PDL 1077

FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1
                        Articolo 2
                        Articolo 3
                        Articolo 4
                        Articolo 5
                        Articolo 6

XIX LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 1077

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
SERGIO COSTA, ILARIA FONTANA, L'ABBATE, MORFINO,
MARIANNA RICCIARDI

Modifiche alla legge 27 marzo 1992, n. 257, recante norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto

Presentata il 5 aprile 2023

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Onorevoli Colleghi! – La legge 27 marzo 1992, n. 257, ha rappresentato un caposaldo nell'azione svolta dal nostro Paese a tutela dei lavoratori e delle popolazioni contro l'esposizione all'amianto. Peraltro, è giunto il momento di rafforzare e di attualizzare i meccanismi introdotti quasi trent'anni or sono. Diverse sono le ragioni che giustificano questa opera di revisione. La prima è che, purtroppo, malgrado il tempo trascorso, non pochi di questi meccanismi sono rimasti concretamente inutilizzati: sia per il rinvio a decreti ministeriali non sempre poi adottati, sia per la laboriosità di determinati adempimenti, sia per l'inerzia di alcuni degli organismi deputati alla realizzazione di tali adempimenti, sia per la debolezza dell'apparato sanzionatorio. D'altra parte, nel frattempo si è ulteriormente sviluppato il sapere scientifico e tecnologico in materia, con la conseguenza che anche i dettati normativi debbono adeguarsi alle acquisizioni derivanti dallo sviluppo delle conoscenze.
L'articolo 1 modifica gli articoli 1 e 2 della legge n. 257 del 1992, prevedendo l'estensione dell'ambito di applicazione della legge anche alla fluoro-edenite, la quale presenta numerose analogie con le fibre di amianto.
Tra le acquisizioni scientifiche di questi ultimi anni, infatti, fa spicco quella concernente la fibra anfibolica di fluoro-edenite, presente in Italia sul territorio del comune di Biancavilla, riconosciuta dalla comunità scientifica nel 2000, definita cancerogena per l'uomo dall'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro di Lione (IARC) nel 2014, quale causa di mesotelioma attraverso una serie di meccanismi patogenetici analoghi a quelli delle fibre d'amianto. Significativa al riguardo è la scheda pervenuta dall'Istituto superiore di sanità nell'ambito dell'attività di sorveglianza epidemiologica della mortalità per mesotelioma pleurico condotta dall'Istituto superiore di sanità (ISS) a partire dalla fine degli anni Ottanta, nella quale si attesta che nel 1996 è stato osservato un significativo eccesso di rischio nel comune di Biancavilla, ubicato in provincia di Catania, alle pendici dell'Etna, con riferimento agli anni 1988-92. Nel biennio 1997-98, sulla base di una casistica più ampia, di una verifica anatomo-patologica delle diagnosi e dell'effettuazione di interviste ai pazienti o ai loro familiari, il risultato si confermava.
La casistica dei mesoteliomi di Biancavilla presentava tre peculiarità: equi numerosità dei due generi, bassa età alla diagnosi, assenza di esposizioni professionali all'amianto certe o probabili. Poiché la maggior parte del materiale lapideo usato nell'edilizia locale proveniva da una grande cava prossima all'area urbana del comune si saggiò la presenza di fibre di amianto nell'area di cava. La ricerca portò all'identificazione di una fibra anfibolica nel materiale (relativamente morbido) presente negli spazi interstiziali fra i blocchi di roccia lavica. Tale anfibolo risultò essere una nuova specie minerale, precedentemente sconosciuta, che venne denominata «fluoro-edenite».
Indicazioni a carattere preventivo furono fornite dall'ISS al comune di Biancavilla e alla Regione Siciliana a partire dal 1998. L'attività di risanamento ambientale proseguì in modo più incisivo con il riconoscimento di Biancavilla come sito di interesse nazionale (SIN) per le bonifiche (2002). Nel 2004 l'Istituto Ramazzini di Bologna pubblicò i risultati di uno studio di cancerogenesi sperimentale nel quale la fluoro-edenite, iniettata nella cavità intrapleurica e intraperitoneale del ratto, aveva causato lo sviluppo del mesotelioma in entrambe le sedi. Ulteriori studi epidemiologici, nel frattempo, avevano mostrato che l'incidenza del mesotelioma a Biancavilla era di circa 5 volte superiore a quella media siciliana, ma considerando la popolazione sotto i 50 e sotto i 40 anni, il rischio era rispettivamente 20 e 60 volte più elevato.
Sulla base di questo insieme di dati, nel 2014, l'IARC di Lione valutò la fibra anfibolica di fluoro-edenite come cancerogena per l'uomo (gruppo 1, evidenza sufficiente di cancerogenicità nell'uomo e nell'animale). Per approfondimenti, si rinvia alla Monografia IARC Some Nanomaterials and Some Fibre, Volume 111 del 2017, pagine 215-242. (https://monographs.iarc.fr/monographs-available/).
Le analogie fra la fibra di fluoro-edenite e le fibre degli amianti normati sono molteplici. Oltre all'induzione del mesotelioma nell'uomo e negli animali da laboratorio, è analoga la capacità di indurre nelle cellule in coltura risposte predittive di trasformazione cellulare, quali rotture del filamento di DNA, multinucleazione e rilascio di citochine pre-infiammatorie. La biopersistenza della fluoro-edenite è stata comprovata dalla presenza di fibre nell'espettorato di soggetti bronchitici residenti a Biancavilla. Fra i residenti in questo comune è inoltre elevata la prevalenza di placche pleuriche, e sono stati recentemente descritti casi di una fibrosi polmonare analoga all'asbestosi in assenza di esposizione professionale all'amianto.
Sulla base di questo corpo di conoscenze e della valutazione dell'IARC di Lione, si ritiene ragionevole ed equo applicare in aree con presenza di fluoro-edenite le norme della legge n. 257 del 1992 relative all'esposizione all'amianto, eccettuato allo stato l'articolo 13, da collocare coerentemente in una futura revisione delle misure di sostegno ivi previste.
Al medesimo articolo 1 della presente proposta di legge viene, inoltre, introdotta la definizione di «valutazione del rischio» intesa come attività svolta dall'organismo di vigilanza volta ad accertare la presenza di fibre di amianto, il grado di nocività e di rischio del materiale rinvenuto.
Con l'articolo 2 viene modificato l'articolo 9 della legge n. 257 del 1992 in materia di controllo sulle dispersioni causate dai processi di lavorazione e sulle operazioni di smaltimento e bonifica. Le modifiche introdotte si rendono necessarie in quanto la formulazione incerta e ambigua della norma finisce per renderla spesso inattuata da parte delle imprese. Si fa riferimento all'obbligo, sanzionato in via amministrativa dall'articolo 15, comma 4, a carico delle «imprese che utilizzano amianto, direttamente o indirettamente, nei processi produttivi, o che svolgono attività di smaltimento o di bonifica dell'amianto», di inviare annualmente alle regioni, alle province autonome di Trento e di Bolzano e alle aziende sanitarie locali (ASL) nel cui ambito di competenza sono situati gli stabilimenti o si svolgono le attività dell'impresa, una relazione e ai compiti di vigilanza delle ASL in ordine al «rispetto dei limiti di concentrazione di cui all'articolo 3, comma 1», e al loro compito di predisporre «relazioni annuali sulle condizioni dei lavoratori esposti, che trasmettono alle competenti regioni e province autonome di Trento e di Bolzano e al Ministero della salute». Anche a questo riguardo, v'è da prendere atto che si tratta di adempimenti non applicati sistematicamente.
L'articolo 3 prevede l'inserimento degli articoli 9-bis (Istituzione del Fondo per la riconversione e la riqualificazione degli immobili e delle aree industriali dismesse), 9-ter (Modalità di accesso al fondo), 9-quater (Progetti di riconversione e riqualificazione delle aree industriali dismesse) e 9-quinquies (Rimozione dell'amianto e tutela dell'ambiente) alla legge n. 257 del 1992, realizzando così una serie coordinata di interventi e misure in materia ambientale, amministrativa, urbanistica e fiscale in favore dei privati e delle imprese, al fine di incentivare e accelerare la rimozione dell'amianto dai numerosi siti di proprietà privata presenti nel territorio nazionale. Si intende così congiungere l'interesse pubblico alla bonifica totale dall'amianto, quale espressione urgente della tutela dell'ambiente, all'iniziativa economica privata e alla funzione sociale della proprietà in linea con gli articoli 9, 32, 41 e 42 della Costituzione.
La linea di intervento normativo muove dalla considerazione che molti siti di proprietà privata, per avviare la rimozione dell'amianto ivi presente, necessitano di costi tanto alti da collocare quel bene – una volta sostenuti i costi della bonifica – fuori dal mercato immobiliare e tali da farne preferire l'abbandono totale o parziale, con la conseguente permanente nociva dispersione delle fibre in atmosfera.
Ciò avviene soprattutto nelle aree industriali dismesse per le quali il mercato immobiliare, per quella specifica destinazione d'uso, comunque non presenta una domanda sufficiente a giustificare i costi di bonifica, con il risultato di un ristagno delle transazioni. Il risultato è soprattutto quello di un impedimento (economico e amministrativo) ormai pluridecennale delle ristrutturazioni e relative bonifiche, con la conseguenza della permanente presenza di siti privati con amianto che mettono a repentaglio l'ambiente e la salute della collettività.
Pertanto, l'articolato dispiega una specifica strategia, mediante un asse normativo costituito da progetti finanziati pubblicamente, accordi di programma, varianti urbanistiche e detraibilità fiscale, previa eventuale creazione di discariche regionali.
Gli accordi di programma aventi ad oggetto l'adozione di progetti di recupero di edifici, aree o siti, disciplinano gli interventi agevolativi, l'attività integrata e coordinata con gli enti locali e con i soggetti pubblici e privati, nonché le modalità di esecuzione degli interventi e la verifica dello stato di attuazione e del rispetto delle condizioni fissate. Tali progetti per i primi tre anni sono adeguatamente sostenuti da un apposito Fondo per la riconversione e la riqualificazione degli immobili e delle aree industriali dismesse.
Gli accordi di programma, una volta approvati dalla regione e ratificati dal consiglio comunale, hanno la valenza di una variante urbanistica.
In tal modo l'iniziativa privata è stimolata a ripensare la ristrutturazione, il recupero degli edifici o di aree con la presenza di amianto, salvo riservare una quota non inferiore al 20 per cento degli edifici a utilizzo pubblico, a servizi di interesse pubblico o a edilizia residenziale sociale.
