Si tratta di un obiettivo politico e strategico duplice: garantire la sicurezza di Israele e contemporaneamente la piena sovranità dello Stato libanese. Ritengo che gli astanti sappiano che quella risoluzione è stata sottoscritta all'unanimità perché ambigua; se non lo fosse stata, non avrebbe raggiunto l'unanimità. Ebbene, l'ambiguità risiede nella circostanza, a tutti nota, che non è mai esistita una piena sovranità libanese; usare l'espressione «ripristinare la sovranità libanese» significa dunque fare ricorso ad un termine improprio perché la sovranità libanese non esiste.
Come è stato dichiarato, nessuno ritiene il Governo libanese responsabile dell'incursione terroristica da parte del commando di Hezbollah che ha scatenato la reazione israeliana; nel contempo, però, tutti sanno - e il ministro D'Alema lo ha ricordato - come, senza la presenza di Hezbollah, non esisterebbe oggi un Governo, guidato da Siniora, che, nella complessa situazione di quel paese, gode contemporaneamente degli aiuti della comunità internazionale, per certi aspetti anche degli Stati Uniti, nonché dell'appoggio cristiano. Ciò offre lo spunto per una riflessione: Hezbollah è un'organizzazione «anche» terroristica; certamente, non solo terroristica perché, altrimenti, non si spiegherebbe la ragione per la quale milizie di opposta ispirazione religiosa (ovvero anche cristiane) solidarizzano in questo momento con Hezbollah. Non vi è dubbio che si tratta di una realtà molto complicata, che però è alla base dell'ambiguità e altresì, a mio avviso, della ragionevole considerazione - che, almeno io, faccio - circa un insuccesso largamente prevedibile della missione UNIFIL, a meno che non vi sia, da parte del Governo libanese - in ciò, infatti, la risoluzione è chiara -, l'intenzione di garantire il rispetto della risoluzione n. 1559 e quindi il disarmo delle milizie, con la richiesta, in tal caso, del concorso di UNIFIL; il ministro D'Alema è stato molto preciso al riguardo usando propriamente il termine «concorso».
Se il Governo libanese chiede il disarmo, ministro Parisi, in tal caso l'UNIFIL deve «concorrere». Non si tratta delle regole di ingaggio; lei fa bene a dichiarare che dobbiamo trattare le regole di ingaggio, ma vi è una questione politica di primaria importanza. Bisogna dire con chiarezza al Parlamento ed alla pubblica opinione che riteniamo necessario inviare anche soldati italiani nell'ambito della missione internazionale in uno scenario in cui, se il Governo libanese chiede all'UNIFIL di concorrere al disarmo di milizie armate (anche in modo cospicuo), si dovrà mettere in conto il rischio di conflitti e di scontri. Bisognerà mettere in conto la ovvia necessità di combattere.
Questo vorrei fosse chiaro: si tratta di mettere in conto l'ovvia necessità di combattere. Ecco perché l'articolo 11 mi sembra più la «foglia di fico», agitata per tenere tranquilla tutta la maggioranza, piuttosto che la reale motivazione per cui in questa sede cerchiamo di accelerare i tempi. Dunque, se viene richiesto il supporto ad UNIFIL ed esso non viene concesso, ciò a mio modo di vedere è anche alla base del fatto che rispetto a qualche giorno fa lo scenario è molto cambiato. Osservo, se volete in modo alquanto retorico, che la Francia, dopo avere concorso a stendere quella risoluzione, assume oggi una posizione molto più defilata perché sa perfettamente che si tratta di un problema non solo di catena di comando e di regole di ingaggio ma anche di evidente spessore politico. Siria ed Iran hanno dichiarato chiaramente che gli Hezbollah non possono essere disarmati perché in questo momento appaiono a tutto il mondo musulmano,
a torto o a ragione, come la prova provata che con la forza si può vincere la lotta contro il sionismo e si può battere la potenza israeliana.
È inimmaginabile che il Governo libanese chieda il disarmo di Hezbollah ed è altresì inimmaginabile che UNIFIL rimanga, per così dire, a fare lo spettatore, quasi la bella statuina! Dobbiamo interporci tra forze che prevedibilmente non si disarmano perché hanno intenzione di riprendere le ostilità? Allora, delle due l'una: o sappiamo perfettamente che diamo corso ad una risoluzione a valenza politica zero oppure mettiamo in conto che il Governo libanese chieda davvero il disarmo e in quel caso, però, coerenza vuole che si risponda con l'uso delle armi e con la presenza militare. Non ritengo possibile, però, la seconda ipotesi; anche i colleghi del resto si saranno chiesti per quale ragione nessun paese della lega araba abbia già dichiarato di voler partecipare all'azione UNIFIL.
Personalmente, ho apprezzato che il ministro D'Alema abbia precisato che bisogna convincere Mubarak; al riguardo, mi ero permesso - lo sa il Presidente del Consiglio - di rivolgere al collega egiziano del ministro D'Alema, Aboul Gheit, un appello alla riflessione. Infatti, è inimmaginabile che un paese della Lega araba oggi partecipi alla missione UNIFIL, per evidenti ragioni (forse, lo potrebbe qualche paese musulmano, ma non arabo). Il semplice fatto che neppure la Turchia, in questo momento, lo abbia deciso, deve farci riflettere; soltanto Indonesia e Malesia si sono dichiarate pronte, ma sono due paesi che, certamente musulmani ma evidentemente non arabi, non hanno rapporti con Israele.
Voglio concludere anch'io con un riferimento all'altra questione, la sicurezza di Israele; anche a mio modo di vedere, la complessità dello scenario israelo-libanese e mediorientale, ma più in generale la complessità del rapporto tra Israele e mondo arabo musulmano, devono indurre le autorità di Gerusalemme a considerare l'ipotesi di vie politiche per arrivare alla pace. Non vi è ombra di dubbio che la sola potenza militare non è di per sé sufficiente. Credo che proprio l'esito della reazione così forte nei confronti degli attacchi di Hezbollah stia determinando, anche nell'opinione pubblica israeliana, un elemento di riflessione. Attenzione, però: seguire delle «vie politiche» vuol dire avere perlomeno la ragionevole presunzione che organizzazioni di tipo terroristico non trovino solidarietà. In tal senso, e mi dispiace dirlo anche in questa circostanza, organizzazioni che sono «anche» terroristiche hanno invero trovato talune solidarietà.
Hezbollah non è un'organizzazione solo terroristica - come non lo è Hamas, lo abbiamo già chiarito in altra sede - ma è anche una organizzazione di tipo terroristico. Mi spiace mettere in evidenza - a meno che non sia male informato (ma se è così prego il ministro D'Alema di smentirmi) - che Hezbollah, accanto alle tradizionali solidarietà di cui godeva (vale a dire, quelle di Siria e di Iran), goda, in questo momento, agli occhi dell'opinione pubblica internazionale, anche della solidarietà del ministro degli affari esteri italiano, il quale ha peraltro detto chiaramente che si tratta di una posizione europea. Ebbene, ministro D'Alema, a me risulta... (Commenti)... No, signori, se sono male informato, chiedo di essere smentito...! A me risulta che il ministro degli esteri tedesco Steinmeier abbia annullato un viaggio in Libano nello stesso momento in cui gli era stato richiesto, come fu chiesto a me, di incontrare i ministri Hezbollah. È possibile, ministro D'Alema, non incontrare i ministri Hezbollah se si vuole non incontrarli. Se, al contrario, si va proprio per mettere in evidenza che si è consapevoli che quello è un movimento anche terroristico, ma non solo terroristico, poi non ci si può lamentare se si dà l'impressione di una politica profondamente diversa rispetto a quella portata avanti finora. È posizione europea? A me non risulta. Spero di essere smentito.
Concludo dicendo che, insieme ai colleghi della Casa delle libertà, al termine del primo giro di interventi, ci riserviamo di dare una conclusione all'appello del
Governo di votare una risoluzione perché, come ho detto all'inizio, mi sembra che al momento si voti soltanto un nobile intendimento, sul quale siamo tutti d'accordo; non mi sembra ci siano le condizioni politiche per fare qualcosa di più (Congratulazioni).
PRESIDENTE. Do la parola all'onorevole Orlando, al quale ricordo che ha sei minuti a disposizione.
LEOLUCA ORLANDO. Credo di esprimere una convinzione diffusa in questa sede sottolineando l'apprezzamento per la sensibilità del Governo di tenere costantemente informate le Commissioni competenti in merito alla propria azione. Ritengo che all'interno di tale sensibilità, si debbano riprendere alcune considerazioni sulla legalità internazionale e sull'articolo 11 della Costituzione.
Il ministro Parisi ha opportunamente fatto riferimento all'articolo 11 della Costituzione, che ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e che accetta la limitazione di sovranità soltanto al fine di un servizio attivo per la pace. Proprio il rispetto dell'equilibrio relativo alla legalità internazionale ed all'articolo 11 della Costituzione, lascia comprendere il comportamento del nostro Governo ed il suo rispetto nei confronti del Parlamento.
Contrariamente a quello che il ministro Parisi affermava, mi permetto di dire, per confermare la sua affermazione, che in realtà il «se» ed il «come» non sono scindibili. In realtà, è vero che c'è una fase del «se» e una fase del «come», ma è anche vero che, se il «come» dovesse essere in contrasto con i principi dell'articolo 11 della Costituzione, verrebbe meno il «se» e avremmo il «no». Svolgo questa considerazione perché il «se», che per noi dell' Italia dei Valori è un voto favorevole, è nella situazione internazionale, è nella situazione in quella parte del mondo, è nella nostra adesione alle Nazioni Unite, è nell'articolo 11 della Costituzione. In linea di principio, non c'è spazio per dire «no», non può che dirsi «sì».
Il tema è il «come»: quel «se» e quel «come» che sono separati, in realtà, alla fine dovranno essere certamente in armonia. Il «come» deve essere rispettoso della legalità internazionale, e quindi delle decisioni adottate dagli organismi dei quali l'Italia fa parte, deve essere rispettoso del Parlamento, ma non può generare confusione. Questa non è una guerra che viene promossa dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, questa è una missione di pace. Si tratta di una differenza non di poco conto: non siamo di fronte ad una guerra promossa dall'ONU, ma ad una missione di pace. Se missione di pace è, essa deve essere rispettosa, in primo luogo, degli interlocutori istituzionali, quali che siano. Non si può immaginare nessuna forma di intervento camuffato da missione di pace che, in realtà, ignora i nostri interlocutori istituzionali.
Il secondo punto riguarda il rispetto della sicurezza di Israele. La missione è lunga e rischiosa - lo dico ricordando le parole dei ministri Parisi e D'Alema - perché, diciamolo francamente, essa avrà successo soltanto quando saranno raggiunti tre obiettivi: la sicurezza dello Stato di Israele, la realizzazione dello Stato palestinese e la sovranità dello Stato del Libano. Questa è la ragione per la quale quell'interim rischia di apparire una sorta di appello nel deserto. Abbiamo la consapevolezza che il non essere organizzato in forma di Stato il popolo palestinese e l'essere da troppo tempo un non Stato il Libano - vera e propria «zona cuscinetto», luogo di scontro di interessi internazionali troppo più grandi dello stesso Libano - sia la vera ragione di insicurezza di Israele. Chi sostiene il rafforzamento della sovranità del Libano, come noi sosteniamo, chi sostiene lo Stato palestinese, in realtà sostiene in maniera concreta la sicurezza di Israele. Per tale ragione, questa missione è importante, rischiosa come tutte le cose importanti, e ha obiettivi non semplici.
Separato il «se» dal «come», ricongiunto il «come» al «se» per le considerazioni svolte, è evidente che il Governo, come ha sempre fatto, terrà costantemente
informato il Parlamento, perché l'eventuale modificazione del «come» determina la fine del «se», trasforma il «sì» in un «no». Il giorno in cui dovesse risultare impossibile il perseguimento dello scopo della missione, deve determinarsi l'estinzione dell'obbligazione. Ripeto, a nostro avviso, gli scopi sono tre: la sicurezza di Israele, lo Stato palestinese e la sovranità dello Stato del Libano.
Ecco la ragione per la quale dire «sì» è certamente un atto dovuto; il «come» sarà coerente rispetto all'articolo 11 della Costituzione. Ci auguriamo che il Governo abbia la sensibilità di proporre al Parlamento che la missione finisca immediatamente appena dovesse verificarsi l'incongruità del «come» rispetto al raggiungimento degli scopi.
PRESIDENTE. Do la parola al senatore Pisanu.
BEPPE PISANU. Signor presidente, colleghi, noi condividiamo per diversi aspetti le relazioni del ministro D'Alema e del ministro Parisi, ma dobbiamo subito dire con grande franchezza che nelle loro parole hanno trovato conferma tutti i dubbi e tutte le preoccupazioni con le quali siamo entrati in questa sede.
Prima di entrare nel merito (perché vorrei porre questioni precise), desidero sollevare due osservazioni preliminari. La prima riguarda la sede delle Commissioni riunite, che non ci sembra la più idonea per decidere su un argomento così complesso, spinoso, drammatico come quello all'ordine del giorno. Pertanto, ci riserviamo la possibilità di chiedere una convocazione urgente dei gruppi parlamentari.
