PDL 623

FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1
                        Articolo 2

XIX LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 623

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
VIETRI, AMICH, CANGIANO, CERRETO, CHIESA, CIABURRO, IAIA, LA PORTA, LONGI, MAIORANO, MICHELOTTI, TREMAGLIA

Modifiche agli articoli 61 del codice penale e 191 del codice di procedura penale in materia di introduzione della circostanza aggravante comune della tortura

Presentata il 23 novembre 2022

torna su

Onorevoli Colleghi! – Il divieto di tortura è sancito da numerosi strumenti internazionali in materia di protezione dei diritti umani, che mancano però di darne una definizione puntuale: dall'articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, all'articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici; dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (articolo 3), alla Convenzione americana dei diritti dell'uomo (articolo 5), alla Convenzione africana dei diritti dell'uomo e dei popoli (articolo 3).
A colmare tale vulnus è intervenuta nel 1975 una Dichiarazione delle Nazioni Unite, cui ha fatto seguito la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (CAT), adottata il 10 dicembre 1984 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha definito chiaramente la tortura, obbligando gli Stati contraenti ad adottare una serie di provvedimenti adeguati per assicurare la prevenzione e la lotta contro le torture e per proteggere l'integrità fisica e spirituale delle persone private della loro libertà.
In particolare, l'articolo 1 della CAT definisce il termine «tortura» come «qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acuti, fisici o psichici, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate».
Per la Repubblica italiana la Convenzione ha efficacia dall'11 febbraio 1989, ma la concreta attuazione della Convenzione è avvenuta solo con la legge 14 luglio 2017, n. 110, recante «Introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano», con cui sono stati inseriti nel codice penale gli articoli 613-bis (Tortura) e 613-ter (Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura), poiché il legislatore negli anni aveva ritenuto, con pertinenti motivazioni, che il codice Rocco, nel prevedere aggravanti specifiche per i pubblici ufficiali, coprisse adeguatamente ogni condotta criminosa.
Il testo dell'articolo 613-bis del codice penale afferma, ai primi tre commi, quanto segue: «Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.
Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti».
Tale intervento legislativo risulta contraddittorio rispetto allo scopo che si prefiggeva e, peraltro, non adempie correttamente, a parere della prima firmataria della presente proposta di legge, agli obblighi internazionali.
In primo luogo, la fattispecie di reato disciplinata dall'articolo 613-bis risulta essere prima facie profondamente divergente rispetto a quella adottata dalla CAT e delineata dalla giurisprudenza internazionale.
Diversi sono, infatti, i profili di più evidente contrasto: la CAT disegna il divieto configurando un reato proprio, che richiede il coinvolgimento di un soggetto in possesso di una qualifica pubblicistica; l'inflizione di forte dolore rientra nella nozione di tortura se gli atti sono compiuti da un pubblico funzionario o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Il disvalore specifico della tortura risiede nel fatto che le sofferenze sono inflitte a persone in stato di impotenza da parte di un funzionario pubblico che le dovrebbe invece tutelare. Il raggio di applicazione della CAT è, quindi, limitato alle condotte imputabili a coloro che agiscono a titolo ufficiale e che in ragione delle loro funzioni abbiano una condizione di supremazia nei confronti di soggetti in stato di impotenza o che si trovino in contesti di custodia o controllo.
L'articolo 613-bis, primo comma, del codice penale prevede, invece, un reato comune, dato che l'autore del delitto di tortura può essere chiunque, anche se al secondo comma si prevedono pene più severe qualora l'agente sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio che commette il fatto con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla sua funzione o al servizio. La struttura della norma non permette tra l'altro di stabilire con chiarezza se la figura tipizzata al secondo comma abbia natura circostanziale o sia una fattispecie autonoma di reato, creando notevoli difficoltà applicative – anche in relazione al possibile bilanciamento di circostanze – che la giurisprudenza si troverà a dover affrontare.
La CAT, poi, delinea un delitto di evento a forma libera, lasciando libera la modalità di estrinsecazione della condotta offensiva e centrando il contenuto tipico del reato nell'evento naturalistico del forte dolore procurato alla vittima.
La lettera dell'articolo 613-bis del codice penale consacra, invece, un reato di evento a forma vincolata, in cui la condotta si articola in tre modalità alternative: le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico (cioè i due eventi alternativi) possono essere cagionati tramite violenze gravi o minacce gravi, oppure agendo con crudeltà. Se la ratio sottesa all'utilizzo del plurale risiede nella necessità di evitare l'esposizione delle Forze dell'ordine a denunce pretestuose, la terza modalità di condotta, che consente la punibilità di torture consistenti in azioni commesse con crudeltà che «comportano un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona», si fonda, in particolare, sul parametro della crudeltà, troppo vago e indefinito e che non può interpretarsi ricorrendo al concetto dell'aggravante di crudeltà ai sensi dell'articolo 61 del codice penale, perché in questo caso essa non rappresenta un quid pluris che connota un'attività già di per sé illecita, bensì fonda essa stessa l'antigiuridicità del comportamento e potrebbe esporre le Forze dell'ordine a denunce pretestuose.