A fronte di tale intrapresa è riconosciuta ai contribuenti che possiedono o detengono l'immobile sul quale sono effettuati gli interventi di bonifica dall'amianto, una detrazione d'imposta pari al 50 per cento delle spese documentate. Al fine di concorrere alla salvaguardia della salute e dell'ambiente, è attribuito anche ai titolari di reddito d'impresa, che effettuino interventi di bonifica dall'amianto su beni e strutture produttive ubicate nel territorio dello Stato, un credito d'imposta pari al 50 per cento delle spese sostenute.
Tra i costi alti, talune volte proibitivi, per bonificare dall'amianto un edificio, incidono notevolmente quelli relativi allo smaltimento dell'amianto dovuti alla rarità di discariche presenti nel territorio nazionale e, spesso, al conseguente trasporto all'estero dei materiali da smaltire.
Un'incentivazione economica e fiscale, uno snellimento amministrativo, al fine della rimozione dell'amianto, coerentemente comporta la possibilità di uno smaltimento di prossimità che consenta di evitare lunghi trasporti internazionali (costosi e non monitorati da alcun controllo effettivo) o ancor peggio il conferimento in discariche abusive talune volte gestite dal crimine organizzato.
Parallelamente, pertanto, gli accordi di programma possono prevedere l'individuazione, da parte di ciascuna regione, di aree destinate a discariche idonee a ricevere materiali contenenti amianto entro il 31 dicembre 2023, con effettivo avviamento delle stesse entro il 31 dicembre 2024.
L'articolo 4 sostituisce integralmente l'articolo 12 della legge n. 257 del 1992 in materia di rimozione dell'amianto e tutela dell'ambiente. Dinnanzi ad una formulazione poco puntuale e chiara, i compiti a carico delle ASL previsti dalla norma restano nuovamente spesso inattuati ed è per questo che si rende indispensabile modulare diversamente gli obblighi, il regime sanzionatorio e la vigilanza ispettiva. L'attuale formulazione del citato articolo 12 della legge n. 257 del 1992 risulta infatti carente e finisce per pesare sulla protezione dei lavoratori contro l'amianto e contro gli infortuni. In particolare, il comma 1, nell'attuale formulazione, prevede a carico delle ASL il compito di effettuare «l'analisi del rivestimento degli edifici di cui all'articolo 10, comma 2, lettera l)», e, dunque, degli «edifici nei quali siano presenti materiali o prodotti contenenti amianto libero o in matrice friabile, con priorità per gli edifici pubblici, per i locali aperti al pubblico o di utilizzazione collettiva e per i blocchi di appartamenti», «avvalendosi anche del personale degli uffici tecnici erariali e degli uffici tecnici degli enti locali». Tale compito in realtà trova scarso riscontro nella realtà operativa delle ASL. Per fare un esempio, nell'ambito della circoscrizione della ASL di Torino, né il Servizio prevenzione e sicurezza ambienti di lavoro (SPreSAL) con riguardo ai luoghi di lavoro, né il Servizio igiene e sanità pubblica (SISP)/Servizio igiene edilizia urbana (SIEU) con riguardo ai luoghi adibiti a civile abitazione effettuano l'analisi dei rivestimenti di cui all'articolo 12, comma 1, della legge n. 257 del 1992.
Anche il comma 3 dell'articolo 12 della legge n. 257 del 1992 non riceve la necessaria sistematica applicazione. La disposizione attribuisce alle regioni e alle province autonome il compito di disporre «la rimozione dei materiali contenenti amianto, sia fioccato che in matrice friabile», «qualora non si possa ricorrere a tecniche di fissaggio, e solo nei casi in cui i risultati del processo diagnostico la rendano necessaria», e prescrive che «il costo delle operazioni di rimozione è a carico dei proprietari degli immobili».
La mancata applicazione della disposizione delinea uno scenario preoccupante sia sotto l'aspetto inerente alla crisi dei controlli, sia sotto l'aspetto relativo alle conseguenti responsabilità penali anche degli organi preposti.
La gravità di tali inadempienze è stata messa in luce dalla Corte suprema di cassazione con la sentenza n. 1657 del 16 gennaio 2020 con cui un sindaco è stato condannato per omissione di atti d'ufficio ai sensi dell'articolo 328 del codice penale, «per avere, a fronte di reiterate denunce di organi pubblici nonché di privati cittadini, ivi compresi la costituita parte civile ed il proprietario dell'area interessata, nell'arco temporale durato alcuni anni, omesso di assumere qualunque iniziativa atta ad imporre a quest'ultimo lo smaltimento di lastre di eternit (amianto) accatastate alla rinfusa ed all'aperto su di un terreno», «iniziativa, invece, immediatamente assunta dal sindaco subentrante mediante emissione di un'ordinanza contingibile e urgente che, tempestivamente ottemperata dall'obbligato, determinava la cessazione del pericolo di contaminazione delle aree territoriali limitrofe». Nel confermare la condanna, la Corte suprema rileva che «il reato si è consumato ogni volta che l'imputato ha rifiutato di intervenire a fronte di formali sollecitazioni prospettanti la sussistenza di quella particolare situazione concreta (la presenza di rifiuti di amianto accatastati a cielo aperto in prossimità di abitazioni limitrofe) che rendeva indifferibile l'adozione dell'atto d'ufficio (nella specie: ordinanza contingibile e urgente) imposto dalle esigenze di protezione sanitaria», e conclude che «il reato istantaneo di rifiuto, esplicito o implicito, di un atto dell'ufficio, imposto da una delle ragioni espressamente indicate dalla legge (giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità), può manifestarsi come reato continuato (concorso materiale omogeneo) quando, a fronte di formali sollecitazioni ad agire rivolti al pubblico ufficiale rimaste senza esito, la situazione potenzialmente pericolosa continui ad esplicare i suoi effetti negativi e l'adozione dell'atto dovuto sia suscettibile di farla cessare».
Il comma 5 dell'articolo 12 delle legge n. 257 del 1992 prevede l'istituzione di un «registro nel quale è indicata la localizzazione dell'amianto fioccato o in matrice friabile presente negli edifici» e la comunicazione dei dati registrati alle regioni e alle province autonome «ai fini del censimento di cui all'articolo 10, comma 2, lettera l)», e, quindi, del «censimento degli edifici nei quali siano presenti materiali o prodotti contenenti amianto libero o in matrice friabile, con priorità per gli edifici pubblici, per i locali aperti al pubblico o di utilizzazione collettiva e per i blocchi di appartamenti».
Allo scopo di consentire alle ASL siffatti adempimenti, i proprietari degli immobili, per non incorrere nella sanzione amministrativa prevista dall'articolo 15, comma 4, devono comunicare alle ASL «i dati relativi alla presenza dei materiali di cui al presente comma», e, dunque, «amianto fioccato o in matrice friabile presente negli edifici».
D'altra parte, siffatto registro sarebbe prezioso anche per le imprese incaricate di eseguire lavori di manutenzione negli edifici, tenute ad acquisire presso le ASL «le informazioni necessarie per l'adozione di misure cautelative per gli addetti».
Per tornare, a titolo di esempio, all'ASL di Torino, è stato riferito che: «non esiste un registro per amianto floccato/friabile»; «le imprese incaricate di eseguire lavori di manutenzione negli edifici non acquisiscono informazioni»; «i dati non si registrano e quindi non vengono comunicati alle regioni»; «non sono state applicate sanzioni». Basti pensare ai molteplici infortuni occorsi per caduta dall'alto durante l'esecuzione di tali lavori da parte di imprese spesso sprovviste dei necessari requisiti di idoneità tecnico-professionale. La sentenza della Corte di cassazione penale n. 3898 del 30 gennaio 2020 è solo una delle ultime sentenze in materia di condanna del committente e dell'appaltatore di lavori di rimozione di lastre in amianto costituenti la copertura di un capannone per caduta di un lavoratore dal tetto del capannone, in quanto la ditta appaltatrice «era priva di autorizzazione a trattare amianto e operava con lavoratori assunti in nero, allo scopo di conseguire un risparmio di spesa nelle delicate operazioni appaltate, a scapito della sicurezza».
Il comma 4 dell'articolo 12 della legge n. 257 del 1992 è dedicato alle «imprese che operano per lo smaltimento e la rimozione dell'amianto e per la bonifica delle aree interessate». Infatti, siffatte imprese, per non incorrere nella sanzione amministrativa prevista dall'articolo 15, comma 3, «debbono iscriversi a una speciale sezione dell'albo di cui all'articolo 10 del decreto-legge 31 agosto 1987, n. 361, convertito con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1987, n. 441» e «sono tenute ad assumere, in via prioritaria, il personale già addetto alle lavorazioni dell'amianto, che abbia i titoli di cui all'articolo 10, comma 2, lettera h), della presente legge», e, cioè, i titoli di abilitazione per gli addetti alle attività di rimozione e di smaltimento dell'amianto e di bonifica delle aree interessate, rilasciati a seguito di specifici corsi di formazione professionale predisposti nei piani regionali. Per quel che concerne l'iscrizione, il Ministro dell'ambiente, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, «stabilisce con proprio decreto, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i requisiti, i termini, le modalità e i diritti di iscrizione».
Nel quadro che si è appena descritto, risulta essenziale un intervento volto a creare un sistema obbligatorio più puntuale, stringente e chiaro, come delineato nella riformulazione complessiva dell'articolo 12. Quanto alla rimodulazione degli obblighi, si è provveduto a puntualizzare e ad estendere i titolari degli obblighi di comunicazione in origine troppo restrittivamente previsti a carico dei «proprietari degli immobili» e delle «imprese che utilizzano amianto, direttamente o indirettamente, nei processi produttivi».
D'altra parte, a fronte della pressante esigenza di intensificare le operazioni di bonifica dell'amianto in tutto il territorio del Paese, si è ritenuto di valorizzare il ruolo degli organi di vigilanza sia nella valutazione del rischio derivante dalla presenza di amianto negli edifici, sia nell'imposizione delle misure a tale scopo necessarie mediante apposita disposizione.
Altrettanto indispensabile è dotare gli obblighi così rimodulati di un regime sanzionatorio realmente in grado di sollecitare l'adempimento secondo le modalità di seguito specificate.
È doveroso, per altro verso, prendere atto che le misure pur più avanzate non raggiungono l'obiettivo preso di mira se rimangono scritte sulla carta. Basilare è l'esigenza di arricchire gli organici, curare le professionalità, garantire il coordinamento, dei servizi di vigilanza in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, e, specificamente, nel delicato settore dell'amianto. Oggi i risultati possono purtroppo essere questi:

che in assenza di una regia unitaria, le imprese, o magari la medesima impresa con più sedi situate in zone diverse del Paese, ricevono prescrizioni differenti e magari contrastanti dalle rispettive ASL territorialmente competenti;

che singoli ispettori preferiscano controllare luoghi di lavoro meno impegnativi di un cantiere o di una fabbrica;

che ispettori non adeguatamente formati considerino pericoloso un agente lavorativo che non lo è, costringendo l'impresa ad investire risorse anche ingenti in misure non necessarie;

che ispettori frettolosi ricorrano a soluzioni dirompenti come la chiusura di un'azienda invece di accompagnarla nell'opera di messa in sicurezza con salvaguardia dell'attività produttiva.

Ultimamente, la Corte di cassazione penale con la sentenza n. 17810 del 10 giugno 2020 ha posto in luce le ripercussioni negative prodotte da azioni ispettive non sufficientemente approfondite. Condannato per l'inosservanza dell'articolo 256, comma 4, decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, (concernente il piano di lavoro da predisporre prima dell'inizio di lavori di demolizione o di rimozione dell'amianto o di materiali contenenti amianto da edifici, strutture, apparecchi e impianti, nonché dai mezzi di trasporto), un datore di lavoro lamenta la violazione dell'articolo 256, commi 4 e 5, del citato decreto legislativo n. 81 del 2008 e degli articoli 6, comma 3, e 12, comma 2, della legge n. 257 del 1992, in particolare per la mancata applicazione del decreto del Ministro della sanità 6 settembre 1994, pubblicato nel supplemento ordinario n. 129 alla Gazzetta Ufficiale n. 220 del 20 settembre 1994, in quanto «le disposizioni prevedono le misure di sicurezza quando l'intervento è effettuato su amianto friabile e non anche quando si interviene su un tetto (coperture di cemento-amianto)», e «per i soli interventi su amianto friabile è prevista un'area di decontaminazione per il personale», là dove «la decontaminazione non risulta prevista per gli interventi su materiali compatti, non friabili». Inoltre, eccepisce che «l'intervento della ditta dell'imputato si inseriva in un cantiere con la presenza di più imprese operanti per diversi lavori», e che «nessun accertamento risulta compiuto sull'effettiva presenza di amianto nei materiali rinvenuti nell'area del cantiere», né «risulta certo se i materiali in oggetto fossero residui dei lavori effettuati dalla ditta dell'imputato o se di altri lavori precedenti effettuati da altre ditte». Aggiunge che «la pulizia effettuata dall'imputato dopo i rilievi non sta certo a significare l'accettazione (acquiescenza) della responsabilità», poiché «la norma dell'articolo 248 del decreto legislativo n. 81 del 2008 disciplina solo la fase antecedente l'inizio dei lavori non tutte le fasi di rimozione dell'amianto, e, quindi, la presenza di amianto nella zona dell'intervento doveva essere dimostrata dall'accusa, senza alcuna inversione dell'onere della prova».
La Sezione III della citata Corte ritiene che «la sentenza impugnata non motiva adeguatamente sulla sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi dei reati in contestazione». Con riguardo alla «procedura di decontaminazione nel piano di lavoro», osserva che «la sentenza non analizza il tema della natura dell'amianto in oggetto (se friabile o no), in relazione ai diversi obblighi normativi nelle due ipotesi». Quanto alla «omessa pulizia finale dell'area», rileva che «la sentenza omette di accertare in fatto se l'area del cantiere in oggetto fosse rimasta non pulita per responsabilità del ricorrente e se i materiali rinvenuti fossero o no contaminati da amianto, in relazione alla contemporanea presenza nel cantiere di diversi lavori anche da parte di altre ditte».
In attesa di riforme di grande respiro in materia, sarebbe proficuo introdurre in questa sede meccanismi destinati ad incentivare il coordinamento e la formazione degli ispettori sul fronte dell'esposizione lavorativa all'amianto. Si propone, pertanto, di inserire nel nuovo articolo 9 della legge n. 257 del 1992 una disposizione (comma 8) volta ad attribuire in materia un compito di coordinamento al Comitato per l'indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, istituito presso il Ministero della salute di cui all'articolo 5 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.
L'articolo 5 modifica l'articolo 15 della legge n. 257 del 1992 alla luce di un'evidente esigenza di irrobustimento della risposta sanzionatoria dinnanzi alle diffuse e radicate carenze applicative. Fa spicco, in proposito, la palese inadeguatezza dell'apparato sanzionatorio allestito dalla predetta legge a salvaguardia del divieto pur centrale statuito nell'articolo 2, comma 1, della medesima legge che vieta l'estrazione, l'importazione, l'esportazione, la commercializzazione e la produzione di amianto, di prodotti di amianto o di prodotti contenenti amianto. Basti pensare che, per l'inosservanza di tale divieto, l'articolo 15, comma 2, della medesima legge n. 275 del 1992 si limita a contemplare l'ammenda, configurando per giunta siffatta inosservanza come una mera contravvenzione.
Di qui sorge la necessità di operare una radicale trasformazione della fattispecie criminosa sotto un duplice profilo: da mera contravvenzione a delitto punibile anche a titolo di colpa, dalla pena dell'ammenda alle pene della reclusione e della multa. Peraltro, con un'ulteriore connotazione intesa a rafforzarne il regime punitivo mediante un'apposita circostanza aggravante per l'ipotesi in cui datori di lavoro, dirigenti e preposti abbiano in uno o più soggetti contribuito a determinare o ad anticipare l'insorgenza di un mesotelioma.
L'articolo 5 prevede pertanto un rafforzamento delle pene contemplate per la violazione dei molteplici e ulteriori obblighi previsti dalla legge n. 257 del 1992 (alcuni modificati rispetto al testo originario, altri introdotti ex novo). In questa visuale, si prevede la pena dell'arresto da tre a sei mesi o dell'ammenda da 2.500 euro a 6.400 euro per l'inosservanza degli obblighi concernenti l'adozione delle misure di sicurezza previste dai decreti emanati ai sensi dell'articolo 6, commi 3 e 4, così come per il mancato rispetto delle condizioni di cui all'articolo 12, comma 2, da parte di chiunque operi nelle attività di smaltimento, rimozione e bonifica. Quanto poi all'obbligo di adottare misure idonee a garantire il rispetto dei valori limite previsti dal decreto legislativo n. 81 del 2008, si richiamano coerentemente le pene previste in tale decreto legislativo. D'altra parte, con riguardo ai rinnovati obblighi di cui all'articolo 9, commi 1 e 2, si applica la pena dell'arresto fino a sei mesi e dell'ammenda da 2.500 euro a 8.000 euro, contemplata anche per l'inosservanza della disposizione di cui all'articolo 9, comma 4.
Viene inoltre modificato l'articolo 25-undecies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, con l'inserimento del comma 8-bis in forza del quale in relazione alla commissione di taluno dei reati previsti dall'articolo 15, comma 1, della legge 27 marzo 1992, n. 257, si applica all'ente nella cui struttura è commesso il reato, la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a seicento quote; e che nel caso di condanna per taluno dei predetti reati, si applicano, oltre alla sanzione pecuniaria ivi prevista, le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, decreto legislativo n. 231 del 2001 per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
Un profilo da affrontare attiene infatti all'individuazione dei soggetti penalmente responsabili per la violazione degli obblighi indicati. Contrariamente a quanto si pensa abitualmente, malgrado decenni e decenni di elaborazione giurisprudenziale, un istituto tradizionale come la delega di funzioni è ancora oggi caratterizzato da contrasti interpretativi destinati a pesare negativamente sui comportamenti delle imprese e degli operatori. Tra le criticità, fanno spicco le divergenze originate dalla presenza nel settore della sicurezza sul lavoro e dall'assenza in altri settori di una norma: quell'articolo 16 del decreto legislativo n. 81 del 2008 che, per la prima volta, disciplina esplicitamente i requisiti di ammissibilità della delega (e della subdelega) di funzioni antinfortunistiche. Il risultato è che di frequente, in materie come quella ambientale, la Corte di cassazione applica condizioni e limiti non del tutto collimanti con quelli previsti in tema di sicurezza sul lavoro (in merito si veda, ad esempio, la sentenza della Corte di cassazione n. 26434 del 24 giugno 2016). In proposito, occorre, in particolare, prendere atto che, nel settore ambientale, manca una norma del tipo di quella dettata dal citato articolo 16 nell'ambito della sicurezza sul lavoro in ordine alla delega di funzioni. Una carenza, questa, che ha prodotto un inammissibile disorientamento giurisprudenziale. Paradigmatica è la presenza in giurisprudenza di pronunce della Corte di cassazione contrastanti in merito alla forma della delega. Il citato articolo 16 del decreto legislativo n. 81 del 2008 impone che la delega risulti da atto scritto. Nell'ambito ambientale, invece, la Corte di cassazione ha aperto la strada talora alla delega implicita e talora alla delega orale in luogo della delega scritta. Al fine di scongiurare dissonanze destinate a ingenerare nelle imprese dubbi ed equivoci e a indebolire la stessa azione di vigilanza, si propone un'esplicita disciplina della delega di funzioni sulla falsariga dell'articolo 16 del decreto legislativo n. 81 del 2008. Significative al riguardo, le sentenze della Corte di cassazione n. 17174 del 5 giugno 2020 e n. 15941 del 27 maggio 2020 che, in materia di gestione dei rifiuti, hanno posto l'esigenza di un controllo del delegante sul delegato in ordine all'adempimento degli obblighi trasferiti sulla falsariga di quanto disposto dall'articolo 16, comma 3, del decreto legislativo n. 81 del 2008 nel settore della sicurezza sul lavoro. E ove si spiega che «si tratta di una conseguenza connaturata al sistema di responsabilità delineato dalla legge, in termini non dissimili, in capo a chi professionalmente svolga attività costituenti fonte di rischio per beni primari che formano peraltro oggetto di protezione costituzionale, come l'ambiente in senso lato (articolo 9, secondo comma, della Costituzione), la salute (articolo 32 della Costituzione), l'utilità sociale e la sicurezza (articolo 41, secondo comma, della Costituzione), la tutela del suolo (articolo 44 della Costituzione)».
Ma v'è di più. In questi ultimi anni, sta notevolmente cambiando la risposta dello Stato ai reati in materia di tutela del lavoro, dell'ambiente, della salute.
Continua a svilupparsi, pur tra non poche difficoltà (una su tutte: le ricorrenti prescrizioni), una risposta imperniata sulla responsabilità penale delle persone fisiche. Ma a fianco della responsabilità penale delle persone fisiche si affaccia sempre più diffusamente un altro tipo di responsabilità: la responsabilità cosiddetta amministrativa degli enti, e, dunque, delle imprese. Si tratta di una responsabilità già prevista dal decreto legislativo n. 231 del 2001. Ma è solo di recente che questa responsabilità è stata estesa a settori quali gli ambienti di lavoro e di vita.
La prima svolta fu segnata dal decreto legislativo n. 81 del 2008 (in sintonia con l'articolo 9 della relativa legge delega 3 agosto 2007, n. 123), che inserì tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa i delitti di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commessi in violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (articolo 25-septies del decreto legislativo n. 231 del 2001). Ed è proprio in questo settore che dopo la sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione sulla ThyssenKrupp la giurisprudenza ha cominciato ad applicare con sempre maggiore incisività e frequenza la responsabilità amministrativa.
Successivamente, il decreto legislativo n. 121 del 2011 ha esteso la responsabilità amministrativa ai reati ambientali (primi fra tutti i reati previsti dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152), e, per giunta, la legge 22 maggio 2015, n. 68, contenente disposizioni in materia di delitti contro l'ambiente, i cosiddetti «ecoreati», non si è limitata a prevedere e a sanzionare con pene pesanti nuovi delitti come l'inquinamento ambientale o il disastro ambientale, ma ha contemplato per tali delitti anche la responsabilità delle stesse imprese (articolo 25-undecies del decreto legislativo n. 231 del 2001), e ciò in linea con la direttiva 2008/99/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, sulla tutela penale dell'ambiente.
Passo dopo passo, la responsabilità amministrativa degli enti fornisce uno strumento di efficacia preventiva potenzialmente eccezionale nelle mani di una magistratura realmente attenta a beni collettivi quali salute, ambiente, lavoro. A maggior ragione, ove si rifletta su alcuni aspetti di particolare rilievo in chiave di deterrenza e, quindi, sul piano socialpreventivo:

1) qualora nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato presupposto il pubblico ministero contesti all'ente l'illecito amministrativo dipendente da tale reato con richiesta di rinvio a giudizio, la prescrizione delle sanzioni amministrative non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio (articoli 22, commi 1, 2, 4 e 59, comma 1, del decreto legislativo n. 81 del 2008), e ciò pur se nel frattempo il reato presupposto si prescriva (si vedano, in merito, le sentenze della Corte di cassazione n. 7123 del 14 febbraio 2019, n. 5869 del 21 febbraio 2022, e n. 5121 del 14 febbraio 2022);

2) la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non sia stato identificato o non sia imputabile, e quando il reato si estingua per una causa diversa dall'amnistia (articolo 8, comma 1, del decreto legislativo n. 231 del 2001, appunto intitolato «autonomia delle responsabilità dell'ente»).