La seconda osservazione è stata già sollevata, con parole che condivido, dall'onorevole Casini e riguarda la bozza di risoluzione proposta. Francamente, nella sua formulazione attuale, essa appare troppo squilibrata a favore di una sola parte. Se il testo dovesse mantenere l'attuale struttura, noi riterremmo indispensabili due richiami espliciti: uno al disarmo di Hezbollah e delle altre milizie, l'altro al diritto di Israele a vivere entro confini sicuri, come recita l'ormai lontanissima risoluzione n. 242 delle Nazioni Unite. Francamente, il Governo non ci può chiedere di votare una risoluzione scritta ad uso e consumo della sua maggioranza e a copertura delle sue difficoltà interne.
Veniamo alle questioni di merito. Dico subito all'onorevole Parisi che io posso anche ammettere - come lui ha detto - che il «come» della missione è a valle del «sì», ma a condizione che la missione non si svolga al buio. Allora, noi abbiamo l'esigenza di far subito piena luce su alcuni punti.
Il primo. Noi avevamo dato la nostra adesione di massima, o di principio, alla partecipazione alla missione partendo dal presupposto che - come ha ricordato ancora ieri il Presidente Berlusconi - essa avesse tre obiettivi fondamentali, quali la tutela di Israele, la riaffermazione della piena sovranità dell'esercito libanese sul proprio territorio e, quindi, il disarmo di Hezbollah e delle altre milizie ed il ritiro delle truppe israeliane. Oggi constatiamo - anche attraverso le dichiarazioni del Presidente del Consiglio di ieri e del Consiglio dei ministri di oggi - che, in realtà, l'obiettivo del disarmo di Hezbollah è già venuto meno o, meglio, che esso è rimesso all'iniziativa politica del Governo libanese. Va da sé che, se si riducono gli obiettivi, si riducono parallelamente le dimensioni e le caratteristiche della missione. Per la verità - avendola letta con attenzione -, so bene che la risoluzione ONU non menziona mai esplicitamente il disarmo di Hezbollah e, comunque, rimette tutte le iniziative di disarmo, dirette o indirette che siano, all'autonoma decisione del Governo libanese, di un Governo cioè debole, fortemente condizionato da Siria e Iran, che ha al suo interno esponenti di Hezbollah.
È vero, onorevole D'Alema, che Hezbollah non è solo una formazione terroristica: è, nella migliore delle ipotesi, una specie di legione straniera dell'Iran e comunque strettamente collegata ai pasdaran iraniani, all'esercito del Madi in Iraq, ai gruppi palestinesi di Isbat Al Azhar e Isbat
Al Nur e alla rete di Al Qaeda; dunque, è più appropriato parlare di terroristi che di altro. Per di più, questo Governo dovrebbe operare con un esercito ancor più debole, composto per il 60 per cento da sciiti, non certo inclini ad usare la forza contro i confratelli del «partito di Dio» e comunque più propensi, probabilmente, ad ubbidire a Nasrallah, avendo questi già dichiarato il suo aperto «no» al disarmo. Noi sappiamo bene che nessuna operazione di disarmo può essere completamente condotta a termine se non vi è l'attiva collaborazione dei diretti interessati.
Allora, noi vogliamo sapere, prima che dal Governo, dalle Nazioni Unite che si dovranno pronunziare con una successiva risoluzione, se il disarmo delle milizie - e in particolare di Hezbollah - è tra gli obiettivi della missione, in quanto dipenderà in larga misura da questo la natura stessa della missione. Oggi, le Nazioni Unite definiscono - lo ricordo tra virgolette - la situazione libanese una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Questa definizione - come ben sa il ministro degli esteri - rende teoricamente applicabili entrambi i mandati ONU, sia quello di peace keeping sia quello di peace imposing. Da questa decisione - come tutti ben sappiamo - dipenderanno poi le regole di ingaggio e, per quanto più direttamente ci riguarda, su queste dovremmo modulare la catena di comando, essendo da tutti acquisito che, se quest'ultima termina con una burocrazia, è destinata a non funzionare e, anzi, a fallire, come ha dimostrato l'esperienza di innumerevoli missioni ONU.
Seconda osservazione: il contesto libanese è estremamente pericoloso. Non ho tempo sufficiente per descriverlo con precisione, ma bastano le conoscenze di stampa per indurci a ritenere che, in quel contesto, qualsiasi pretesto potrebbe riaccendere il conflitto e mettere il nostro contingente in mezzo a due fuochi. Evidenzio questo aspetto, apprezzando l'onestà intellettuale del ministro Parisi nel sottolineare le caratteristiche della missione, perché dobbiamo dire agli italiani la verità e perché abbiamo il dovere di assicurare a tutti che i nostri militari saranno messi nella condizione di operare in maniera tale da ottenere il massimo di efficacia sul campo col minimo rischio di vita per i nostri militari. Non è certo per caso che molti eserciti, in situazioni come queste, comunicano in anticipo la valutazione delle perdite probabili nella missione.
Terza osservazione: noi vogliamo conoscere con esattezza le dimensioni e le caratteristiche del contingente italiano ed europeo. Oltre ai rischi umani, che sono di gran lunga i più importanti, ci sono anche i costi economici della missione, che non vanno affatto sottovalutati, come giustamente ricordava nei giorni scorsi l'onorevole Umberto Bossi. Noi siamo oggi la settima potenza del mondo, ma siamo anche il terzo o il quarto paese del mondo con impegni militari di pace all'estero: non mi pare il caso di rafforzare questo primato. Peraltro, non vorremmo, come fanno temere certi segnali, che in Europa si consolidasse l'idea dell' «armatevi e partite!». Noi abbiamo, certo, dei doveri storici e geopolitici nell'area mediterranea e li dobbiamo onorare fino in fondo. Questo ci consente di pensare ad un contributo italiano che sia inferiore, numericamente, a quello francese e magari superiore a quello spagnolo.
La Francia ha già annunciato l'invio immediato di 200 uomini. Ministro Parisi, con tutta la fretta che volete, ma cerchiamo di regolarci di conseguenza! Lei ha detto che vi è urgenza di partire. Flaiano diceva che, in molti casi, il miglior modo di arrivare è proprio quello di non partire: credo che occorra molta prudenza in questo caso, anche perché - sottolineo un aspetto politico che penso stia a cuore a tutti - un malaugurato fallimento di questa missione internazionale, senza inglesi e senza americani, finirebbe per pesare come un macigno sulle residue ambizioni politico-militari dell'Europa unita.
Vorremmo, inoltre, chiarimenti precisi sulla durata della missione. Lei ci ha detto che sarà lunga e, stando all'esperienza,
potrebbe diventare lunghissima! Anche questo è un altro motivo, un altro invito a riflettere prima di imbarcarci in una missione che potrebbe costarci molto cara e farci mancare gli obiettivi sperati.
Vorremmo, infine, sapere quali precauzioni il Governo si propone di prendere per far fronte ad un possibile incremento della minaccia terroristica sul territorio nazionale, a seguito di eventuali azioni militari in Libano contro gli Hezbollah.
Concludendo, noi ci riserviamo di dare un'eventuale adesione in linea di principio alla partecipazione militare italiana alla missione di pace, ma fin d'ora riteniamo indispensabile avere garanzie sugli obiettivi politico-militari della missione stessa, sulle regole di ingaggio, sull'organizzazione della catena di comando, sull'entità, la qualità ed i compiti del contingente italiano.
PRESIDENTE. Do la parola all'onorevole Fassino.
PIERO FASSINO. Signor presidente, in primo luogo esprimo accordo con le proposte che ci vengono sottoposte e le motivazioni con cui i ministri Parisi ed D'Alema le hanno motivate. Ringrazio i ministri per aver illustrato alle Commissioni questa decisione nella sua complessità e nella sua delicatezza. Nelle parole sia del ministro D'Alema sia del ministro Parisi non ho ritrovato alcuna indeterminatezza rispetto a quello che ci sta di fronte, ma la consapevolezza che si tratti di una situazione difficile e complessa. Pertanto, il Parlamento, nel momento in cui la decide, deve essere consapevole di questa complessità.
L'onorevole Fini ha detto che è una situazione ambigua e la risoluzione dell'ONU rispecchia questa ambiguità. Vorrei ricordare all'onorevole Fini, che è stato ministro degli esteri, che una delle caratteristiche precipue e strutturali di ogni situazione di conflitto è quella di essere ambigua, soprattutto quando si interviene per sedarla.
Quando siamo andati in Bosnia, dopo gli accordi di Dayton, sapevamo benissimo che tali accordi non regolavano la vicenda del Kosovo, come poi si è visto successivamente, ma questo non ha impedito di andare in Bosnia e che in Bosnia proseguisse una guerra che aveva insanguinato per cinque anni quelle terre.
ALFREDO BIONDI. ...che l'ONU trascurava.
PIERO FASSINO. Così come, nel momento in cui il Parlamento è stato messo di fronte a decidere la presenza dei militari italiani sia nel teatro dell'Afghanistan sia in quello iracheno, eravamo tutti consapevoli, al di là del voto che poi ciascuno ha espresso, dell'ambiguità, della complessità e delle contraddizioni che quei teatri avevano dentro di loro.
Mi permetto di dire in una sede politica che, forse, uno dei compiti della politica è esattamente quello di governare non solo la complessità, ma anche l'ambiguità e che l'azione soggettiva della politica sta appunto nel cercare di affrontare le contraddizioni che gli scenari, nella loro oggettività, hanno determinato!
Io penso che nessuno sottovaluti le difficoltà ed i problemi. Non lo hanno fatto i ministri per primi; non lo fa il Governo, non lo fa la maggioranza di centrosinistra e non lo fa neanche, naturalmente, il fronte dell'opposizione, ma tutti siamo altrettanto consapevoli che quella che si gioca in Medio Oriente è una partita che non è solo locale. Sappiamo ormai come da un certo numero di anni ormai la categoria «guerre locali» con cui noi definivamo qualsiasi conflitto lontano dai nostri territori sia superata, perché, nell'interdipendenza e nella globalizzazione, di guerre locali non ve ne sono più, ma questa meno che meno, perché da decenni il Medio Oriente è il punto cruciale dell'instabilità del mondo.
A partire dall'11 settembre 2001, inoltre, il grande Medio Oriente, non soltanto l'area israelo-palestinese, ma quello che si estende dal Mediterraneo al Pakistan, è diventato via via il punto cruciale, fondamentale e decisivo della stabilità e dell'instabilità del mondo, perché in quell'area si
giocano grandi questioni che attengono al futuro del mondo (a partire dal fatto che sono i principali paesi produttori di quella materia prima su cui la civiltà del nostro tempo vive) e si gioca il rapporto tra Islam ed Occidente nei modi critici e cruciali che abbiamo visto in questi anni, perché l'emergenza terrorismo si è prodotta, in primo luogo, in quello scacchiere e perché il tema della democrazia, dei diritti e della loro universalità si gioca in quelle zone in modo particolare. Pertanto, in quell'area si ritrovano contraddizioni, problemi, nodi irrisolti della vita del pianeta che incidono sulla vita e la sicurezza di tutti noi. Quindi, pur consapevoli di tutte le difficoltà, la complessità e le contraddizioni, non c'è dubbio che abbiamo il dovere di agire!
Vorrei dire che, nei giorni in cui vi sono stati prima il rapimento dei soldati israeliani, poi le aggressioni degli Hezbollah, la reazione israeliana e l'invasione della parte meridionale del Libano, non vi è stato governante di qualsiasi segno politico del mondo che non abbia invocato l'intervento delle Nazioni Unite per sospendere le ostilità, per inviare una forza di interposizione e favorire un processo di pace. Sarebbe curioso che oggi noi recriminassimo su questa sollecitazione venuta da tutto il mondo, da Governi di ogni segno politico.
Penso che intanto si debba partire da questa considerazione. Per questo condivido la formulazione del ministro Parisi, quando ha detto che si tratta di un'operazione difficile, complessa, lunga, pericolosa, rischiosa e tuttavia doverosa, nel senso che non credo che noi europei, ed in Europa l'Italia, possiamo sottrarci alla responsabilità di concorrere ad atti che non solo interrompano le ostilità militari (ciò in parte è già avvenuto con il cessate il fuoco e speriamo duri) ma restituiscano parola alla politica, perché questo è l'obiettivo dell'intervento! Noi non andiamo lì a fare la guerra a nessuno: ci rechiamo in quei luoghi, come in altri scacchieri, a usare la forza per restituire parola alla politica, perché questo è l'obiettivo che ci si pone fin dalla risoluzione dell'ONU.