La CAT circoscrive, inoltre, le condotte costituenti tortura a quelle caratterizzate dal dolo specifico, attuate per raggiungere le finalità di ottenere informazioni o confessioni, punire, intimidire, discriminare. In quest'ottica, il carattere che le accomuna è stato identificato nel loro nesso con interessi o politiche tipicamente facenti capo alle autorità statali. Secondo i commentatori più autorevoli della Convenzione ciò che distinguerebbe la tortura, oltre alla speciale intensità del dolore, è l'elemento finalistico che deve informare la condotta (il dolo specifico) e la condizione di impotenza della vittima, di talché di tortura potrebbe parlarsi solo quando il soggetto passivo si trova sotto il controllo dell'aggressore in uno stato di privazione della libertà personale.
Non rientrerebbero nella nozione di tortura i trattamenti che, pur procurando forti dolori alla vittima, risultano in ultima analisi «giustificati» dallo scopo lecito preso di mira dall'agente. Tra queste condotte rientrerebbero senz'altro le violenze compiute nell'ambito di operazioni militari, di polizia giudiziaria o penitenziaria oppure di ordine pubblico, fermo restando il dovuto rispetto del principio di proporzionalità. In questi casi, qualora si ravvisasse un eccesso nell'uso della forza, l'agente di polizia o il militare che avesse agito per fini diversi da quelli di cui all'articolo 1 della CAT dovrebbe rispondere non di tortura, bensì di trattamenti inumani o degradanti, sempre che gli stessi costituiscano illeciti penali nel sistema giuridico di riferimento. L'infamante accusa di tortura rimarrebbe così confinata ai casi in cui la vittima si trovi in stato di completa dipendenza o asservimento all'aggressore, essendo la sua sfera di libertà alla mercé di quest'ultimo in modo simile alle situazioni di schiavitù.
Il nostro legislatore, optando per una figura criminosa contrassegnata dal dolo generico, ha, di fatto, eliminato il tratto distintivo della tortura rispetto agli altri maltrattamenti rendendo concreto il rischio, paventato anche dai rappresentanti delle Forze di polizia, di vedere applicata la disposizione nei casi di sofferenze provocate durante operazioni lecite di ordine pubblico e di polizia.
Questa possibilità è purtroppo tangibile, anche perché l'articolo 613-bis, primo comma, del codice penale prevede, ai fini della configurabilità del delitto di tortura, che la condotta deve essere rivolta a una persona che si trovi in condizioni di minorata difesa, cioè nei confronti di un soggetto che per condizioni di luogo, di tempo o di persona sia fragile e vulnerabile e non possa agevolmente difendersi; condizioni sfruttate consapevolmente da parte del reo. Questa caratteristica potrebbe riscontrarsi anche durante le operazioni di ordine pubblico o di polizia giudiziaria non implicanti, di per sé, una privazione della libertà personale, qualora si attuino in un contesto di significativa vulnerabilità e impotenza della vittima, ponendo alcuni rischi di eccessiva penalizzazione del legittimo operato delle Forze di polizia.
Un ulteriore rilievo critico all'articolo 613-bis del codice penale è rappresentato dall'inopportuna fusione in un'unica fattispecie di reato delle figure criminose di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, da sempre considerate, sul piano internazionale, figure distinte, meritevoli di considerazione differenziata e generatrici di obblighi non coincidenti.
I trattamenti crudeli, inumani e degradanti che non integrano la definizione di tortura, infatti, pur oggetto del medesimo divieto assoluto, non sono accompagnati da uno specifico obbligo di incriminazione, né da tutti gli altri vincoli preventivi o repressivi aventi implicazioni penalistiche. Sottoporre la generalità delle condotte integranti due illeciti aventi un'offensività ben diversa al medesimo rigoroso trattamento sanzionatorio e all'eguale carica stigmatizzante del nomen tortura appare una scelta né ragionevole né imposta dai vincoli internazionali.
Il Comitato CAT e la Corte europea dei diritti dell'uomo hanno in molte occasioni qualificato come trattamenti inumani, e non come tortura, gli eccessi nell'uso della forza da parte degli agenti di polizia nel corso di manifestazioni o altre operazioni di ordine pubblico.
Se l'intento del legislatore era di scongiurare il rischio di indebita penalizzazione dell'operato della polizia, sarebbe stato sufficiente adottare la nozione di tortura sancita dalla CAT – in particolare, la sua incontestabilmente elevata soglia di sofferenza e il dolo specifico –, relegando, eventualmente, gli altri maltrattamenti a una fattispecie di diversa fattura.