Significativi sono i risvolti di questa norma in procedimenti quali quelli concernenti gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, non solo sempre più falcidiati dalla prescrizione, ma non di rado frenati dalla difficoltà d'identificare l'autore o gli autori del reato di omicidio o lesione personale colposa nell'ambito dei potenziali garanti della sicurezza. Un caso emblematico concerne i tumori professionali, e, segnatamente, i tumori asbesto-correlati. I soggetti imputati nei relativi procedimenti penali hanno spesso gestito l'impresa incriminata solo per una parte del periodo in cui i lavoratori colpiti da tumore sono stati esposti all'agente cancerogeno presso quell'impresa. Ecco allora che, a propria discolpa, questi imputati sostengono che non è conosciuta la data di effettiva insorgenza delle patologie. Con una conseguenza: che, «non essendo stata accertata questa data, non potrebbero essere attribuite agli imputati le morti provocate da tali patologie, perché se queste morti sono insorte prima, le loro omissioni non avrebbero avuto effetto sul successivo sviluppo delle malattie; se insorte dopo, sarebbe del tutto esclusa ogni efficacia eziologica sul loro insorgere». Si tratta di un'argomentazione che per oltre vent'anni l'assoluta maggioranza della giurisprudenza della Cassazione ha respinto sul presupposto che le esposizioni successive aggravano, comunque, il decorso del processo patogeno, nel senso che il protrarsi dell'esposizione riduce i tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie già insorte, oppure accelera i tempi di insorgenza, nel caso di affezioni insorte successivamente. Ma si tratta di un'argomentazione che dal 2016 ha fatto breccia in numerose, anche se non in tutte le sentenze della Corte Suprema (si vedano, tra le ultime, le sentenze della Corte di cassazione n. 32860 del 6 settembre 2021, n. 2844 del 25 gennaio 2021, n. 12151 del 15 aprile 2020, n. 45935 del 12 novembre 2019 e n. 43665 del 28 ottobre 2019 sull'Ilva). E allora potrebbe aprirsi il discorso sulla possibilità di accertare comunque la responsabilità amministrativa dell'impresa, anche in considerazione degli insegnamenti impartiti dalla Cassazione a proposito dell'articolo 8 del decreto legislativo n. 231 del 2001. Osserva autorevolmente la Corte di cassazione nella sentenza n. 28299 del 7 luglio 2016: «Nelle ipotesi prese in considerazione dall'articolo 8 cit., soprattutto con riferimento al caso della mancata identificazione della persona fisica, può venire a mancare uno degli elementi del reato, cioè la colpevolezza del soggetto agente, ma quando si parla di autonomia ciò che deve precedere, in via pregiudiziale, l'accertamento della responsabilità dell'ente è sì il reato, ma inteso come tipicità del fatto, accompagnato dalla sua antigiuridicità oggettiva, con esclusione della sua dimensione psicologica. Del resto, anche in altri ambiti il riferimento al reato viene interpretato in termini di sufficienza della tipicità del fatto caratterizzata dall'antigiuridicità obiettiva, senza esigere la colpevolezza. Questo attiene alla configurabilità del reato presupposto, ma non alla fattispecie complessa che determina la responsabilità dell'ente, nel senso che deve comunque essere individuabile a quale categoria appartenga l'autore del reato non identificato, se cioè si tratti di un soggetto cosiddetto apicale ovvero di un dipendente, con conseguente applicazione dei diversi criteri di imputazione e del relativo regime probatorio; allo stesso modo dovrà essere possibile escludere che il soggetto agente abbia agito nel suo esclusivo interesse, dovendo quindi risultare che il reato sia stato posto in essere nell'interesse o a vantaggio dell'ente. È evidente come, nelle ipotesi di responsabilità ex articolo 8 del decreto legislativo n. 231 del 2001, si pone il problema della individuazione della categoria di appartenenza dell'autore “ignoto” del reato, con tutto ciò che ne consegue, ma si tratta di un problema che deve essere risolto sul piano probatorio. Solo quando il giudice è in grado di risalire, anche a livello indiziario, ad una delle due tipologie cui si riferiscono gli articoli 6 e 7 del decreto legislativo cit., potrà pervenire ad una decisione di affermazione della responsabilità dell'ente, anche in mancanza dell'identificazione della persona fisica responsabile del reato, ricorrendo, ovviamente, gli altri presupposti».
In questo alveo si riconduce il profilo messo in luce dalla sentenza della Corte di cassazione n. 38363 del 9 agosto 2018: «in tema di responsabilità da reato degli enti, la separazione delle posizioni processuali di alcuni degli imputati del reato presupposto per effetto della scelta di riti alternativi non incide sulla contestazione formulata nei confronti dell'ente, né riduce l'ambito della cognizione giudiziale, conseguendone che nemmeno dall'assoluzione di uno degli imputati del reato presupposto, non per insussistenza del fatto, discenda automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente, dovendo il giudice procedere ad una verifica del reato presupposto alla stregua dell'integrale contestazione dell'illecito formulata nei confronti dell'ente, accertando la sussistenza o meno delle altre condotte poste in essere dai coimputati nell'interesse o a vantaggio dell'ente». Ne deriva che «in tema di responsabilità da reato degli enti, l'autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella penale della persona fisica che ha commesso il reato-presupposto, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo n. 231 del 2001, deve essere intesa nel senso che, per affermare la responsabilità dell'ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale, purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli articoli 5, 6, 7 ed 8 del medesimo decreto».
D'altra parte, con la sentenza n. 13575 del 5 maggio 2020 la Corte di cassazione ha avuto occasione di annullare per intervenuta prescrizione la condanna del datore di lavoro per lesione personale colposa in danno di un dipendente, e di confermare, invece, la condanna della società per l'illecito amministrativo di cui all'articolo 25-septies, comma 3, del decreto legislativo n. 231 del 2001, alla sanzione pecuniaria di euro 30.000 e alla sanzione interdittiva del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per tre mesi. La società venne condannata «per l'adozione di un modello organizzativo insufficiente rispetto alle finalità di prevenzione e protezione contro i rischi e per il vantaggio economico consistito in un risparmio di spesa nonché maggior guadagno determinato dal non rallentamento della produzione dovuta». La Sezione IV della Suprema Corte premette che, «In tema di responsabilità degli enti, infatti, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, ai sensi dell'art. 8, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 231 del 2001, il giudice deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato». Precisa che «in tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, il vantaggio di cui all'articolo 5, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, operante quale criterio di imputazione oggettiva della responsabilità, può consistere anche nella velocizzazione degli interventi manutentivi che sia tale da incidere sui tempi di lavorazione». Prende atto che la società «aveva risparmiato il danaro necessario all'acquisto di guanti di protezione, non aveva curato la formazione dei lavoratori mediante appositi corsi e si era avvantaggiata per l'imposizione di ritmi di lavoro (...) in tal modo conseguendo, a scapito della sicurezza dei lavoratori, un aumento della produttività». E sottolinea «l'adozione di un modello organizzativo insufficiente rispetto alle finalità di prevenzione e protezione contro i rischi derivanti dalla rimozione della plastica» e, dunque, «l'omessa adeguata previsione di un modello organizzativo adeguato, nel quale rientra anche la mancata formazione dei dipendenti».
«In tema di responsabilità degli enti, in presenza di una sentenza di applicazione della particolare tenuità del fatto, nei confronti della persona fisica responsabile della commissione del reato, il giudice deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio il reato fu commesso; accertamento di responsabilità che non può prescindere da una opportuna verifica della sussistenza in concreto del fatto reato, in quanto l'applicazione dell'articolo 131-bis, del codice penale non esclude la responsabilità dell'ente, in via astratta, ma la stessa deve essere accertata effettivamente in concreto; non potendosi utilizzare, allo scopo, automaticamente la decisione di applicazione della particolare tenuità del fatto, emessa nei confronti della persona fisica» (sentenza della Corte di cassazione n. 9072 del 28 febbraio 2018).