Da questo punto di vista, penso che l'ONU si misuri con una sfida alta. Ha detto bene in un passaggio il ministro Parisi: è qualcosa di più di un peace keeping; non è ancora un peace enforcing. È ciò che, nell'agenda della pace di Boutros Ghali, si definisce un peace making. È qualcosa di più del capitolo VI. Non c'è un esplicito capitolo VII. È lo sforzo per costruire in ogni caso le condizioni perché prevalga il negoziato, il consenso, la parola, là dove oggi prevalgono le armi. Occorre, quindi, creare le condizioni perché la statualità libanese sia piena, perché è un obiettivo fondamentale. Concordo con le sollecitazioni provenienti dagli interventi precedenti; è un tema fondamentale, ma ci si reca in quelle zone in primo luogo per questo: perché la richiesta che il Governo libanese ha fatto di una forza dell'ONU è anche finalizzata al recupero di una sovranità piena su tutto il territorio libanese che lo stesso, per primo, sa di non avere.
È una scommessa che è tesa a riaprire un canale negoziale che consenta sia ai rapporti tra Israele e paesi arabi sia ai rapporti tra Israele e palestinesi di trovare una soluzione fondata sulla politica piuttosto che sulla forza, considerato che, come abbiamo visto, in sessant'anni non si costruisce un assetto stabile e definitivo sulla base della forza. Quindi, da questo punto di vista, consideriamo giusto che l'Unione europea si impegni in prima persona e che l'Italia lo faccia, svolgendo un ruolo attivo, come peraltro ha già dimostrato di voler fare con l'ospitalità alla Conferenza internazionale sul Libano delle scorse settimane.
Anche se partiamo da queste premesse, mi sembra chiara la decisione che siamo chiamati a prendere, perché, francamente, non ho capito l'obiezione di alcuni colleghi. Si dice che non è chiaro che cosa decidiamo. Decidiamo che l'Italia partecipi con propri contingenti militari ad una iniziativa di peace making posta in essere dalle Nazione Unite sulla base della risoluzione
n. 1701, sulla base cioè delle finalità che quella risoluzione definisce, le modalità con cui la individua e le regole di ingaggio che, in qualche misura, sono già individuate nel paragrafo 12 e che saranno precisate ulteriormente. Questo decidiamo, mi pare chiaro!
Ho ascoltato gli interventi che si sono succeduti, da ultimo quello di Pisanu e di altri colleghi che chiedono che il Governo italiano dica che cosa bisogna fare e cosa non fare. Anch'io penso che serva il buon senso nonché il senso della misura, così come ricordava il presidente Casini. Il Parlamento italiano non decide come l'ONU interviene in Libano! Il Governo italiano concorre ad un intervento che le Nazioni Unite decidono in Libano, dopodiché, finalità di quella missione, modalità con cui si esercita, regole di ingaggio, sono tutti aspetti che si definiscono in sede ONU, anche con il nostro concorso - quindi con le nostre posizioni - ma comunque sempre insieme agli altri: non è solo un Parlamento dei 185 membri delle Nazione Unite che vincola il funzionamento e le modalità con cui queste intervengono.
Peraltro, francamente, molti dei dubbi che sono stati in questa sede avanzati se, da un lato, mi sembrano ispirati da giusta prudenza, dall'altro mi suggeriscono di rinnovare l'invito a leggere effettivamente la risoluzione n. 1701 quanto al suo contenuto perché, per stare al punto più discusso, cioè, la questione del disarmo degli Hezbollah, cita tale questione ripetutamente perché impegna il Governo libanese alla piena applicazione degli accordi di Taif, compreso il disarmo di tutte le organizzazioni e milizie militari (se ne parla nel paragrafo 3, nel paragrafo 8 e, indirettamente, laddove impegna ad impedire ogni forma di ingresso di armi in Libano, nel paragrafo 14). La risoluzione n. 1701 invita poi, nel paragrafo 10, il Segretario generale dell'ONU a predisporre iniziative che possano concorrere, insieme al Governo libanese, ad una migliore applicazione degli accordi di Taif, ivi compreso il disarmo degli Hezbollah; decide il dispiegamento di una forza UNIFIL per assistere il Governo libanese sulla base delle finalità e degli obiettivi della risoluzione, tra cui l'applicazione degli accordi di Taif, ivi compreso il disarmo delle forze e delle milizie; infine, definisce anche le prime regole di ingaggio, che non sono poi così generiche, perché il paragrafo 12 autorizza l'UNIFIL a intraprendere tutte le azioni necessarie nelle aree in cui le forze sono presenti e nella loro capacità ad assicurare che quest'area non sia utilizzata per operazioni ostili di nessun tipo, a resistere ai tentativi di impedirle con l'uso della forza di svolgere i suoi compiti come da mandato del Consiglio di sicurezza, nonché a proteggere tutte le forze delle Nazioni Unite, eccetera: mi sembra chiaro.
Si ribadisce insomma un punto che noi tutti, che ci occupiamo di questa materia da tempo, già conosciamo, cioè, la differenza fra un esercito tradizionale e i caschi blu: un esercito tradizionale spara per primo - o può sparare per primo - mentre i caschi blu non sparano mai per primi ma ciò non impedisce che possano sparare eventualmente per secondi, qualora questo fatto li metta nella condizione di difendersi o di dovere ricorrere all'uso delle armi anche per ottemperare agli obiettivi della risoluzione.
Questo è ciò che è scritto nel paragrafo 12. Quindi, francamente, penso che... (Commenti). Vorrei continuare il mio intervento con la stessa attenzione con cui hanno potuto parlare i colleghi Casini, Pisanu e Fini. Grazie.
Penso che molti dei dubbi siano ispirati da una prudenza giusta. Tutti dobbiamo avere prudenza poiché si mandano i nostri soldati ad agire in uno scacchiere difficile ma non è questa la prima missione di peace keeping o peace making che i soldati italiani sono chiamati a svolgere in un quadro di azione delle Nazioni Unite che, sulla base della risoluzione n. 1701, comincia ad essere sufficientemente chiaro e definito. Poi, ognuno può essere d'accordo o meno - questa è una valutazione politica - ma non si può dire che non è stato fatto uno sforzo di chiarezza, a partire da un dato che, forse, è stato un po' troppo sbrigativamente rimosso. Le Nazioni Unite
non intervengono in alcun paese in modo forzoso. Le Nazioni Unite intervengono in qualsiasi paese sulla base di una regola fondamentale per la vita delle stesse, cioè, il consenso dei paesi interessati. Quindi, è chiaro che quanto è scritto nella risoluzione n. 1701 è senza meno condiviso dal Governo libanese e dal Governo israeliano, altrimenti non sarebbe scritto.
La pretesa di scrivere qualsiasi cosa, indipendentemente dal consenso dei paesi in cui si interviene, francamente, mi pare un modo curioso di discutere perché significa non fare i conti con quello che è un vincolo - piaccia o non piaccia - dell'azione della comunità internazionale.
Quindi, sulla base di queste ragioni penso che si debba sostenere la proposta che il Governo avanza, una proposta non soltanto a tutela della piena sovranità del Libano. È infatti una proposta di intervento a tutela della sicurezza di Israele. Da questo punto di vista, varrebbe la pena di mettere fine a delle polemiche strumentali tra noi perché non c'è nessuno nel panorama politico italiano che non sia consapevole del fatto che l'esistenza e la sicurezza di Israele sono due aspetti assolutamente irrinunciabili senza la cui riaffermazione non c'è alcuna soluzione di pace nel Medio Oriente, né c'è possibilità di risoluzione della questione palestinese.
Per essere chiari ed espliciti, anche le polemiche nei confronti del ministro D'Alema mi sembrano, francamente, strumentali: sono andato a rileggermi tutte le dichiarazioni fatte dal ministro D'Alema in queste ultime settimane e tutte partono dalla richiesta della liberazione dei soldati israeliani rapiti e ribadiscono l'assoluta irrinunciabilità per la comunità internazionale alla sicurezza di Israele e alla certezza che quest'ultimo paese possa vivere in pace senza paura dei suoi vicini.
Pertanto, da questo punto di vista, non c'è alcuna ambiguità nell'atteggiamento del Governo italiano e della maggioranza che lo sostiene, così come non c'è alcun atteggiamento ambiguo dell'Italia. Non c'è neppure una sottovalutazione delle preoccupazioni, delle ansie, delle inquietudini che muovono l'opinione pubblica israeliana. C'è, però, contemporaneamente la consapevolezza che così come è irrinunciabile per la comunità internazionale il diritto per Israele ad esistere e ad essere al sicuro, quello stesso diritto di Israele - ad essere sicuro e ad esistere - non si realizzerà mai compiutamente se non viene data risoluzione alla questione palestinese.
Vorrei concludere su questo punto: è evidente che la vicenda libanese ci dimostra come la crisi in Medio Oriente si sia allargata. Giustamente, è stato richiamata dal presidente Casini la preoccupazione per cui, tra qualche settimana, potremmo trovarci di fronte ad un passaggio molto difficile del dossier iraniano che ci pone di fronte ad un problema «grande Medio Oriente» molto più ampio della sola questione israelo-palestinese. Tuttavia, è altrettanto evidente che la non risoluzione della questione palestinese sta diventando sempre di più un dato politico centrale, anche simbolico, nei rapporti tra Occidente ed Islam, nell'umore antioccidentale che matura nei paesi arabi e nelle società islamiche e nella acutizzazione della crisi. Quindi, riprendere un percorso che sia capace di affrontare questo nodo mi sembra un punto assolutamente essenziale.
Per questa ragione, anche se vi saranno tempi e modi per discutere di questo tema ulteriormente in Commissione esteri in occasioni successive, penso che dovremmo cominciare ad inserire questo tema nella nostra agenda, lavorando perché si possa arrivare presto a convocare una nuova Conferenza internazionale di pace sul Medio Oriente quale sede nella quale cercare di portare a compimento un assetto politico che finalmente dia stabilità e sicurezza alla regione.
PRESIDENTE. Do ora la parola all'onorevole Maroni.
ROBERTO MARONI. Abbiamo accolto tutti con favore la convocazione delle Commissioni riunite e il coinvolgimento del Parlamento in questa crisi internazionale. Vorrei ringraziare i ministri che sono intervenuti oggi, tuttavia mi devo anche io
iscrivere, purtroppo, nella lista degli imbarazzati e dei delusi rispetto a ciò che abbiamo ascoltato. Il ministro D'Alema ci ha riportato notizie vecchie di ore - di giorni addirittura - e ha speso gran parte del suo intervento in una sorta di autodifesa rispetto a improvvidi atteggiamenti tenuti in questi giorni.
Il ministro Parisi ci ha raccontato del dolore di un padre che perde un figlio, ma nulla ci ha detto sui contenuti della missione. Ora, noi siamo chiamati ad un dibattito certamente importante ed interessante ma che rischia di essere senza senso, senza significato, anzi, addirittura controproducente per le aspettative che può dare e per le conseguenze che può avere.
Siamo chiamati a votare nel pomeriggio una risoluzione sul nostro intervento militare, senza sapere esattamente come e quando esso avverrà, quanto costerà e quanto durerà. Che cosa dovremmo votare? Non sappiamo nulla delle regole di ingaggio, mentre sappiamo bene cosa significhi e quali diverse conseguenze può avere, in una missione, un sistema di regole di ingaggio fatto in un certo modo piuttosto che in un altro. Di tutto questo non sappiamo nulla. Il ministro Parisi non ci ha fornito al riguardo alcuna informazione.
Il disarmo degli Hezbollah viene posto come condizione, io credo giustamente - condivido al riguardo l'intervento del collega Pisanu -, per l'adesione della Casa delle Libertà alla risoluzione. Noi oggi però siamo chiamati a votare una risoluzione senza sapere se, per quanto riguarda il disarmo degli Hezbollah, vale la tesi del ministro Rutelli, secondo il quale deve essere la forza di interposizione dell'ONU a farlo, quella del ministro D'Alema, secondo cui spetta all'esercito libanese e non alle Nazioni Unite, o quella dell'onorevole Diliberto, che considera Hezbollah una forza di liberazione che in quanto tale non vada addirittura disarmata. Quali di queste tre posizioni noi oggi votiamo? Cosa ha deciso il Governo questa mattina - se ha deciso qualche cosa - sul tema del disarmo degli Hezbollah?
Su questo punto non abbiamo avuto alcuna informazione. C'è stata questa mattina una riunione del Consiglio dei ministri, ma non sappiamo di cosa si sia parlato. Abbiamo letto le agenzie di stampa, ma ritengo che il Parlamento debba essere messo in condizione, avendo qui presenti due autorevoli ministri, di sapere se il Governo questa mattina abbia deliberato un atto formale, se abbia posto le condizioni che sono state in qualche modo enunciate dal ministro Parisi o se abbia lasciato all'indeterminatezza di una futura decisione dell'ONU la sorte che subiranno i nostri militari. In queste condizioni, mi chiedo cosa possa comportare votare oggi questa risoluzione. Se i nostri soldati si dovessero trovare di fronte a militanti di Hezbollah pronti a lanciare un razzo su Israele, cosa dovranno fare? Dovranno sparare? Non dovranno sparare? Dovranno girare gli occhi dall'altra parte? Dovranno consultare il manuale per vedere se si tratta di un intervento di peace making, peace keeping o di peace enforcing? Non mi pare serio decidere oggi in modo così indeterminato.
