PDL 312

FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1

XIX LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 312

PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

d'iniziativa delle deputate
SPORTIELLO, BALDINO

Modifiche all'articolo 117 della Costituzione, concernenti l'attribuzione allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della salute

Presentata il 13 ottobre 2022

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Onorevoli Colleghi! – In base all'articolo 32 della Costituzione la tutela della salute rappresenta uno dei compiti fondamentali dello Stato.
La protezione costituzionale del bene «salute» riguarda sia la sfera soggettiva, quale diritto fondamentale dell'individuo, affinché ciascuno sia messo nelle condizioni di condurre un'esistenza degna, sia la sua dimensione sovraindividuale, quale interesse della collettività.
Si tratta di un valore primario dell'ordinamento costituzionale e di un diritto sociale fondamentale che impegna la Repubblica a intervenire al fine di garantire la salute del singolo e della collettività.
Esso si concretizza, in primo luogo, nel diritto all'assistenza sanitaria, che pertanto è qualificabile come fondamentale.
Come affermato ripetutamente dalla Corte costituzionale, il diritto alla salute si configura come un diritto sociale di protezione e come tale rende doverosa un'azione positiva dei poteri pubblici, affinché il disegno di promozione e di sviluppo della persona umana – che prende le mosse dal principio di uguaglianza sostanziale di cui al secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione – sia reso effettivo, costituendo bene strumentale all'affermazione del primato della persona umana nell'ordinamento (per tutte si veda la sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2013).
Per trenta anni il dettato costituzionale è rimasto inattuato.
Fino al 1980, invero, nel nostro ordinamento la sanità si reggeva su un sistema mutualistico, in virtù del quale i lavoratori, per poter accedere alle cure mediche e ospedaliere, avevano l'obbligo di iscriversi presso uno dei diversi enti mutualistici esistenti, le cosiddette «casse mutue».
Una sanità disordinata che si dipanava tra una miriade di competenze ed enti diversi e che si finanziava attraverso i contributi versati dagli stessi lavoratori e dai loro datori di lavoro.
La salute era dunque correlata alla condizione lavorativa e per nulla assimilabile a un diritto di cittadinanza. Oltre a fornire una copertura solo parziale della popolazione, questa impostazione era foriera anche di notevoli sperequazioni tra gli stessi beneficiari, perché si accedeva a livelli di assistenza qualitativamente diversi in base alla quota versata.
In sostanza, un sistema che si imperniava sul lavoro svolto e sul censo.
La svolta avviene nel 1978 quando è istituito, con la legge 23 dicembre 1978, n. 833, il Servizio sanitario nazionale.
Un solo faro: garantire una sanità uniforme, uguale e universale, per mettere fine al caos previgente e dare finalmente attuazione all'articolo 32 della Costituzione.
È così che prende forma il sistema sanitario che ci invidia il mondo intero.
Un sistema che si finanzia con la fiscalità generale e le cui prestazioni sono erogate, non già in base al reddito, ma in virtù del bisogno di cure del paziente.
Il servizio è gratuito per gli indigenti, così come sancito dalla Costituzione (articolo 32), per gli altri è prevista una forma di compartecipazione alla spesa dello Stato, il cosiddetto ticket sanitario.
Dal punto di vista organizzativo, la legge n. 833 istituisce le «unità sanitarie locali», le cosiddette USL, che vanno a inglobare tutte le competenze, dalla prevenzione alla cura, dall'assistenza ambulatoriale e specialistica a quella ospedaliera, secondo una concezione di salute intesa come «benessere complessivo».