L'articolo 5 della presente proposta di legge, inoltre, nel modificare l'articolo 15 della legge n. 257 del 1992, prevede l'introduzione, ai commi 11 e 12, di una ricerca attiva e della notifica di patologie asbesto-correlate, le quali troppo di rado sono comunicate ad oggi all'autorità giudiziaria. Attualmente si riscontrano infatti sul territorio comportamenti tesi a depotenziare il sistema di sorveglianza epidemiologica della patologia da amianto in Italia, sia attraverso il mancato supporto alle attività connesse alla registrazione dei mesoteliomi in alcune regioni italiane, sia attraverso la mancata notifica all'autorità Giudiziaria dei casi di patologia asbesto-correlata, certi o sospetti. Un più efficace contrasto a questi fenomeni che possono, direttamente o indirettamente, abbassare il livello della tutela della salute pubblica si rende quindi necessario.
La preoccupazione relativa a tali mancanze sorge alla fine degli anni Ottanta, quando una nota rivista italiana di medicina del lavoro segnalò che, nel nostro Paese, l'eziologia occupazionale dei tumori era largamente misconosciuta. E dire che la sentenza pronunciata nel 1979 dalla Corte di cassazione sull'Ipca di Ciriè aveva spazzato ogni dubbio: il tumore causato dal lavoro deve essere vagliato dal magistrato penale quale possibile reato di lesione personale colposa o omicidio colposo; e, prima ancora, deve essere portato a conoscenza del magistrato penale mediante referto da parte dei medici. Purtroppo, a lungo, le cose sono andate diversamente. Fu necessario attendere la sentenza della Corte di cassazione n. 10750 del 19 settembre 1997, che confermò la condanna del costruttore del palazzo Rai di Torino per omicidio colposo in danno di un lavoratore addetto ad operazioni di coibentazione con uso di prodotto contenente amianto e deceduto per mesotelioma pleurico.
Il fatto è che i casi di patologie asbesto-correlate continuano ad essere portati a conoscenza dell'autorità giudiziaria ancora troppo di rado. Significativa è la vicenda emersa dalla sentenza della Corte di cassazione n. 27715 del 21 giugno 2019.
Il dirigente medico e ufficiale di polizia giudiziaria, direttore responsabile di una struttura operativa complessa di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro è stato imputato del reato di cui all'articolo 361 del codice penale, per aver omesso o ritardato di provvedere ad almeno 253 segnalazioni di malattia professionale – soprattutto mesotelioma pleurico – oltre quelle giacenti in archivio e altre per le quali vi era delega da parte della procura della repubblica, con conseguente grave ritardo per le indagini. Assolto in primo grado perché il fatto non costituisce reato, è stato condannato in appello.
La Sezione VI della Corte di cassazione ha annullato la condanna perché il fatto non sussiste, ma ha ammesso che «le manifestazioni d'inerzia della direzione, tenute nonostante i ripetuti solleciti e richiami dell'autorità giudiziaria a procedere alle indagini e alle segnalazioni di competenza, abbiano costituito violazione delle linee guida dettate» dal procuratore generale presso la corte d'appello. La Corte ha altresì rilevato che tali linee guida, «a fronte di casi di mesotelioma o asbesto correlati, prescrivevano al servizio di prevenzione e sicurezza sul lavoro l'obbligo di attivarsi immediatamente e prioritariamente per lo svolgimento della relativa attività ispettiva e per la raccolta di ogni informazione utile, coordinandosi ove opportuno con gli uffici della procura della repubblica». Tuttavia, osserva la Corte che «l'inerzia della struttura operativa complessa di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro diretta dall'imputato (di possibile rilevanza nella competente sede amministrativa o disciplinare), rispetto al prescritto obbligo di procedere all'inchiesta e all'analisi dei diffusi casi di malattia professionale da mesotelioma pleurico o asbesto correlati – come richiesto per motivi di giustizia dalla competente autorità giudiziaria non consente affatto di ritenere perfezionata, insieme con l'inadempimento di quel dovere per la mancata risposta alle prescrizioni e sollecitazioni dell'autorità giudiziaria, altresì la violazione dell'obbligo di denunzia da parte del pubblico ufficiale di un reato di cui abbia avuto notizia nell'esercizio delle sue funzioni e del quale debba riferire all'autorità giudiziaria». Spiega che «tale obbligo, la cui inosservanza è penalmente sanzionata dall'articolo 361 del codice penale, sorge, giusta il consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, solo quando il pubblico ufficiale è posto in grado di individuare gli elementi del reato ed acquisire ogni altro dato utile per la formazione della relativa denuncia». Precisa che siffatta «fattispecie astratta» è «diversa a ben vedere da quella descritta nell'imputazione contestata, nella quale l'omissione concretamente addebitata all'imputato ha per oggetto non la denunzia di un reato, bensì l'avvio di una pur doverosa attività ispettiva, mirata all'esame dei singoli casi di malattia professionale, sia per finalità epidemiologiche sia per selezionare fra essi quelli di rilevanza penale, laddove fossero effettivamente emersi elementi qualificati di reato a carico dei datori di lavoro, sì da determinarne – ma solo a questo punto l'obbligo di denuncia alla competente autorità giudiziaria».
D'altra parte, secondo quanto riferito dal dottor Marinaccio, direttore del registro nazionale dei mesoteliomi (ReNaM): «La sorveglianza epidemiologica dei casi incidenti di mesotelioma è affidata dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 308 del 2002 al registro nazionale dei mesoteliomi (ReNaM) istituito presso l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro ed ambientale». Il ReNaM si struttura come un network ad articolazione regionale. Presso ogni regione è istituito un centro operativo regionale (COR) con compiti di identificazione di tutti i casi di mesotelioma diagnosticati nel rispettivo territorio e di analisi della storia professionale, residenziale e ambientale dei soggetti ammalati.
Attualmente sono stati istituiti i registri regionali in tutte le regioni italiane, ma, come documentato nei rapporti, nelle regioni Molise, Calabria e Sardegna la capacità operativa del COR è ridotta e la rilevazione dei casi non può essere considerata esaustiva e di incidenza. Inoltre, recentemente, i COR delle regioni Campania e Abruzzo hanno comunicato una condizione di cessazione delle attività dovuta all'assenza di finanziamento e a modifiche di ordine organizzativo nelle rispettive regioni. Dal punto di vista della capacità dei centri di rilevare le modalità di esposizione, come riportato e discusso nel VI Rapporto ReNaM, la quota complessiva (nell'intero periodo di attività del ReNaM e per l'insieme delle regioni) è pari al 78,2 per cento dei casi registrati. A fronte di questo elevato valore per l'intero territorio nazionale, è presente una notevole componente di variabilità regionale ed in alcune regioni tale percentuale scende sotto il 50 per cento. Non è discutibile che il compito fondamentale che è necessario perseguire è la capacità del sistema di rilevare tutti i casi incidenti e di accrescere fino al suo massimo fisiologico la quota di casi intervistati rispetto ai casi diagnosticati e registrati.
Si noti che, nell'intento di tutelare la salute pubblica, la legge n. 257 del 1992 predispone lo strumento della sorveglianza epidemiologica come procedura atta all'individuazione di situazioni di rischio ambientale o occupazionale precedentemente sconosciute o sottostimate, al fine di contribuire all'individuazione delle priorità degli interventi di risanamento ambientale. Più recentemente, anche alla luce dei lunghi tempi di latenza delle patologie asbesto-correlate, la sorveglianza epidemiologica della patologia da amianto ha acquisito un'ulteriore valenza, cioè la messa a punto di un sistema di osservazione atto a valutare, in prospettiva, l'efficacia degli interventi di prevenzione attraverso la misura della riduzione del carico della patologia da amianto nel tempo e nello spazio.
Pressante è dunque l'esigenza di andare in tutto il Paese alla ricerca dei tumori asbesto-correlati, e di evitare che continuino a restare sepolti negli archivi dei comuni e degli ospedali e a non essere segnalati all'autorità giudiziaria, né al COR. Lo scopo non è solo quello di celebrare i processi penali a carico dei responsabili e di far risarcire le vittime e i loro congiunti, bensì anche di scoprire luoghi insospettati e insospettabili di esposizione a rischi di cancro.
Coerentemente a quanto analizzato:

il comma 10 del nuovo articolo 15 della legge n. 257 del 1992, introdotto dall'articolo 5 della presente proposta di legge, stabilisce obblighi di comunicazione dei casi di patologie asbesto-correlate che sottraggano l'osservanza di tali obblighi da controproducenti discrezionalità e che siano assistiti da un adeguato regime sanzionatorio. Il comma in questione prevede, pertanto, che chiunque, avendo nell'esercizio di un pubblico servizio, di una pubblica funzione o di una professione sanitaria prestato il suo ufficio, funzione, assistenza od opera in caso di mesotelioma, ovvero in caso certo o sospetto di altra patologia correlabile all'esposizione all'amianto, omette di riferire senza ritardo all'autorità giudiziaria la patologia, nonché, ove conosciute, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona interessata e di coloro che siano informati sui fatti, è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa da euro 10.000 ad euro 30.000;

il comma 11 del nuovo articolo 15 della legge n. 257 del 1992, introdotto dall'articolo 5 della presente proposta di legge, stabilisce, coerentemente con quanto sottolineato, che sia punito con la medesima pena chiunque, avendo nell'esercizio di un pubblico servizio, di una pubblica funzione o di una professione sanitaria prestato il suo ufficio, funzione, assistenza od opera in caso di mesotelioma, omette di riferirne senza ritardo ai COR del ReNaM.