Se invece si tratta di un'adesione politica di carattere generale, è un altro conto. Possiamo anche essere d'accordo. Ma votare formalmente una risoluzione al buio, senza conoscerne minimamente i contenuti - non senza avere le garanzie, ma senza sapere neanche quali sono le condizioni con le quali i nostri soldati andranno in Libano -, mi pare francamente poco serio. Quanti soldati? Chi comanda? La Francia ha fatto o sta facendo marcia indietro. La Germania non parteciperà. I paesi della Lega Araba neppure. E quali sono i costi?
A tutte queste domande, legittime, che garantiscono la sicurezza dei nostri militari - non sono delle domande polemiche o retoriche, ma sono domande serie, volte a garantire la sicurezza e l'efficacia dell'intervento dei militari italiani -, non abbiamo avuto alcuna risposta. Mi spiace dirlo, ma sono molto deluso da questo dibattito e dall'intervento dei due ministri. Mi associo quindi, in conclusione, alla riserva espressa dagli altri colleghi della
Casa delle Libertà e penso - è mia opinione personale - che, se le risposte a tutte queste domande verranno fornite da qui a quando ci sarà la convocazione delle Commissioni, potremo in quella sede discutere di un voto unanime sulla risoluzione, anche con qualche modifica; altrimenti, credo che sarebbe più serio sconvocare le Commissioni, per riconvocarle quando il Governo sarà in grado di dare queste risposte.
PRESIDENTE. Do ora la parola all'onorevole Russo Spena.
GIOVANNI RUSSO SPENA. Permettetemi innanzitutto, colleghe e colleghi, di ricordare in questa importante sede istituzionale Angelo Frammartino, il nostro giovane compagno pacifista, cooperante, tragicamente ucciso a Gerusalemme. Credo infatti che egli non possa non far parte di questo nostro dibattito. Voglio ricordarlo con le sobrie ed incisive parole del padre: la morte di Angelo è frutto dell'odio che le guerre stanno alimentando, dei rancori e delle insicurezze che stanno creando in popoli che dovrebbero imparare a vivere in pace. Questo è il degrado prodotto da chi teorizza lo scontro di civiltà.
È morto Angelo. È morto Uri Grossman, come ricordava il ministro Parisi. Sono morti drammaticamente più bambini che militari, come ha detto Kofi Annan, a Beirut, come a Tiro, o ad Haifa, e centinaia di profughi rischiano di continuare a morire sulle bombe inesplose e sui campi minati, in riferimento ai quali l'ONU sta invano chiedendo le mappe. Vi è insomma - lo abbiamo visto anche nel dibattito di questa mattina - chi non ha compreso o non ha voluto comprendere la portata degli avvenimenti.
Giustamente il ministro D'Alema, di cui abbiamo condiviso iniziative, analisi, comportamenti, accenti, in diverse interviste ha detto in questi giorni dalle macerie di Beirut: venite qui a vedere per valutare. Tutto ciò alimenta solo l'insicurezza di Israele, non la sua sicurezza, che mai più potrà essere affidata alla presunta invincibilità di un esercito o ad una politica miope di Bush o dei neocon, che confondono ancora, lo abbiamo visto negli interventi di ieri, movimenti sciiti con quelli sunniti, il rapporto fra sciiti e cristiano-maroniti in Libano, e che ossessivamente appiattiscono - lo abbiamo sentito anche in questo dibattito - la visione del Medio Oriente sulla cosiddetta rete di Al Qaeda.
Non voglio qui ritornare su argomenti che abbiamo discusso mille volte ed ai quali ha fatto riferimento anche il ministro degli affari esteri: Hamas non è Al Qaeda, per quanto non se ne condividano azione, strategia e pensiero; gli Hezbollah, ugualmente, non sono Al Qaeda, ma piaccia o no, anche a causa delle guerre, sono partiti politici nazionalisti, fortemente presenti nel loro paese e nei Governi, legittimati dal voto, e segmenti dello Stato sociale. E la diplomazia, la politica internazionale - che dovrebbe di nuovo avere spazio nei nostri dibattiti - da sempre impone che i ministri legittimamente eletti vanno incontrati. È quindi una sciocchezza, una superficialità dire: disarmiamo i terroristi come regola di ingaggio. La riflessione e l'azione devono essere ben più complesse.
Il Governo italiano - questo è il primo punto che vorrei sottolineare - sta agendo con intelligenza e determinazione, nel tentativo di comprendere la realtà. L'Italia sta assumendo un ruolo decisivo, perseguendo finalmente di nuovo - vorrei sottolinearlo, colleghe e colleghi - quella che è stata la vocazione delle sue grandi forze popolari, cattoliche, laiche, comuniste, di cerniera euromediterranea. Non possiamo dimenticare che in questa fase l'Italia sta assumendo di nuovo un forte ruolo euromediterraneo.
Ciò è tanto più importante - questo è il secondo aspetto politico che vorrei valutare - nel momento in cui anche negli Stati Uniti - basta leggere in questi giorni la stampa statunitense - si discute l'intera politica americana in Medio Oriente, alla luce dei fallimenti USA in Iraq, in Afghanistan e nello stesso Libano. Sono i principi fondamentali della politica estera di Bush ad essere in crisi. Certo, lo diciamo
con prudenza, ma la politica ha il dovere di scavare, di ricercare. Qui comincia ad essere in crisi l'unilateralismo; comincia ad essere in crisi la lotta al terrorismo basata sulla guerra preventiva globale. Forse è troppo ottimistico dirlo, ma noi dobbiamo poter esprimere una speranza, noi che fra i primi abbiamo peraltro chiesto che il cessate il fuoco in Libano fosse accompagnato da una forza di interposizione di caschi blu, proiezione diretta delle Nazioni Unite. Sconfitta quindi dell'unilateralismo ed assunzione forte di responsabilità dopo 15 anni in cui le Nazioni Unite erano state in qualche modo mutilate, zittite, costrette al silenzio.
Non dimentichiamo - terzo punto che voglio evidenziare - che per la prima volta, pur con le difficoltà che caratterizzano oggi il dibattito in Francia e con quelle psicologiche e politiche che si rilevano nel dibattito in Germania, comincia a riaffermarsi una presenza europea e a delinearsi un profilo, un'identità, una soggettività politica europea. Insomma, sono passati pochi mesi, due anni, ma quanto è lontano storicamente il periodo in cui Rumsfeld, arrivando a Varsavia, contrapponeva la nuova Europa alla vecchia Europa, quella basata sulla Francia, sulla Germania, eccetera!
Certo, si tratta di una missione pericolosa, ma è anche una missione ONU, che non delega il suo compito a nessun altro esercito, non lo delega alla NATO, apre una strada nuova. Questo è l'unico motivo per cui possiamo dire che si tratta di un corpo militare ammissibile anche per noi pacifisti, perché non avalla ex post un'aggressione, ma tenta di fermare un conflitto che rischia di diventare sempre più aspro.
In questo senso, credo che le regole di ingaggio verranno da noi valutate dopo l'interpretazione che ne darà la risoluzione delle Nazioni Unite; si tratta di interpretare l'espressione «interposizione attiva», che già fa parte della risoluzione: essa non significa procedere al disarmo degli Hezbollah oppure costituire esclusivamente una forza incapace di azione, ma significa assicurare un'interposizione autorevole delle Nazioni Unite, con 15 mila persone presenti sul campo. Forse, anche gli ex ministri Fini e Pisanu dovrebbero convenire sul fatto che l'autorevolezza di un forte dispiegamento di migliaia soldati di forze multinazionali, delle Nazioni Unite, vale molto di più, probabilmente, di una regola di ingaggio militare.
Noi del gruppo di Rifondazione comunista siamo favorevoli - anche se certamente attenti - a questa missione. Mi pare che gli accenti che ho sentito, anche in questo dibattito, da parte di qualche esponente importante e rilevante della destra, che hanno rilevato che la missione potrebbe essere anche mediata, perché deve superare difficoltà interne alla sinistra radicale, questa volta veramente non colgano assolutamente nel segno. Si tratta, anzi, di una missione che salutiamo con piacere, perché qualche buon frutto già si vede e perché - permettetemi un'ultima osservazione - il Medio Oriente ha abituato chi lo conosce agli effetti «domino». Diceva sant'Agostino: a malo bonum. Sto pensando al Governo di unità nazionale, con la relativa tregua unilaterale, che si sta costruendo in Palestina. Abu Mazen e Haniyeh hanno affermato questa mattina che ritengono che un nuovo Governo guidato da Al-Masri riuscirà a conquistare la fiducia dell'Unione europea e, forse, anche degli Stati Uniti. Quando in Medio Oriente si mettono in moto dei percorsi e dei progetti, questi, in qualche modo, assumono una dimensione più vasta di quella che può sembrare inizialmente.
Per esempio, credo che la questione palestinese potrà e dovrà diventare centrale, per quanto ci riguarda, così come si potrà discutere nuovamente della questione del Golan, delle fattorie di Sheba'a, nonché dell'enclave alle pendici del monte Hermon, occupata nel 1967.
Insomma, il nostro parere convintamente favorevole alla missione dell'ONU si richiama alla necessità che le Nazioni Unite diventino centrali nel governo globale, in questa fase e in questo contesto storico, che si riaffermi la centralità dell'Europa e che si sostenga la politica estera italiana euromediterranea, in alternativa alla politica estera del Governo Berlusconi,
soggetta alla guerra preventiva globale e che, quindi, abbiamo giudicato molto negativamente, soprattutto relativamente allo scacchiere mediorientale. Quindi, siamo coscienti delle difficoltà, ma molto impegnati per un esito positivo.
PRESIDENTE. La senatrice Palermi ha facoltà di parlare per sei minuti.
MANUELA PALERMI. Voglio ringraziare il ministro D'Alema e il ministro Parisi non solo per le comunicazioni di questa mattina, ma anche per il lavoro che stanno svolgendo. Mi pare che si tratti di un lavoro prezioso, importante e di valore, di cui dobbiamo dare atto ad entrambi.
Condivido tale lavoro così come condivido la risoluzione dell'ONU, che non è esaustiva, come hanno detto i colleghi dell'opposizione. Su questo non c'è dubbio: vale anche per noi. Ritengo, però, che essa vada apprezzata per l'equilibrio e, se mi si consente, anche per la saggezza con cui si inserisce e tenta la gestione di una questione complicatissima e difficilissima.
Voglio portare al ministro D'Alema la solidarietà piena rispetto agli attacchi strumentali e ridicoli di cui è stato vittima. Conosco abbastanza bene la realtà del Libano, perché mi capita di andarci quasi ogni anno. Ci vado per l'anniversario della strage di Sabra e Shatila. Molti di voi lo sanno, ma lo dico per chi non lo sa. Sabra e Shatila ricadono in un municipio che si chiama Gobeiri. Tale municipio è governato da un sindaco Hezbollah. Faccio questo esempio per dire che è difficilissimo andare in Libano e non incontrare Hezbollah, basta immaginare una visita a Sabra e Shatila senza il sindaco, che fa parte della visita stessa. La realtà degli Hezbollah è qualcosa di complicato, variegato, che non si esaurisce nell'iscrizione nella lista dei gruppi terroristici. È qualcosa di molto più complesso. A Gobeiri, per esempio, c'è la sanità pubblica gratuita, la scuola pubblica gratuita. Altrove, però, hanno compiuto azioni assolutamente condannabili. Dovrebbe essere nostro compito, nel tentativo di accompagnare il Governo e l'ONU in questa complicatissima vicenda, capire cosa succede in quei luoghi, fare distinzioni e vedere la negatività, ma anche dove si può agire.
Credo che questa missione abbia un grande valore. Non trascuro e non sottovaluto, anche perché altri anni di Governo e altre missioni hanno causato in me un forte senso di indignazione e di umiliazione, il ruolo di primo piano che l'Italia sta giocando. Già il successo del cessate il fuoco, se posso parlare con parole semplici, non era per me assolutamente scontato. Non ero convinta che potesse succedere una cosa del genere. Si era scatenata una guerra talmente terribile e spaventosa... Chi di noi può dimenticare la strage dei bambini che è stata chiamata la «strage degli innocenti»? Chi di noi può dimenticare le migliaia e migliaia di profughi, che abbiamo visto allontanarsi e scappare?
Insomma, aver raggiunto il cessate il fuoco è un primo risultato, che si incassa con soddisfazione. È un primo passo, ce l'abbiamo fatta. È per questo che dico che il Governo Prodi e, in particolare, i due ministri interessati devono poter contare non soltanto sul consenso, ma anche sul sostegno del Parlamento. Quindi, c'è bisogno che oggi le Commissioni riunite si esprimano e, invece di arrampicarsi sugli specchi, come è capitato in qualche intervento, indichino cosa ne pensano, assumendosene la responsabilità.
Oggi ci avete dato le informazioni che potevate, trattandosi di questioni che vanno concordate a livello ONU. Sono convinta che ci terrete costantemente informati di una vicenda tuttora in itinere. Per quanto riguarda i Verdi e i Comunisti italiani del Senato, avete il pieno consenso e il più forte sostegno.
PRESIDENTE. L'onorevole De Zulueta ha facoltà di parlare per tre minuti.