Negli anni questo sistema è stato più volte modificato: in particolare, con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, con cui le USL divengono ASL (aziende sanitarie locali) e si istituzionalizza il sistema dell'«accreditamento» delle strutture sanitarie private; nel 1999, il decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, completa poi il processo di aziendalizzazione, rafforza il ruolo delle regioni e compensativamente introduce i «livelli essenziali di assistenza», i cosiddetti LEA, e la possibilità di commissariamento delle regioni stesse.
Il processo di regionalizzazione del sistema sanitario, com'è noto, viene completato attraverso la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, operata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, la quale valorizza e amplia il ruolo e le competenze delle autonomie locali, delineando un sistema istituzionale caratterizzato da un pluralismo dei centri di potere.
In particolare, a norma dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, la tutela della salute diviene materia di competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni, mentre lo Stato mantiene la competenza esclusiva in merito alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (articolo 117, secondo comma, lettera m)).
L'assetto istituzionale così delineato nella sua dimensione attuativa ha finito per sconfessare le intenzioni del legislatore costituzionale in punto di uniformità ed equità nell'accesso e nella fruizione delle prestazioni sanitarie sull'intero territorio nazionale.
Anzi, a dire il vero, si sono registrati profondi divari territoriali con inaccettabili dislivelli, sia in termini quantitativi che qualitativi, dei servizi erogati nelle varie regioni.
E, benché in una prospettiva comparata il nostro Servizio sanitario nazionale risulti piuttosto efficiente ed efficace, di certo il disinvestimento cui è stato sottoposto negli anni recenti ne ha drasticamente ridotto le dotazioni di infrastrutture, tecnologia e, soprattutto, di personale.
A ragion del vero, con la legge 30 dicembre 2018, n. 145 (bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), si è operata un'inversione di tendenza. Cionondimeno, il definanziamento operato nell'ultimo decennio ha determinato numerose e rilevanti conseguenze.
Prime fra tutte, un maggior ricorso alle prestazioni offerte in regime privatistico, le cui strutture peraltro – a fronte dei progressivi disinvestimenti nel settore pubblico – si sono giovate spesso di crescenti finanziamenti pubblici.
Un circuito vizioso, dunque, che ha visto il Servizio sanitario nazionale venire gradualmente e irrazionalmente depauperato delle sue risorse.
Non occorre tornare troppo indietro nel tempo per evidenziare la significativa riduzione che si è osservata nel rapporto che sussiste tra medici ovvero infermieri rispetto alla popolazione, in relazione al quale si registrano pure significativi scostamenti da regione a regione.
Secondo l'Istituto nazionale di statistica, l'attuale assetto delle risorse umane del Servizio sanitario nazionale è in parte il risultato delle politiche attuate negli anni recenti, incentrate principalmente sul blocco del turn over nelle regioni sottoposte a piano di rientro, cui si sono aggiunte politiche di contenimento delle assunzioni messe in atto autonomamente dalle regioni non sottoposte a tali piani.
Il Servizio sanitario nazionale ha registrato dall'anno 2012 all'anno 2021 una diminuzione dell'occupazione complessiva. Nel periodo 2019-2021 si osserva invece un aumento degli occupati, determinato sia dall'introduzione di una nuova disciplina assunzionale (articolo 11, comma 1, del decreto-legge n. 35 del 2019) sia dall'emergenza epidemiologica di COVID-19. Con i decreti emergenziali numeri 18, 34 e 104 del 2020 sono state introdotte misure straordinarie di reclutamento del personale per far fronte alla predetta emergenza.
Il personale medico, dirigente non medico e il personale non dirigente replicano sostanzialmente tale andamento:

nella macrocategoria «medici» (medici, odontoiatri e veterinari) – che dal 2020 confluiscono nella più ampia categoria dei «dirigenti sanitari» – si registra una diminuzione di 1.317 unità con una riduzione dell'1,15 per cento. Le unità passano da 114.640 nel 2012 a 113.323 unità nel 2021;

nella macrocategoria «personale non dirigente» il personale è diminuito da 537.712 unità del 2012 a 537.450 unità nel 2021, con una riduzione dello 0,05 per cento (262 unità);

nella macrocategoria «dirigenti non medici» (biologi, chimici, farmacisti fisici e psicologi e dirigenti delle professioni sanitarie) e nella macrocategoria «altro personale» (direttori generali e personale contrattista) si registrano decrementi maggiori (rispettivamente del 28,61 per cento e del 66,48 per cento).

La dinamica di riduzione del personale dall'anno 2012 all'anno 2018 è il risultato delle misure di contenimento della spesa di personale che si sono succedute a partire dal triennio 2005-2007 (legge 30 dicembre 2004, n. 311, articolo 1, comma 98). Al riguardo si evidenzia che gli enti del Servizio sanitario nazionale, a differenza di altri settori del pubblico impiego, non sono sottoposti a un limite assunzionale da turn over ma ad un vincolo di spesa.
In base all'ultimo Annuario statistico del Ministero della salute disponibile, nel 2021 l'assistenza ospedaliera si è avvalsa di 995 istituti di cura, di cui il 51,4 per cento pubblici e il rimanente 48,6 per cento privati accreditati. Il 63,6 per cento delle strutture pubbliche è costituito da ospedali direttamente gestiti dalle aziende sanitarie locali, il 10,4 per cento da aziende ospedaliere e il restante 26 per cento dalle altre tipologie di ospedali pubblici.
Il Servizio sanitario nazionale dispone di oltre 214.000 posti letto per degenza ordinaria, di cui il 20,5 per cento nelle strutture private accreditate, di 12.027 posti letto per day hospital, quasi totalmente pubblici (88,6 per cento) e di 8.132 posti per day surgery in grande prevalenza pubblici (76,7 per cento).
A livello nazionale sono disponibili 4 posti letto ogni 1.000 abitanti, in particolare i posti letto dedicati all'attività per acuti sono 3,4 ogni 1.000 abitanti.
La distribuzione dell'indicatore risulta piuttosto disomogenea a livello territoriale.
A livello nazionale i posti letto destinati alla riabilitazione e lungodegenza sono 0,6 ogni 1.000 abitanti con notevole variabilità regionale.
Tali significative discrasie territoriali si sono riverberate su una notevole differenza della qualità delle prestazioni erogate che, a sua volta, ha comportato una forte frammentazione del sistema sanitario e un'ingiustificata disparità di fruizione del relativo servizio.
Ne è derivata una forte crescita dei ricoveri fuori regione e, cosa ancor più grave, una contrazione della tutela del diritto alla salute.
Gli elevati costi delle prestazioni e le lunghe liste d'attesa hanno costretto milioni di italiani a rinunciare alle cure.
La Corte costituzionale ha affermato più volte che non è ammissibile che il bilanciamento tra il diritto alla salute e il principio di regolarità dei conti pubblici di cui all'articolo 81 della Costituzione porti a un pregiudizio del «nucleo essenziale» del diritto alla salute, ossia delle prerogative fondamentali di cui non si può, in nessun caso, essere privati, pena la violazione del dettato costituzionale (per tutte, si veda la sentenza della Corte costituzionale n. 354 del 2008).
Significativo sul punto un passaggio molto chiaro: «le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana. Ed è certamente a quest'ambito che appartiene il diritto dei cittadini in disagiate condizioni economiche, o indigenti secondo la terminologia dell'articolo 32 della Costituzione, a che siano assicurate loro cure gratuite» (Corte costituzionale, sentenza n. 309 del 1999).
L'analisi sulle difficoltà di accesso alle cure, inoltre, non può non tenere conto del processo di progressivo invecchiamento della popolazione in atto nel nostro Paese, atteso che presentiamo il più alto tasso di longevità d'Europa e il secondo nel mondo, dopo il Giappone.
Tale processo si accompagna, invero, a un aumento della domanda di salute e a un maggiore impiego di risorse sul versante del trattamento delle cronicità.
Molta parte delle criticità emerse deriva anche dall'asimmetria tra la responsabilità della spesa – in capo alle regioni – e quella della raccolta del finanziamento – in larghissima parte proveniente dalla fiscalità generale.