Sotto questo profilo, occorre segnalare che, tra le modifiche apportate dalla direttiva (UE) 2017/2398 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2017, alla direttiva 2004/37/CE, relativa alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro, fa spicco quella prevista dall'articolo 1, paragrafo 2, lettera b), che così sostituisce l'originario articolo 14, paragrafo 8: «Tutti i casi di cancro che, in conformità delle leggi o delle prassi nazionali, risultino essere stati causati dall'esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni durante l'attività lavorativa, devono essere notificati all'autorità responsabile.
Gli Stati membri tengono conto delle informazioni di cui al presente paragrafo nelle loro relazioni presentate alla Commissione ai sensi dell'articolo 17-bis della direttiva 89/391/CEE».
Siffatta norma, pur non ripresa nel decreto legislativo 1° giugno 2020, n. 44, esprime una scelta strategica di fondo, volta a potenziare l'applicazione concreta della disciplina in tema di esposizione lavorativa ad agenti cancerogeni. Non a caso, la citata direttiva (UE) 2017/2398, all'articolo 1, paragrafo 2, lettera b), si è preoccupata di sostituire l'originario articolo 14, paragrafo 8, disponendo che «gli Stati membri tengono conto delle informazioni di cui al presente paragrafo», e dunque delle informazioni relative a «tutti i casi di cancro» causati dall'esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni durante l'attività lavorativa e notificati all'autorità responsabile «nelle loro relazioni presentate alla Commissione ai sensi dell'articolo 17-bis della direttiva 89/391/CEE». Relazioni di grande spessore preventivo, visto che forniscono «una valutazione dei vari aspetti relativi all'attuazione pratica delle varie direttive nonché, ove appropriati e disponibili, dati disaggregati per genere», e che, sulla loro falsariga, «la Commissione effettua una valutazione complessiva dell'attuazione delle direttive in questione per quanto riguarda la loro rilevanza, delle ricerche e delle nuove conoscenze scientifiche verificatisi nei diversi ambiti». Tanto che «la Commissione informa il Parlamento europeo, il Consiglio, il Comitato economico e sociale europeo e il comitato consultivo per la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro dei risultati di tale valutazione e, se del caso, di tutte le iniziative volte a migliorare il funzionamento del quadro normativo». Dove è agevole cogliere la valenza preventiva attribuita dalla direttiva (UE) 2017/2398 alla comunicazione all'autorità dei casi di cancro causati dall'esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni durante l'attività lavorativa. Coerentemente, la citata direttiva (UE) 2017/2398, nell'ottavo considerando, reputa «necessario che gli Stati membri raccolgano dati appropriati e coerenti presso i datori di lavoro per garantire la sicurezza dei lavoratori e assicurare loro un'assistenza adeguata». E spiega: «Gli Stati membri sono tenuti a fornire informazioni alla Commissione ai fini delle sue relazioni sull'attuazione della direttiva 2004/37/CE. La Commissione sostiene già le migliori prassi in materia di raccolta dei dati negli Stati membri e dovrebbe proporre, se del caso, ulteriori miglioramenti di tale raccolta in applicazione della direttiva 2004/37/CE».
D'altra parte, si reputa necessario disporre l'ammissione delle vittime dell'amianto e dei loro familiari al patrocinio a spese dello Stato.
Il comma 12 dell'articolo 15 della legge n. 257 del 1992 introdotto dall'articolo 5 della presente proposta di legge interviene sui disastri ambientali. I processi penali celebrati in questi ultimissimi anni hanno mostrato le reali dimensioni del rischio ambientale derivante dall'impiego dell'amianto. Non possiamo, non dobbiamo interessarci soltanto dei luoghi di lavoro. Dobbiamo occuparci anche degli ambienti di vita. Dobbiamo tutelare anche la sicurezza e la salute dei cittadini. Un processo come quello dell'Eternit ha fatto capire che i rischi ambientali non possono essere confinati dentro le mura delle fabbriche, ma possono espandersi in danno dell'intera comunità. Sino ad assumere le dimensioni del disastro ambientale: e, cioè, di un disastro che – a differenza di un evento come l'improvvisa piena del torrente Raganello a Civita di Castrovillari (sentenza della Corte di cassazione n. 17129 del 5 giugno 2020) o l'esondazione del Rio Fereggiano a Genova (sentenza della Corte di cassazione n. 22214 del 22 maggio 2019) – può prolungarsi nel tempo per anni e anni.
In passato, nell'ipotesi di disastro ambientale, erano disponibili due basilari articoli del codice penale: il 434 in caso di dolo e il 449 in caso di colpa. Illuminante fu, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione n. 4675 del 6 febbraio 2007, in cui la Sezione IV prese in considerazione il «disastro interno allo stabilimento del petrolchimico con riferimento alla situazione ambientale creatasi all'interno della struttura che aveva provocato i decessi e le lesioni» e il «disastro esterno riferito alla situazione di inquinamento ambientale dei siti su cui insiste il petrolchimico, di quelli prossimi nonché delle falde acquifere, delle acque lagunari e dell'atmosfera». E osservò: «È sufficiente leggere l'articolo 449 del codice penale (la cui rubrica è significativamente formulata come “delitti colposi di danno”) – laddove così descrive la condotta tipica: “chiunque cagiona per colpa un incendio, o un altro disastro preveduto...” – per rendersi conto che, perché possa ritenersi integrata questa fattispecie di reato, occorre che il disastro si verifichi. Condivisibile appare dunque il percorso argomentativo nella parte in cui sottolinea la differenza con l'ipotesi dolosa nella quale, per il disposto del primo comma dell'articolo 434, la soglia per integrare il reato è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità (salvo che possa ritenersi integrata la fattispecie prevista dal secondo comma quando il disastro in concreto si verifichi). Meno convincente appare invece che, per potersi configurare l'ipotesi del disastro innominato, previsto dall'articolo 434 del codice penale, sia necessario il verificarsi di un “macroevento” se con questa definizione si intende fare riferimento ad eventi analoghi a quelli che la sentenza impugnata richiama come esempi significativi del macroevento (“sia un incendio che devasta quanto incontra, sia il naufragio di una nave, la caduta di un aeromobile, il deragliamento di un treno, il crollo di un edificio, o quant'altro abbia appunto queste caratteristiche che i casi tipici individuati dal legislatore fanno cogliere”). Orbene se si richiede che il disastro “innominato” previsto dall'articolo 434 del codice penale abbia le caratteristiche oggettive tipiche dei fatti disastrosi addotti come esempio dalla Corte di merito l'affermazione non può essere condivisa. Quegli eventi sono infatti caratterizzati da un fatto tipico che si esaurisce, di per se stesso (non gli effetti che possono perdurare per lungo tempo), in un arco di tempo assai ristretto e con il verificarsi di un evento di grande evidenza immediata (il crollo, il naufragio, il deragliamento ed altro). Ma il disastro può anche non avere queste caratteristiche di immediatezza perché può realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, senza che si verifichi un evento disastroso immediatamente percepibile e purché si verifichi quella compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l'esistenza di una lesione della pubblica incolumità. Questa situazione può anche essere qualificata “macroevento” purché si precisi che la compromissione di cui trattasi (riguardi la situazione ambientale o un luogo diverso quale l'ambiente di lavoro o altra situazione tipica prevista dalla legge) può avere caratteristiche di durata che non richiedono il verificarsi di un evento eccezionale dotato di caratteristiche di immediatezza. Del resto non tutte le ipotesi di disastro previste dal capo I del titolo VI del codice penale (delitti contro l'incolumità pubblica) hanno le caratteristiche cui la Corte di merito sembra fare riferimento (per es. la frana – art. 426 – può consistere in spostamenti impercettibili che durano anni; l'inondazione può consistere in un lentissimo estendersi delle acque in territori emersi). Questa, peraltro, è anche la condivisibile interpretazione che il Tribunale ha dato del disastro innominato quando ha assolto per mancanza dell'elemento soggettivo gli imputati di questo reato ravvisando quindi l'esistenza degli elementi oggettivi del reato con particolare riferimento alla ravvisata tipicità del fatto accertato ed in particolare dell'evento verificatosi (così si esprime la sentenza di primo grado: “nel caso che ci occupa il rischio costituito dall'esposizione a cvm ha causato gli otto angiosarcomi contestati in tal modo dimostrando di avere idoneità lesiva dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell'ambito della comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle mansioni più a rischio”)» .
Il 23 febbraio 2015, la Sezione I della Corte di cassazione ha depositato la sentenza n. 7941 sul disastro ambientale all'Eternit. E, in particolare, intraprendendo un diverso percorso interpretativo, ha annullato la condanna pronunciata il 3 giugno 2013 dalla corte di appello di Torino, e statuito che il reato di disastro di cui all'articolo 434 del codice penale «è estinto per prescrizione maturata anteriormente alla sentenza di primo grado» emessa dal Tribunale di Torino il 13 febbraio 2012.
A dire della Cassazione, l'articolo 434, secondo comma, del codice penale prevede «un'ipotesi di reato aggravato dall'evento», e, tuttavia, in questa ipotesi, «la data di consumazione del reato comunque coincide con il momento in cui l'evento si è realizzato», e, dunque, con il momento in cui «la causa imputabile ha prodotto interamente l'evento che forma oggetto della norma incriminatrice», e, cioè, con il momento in cui la causa imputabile ha prodotto interamente «il disastro che costituisce l'evento tipico della fattispecie dell'articolo 434, comma 2, codice penale». Il disastro, si badi, e non quindi le lesioni o morti. Il disastro da intendersi come «fatto distruttivo di proporzioni straordinarie, qualitativamente caratterizzato dalla pericolosità per la pubblica incolumità». Con questa conseguenza: che «la consumazione del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione dell'amianto prodotti dagli stabilimenti della cui gestione è attribuita la responsabilità all'imputato: non oltre, perciò, il mese di giugno dell'anno 1986, in cui venne dichiarato il fallimento delle società del gruppo, venne meno ogni potere gestorio riferibile all'imputato e al gruppo svizzero e gli stabilimenti cessarono l'attività produttiva che aveva determinato e completato per accumulo e progressivo incessante incremento la disastrosa contaminazione dell'ambiente lavorativo e del territorio circostante». (Nello stesso senso, da ultimo, ad esempio, la sentenza della Corte di cassazione n. 10504 del 23 marzo 2020, concernente il disastro ambientale dell'area circostante uno stabilimento industriale a Praia a Mare per sversamento nel suolo di sostanze tossiche e nocive, quali l'amianto, nonché la sentenza della Corte di cassazione n. 48548 del 24 ottobre 2018, relativa a un inquinamento di falde acquifere riconducibile a un deposito di carburanti nel Salento).
Di grande interesse, anche sul terreno dell'esposizione all'amianto, diventa il nuovo delitto di disastro ambientale di cui all'articolo 452-quater del codice penale, introdotto dalla legge 22 maggio 2015, n. 68. Questo articolo punisce, al primo comma, «chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale» e stabilisce che «Costituiscono disastro ambientale alternativamente:

1) l'alterazione irreversibile dell'equilibrio di un ecosistema;

2) l'alterazione dell'equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;

3) l'offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l'estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo».