TANA DE ZULUETA. Anche io ringrazio il Governo per averci puntualmente convocato e, a differenza dell'onorevole Casini, non considero che sia stato un atto troppo tempestivo. Come parlamentare, non considero mai nel torto un Governo
che si confronta con il proprio Parlamento su una questione di tale gravità.
Temo, però, che - considerato che le deliberazioni che assumerà il Parlamento in questa fase saranno necessariamente un po' generiche - vi sia la tentazione di utilizzare questo spazio politico per sbandierare posizioni che hanno poco a che vedere, nello specifico, con la risoluzione e con il drammatico impasse creato nel Libano, ma che hanno abbastanza a che fare con le singole ragioni di parte.
Votando la risoluzione che i rappresentanti di gruppo hanno predisposto, vorremmo sostenere una forza di pace, una forza di peace keeping: non è una forza di peace enforcement, non potrebbe esserlo. La bozza di risoluzione è molto chiara su questo punto: assecondiamo le forze armate libanesi. Il fatto che esse in questo momento siano di un'estrema fragilità non toglie importanza alla missione, ma naturalmente la rende delicata e molto impegnativa.
Vorrei dire due parole - perché so che ho pochissimo tempo - su un tema che non è stato toccato dal Governo. La guerra in Libano ha creato un disastro ambientale di dimensioni enormi, che lambisce non solo l'intera costa libanese, ma anche quella della Siria e di altri paesi del Mediterraneo. L'Italia ha già impegnato e credo siano già attive sulla costa della Siria forze della marina militare. Credo che questo sostegno al progetto UNEP di recupero ambientale faccia parte di un'azione umanitaria sulla quale avrei voluto sentire qualche dettaglio in più.
Infine, vorrei soffermarmi sul contesto diplomatico. Credo sia molto importante ricordare che il Libano è incastrato all'interno della Siria. In queste ore, vi è stato un irrigidimento delle posizioni siriane. Ritengo che, un pieno consenso e una condivisione della nostra presenza da parte della Siria sia una condizione necessaria per un processo di pace efficace, come auspicato dal Governo.
PRESIDENTE. Do ora la parola all'onorevole Cioffi.
SANDRA CIOFFI. Innanzitutto, vorrei sottolineare non solo la tempestività con cui il Governo ci ha convocato, ma anche e soprattutto le parole, vere e non ambigue, contenute nelle relazioni dei ministri D'Alema e Parisi. Da queste parole ricaviamo che certamente si tratta di una missione rischiosa, ma assolutamente doverosa. Riteniamo che questa missione, pur con tutti i rischi che certamente comporta, attribuisca ancora una volta un ruolo all'Italia, quel ruolo che il nostro paese ha conquistato in questo conflitto, grazie anche al lavoro svolto dal nostro Governo per dare soluzione al problema della guerra in Medio Oriente. Mi riferisco al conflitto tra Libano e Israele unitamente al problema tra Israele e Palestina. È importante che la nostra missione abbia successo, perché potrà essere un importante segnale per la soluzione di questo conflitto.
Certamente, a proposito del rischio, dobbiamo riflettere sulla questione delle regole di ingaggio, ma ancora di più ci preoccupa il problema della catena di comando. Sappiamo tutti che l'ONU ha una burocrazia abbastanza appesantita. Il successo della missione guidata dal generale Angioni, che ebbe un comando diretto italiano, fu determinato anche dalla rapidità nell'eseguire i comandi. Pertanto, la questione della catena di comando, a nostro avviso, è prioritaria.
Dato che ho pochissimo tempo ancora a disposizione, vorrei soffermarmi sulla questione, richiamata dalla collega Tana De Zulueta, concernente l'emergenza umanitaria. L'Italia ha dimostrato - ringraziamo il nostro Governo per questo - di essere tra i primi paesi ad accorrere. Ci sono 500 mila sfollati, vi è un'emergenza sanitaria molto forte, vi è un problema di ricostruzione del paese. Credo che, oltre alla questione della missione, si debba tener conto particolarmente anche di ciò. Nel momento in cui si riuscirà a creare maggiore serenità nell'ambito di questo paese così martoriato, si potrà pervenire ad una maggiore serenità anche tra i due popoli. Credo, inoltre, che sia molto importante e significativo che l'esercito libanese
sia andato nel sud del Libano: significa che si sta aiutando ad affermare la democrazia in questo paese.
Concludendo, auspico che il ruolo del nostro paese, dal punto di vista internazionale, continui a dispiegarsi nella stessa maniera non solo nei rapporti multilaterali, ma anche in quelli bilaterali, così come è stato in quest'ultimo periodo.
PRESIDENTE. Do la parola al senatore Barbato.
TOMMASO BARBATO. Cercherò di recuperare il tempo utilizzato dalla mia collega Cioffi e, pertanto, il mio intervento sarà ermetico.
Noi del gruppo Popolari-Udeur siamo favorevoli ad una missione sotto l'egida dell'ONU. Siamo anche consapevoli che non sarà una passeggiata, come abbiamo più volte rimarcato. È una missione rischiosa e difficile, ma doverosa. È un intervento militare a tutti gli effetti e sappiamo che le armi non potranno essere la soluzione, per la quale è, invece, necessaria una forte iniziativa politica. Il nostro «sì» all'iniziativa militare nasce dalla consapevolezza che, senza una forte spinta dei Governi sul piano politico, non si potrà sperare di bloccare la crisi. Anzi, i rischi di allargamento saranno sempre maggiori.
In merito al «come», è la politica che deve avere un ruolo determinante e chiaro. Non possiamo ritrovarci tra due fuochi senza certezze, soprattutto per la sicurezza dei nostri uomini.
Penso che il ministro D'Alema, che ringrazio per la sua esaustiva relazione, così come il ministro Parisi, non abbia assolutamente bisogno della mia difesa. In questi giorni c'è stata una polemica esagerata sul cosiddetto «braccetto». Ritengo che quando una nazione assume il ruolo di paciere, si debba andare da qualsiasi parte e vadano presi a braccetto tutti; quindi, il ministro D'Alema ha fatto bene.
PRESIDENTE. Do la parola al senatore Tonini.
GIORGIO TONINI. Intervengo solo per esprimere, a nome del Gruppo per le Autonomie, il sostegno al Governo per la decisione assunta oggi in Consiglio dei ministri. Vorrei sottolineare la larga condivisione che ha attraversato quest'aula circa le difficoltà ed i rischi della missione alla quale ci accingiamo a partecipare. Credo che la contraddizione esposta dal ministro Parisi tra il carattere doveroso e la difficoltà della missione sia un tema condiviso da tutti e ritengo che sarebbe importante per il nostro Paese che questo passaggio parlamentare fosse vissuto con onestà intellettuale da parte di tutti.
Sarebbe bene evitare di immiserire il passaggio drammatico di fronte al quale ci troviamo (non esito ad utilizzare questo aggettivo: siamo di fronte ad un passaggio drammatico, anche per il nostro Paese) in una piccola polemica domestica. È del tutto evidente la legittimità, ex articolo 11 della Costituzione, della missione. È evidente il carattere doveroso di questa missione, in quanto è parte di quella risoluzione delle Nazioni Unite che, tuttavia, con la sua ambiguità, ha ottenuto il grande e straordinario risultato di fermare la guerra in questo momento. Naturalmente, è sotto gli occhi di tutti la difficoltà della missione, una difficoltà che in questo momento credo avvertano innanzitutto gli alti gradi militari nel nostro paese, perché sentono che ben poco del successo possibile di questa missione dipende dallo strumento militare.
È del tutto evidente che il carattere di difficoltà della missione sta nel fatto che il successo militare dipende dal successo politico dello scenario e tutti sappiamo come lo scenario politico mediorientale sia tale da scoraggiare le speranze di successo. Tuttavia, sappiamo che non possiamo cancellare dallo scenario politico italiano questa nostra responsabilità. Come diceva prima l'onorevole Fassino, lo scenario mediorientale è cruciale rispetto al quadro internazionale e alle speranze di pace a livello internazionale.
Credo, dunque, che dobbiamo accingerci ad affrontare tale passaggio con questa consapevolezza. È chiaro cosa ci
viene chiesto. Il Governo, in questo momento, deve testare se la decisione che ha assunto di dire «sì» - sia pure un «sì» condizionato da fattori tecnici che dovranno essere valutati fino in fondo - alle Nazioni Unite sia condiviso dall'intero schieramento parlamentare oppure se trovi soltanto nella maggioranza il suo riferimento. Credo sarebbe importante per la politica italiana se riuscissimo a dimostrare compattezza e serietà, proprio di fronte alla drammaticità di un passaggio come questo.
PRESIDENTE. L'onorevole Mellano ha facoltà di intervenire per un minuto.
BRUNO MELLANO. A nome de La Rosa nel Pugno è già intervenuto il collega Giovanni Crema, facendo un intervento che condivido a pieno. Ho chiesto di poter intervenire per portare una piccola...
PRESIDENTE. Le ricordo che proprio per tale motivo ha un minuto a disposizione.
BRUNO MELLANO. Sento doveroso sottolineare, dai banchi della maggioranza di questo Governo, alcuni aspetti lacunosi dell'intervento del ministro degli esteri. Credo sia giusto affermare che la relazione del ministro D'Alema, per molti aspetti condivisibile, abbia trascurato il ruolo di Iran e Siria in un conflitto che è stato una guerra per procura giocata sulle spalle del Libano e in terra libanese. Di questo, il ministro D'Alema non ha fatto parola.
Non ha fatto parola neanche della novità di questo conflitto. Per la prima volta, non è in causa la sicurezza di Israele, ma l'esistenza stessa dello Stato democratico di Israele. Propongo al Governo un'iniziativa politica che da anni Marco Pannella - col partito radicale transnazionale - pone all'attenzione della classe politica europea: Israele nell'Unione europea come soluzione per un'Europa che non sia l'Europa delle patrie, ma una grande patria europea e per un Israele che non si arrocchi sulla difesa di uno Stato nazionale, difesa alta, nobile, ma che, nel lungo periodo, rischia di essere perdente; Israele nell'Unione europea, ministro D'Alema, come offerta di lavoro politico immediato, in alternativa magari ad una nuova conferenza, che ha già visto i suoi effetti.
PRESIDENTE. L'onorevole Galante ha tre minuti a disposizione.
SEVERINO GALANTE. Signor presidente, non contesto le sue decisioni, tuttavia sappia che rappresento un gruppo presente con la definizione «Comunisti italiani» soltanto alla Camera. Pertanto, considerate le sue osservazioni iniziali, mi spetterebbero sei minuti.
PRESIDENTE. Benissimo, allora sono sei. Lei ha ragione, mi scusi.
SEVERINO GALANTE. Le analisi dei ministri degli esteri e della difesa e le conseguenti proposte politiche operative dal punto di vista della mia formazione politica sono ragionevoli e realistiche e, per questo motivo, condivisibili. Esse si fondano su alcuni precisi assunti esposti con nettezza dagli onorevoli D'Alema e Parisi, sicché mi risultano - lo dico con chiarezza - incomprensibili i dubbi di qualche collega.
L'Italia invia in Libano un suo contingente militare, conformemente al mandato ONU, per tre precisi scopi elencati con chiarezza nel paragrafo 11 della risoluzione: garantire le popolazioni civili sia libanesi sia israeliane; dividere i contendenti, avendone ben chiare le rispettive responsabilità nella crisi; ripristinare e garantire la sovranità dello Stato libanese.
Questi, in sintesi, sono gli obiettivi scritti che non possono essere lasciati alle interpretazioni di chicchessia e che sono ben diversi dalle richieste (l'espressione è questa), pure scritte, rivolte al Governo del Libano e, quindi, di sua prioritaria competenza.
Noi andiamo verso una situazione difficile, colleghi, proprio per questo intreccio di problemi; è molto rischiosa, ma per fini pacifici ed umanitari: non per fare la
guerra a qualcuno (l'hanno detto chiaramente i ministri), ma per garantire tutti. Ci andiamo, in particolare, per contribuire a sanare i disastri di ogni tipo prodotti dall'attacco di Israele al Libano, ma avendo di fronte una prospettiva più ampia sia sotto il profilo geopolitico sia sotto quello storico.
L'attacco di Israele al Libano, non va dimenticato (la stampa americana lo sta evidenziando), pianificato molti mesi fa, in accordo con il Governo degli Stati Uniti, non ha dato i risultati sperati, anzi. Il nuovo Medio Oriente che si profila è assai diverso da quello progettato e questo risultato dovrebbe suggerire qualcosa a molti, in particolare, su un tema.
Qualcuno ha detto che la questione palestinese è il cuore; forse, è il cuore della situazione un po' spostato. Se la guerra di Israele contro il Libano e contro Hezbollah voleva essere la prova generale per attaccare questo cuore, per una guerra contro l'Iran, è da auspicare che questo fallimento strategico faccia riflettere i vertici statunitensi e li induca a privilegiare gli strumenti della diplomazia rispetto a quelli bellici.
In ogni caso, ministro D'Alema, questo è il compito politico fondamentale che l'Italia dovrebbe perseguire: contribuire, come lei ha detto, a soluzioni politiche del poliedro di crisi che occupa l'area compresa tra l'Italia e il Mediterraneo, per motivi umanitari sicuramente, ma anche per impedire che l'illusione della soluzione militare dilati ulteriormente la crisi, fino ad includere parti crescenti del mare nostro, là dove si giocano la sicurezza ed il futuro del nostro Paese.