Da quanto esposto risulta chiaramente che la nuova figura di reato di cui all'articolo 613-bis del codice penale, oltre a non essere conforme al dettato internazionale, risulta in aperto contrasto con i princìpi di tipicità, tassatività e determinatezza, poiché rende estremamente difficile la tipizzazione della condotta costituente tortura e la sua chiara distinzione sia rispetto ad altre condotte, che seppure infamanti e di particolare gravità non possono assolutamente sussistere nella tortura, configurando reati meno gravi (violenza o minaccia), sia rispetto a condotte costrittive ma legittime.
L'incertezza applicativa in cui è lasciato l'interprete potrebbe comportare la pericolosa attrazione nella nuova fattispecie penale di tutte le condotte dei soggetti preposti all'applicazione della legge, in particolare del personale delle Forze di polizia che per l'esercizio delle proprie funzioni è autorizzato a ricorrere legittimamente anche a mezzi di coazione fisica, come previsto tra l'altro dalla clausola di giustificazione di cui all'articolo 53 del codice penale.
Potrebbero finire nelle maglie del reato in esame comportamenti chiaramente estranei al suo ambito d'applicazione classico, tra cui un rigoroso uso della forza da parte della polizia durante un arresto o in operazioni di ordine pubblico particolarmente delicate o la collocazione di un detenuto in una cella sovraffollata. Ad esempio, gli appartenenti alla polizia penitenziaria rischierebbero quotidianamente denunce per tale reato a causa delle condizioni di invivibilità delle carceri e della mancanza di spazi detentivi, con conseguenze penali molto gravi e totalmente sproporzionate.
Il rischio di subire denunce e processi strumentali potrebbe, inoltre, disincentivare e demotivare l'azione delle Forze dell'ordine, privando i soggetti preposti all'applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro, con conseguente arretramento dell'attività di prevenzione e repressione dei reati e uno scoraggiamento generalizzato dell'iniziativa delle Forze dell'ordine.
Infine, le pene previste per il reato sono chiaramente sproporzionate rispetto ai reati che puniscono nel codice attualmente tali condotte (percosse, lesioni, minaccia eccetera) e non giustificate dall'andamento della situazione criminale in Italia. Non risulta, infatti, che ci sia una recrudescenza di reati e di abusi in genere commessi da appartenenti alle Forze dell'ordine nell'esercizio della loro funzione tale da giustificare l'introduzione di un nuovo reato.
Alla luce di tali considerazioni, per tutelare adeguatamente l'onorabilità e l'immagine delle Forze di polizia, che ogni giorno si adoperano per garantire la sicurezza pubblica rischiando la loro stessa vita, e per evitare le pericolose deviazioni che l'applicazione delle nuove ipotesi di reato potrebbe determinare, la presente proposta di legge prevede l'introduzione di una nuova aggravante comune per dare attuazione agli obblighi internazionali discendenti dalla ratifica della CAT e la contestuale abrogazione delle fattispecie penali della tortura e dell'istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura di cui rispettivamente agli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale.
A tal proposito, si ricorda che la proibizione della tortura per mezzo di sanzioni penali adeguate alla gravità del fatto, sancita dall'articolo 4 della CAT, non impone di per sé l'introduzione di una figura autonoma di reato, ma solo che sia assicurata la punibilità, anche attraverso altre ipotesi delittuose, delle condotte individuate dall'articolo 1 della CAT, al di là del nomen iuris del reato in cui esse possono essere sussunte e della rigorosa consonanza tra gli elementi costitutivi delle fattispecie integrate e la terminologia utilizzata dal trattato.
L'ordinamento penale italiano contempla già una sufficiente «batteria di norme repressive»: percosse (articolo 581), lesioni personali (articolo 582), sequestro di persona (articolo 605), arresto illegale (articolo 606), indebita limitazione di libertà personale (articolo 607), abuso di autorità contro arrestati o detenuti (articolo 608), perquisizioni e ispezioni personali arbitrarie (articolo 609), violenza privata (articolo 610), minacce (articolo 612), stato di incapacità procurato mediante violenza (articolo 613). Si tratta di fattispecie penali che, unite alla nuova aggravante, andrebbero a comporre un'adeguata costellazione punitiva.
Infine, viene sostituito il comma 2-bis all'articolo 191 del codice di procedura penale, che stabilisce l'inutilizzabilità delle dichiarazioni o informazioni ottenute mediante il delitto di tortura salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale.

torna su

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Modifiche al codice penale)

1. All'articolo 61 del codice penale è aggiunto, in fine, il seguente numero:

«11-novies. l'avere commesso il fatto infliggendo a una persona dolore o sofferenze acuti, fisici o psichici, al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidire lei o una terza persona o di esercitare pressioni su di lei o su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito».

2. Gli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale sono abrogati.

Art. 2.
(Modifica all'articolo 191 del codice di procedura penale)

1. Il comma 2-bis dell'articolo 191 del codice di procedura penale è sostituito dal seguente:

«2-bis. Le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante un delitto aggravato ai sensi dell'articolo 61, numero 11-novies, del codice penale non sono comunque utilizzabili, salvo che contro le persone accusate del delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale».

torna su