Questa asimmetria, infatti, è stata alla base della proliferazione di sacche di inefficienze e sprechi, casi di cattiva gestione e, ancor peggio, di infiltrazioni criminali e corruttela.
È chiaro allora già sulla base dei dati sin qui esposti che molteplici e consistenti sono le minacce alla tenuta della sostenibilità del nostro Servizio sanitario nazionale, ma anche e soprattutto alla capacità di offrire un sistema di erogazione delle cure che sia rispondente ai princìpi di universalità, uguaglianza e gratuità come nelle intenzioni dei Costituenti e del legislatore del 1978.
La preoccupante fotografia del nostro sistema sanitario si è tinta di drammaticità nel momento in cui il nostro Servizio sanitario si è trovato ad affrontare un'inedita emergenza sanitaria causata dalla violenta diffusione della pandemia di COVID-19.
Si è posto un crescente allarme in relazione alla capacità del nostro Servizio sanitario nazionale di reggere il peso di un così improvviso, straordinario e non preventivato afflusso, soprattutto in relazione alla carenza di unità di personale sanitario e all'adeguatezza dei presìdi, degli strumenti e dei posti letti dei reparti di terapia intensiva, in quanto necessari per la presa in carico e il trattamento dei casi più gravi di pazienti che hanno contratto il COVID-19.
All'esplodere dell'epidemia, infatti, i reparti direttamente collegati all'area dell'emergenza disponevano di circa 5.000 posti letto di terapia intensiva (8,42 per 100.000 abitanti).
Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità questo numero è il frutto di una drastica riduzione operata negli anni dal 1997 al 2015, durante i quali il nostro Paese ha progressivamente dimezzato i posti letto per i casi acuti e la terapia intensiva, passati da 575 ogni 100.000 abitanti a 275. Un calo del 51 per cento che ci ha portato in fondo alla classifica europea.
Anche in questo caso rimarchevoli erano le differenze territoriali (Campania 506, Sardegna 123, Toscana 447, Lombardia 900, Calabria 141 eccetera).
Per fare fronte all'emergenza scaturita dalla repentina diffusione del COVID-19, si è intrapresa una poderosa azione di potenziamento, che ha interessato in particolare il personale medico e infermieristico, nonché il numero di posti letto nei reparti di terapia intensiva, pneumologia e malattie infettive.
Gli sforzi intrapresi per far fronte all'eccezionalità del momento, però, non possono di certo esaurire l'ineludibile spinta riformatrice.
Adesso si impone al legislatore una seria riflessione che parta dal presupposto che le misure emergenziali devono essere affiancate da un'improcrastinabile revisione del Servizio sanitario nazionale.
Tale revisione non può, stante le criticità qui brevemente delineate, che prendere avvio da una modifica costituzionale che riporti la competenza in materia di tutela della salute in capo esclusivo allo Stato.
Si ritiene, infatti, che solo in questo modo si potrà tornare a garantire la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale, ma anche – ed è ciò che più conta – una migliore equità nell'erogazione delle prestazioni.
Con una regia nazionale il servizio pubblico sanitario potrà maggiormente rispondere ai princìpi di universalità, di uguaglianza e di globalità degli interventi in osservanza e ottemperanza del dettato costituzionale.
Pertanto, e alla luce delle considerazioni sin qui svolte, la presente proposta di legge è volta ad apportare una significativa modifica all'articolo 117 della Costituzione, con l'obiettivo di attribuire alla legge statale un ruolo più ampio, restringendo, per contro, l'area della legislazione concorrente.
In particolare, per quanto riguarda la tutela della salute, si prevede che spetti alla legge dello Stato non più stabilire i «princìpi fondamentali», bensì porre la disciplina funzionale.
Occorre restituire centralità e unitarietà al sistema sanitario nazionale, al fine di recuperare una visione di insieme, superando così l'attuale frammentazione in cui versano i servizi sanitari regionali.

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.

1. All'articolo 117 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al secondo comma è aggiunta, in fine, la seguente lettera:

«s-bis) tutela della salute»;

b) al terzo comma, le parole: «tutela della salute;» sono soppresse.

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