La partecipazione di un significativo contingente di forze armate italiane alla forza di interposizione dell'ONU dovrebbe - deve, per noi - essere funzionale a questo obiettivo politico che costituisce un interesse vitale per l'Italia. Ma proprio perché la crisi libanese è parte di un più ampio sistema di crisi, l'Italia deve fare leva sul proprio contributo militare alla forza di interposizione per rilanciare la necessità di dare soluzione ai nodi fondamentali e, primo fra tutti, a quello palestinese. Concordo, quindi, fino in fondo con le riflessioni del ministro D'Alema e sull'intreccio che egli poneva tra questione libanese, questione palestinese e, più in generale, questione mediorientale.
Anziché estendere alla Siria e all'Iran la fallimentare logica muscolare applicata dagli Stati Uniti all'Afghanistan e all'Iraq, bisogna invertire la tendenza in atto, impegnando ogni energia internazionale a dare soluzioni politiche alle molteplici e complesse tensioni che confluiscono nel Medio Oriente. Vorrei richiamare l'attenzione su alcuni aspetti che non sono stati ricordati, ma che sono centrali per l'insieme di questi problemi: Pakistan e Arabia Saudita, i principali alleati degli Stati Uniti in tutta l'area mediorientale, sono autentici motori di fondamentalismo religioso e di destabilizzazione geopolitica, non meno dell'Iran. Bisognerà, quindi, prima o poi cominciare a porre e a porsi il problema che essi costituiscono e che va affrontato con idonei strumenti, nessuno dei quali può essere bellico.
Non sfuggono ovviamente la complessità e la difficoltà del compito che affidiamo ai nostri soldati.
Perciò, condivido fino in fondo, presidente, i dubbi e le perplessità, i quesiti che sono stati posti in questi giorni dagli esperti e che sono stati pubblicati sulla stampa. Concludo con questo argomento, presidente, perché può esser utile per chiarire la nostra posizione. Nel merito - è stato già detto, ma lo ricordo -, formulo la seguente domanda: se Hezbollah rinnovasse forme di attacco ad Israele, provocandone le reazioni, per esempio nella forma di rapimenti di soldati, questo sarebbe già un giustificato motivo di intervento? E come? Seconda domanda: il Governo israeliano riconferma la propria volontà di assassinare comunque e ovunque i leader di Hezbollah che riuscirà ad individuare; atti siffatti costituirebbero o no giustificati motivi di intervento da parte della forza di interposizione? E di quale tipo di intervento? Per noi è evidente che la decisione relativa alla missione italiana
in Libano va assunta subito, ma fornendo successivamente chiare risposte a domande come queste.
ROBERTO ANTONIONE. Presidente...
PRESIDENTE. Sono intervenuti tutti i gruppi, per un tempo anche ampiamente superiore a quello previsto...
ROBERTO ANTONIONE. Presidente, rappresento al Senato il gruppo della Democrazia cristiana-Partito Repubblicano Italiano-Indipendenti-Movimento per l'Autonomia. Mi rimetto alle sue decisioni...
PRESIDENTE. Mi perdoni. Considerato che lei rappresenta un gruppo, ha il diritto di parlare. Può intervenire per sei minuti.
ROBERTO ANTONIONE. La ringrazio, presidente, cercherò di essere più breve dei sei minuti che mi vengono concessi.
Anche io mi aspettavo - ringraziandola per questa opportunità - un dibattito che prescindesse da posizioni preconcette. Scopro tuttavia che l'antico vizio, che a sinistra prevale, di essere ipocriti su alcune questioni, anche essenziali e di fondo, quest'oggi è di nuovo emerso.
Al collega Russo Spena, quando afferma che è una sciocchezza dire che è sbagliato incontrare rappresentanti eletti dal popolo, ricordo che la sinistra non aveva questo atteggiamento quando Haider fu eletto in Austria. Il ministro degli esteri Ferrero Waldner addirittura trovò ostracismo a livello dell'Unione europea - credo che il presidente Dini lo ricordi bene - e l'allora Presidente del Consiglio D'Alema telefonò al sottoscritto - allora presidente della regione Friuli-Venezia Giulia - per discutere assieme quali rapporti avrei dovuto tenere con il Governatore della Carinzia Haider. Oggi scopriamo che invece è giusto e corretto incontrare tutti quelli che sono stati eletti democraticamente.
Al di là di questa battuta polemica, desidero ringraziare il Governo per questa sua tempestiva comunicazione, anche se francamente, su alcune questioni, troverò modo di fare osservazioni non certamente favorevoli.
Desidero anche dichiarare la piena soddisfazione per la risoluzione dell'ONU e in questo senso non ho nessuna difficoltà a riconoscere che il Governo si è impegnato, per quanto possibile, a favorire una risoluzione che ha consentito obiettivamente di raggiungere il risultato concreto del cessate il fuoco. È un risultato che apprezziamo tutti, un risultato fondamentale e importante, ma, se l'intenzione del Governo era quella di informare il Parlamento di quello che sta accadendo, credo che francamente tutti quanti, con soddisfazione, avremmo potuto fermarci qua. Francamente troviamo abbastanza discutibile continuare a discutere e a decidere su un mandato che non è chiaro - il ministro della difesa lo ha detto con chiarezza (ci sono quattro punti che devono essere ancora precisati nel dettaglio) -, senza sapere esattamente quello che dobbiamo fare, rispetto a un contingente che non si sa né come debba essere composto numericamente, né quanto tempo dovrebbe fermarsi, né chi dovrebbe comandarlo e quant'altro. Dare un mandato in bianco è un'evenienza che riteniamo indubbiamente non auspicabile.
Vorrei fare una riflessione che potrebbe trovare una smentita da parte del Governo. Qual è l'urgenza - lo chiedo al ministro degli esteri - che porta oggi il nostro Paese ad adottare questa risoluzione? Signor ministro degli esteri, mi sarei aspettato piuttosto che ci fosse un intervento del nostro Governo nell'ambito dell'Unione europea, perché questa avrebbe potuto essere una straordinaria occasione per rafforzare quel ruolo politico che l'Unione europea ha sempre rivendicato, anche nella capacità di difesa, un ruolo che si è esplicitato, come lei sa, nello scenario dei Balcani e che il Governo italiano avrebbe potuto sollecitare. Non si capisce perché dovremmo prendere una decisione autonoma, da soli, su una situazione che conosciamo molto poco. Non abbiamo fatto nessuno sforzo per trovare, assieme agli altri partner dell'Unione europea,
una posizione comune, che ci consenta veramente di esercitare un ruolo fondamentale e che consenta alla stessa Unione europea di costruire un percorso che possa aiutarla a superare le difficoltà incontrate dopo l'esito negativo dei due referendum (quello francese e quello olandese).
Pensare male, diceva il collega Andreotti, è sbagliato, ma qualche volta ci si può anche azzeccare; non vorrei che questa fretta, che il Governo oggi manifesta, portando una risoluzione poco chiara al voto, sia dovuta al fatto che forse i problemi sono più interni alla coalizione che non all'opposizione. L'opposizione, come sapete perfettamente, è sempre stata favorevole a sostenere le risoluzioni delle Nazioni Unite; non vorremmo che una precisazione completa del mandato delle Nazioni Unite ai vari paesi trovasse difficoltà all'interno della vostra coalizione piuttosto che all'interno della nostra.
PRESIDENTE. La parola all'onorevole Rao. Può parlare per due minuti.
PIETRO RAO. Signor presidente, intervengo a nome del Movimento per l'autonomia - sarò brevissimo - per esprimere la nostra posizione in riferimento all'adozione di questa risoluzione, che, per quanto ci riguarda, presenta molte ombre e poche luci. Oltre all'ambiguità, perlomeno nei contenuti della risoluzione, riteniamo preoccupanti - nonostante ci facciano da un lato ben sperare - le dichiarazioni del ministro Parisi, che ha definito lunga, impegnativa, costosa e rischiosa la missione. Ci preoccupa soprattutto l'affermazione dell'onorevole Fassino, che definisce la missione «doverosa». Noi diciamo che è doverosa solo se è chiara, e non mi pare che essa lo sia nei contenuti.
Non riusciamo a capire questo eccesso di zelo, questa eccessiva solerzia da parte del Governo, visto che le Nazioni Unite, se non sbaglio, hanno rinviato di una settimana la definizione delle regole di ingaggio. Soltanto dopo un chiarimento su questa posizione saremo nelle condizioni di esprimere il nostro «sì», la nostra astensione o una posizione condizionata al chiarimento che sarà fatto.
Non aggiungo altro, vorrei rispettare i tempi, ma credo che sulla questione del chiarimento il Governo debba essere molto più preciso. Mi pare una domanda importante: perché l'ONU ha rinviato di una settimana e questo Governo invece cerca di accelerare comunque e ad ogni costo?
PRESIDENTE. È così conclusa la discussione, avendo tutti i gruppi preso la parola per un tempo anche superiore a quello previsto.
GIORGIO CARTA. Presidente, le chiedo di autorizzare la pubblicazione del mio intervento in calce al resoconto stenografico della seduta.
PRESIDENTE. Sta bene, onorevole Carta.
PIER FERDINANDO CASINI. Presidente, chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.
PIER FERDINANDO CASINI. Sottraggo soltanto un minuto ai ministri. Poiché dopo le repliche si concluderà questa prima fase in sede di Commissioni riunite, vorrei far presente le nostre diverse esigenze: da una parte, l'esigenza di omologare le procedure tra Camera e Senato, tenendo presente anche che vigono regolamenti diversi (sostanzialmente si tratta di votare e di esaminare gli stessi documenti, perché sarebbe un po' schizofrenico se i due rami del Parlamento votassero documenti diversi); dall'altra, l'esigenza, che io ritengo politica - in questo caso è solo un fatto politico -, di arrivare a deliberazioni con maggioranze che siano le più ampie possibili e non risicate. In ordine a questo, chiedo che siano convocati immediatamente gli uffici di presidenza delle Commissioni, integrati dai rappresentati dei gruppi - appena finisce questa prima fase, al termine delle repliche
del ministro D'Alema e del ministro Parisi -, per avere comunque chiarezza in ordine ad alcuni punti.
So che la prassi lo sconsiglia; ma le risoluzioni sono emendabili, possono essere riformulate? Credo che avere la possibilità di una riformulazione delle risoluzioni faciliterebbe molto una conclusione positiva, in modo da non rendere inutile questa seduta.
PRESIDENTE. Vorrei precisare che al Senato per convocare una seduta che si concluda con la votazione di una risoluzione non è necessario presentare tale risoluzione. Viceversa alla Camera lo è. Tuttavia, è giusta l'osservazione che lei svolge, onorevole Casini, circa l'opportunità che le risoluzioni oggetto del voto nelle due diverse sedute delle Commissioni del Senato e della Camera siano le stesse. Per quanto riguarda l'emendabilità delle risoluzioni la prassi ammette il ricorso a riformulazioni dei testi. Questa è la consuetudine in evenienze del genere.
Invito ora i ministri Parisi e D'Alema ad una replica.
ARTURO PARISI, Ministro della difesa. Svolgerò una breve considerazione conclusiva per la quale il termine replica è, per così dire, troppo impegnativo.
Dal momento che questo è stato un punto attorno al quale, in parte, è ruotato il dibattito, non ho difficoltà a ripetere che la missione che si prospetta è indefinita e potenzialmente lunga, perché impegnativo è lo stesso obiettivo che si propone, cioè una pace stabile nell'area a difesa di Israele, Libano e Palestina. Sarà una missione inevitabilmente costosa, che presenta alcuni elementi di rischio e che perciò, nel suo insieme, sarà impegnativa. Questo è quanto ho affermato. Non posso non chiedermi che cosa sarebbe accaduto se avessi sottaciuto questi aspetti o addirittura li avessi sottovalutati, considerandola breve, poco costosa e, per così dire, tranquilla o non particolarmente impegnativa.
Ho agito in questo modo per alcune semplici ragioni. Innanzitutto, non avrei potuto non raccogliere questi interrogativi, che attraversano il Paese al di là del rispetto dei confini di parte. In secondo luogo, mi sembra doveroso per il Governo, per ogni Governo, nel momento in cui si avvia una missione militare, proporla alla più ampia condivisione pur muovendo da una ispirazione precisa. Abbiamo affermato e ripetiamo, infatti, che i problemi di politica estera, pur impegnando la maggioranza che, inevitabilmente, deve dare conto della propria capacità di affrontare i problemi di Governo (e i problemi di politica estera sono problemi di prima classe per un Esecutivo), devono essere proposti anche alla condivisione dell'opposizione. D'altra parte, a questa impostazione, a questa ispirazione si è riferito anche il presidente Prodi nel momento in cui, formulando e approfondendo questi temi, ha avvertito la necessità e, direi, il dovere istituzionale di confrontarsi in tempo reale con il capo dell'opposizione, il presidente Berlusconi.
Naturalmente ho aggiunto anche che questa missione è doverosa; lo ripeto, doverosa. Avrei potuto dire: «doverosa e tuttavia...»; invece, ho affermato, concretamente, il contrario. È doverosa e - consentitemi di affermare - in questo caso anche giusta. Esiste, infatti, anche la categoria della giustezza e della giustizia, in base non ai nostri riferimenti particolari, ma all'unico criterio di giustizia che possiamo condividere, cioè la Costituzione. L'articolo 11 della Carta fondamentale, infatti, non è un riferimento strumentale, quasi che questa norma sia una bandierina di parte. L'articolo 11 della Costituzione, come tutti gli altri articoli, fa riferimento al patto costituente sul quale si fonda la Repubblica e presiede al tema della difesa, evidentemente. Questo è il motivo.
Una volta affermato che la missione è doverosa, devo anche affermare che è immediatamente urgente. Questo è il punto: urgente. Su tale urgenza credo debba essere fondata la necessità di queste comunicazioni del Governo alle Commissioni riunite. Ho ascoltato domande con le quali si chiedeva per quale motivo siano state convocate le Commissioni quando
ancora sono in corso alcuni approfondimenti proprio sui temi che ho evidenziato. Ebbene, questi temi sono di grande rilievo. Da questo punto di vista, vi prego di considerare la cosiddetta «risoluzione Ruffino», approvata nel gennaio 2001 dalla IV Commissione dalla Camera dei deputati, con la quale si è definito il procedimento decisionale che consente il coinvolgimento dei massimi poteri dello Stato - Governo, Presidente della Repubblica e Parlamento - nell'assunzione delle determinazioni inerenti l'impiego delle Forze armate.
Nella risoluzione, che ha raccolto il consenso di tutte le parti politiche, è stata registrata una sequenza particolare in virtù della quale è richiesto al Governo, in base ad uno schema ben scandito, di informare e coinvolgere immediatamente il Parlamento commisuratamente all'urgenza del tema oggetto delle sue determinazioni. La sequenza prevede che l'Esecutivo, dopo avere informato il Presidente della Repubblica - cosa che è avvenuta e che è stata registrata dalle cronache pubbliche -, adotti le deliberazioni in ordine alla partecipazione alle missioni e ne informi entrambe le Camere, o anche una sola di esse, oppure le competenti Commissioni parlamentari, nel regime di autonomia costituzionale previsto dalla Costituzione per gli organi parlamentari. Sulla base delle comunicazioni del Governo relative all'andamento della crisi ed alle iniziative intraprese, il Parlamento approva, in tempi compatibili con l'adempimento dei previsti impegni internazionali, le determinazioni da questi assunte. Questo è il motivo dell'urgenza, che nasce non da problemi politici, ma da problemi che noi deduciamo dallo svolgersi della situazione.
Abbiamo sentito il dovere, perciò, di darne informazione in tempo reale e di chiedere la convocazione del Parlamento nella forma più ampia possibile e più immediatamente disponibile. La «risoluzione Ruffino» prevede, altresì, che il Governo, acquisita la posizione del Parlamento, possa emanare un decreto-legge per indicare la copertura finanziaria ed amministrativa delle misure deliberate o presentare alle Camere un disegno di legge di analogo contenuto. Successivamente, è previsto che il ministro della difesa attui le deliberazioni adottate dal Governo, impartendo le necessarie direttive al capo di stato maggiore della difesa.
Questa è la sequenza condivisa per evitare che, di fronte a situazioni di urgenza, le Forze armate si trovino coinvolte in procedure e determinazioni che non siano state precedute da un confronto in sede parlamentare. Questo, e solo questo, è il motivo che ha indotto il Governo ad accelerare. Noi speravamo - lo dico in nome della permessa - di disporre, già al momento di questa convocazione delle Commissioni riunite, di tutti gli elementi che inevitabilmente sono destinati a ricadere nell'ambito dello strumento legislativo, che si tratti di decreto-legge o di disegno di legge. Al momento, il dovere che incombe sul Governo e che si impone, in una materia che necessita di un confronto il più ampio possibile, è quello di rendere una informativa sul fatto che lo svolgimento degli eventi non rende ancora disponibili tutti gli elementi necessari.
Tuttavia, nel momento in cui siamo stati coinvolti in una dinamica d'urgenza, abbiamo dato corso alla convocazione delle Commissioni ed al confronto, svolto con una riflessione aperta che muove dal riconoscimento di alcuni problemi che collochiamo a valle del «sì». È questo il problema dell'urgenza. Immaginiamo...
ALFREDO BIONDI. Prima il conoscere...
ARTURO PARISI, Ministro della difesa. No. Certo, vi è il conoscere per deliberare, ma vi sono vari tipi di «conoscere». Vi sono vari livelli di conoscenza, ognuno dei quali comporta delle decisioni.
Voi immaginate che la tregua sarebbe stata possibile senza la risoluzione? Noi possiamo non chiederci cosa succederebbe se per caso la dinamica di iniziativa di sostegno della tregua venisse meno sul campo? Sarebbe ininfluente? Per questo motivo, in questo contesto, sentiamo il
dovere di proporci attivamente per sollecitare su tutti e quattro i punti identificati (lo ripeto: interpretazione del mandato, regole di ingaggio, catena di comando e partecipazione alla forza), in modo tale che la dinamica che si è messa in moto non si arresti, poiché è questo ciò che potrebbe avvenire.
Il Governo sente il dovere di proporre al Parlamento nella sua massima estensione un tema che avverte come una questione nazionale legata alla pace, in un contesto in cui l'interesse nazionale e quello della pace nel mondo sembrano coincidere. È questo il senso di tale iniziativa e dell'urgenza che la alimenta, e allo stesso tempo è il senso della trasparente dichiarazione che riconosce l'esistenza dei problemi, a valle del riconoscimento della doverosità di una iniziativa, che è giusta e fondata nel patto costituzionale che guida la nostra nazione, ovverosia l'articolo 11 della Costituzione.
MASSIMO D'ALEMA, Ministro degli affari esteri. Credo che utilmente il collega Parisi abbia spiegato che non intendevamo chiedere al Parlamento un mandato in bianco. La procedura alla quale ci siamo attenuti, che, peraltro, è stata decisa dal Parlamento, e che è stata seguita anche nel corso della precedente legislatura in occasione dell'invio di forze armate italiane in Iraq e in Afghanistan, prevede che vi sia una informazione delle Commissioni nel corso della crisi, informativa nella quale abbiamo portato le informazioni di cui siamo sin qui portatori, e che il Parlamento autorizzi il Governo con un voto a proseguire anche negli atti preparatori della missione, salvo ovviamente la libertà del Parlamento di deliberare nel momento in cui, doverosamente, il Governo presenterà al Parlamento la proposta formale che prevederà il numero dei militari, le regole d'ingaggio, i mezzi e i costi.
In sostanza, vorrei essere chiaro, da parte nostra non vi è alcuna volontà di avere una delega in bianco, ma - se volete - vi è un passaggio in più dal punto di vista del coinvolgimento democratico che nulla toglie al potere del Parlamento di deliberare successivamente sulla decisione formale assunta dal Governo.
Siccome il Governo - lo ripeto - è in questo momento già impegnato in atti preparatori - noi partecipiamo, a New York, alle riunioni dei paesi contributori (o potenziali contributori), e lo facciamo sulla base di una volontà politica che ancora non si è tradotta in una decisione; altrimenti, se non avessimo questa volontà politica, non verremmo chiamati a discutere di regole d'ingaggio e di altro -, ci siamo attenuti ad una procedura democratica che prevede due passaggi: quello preliminare, di governo e parlamentare, e quello poi della decisione, di governo e parlamentare.
Quindi, l'avallo del Parlamento, che noi chiediamo, non pregiudica in alcun modo il diritto-dovere del Parlamento di pronunciarsi in seguito sulla missione. Lo chiarisco a quei colleghi che hanno detto «volete un mandato in bianco», a cui spiego che noi non vogliamo un mandato in bianco. Abbiamo semplicemente inteso coinvolgere il Parlamento in una fase preparatoria che noi speriamo possa concludersi al più presto.
Il rapporto da New York sulla prima riunione dei paesi potenziali contributori, che si è svolto - lo ripeto - ieri sera, a partire dalle 21 (ora italiana), è abbastanza confortante (la riunione riprenderà oggi tra alcune ore, a New York), sia dal punto di vista del numero di paesi (la Danimarca, il Belgio, la Spagna, la Grecia, il Portogallo), che si va allargando con diverse disponibilità di partecipazione (come la presenza di forze marittime e aree della Germania) - mi riferisco ai paesi europei, ma vi sono poi paesi extraeuropei, come Bangladesh, Malaysia, Indonesia, Nepal, Marocco, dunque vi è un certo numero di paesi, compreso forse qualche paese arabo -, sia con riferimento alla insistenza delle Nazioni Unite circa la necessità che entro fine mese almeno una entry force di 3.500 uomini arrivi in loco. Ciò al fine di rafforzare l'azione che è già in corso da parte delle forze armate libanesi di presidio del sud del paese per
completare ciò che è stato deciso con la risoluzione (il ritiro delle forze israeliane e altro).
Da qui nasce l'urgenza. Naturalmente, non possiamo determinare i tempi di questa urgenza in modo unilaterale, ma la disponibilità italiana concorrerà con quella di altri paesi ad accelerare - speriamo - l'attuazione della risoluzione.
Detto questo, affinché non vi siano equivoci sul fatto che il Parlamento è libero e valuterà poi il provvedimento, e lo voterà sulla base di un dettaglio che oggi non siamo in grado di fornire - il Governo infatti può solo prendere un impegno politico - è evidente anche che questi dettagli sono tutt'altro che irrilevanti: regole d'ingaggio, precisazione del mandato, dimensioni dell'impegno. Noi stessi siamo ben consapevoli che non si tratti di dettagli, bensì di aspetti importanti delle decisioni che verranno assunte.
Venendo al piano più propriamente politico, vorrei innanzitutto rispondere ad una osservazione di fondo fatta dall'onorevole Mellano, rinviando all'intenso dibattito parlamentare da noi affrontato su questi temi. Si potrà poi giudicare i contenuti dell'azione di governo come si vuole, ma dal punto di vista del rapporto col Parlamento ricordo (e da più parti anche dall'opposizione - vi ringrazio - ce ne viene dato atto) il dibattito nell'aula di Montecitorio, e due discussioni nelle Commissioni riunite. Perciò, circa il fatto che all'origine di questo conflitto vi sia stato l'attacco di Hezbollah ad una posizione di frontiera israeliana, e circa il fatto che l'azione di Hezbollah vada collocata nel quadro di una crisi mediorientale che coinvolge responsabilità della Siria, dell'Iran ed altro, rinvio agli atti parlamentari, poiché, per quanto riguarda i miei discorsi, lei troverà lì un'analisi dettagliata di questi aspetti.
Oggi, noi qui non siamo a ricostruire la storia, siamo nel vivo di un dibattito che fra Governo e Parlamento è stato costante in queste settimane di crisi e che ci ha visto più volte impegnati; vi è dunque è una storia alla quale intendo richiamarmi.
Naturalmente, su ciò si sono registrate anche posizioni diverse. Pur nel mettere in luce tali responsabilità, il Governo ha inteso, peraltro in coerenza con le posizioni europee, anche criticare una reazione israeliana che abbiamo giudicato sproporzionata e non determinata nei suoi obiettivi, come poi è apparso chiaro dagli sviluppi successivi, tant'è vero che quella reazione è oggi sottoposta ad una riflessione critica anche in Israele. Naturalmente, ognuno è libero di avere le sue opinioni ma questo è stato il giudizio del Governo, una chiara individuazione di responsabilità seguita da una critica per il carattere sproporzionato e rischioso della reazione israeliana, nonché da un impegno per porre fine al conflitto, sulle basi che poi abbiamo ritrovato nella risoluzione del Consiglio di sicurezza.
Vorrei a tale riguardo ricordare che la trama della risoluzione del Consiglio di sicurezza è contenuta nella dichiarazione conclusiva della Conferenza di Roma; lo dico perché la diplomazia italiana, pur non essendo noi membri del Consiglio, ha certamente dato un contributo al raggiungimento di tale conclusione. Se si legge quel testo, infatti, si nota che contiene già la trama della risoluzione del Consiglio di sicurezza.
Detto ciò, occorre guardare al futuro. Siamo in Parlamento e non voglio certo portare una polemica di carattere giornalistico. Quando il 14 agosto scorso sono stato a Beirut ho deciso di accogliere l'invito del mio collega, il ministro degli esteri libanese, a visitare Beirut sud. Ero consapevole che si trattava di una decisione rischiosa ma ritenevo fosse giusta - e tuttora ritengo lo sia stata -, anche per trasmettere un messaggio di solidarietà ad un paese colpito tragicamente dalla guerra. D'altro canto, quando ero stato in Israele nel corso del conflitto ho incontrato - non so quanti ministri lo abbiano fatto - anche i familiari di uno dei militari israeliani rapiti e non ho mancato, in diverse manifestazioni, anche pubbliche, di esprimere la solidarietà alle vittime israeliane. Peraltro, ho voluto incontrare i rappresentanti degli ebrei italiani che vivono
in Galilea per raccogliere la loro testimonianza delle condizioni drammatiche di quei giorni ed esprimere loro la solidarietà del Governo italiano, nonché gli impegni di sostegno e di aiuto.
Chiaramente, sarebbe problematico dire che a Beirut sud si sia fatta una passeggiata, nel senso che la zona era duramente colpita da bombardamenti finiti da circa tre ore. Si era perciò in un contesto estremamente complesso nel quale, forse, non era neppure facilissimo operare la selezione delle persone che ti si stringevano intorno, a mio giudizio, soprattutto con la volontà di proteggermi, in una situazione in cui, al di là delle macerie, vi era una folla di persone disperate, che frugava tra le rovine alla ricerca di corpi o di ciò che restava delle loro case. Quindi, in un contesto così drammatico, certamente mi si sono fatti incontro il ministro degli esteri, i suoi collaboratori e forse - è probabile - deputati di Hezbollah, nonché deputati di altri gruppi. Ciò è sicuro ed era nel conto; ma, misurando costi e benefici - il costo di una fotografia che può avere irritato o ferito ed i benefici di un atto di solidarietà che è parso messaggio molto forte ad una popolazione colpita - ritengo di avere agito bene. Mi prendo le mie responsabilità e ritengo di avere agito in modo positivo; penso anche di avere interpretato sentimenti molto diffusi nel nostro paese. D'altro canto, in politica ciascuno deve assumersi dei rischi; giudicheranno poi gli elettori.
Successivamente, abbiamo incontrato il Governo libanese; dopo un colloquio avuto con il Primo ministro, quest'ultimo, con un suo atto, ha inteso invitare l'intero Governo, e quindi i ministri di tutti i gruppi e di tutte le fazioni. Il senso di tale atto a mio giudizio era inequivoco e positivo: Siniora voleva testimoniare - nel caso concreto a me, ma simbolicamente all'intera comunità internazionale - la volontà dell'intero Governo libanese (e forse voleva lui stesso assicurarsi di ciò ) di rispettare la risoluzione n. 1701. Tanto ciò è vero che mi ha detto: ecco, qui è presente tutto il Governo libanese. E tutti i ministri hanno detto di voler applicare la risoluzione.
È chiaro il significato di tale gesto. Se non ho incontrato i singoli movimenti, è perché sinceramente mi sembrava alquanto curioso che nel momento in cui il Primo ministro mi aveva detto di volermi fare incontrare tutto il Governo libanese io mi sottraessi per andare via. Quindi, vorrei si comprendesse il senso di una visita che, naturalmente con queste controindicazioni, a mio giudizio ha rappresentato un momento fortemente positivo, utile alla preparazione di una missione internazionale in quel delicato Paese. D'altro canto, la visita, pur avendo suscitato qualche polemica in casa nostra, ha riscosso unanime apprezzamento in seno alla comunità internazionale, anche da parte dei nostri alleati, compresi ovviamente gli americani, con i quali abbiamo lavorato in stretta collaborazione. È un po' curioso essere accusati di pericolose politiche antiamericane e ricevere, come qualche giorno è capitato a Prodi, una calorosa telefonata di ringraziamento del Presidente Bush. Invero, il fatto che alcuni paesi si assumano la responsabilità di inviare uomini sul posto per cercare di uscire da una situazione così drammatica è un'impresa, come ha detto il ministro Parisi, certo rischiosa ma apprezzata in seno alla comunità internazionale.
Detto ciò, ritengo che continueremo a discutere, al di là di questo passaggio parlamentare, delle prospettive politiche in modo più ampio. Considero importante la proposta di cui si è fatto portatore l'onorevole Fassino di lavorare per una conferenza internazionale per il Medio Oriente. È evidente che anche la crisi israelo-libanese potrà trovare la soluzione nel quadro di un processo di pace che rimetta in campo tutte le forze e che consenta di fare visibili passi in avanti in tutto lo scacchiere mediorientale.
Ritengo che questo sia il modo migliore di sconfiggere il terrorismo, di isolarlo, di togliere il sostegno di una base di massa e di restituire alle popolazioni di quella
regione del mondo la speranza nelle istituzioni internazionali, nella pace, nella logica del negoziato, e via dicendo.
Dopo avere sperimentato in questi anni la via della guerra unilaterale e l'illusione che la democrazia avrebbe fatto crollare tutte le dittature e diffuso pace, serenità e quant'altro, è forse il momento di sperimentare la via di un impegno delle Nazioni Unite, di un impegno più unitario dell'Europa e di un processo che, peraltro, non esclude l'uso della forza. Infatti, l'uso della forza non può essere escluso, neanche nella missione in esame; è evidente che la missione dovrà essere in grado di rispondere anche con la forza ad atti di violenza, ad aggressioni e a minacce che possano manifestarsi. Ma la vera questione è se, alla guida di questi processi, torni a porsi la politica, in un contesto che esalti il ruolo delle istituzioni multilaterali e l'unità dell'Europa. Peraltro, al di là di tutte le considerazioni, vi è stato il mutare delle condizioni; sinceramente, sarebbe sciocco pensare che il Governo italiano adesso ha mutato la situazione.
Sono invece mutate le condizioni. Se oggi l'Amministrazione americana si rivolge all'ONU anziché esaltare l'azione unilaterale - anziché teorizzare la fine dell'ONU, come scrisse Richard Perle il giorno in cui cadeva Baghdad: «Finalmente ci siamo sbarazzati delle Nazioni Unite» -, è anche perché la dura lezione dell'Iraq ha insegnato all'Amministrazione americana che, forse, quella visione dei rapporti internazionali non era produttiva di risultati positivi. È dunque mutata la situazione.
Ad ogni modo, oggi esistono le seguenti circostanze: torna in campo come protagonista l'ONU; una risoluzione dell'ONU ferma una guerra, un atto molto importante per chi crede nella legalità internazionale; l'Europa è un po' più unita. In questo contesto, l'Italia può giocare un suo ruolo. Penso - ma è un'opinione che naturalmente può essere discussa - che in questo quadro la sicurezza di Israele possa essere meglio garantita.
Credo che l'inasprirsi di uno scontro, apparso in questi anni persino uno scontro di civiltà tra Occidente e mondo islamico, abbia reso la situazione di Israele molto più critica. La novità del conflitto è che non si tratta del conflitto arabo-israeliano o israeliano-palestinese. Il rischio è che Israele venga considerato come l'avamposto dell'Occidente in una guerra di civiltà contro l'Islam, il che sarebbe, a mio giudizio, un fattore drammatico di accresciuta insicurezza per Israele.
Disinnescare tali rischi, tornare alla ricerca di una soluzione dei conflitti sulla base della loro natura (il Libano, i confini dell'armistizio del '49, la questione palestinese) credo sia il modo migliore, con una presenza internazionale nell'area, anche di garantire la sicurezza di Israele favorendo una riflessione politica. Questo Governo israeliano è nato per fare la pace e si è trovato in mezzo alla guerra: un nuovo Governo appena costituito si è trovato in mezzo ad un drammatico conflitto. Noi - e mi riferisco alla comunità internazionale - dobbiamo aiutare questo Governo a ritrovare la via della sua ispirazione: hanno chiesto i voti per fare la pace. Credo che oggi possano esservi le condizioni, o almeno le speranze, per fare ciò. Il Medio Oriente ci ha abituato a molte delusioni. Però, lasciate almeno che in questo momento si possano alimentare le speranze. Questo è il senso dell'iniziativa che proponiamo al Parlamento.
PRESIDENTE. È così esaurito lo svolgimento delle comunicazioni del Governo sugli sviluppi della situazione in Medio Oriente e sul seguito della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 1701 presso le Commissioni riunite Esteri e Difesa della Camera e del Senato. Dichiaro conclusa la seduta.
La seduta termina alle 14,10.
GIORGIO CARTA. Onorevoli Presidenti, signori Ministri, onorevoli colleghi, il
Partito socialista democratico italiano ritiene indispensabile che del contingente ONU in partenza per il Libano faccia parte anche un attrezzato reparto di militari italiani.
Il credito internazionale acquisito con la conferenza di Roma del 26 luglio ultimo scorso di cui l'Italia si è fatta promotrice ha come logica conseguenza un impegno concreto nella missione di pace.
L'Italia non può peraltro limitarsi ad un intervento occasionale, ma porsi come elemento propulsivo per la definizione di un assetto equo e definitivo della sicurezza e della pacificazione di tutte le popolazioni stanziate in quella burrascosa regione.
Noi guardiamo con preoccupazione questa missione sotto il profilo delle regole di ingaggio, dei partecipanti, del comando, problema quest'ultimo non irrilevante, anche per evitare certe ambiguità che in passato hanno dato luogo ad assensi con riserva mentale o disimpegni ispirati da visioni partigiane e preconcette nelle scelte di politica estera.
La missione di pace in esame è frutto di un fragilissimo compromesso culminato con la risoluzione n. 1701 dell'ONU nell'intento di far tacere al più presto le armi. Ciò nondimeno rappresenta l'unico ancoraggio su cui si possono, anzi si devono porre la basi per sciogliere i nodi che fino ad oggi hanno impedito l'instaurarsi di una pace vera e duratura.
Il Ministro degli esteri, a nostro parere, si è mosso con perizia e prudente determinazione, chiarendo sin dall'inizio che non spetta al contingente di pace e tanto meno alla sua componente italiana, il compito di disarmare Hezbollah rimarcando che tale compito, oggetto peraltro pregiudiziale per l'accettazione da parte di Israele della risoluzione ONU, spetti al governo sovrano di Beirut.
Ma non sfugge a nessuno che tale compito, al di là del dichiarato impegno del governo libanese, sarà di difficile attuazione, se contemporaneamente non si risolverà il conflitto israelo-palestinese e se non seguirà una profonda analisi sui rapporti tra i vari stati mediorientale, con particolare attenzione alla Siria e all'Iran.
Questi ultimi che rivendicano oggi a gran voce la loro grande vittoria contro il presunto disegno imperialistico israelo-americano per un diverso assetto nello scacchiere mediorientale e difficilmente acconsentiranno al disarmo Hezbollah.
Ecco perché bisogna essere consapevoli che, pur essendo impegnati in una missione di pace, i nostri soldati potrebbero essere costretti a difendersi da aggressioni militari o da provocazioni esterne di matrice terroristica.
La circostanza che per la prima volta Israele ha accettato una risoluzione che prevede ai propri confini la presenza di una forza militare internazionale ci aiuta a comprendere l'attuale dibattito politico all'interno del governo israeliano sui costi e benefici - soprattutto morali ed umani - di un'azione militare che, seppur inizialmente legittimata dall' aggressione degli Hezbollah, non ha poi sortito i risultati sperati né sul piano militare né tanto meno su quello politico.
Bisogna a questo punto chiedersi quali possano essere gli sviluppi di una così delicata situazione. Preoccupa la debolezza del governo libanese che sarà probabilmente costretto, non riuscendo ad esercitare appieno la propria sovranità, ad inglobare le milizie nell'esercito regolare.
Ciò creerebbe un reale pericolo per la forza multinazionale tenuto conto della influenza che potrebbero esercitare Siria ed Iran che hanno di fatto respinto la risoluzione ONU.
Le regole di ingaggio dei nostri militari in partenza per il Libano devono pertanto essere molto chiare e tenere conto della specificità dello scenario ora descritto.
Mi consenta altresì, signor Ministro, di evidenziare come anche in questa vicenda si sia ulteriormente palesata la debolezza politica dell'Europa. L'assenza di una politica estera e di un apparato di difesa comuni nonché gli interessi di singoli paesi nel delicato campo delle fonti energetiche impediscono all'Europa di avere un denominatore comune nelle scelte strategiche per esercitare una politica capace di pacificare una regione cruciale per la pace nel mondo.
Crediamo che bene faccia il Ministro D'Alema a coinvolgere i paesi arabi nella soluzione non solo dei problemi del Libano, ma anche a presupporre analoghe ipotesi di lavoro per Gaza, significando ad Israele ed USA che la vera sicurezza di Israele, scelta irrinunciabile della politica italiana, passa per una pace equa e rispettosa di tutti i popoli stanziati nel medio oriente.
In questo quadro è sempre più urgente attivare le diplomazie colloquiando con tutte le parti interessate per giungere ad una pace duratura e soprattutto condivisa anziché imposta.
Non spetta a me di fare il difensore d'ufficio del Ministro degli esteri, ma in tale contesto, pretestuose e strumentali mi paiono essere le critiche rivolte all'onorevole D'Alema per aver interloquito anche con esponenti Hezbollah, che ricoprono peraltro incarichi istituzionali nel proprio paese, e per le dichiarazioni rilasciate su tutta la vicenda perché non mi pare abbia mai confuso il ruolo degli aggressori e degli aggrediti o che abbia messo in discussione il sacrosanto diritto di Israele di esistere e di difendersi.
Per tutte queste considerazioni, seppur fortemente preoccupati per i rischi insiti in questa delicata missione, il gruppo dell'Ulivo voterà a favore della partecipazione al contingente di pace nel Libano.