Quanto al rapporto tra il delitto di cui all'articolo 434 del codice penale e gli ecoreati di inquinamento e disastro ambientali previsti dagli articoli 452-bis e 452-quater del codice medesimo codice, la Corte di cassazione precisa che «l'analisi comparativa delle fattispecie dei reati ambientali rispetto a quella di disastro innominato induce ad escludere che quest'ultima sia interessata da abrogazione espressa o implicita per effetto dell'introduzione delle nuove ipotesi di reato». Rileva che «l'articolo 434, al comma 1, configura un delitto di attentato che anticipa la tutela rispetto al prodursi del disastro e, in riferimento all'ipotesi delineata al comma 2, nell'inserire quale evento il disastro avvenuto, pretende la verificazione di un fenomeno naturale di ampia dimensione, diffusivo e di straordinaria importanza, che pregiudica il bene protetto in misura più grave rispetto all'inquinamento significativo e misurabile dell'ambiente di cui all'articolo 452-bis, caratterizzato da una portata offensiva di gran lunga inferiore rispetto al fatto disastroso, ma anche della forma di maggiore gravità prevista dall'articolo 452-quater, comma 1, n. 3)». E conclude che «la clausola di riserva a favore dell'applicazione dell'articolo 434 codice penale, inserita formalmente nel solo testo dell'articolo 452-quater, deve ritenersi operante anche in riferimento alla previsione dell'articolo 452-bis, norma che, pertanto, non è applicabile ai processi in corso di celebrazione per fatti di disastro ambientale, commessi prima della sua entrata in vigore» (così, da ultimo, la sentenza della Corte di cassazione n. 10504 del 23 marzo 2020).
Sorge, a questo punto, una domanda: con una norma come il nuovo articolo 452-quater, la Cassazione non continuerà a sostenere che gli eventi ivi indicati come disastro si sono comunque realizzati non oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione dell'amianto, perché in quel momento si era ormai determinata e completata per accumulo e progressivo incessante incremento la disastrosa contaminazione dell'ambiente lavorativo e del territorio circostante, ovvero, per dirla con il nuovo articolo 452-quater, si erano ormai determinate le alterazioni dell'equilibrio dell'ecosistema o l'offesa alla pubblica incolumità?
Più che mai impellente è un'interpretazione autentica degli articoli 434, 449 e 452-quater del codice penale, volta a chiarire, in linea con la logica profonda che ispirò la giurisprudenza del passato, e segnatamente la citata sentenza n. 4675 del 6 febbraio 2007 sul petrolchimico di Porto Marghera, che «il disastro ambientale di cui all'articolo 452-quater del codice penale, s'intende consumato sino a che non ne cessino gli effetti lesivi o pericolosi per l'ambiente o per le persone». E ciò anche per scongiurare l'irragionevolezza di un sistema normativo che non annette valore, ai fini del decorso del termine di prescrizione, alla tardiva scoperta di un evento lesivo verificatosi molto lontano nel tempo. Tipica l'ipotesi dell'evento o del danno occulto, ovvero la situazione in cui l'evento lesivo si è compiutamente già realizzato nella sua massima estensione, ma è stato o è rimasto nascosto agli inquirenti. Né si trascuri – come pure ammette la Corte di cassazione con la sentenza n. 48548 del 24 ottobre 2018 – «il caso del danno “lungo-latente”, cui si riferiscono, in ambito civile e agli effetti del risarcimento, la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) con la sentenza n. 52067 dell'11 marzo 2014, Howald Moor e altri contro la Svizzera (relativa al caso di operaio, deceduto nel 2005, che nel maggio 2004 aveva appreso di essere affetto da un mesotelioma pleurico maligno per essere stato esposto all'amianto negli anni 1960-1970 in ambiente di lavoro), e la giurisprudenza civile di legittimità in tema di esordio della prescrizione ai sensi dell'articolo 2947 del codice civile, in linea con la posizione della Corte di Strasburgo in merito alla decorrenza del termine prescrizionale dalla manifestazione del danno in tutte le sue componenti nei casi in cui si riscontra un significativo scollamento temporale tra l'insorgenza del pregiudizio e la condotta che lo cagiona (si vedano, ad esempio, le sentenze delle Sezioni unite della Corte di cassazione civile n. 23763 del 14 novembre 2011, e n. 27337 del 18 novembre 2008)».

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Modifiche agli articoli 1 e 2 della legge 27 marzo 1992, n. 257)

1. Alla legge 27 marzo 1992, n. 257, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 1 è aggiunto, in fine, il seguente comma:

«2-bis. La presente legge, fatta eccezione per le disposizioni di cui all'articolo 13, si applica anche alla fluoro-edenite»;

b) all'articolo 2, comma 1:

1) alla lettera a), le parole: «23 del decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277» sono sostituite dalle seguenti: «247 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81»;

2) dopo la lettera c) è aggiunta la seguente:

«c-bis) valutazione del rischio: attività svolta dall'organo di vigilanza, a seguito delle comunicazioni di cui all'articolo 9, volta ad accertare la presenza di fibre di amianto nonché il grado di nocività e di rischio del materiale rinvenuto. Al termine di tale attività, l'organo di vigilanza può disporre la modifica del piano di lavoro e prevedere specifiche attività di intervento necessarie al perseguimento delle finalità di cui all'articolo 1, comma 1».

Art. 2.
(Modifica dell'articolo 9 della legge 27 marzo 1992, n. 257)

1. L'articolo 9 della legge 27 marzo 1992, n. 257, è sostituito dal seguente:

«Art. 9. – (Controllo sulle dispersioni causate dai processi di lavorazione e sulle operazioni di smaltimento e bonifica) – 1. Per la realizzazione delle finalità previste dall'articolo 1, comma 1, i proprietari degli immobili, nonché i locatori, i concedenti in uso a qualsiasi titolo o in locazione finanziaria devono comunicare alle aziende sanitarie locali i dati relativi alla presenza di materiali contenenti amianto friabile o comunque dai quali è probabile che si disperdano fibre di amianto. Nel caso di edifici o beni di proprietà pubblica, l'obbligo grava sul soggetto che ha la disponibilità giuridica dei locali o dei beni in cui sono presenti materiali contenenti amianto. In caso di proprietà condominiale l'obbligo spetta all'amministratore di condominio per le parti comuni.
2. Le imprese che utilizzano amianto, direttamente o indirettamente, nei processi produttivi, o che svolgono attività di smaltimento o di bonifica dell'amianto, o che svolgono la propria attività in stabilimenti o altri luoghi in cui siano presenti materiali contenenti amianto friabile o comunque dai quali è probabile che si disperdano fibre di amianto, devono inviare annualmente alle regioni, alle province autonome di Trento e di Bolzano e alle aziende sanitarie locali, nel cui ambito di competenza sono situati gli stabilimenti o si svolgono le attività dell'impresa, una relazione che indichi:

a) i tipi e i quantitativi di amianto utilizzati o comunque presenti e dei rifiuti di amianto che sono oggetto dell'attività di smaltimento o di bonifica;

b) le attività svolte, i procedimenti applicati, il numero e i dati anagrafici degli addetti, il carattere e la durata delle loro attività e le esposizioni dell'amianto alle quali sono stati sottoposti;

c) le caratteristiche degli eventuali prodotti contenenti amianto;

d) le misure adottate o in via di adozione ai fini della tutela della salute dei lavoratori e della tutela dell'ambiente.

3. Gli organi di vigilanza in materia di tutela dell'ambiente e quelli in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nell'ambito delle rispettive competenze, d'ufficio o entro sessanta giorni dalla comunicazione ricevuta da cittadini, associazioni o altre pubbliche amministrazioni, nonché dai soggetti di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo, previa ispezione dei luoghi, procedono alla valutazione del rischio così come definita all'articolo 2, comma 1, lettera c-bis), della presente legge, derivante dalla presenza di materiali contenenti amianto friabile o comunque materiali dai quali è probabile che si disperdano fibre di amianto.
4. Entro centoventi giorni dalla ricezione della comunicazione o dall'intervento d'ufficio di cui al comma 3, l'organo di vigilanza fissa un termine per la rimozione dell'amianto da parte dei soggetti di cui ai commi 1 e 2 e definisce le modalità per l'intervento di bonifica. I medesimi soggetti aggiornano il documento di valutazione dei rischi (DVR) di cui al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, con le integrazioni e le modifiche ai piani di lavoro individuate dall'organo di vigilanza.
5. Nei casi di incendio, deterioramento improvviso o danneggiamento, spontaneo o dovuto a evento naturale o fortuito, che possono causare rilasci di fibre di amianto di elevata entità, occasionali e di breve durata, la valutazione del rischio riguarda:

a) il tipo e le condizioni dei materiali;

b) i fattori che possono determinare un futuro danneggiamento o degrado;

c) i fattori che influenzano la diffusione delle fibre di amianto e l'esposizione degli individui.

6. Qualora gli elementi raccolti per la valutazione del rischio evidenzino la presenza di materiali danneggiati, al fine di impedire il rilascio di fibre di amianto nell'ambiente, l'organo di vigilanza può prevedere in via alternativa l'adozione delle seguenti misure:

a) restauro dei materiali, da effettuare mediante riparazione delle zone danneggiate, eliminazione delle cause potenziali del danneggiamento o interventi atti a evitare il danneggiamento da parte degli occupanti;

b) bonifica mediante rimozione, incapsulamento o confinamento dell'amianto.

7. I soggetti di cui ai commi 1 e 2 devono avvalersi di un responsabile del rischio amianto il quale:

a) sovrintende e vigila sulle operazioni di bonifica;

b) coordina le attività di manutenzione e custodia;

c) coopera con i soggetti medesimi ai fini dell'elaborazione del programma di controllo, della scelta del metodo di bonifica e della predisposizione di efficaci misure di sicurezza, nonché per le altre attività oggetto dell'incarico ricevuto.

8. Nell'ambito dei compiti previsti dall'articolo 5 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, il Comitato per l'indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui all'articolo 2, comma 1, lettera n), del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2013, n. 44, provvede a coordinare la vigilanza e a promuovere la formazione del personale ispettivo di cui all'articolo 13 del citato decreto legislativo n. 81 del 2008 in materia di esposizione lavorativa all'amianto, anche sulla base di relazioni obbligatoriamente trasmesse dal predetto personale immediatamente dopo la definitiva conclusione di ciascuna attività di controllo, contenenti i dati relativi all'impresa interessata, alle prescrizioni impartite a tutela della salute dei lavoratori e all'adempimento di tali prescrizioni».

Art. 3.
(Introduzione degli articoli da 9-bis a 9-quinquies della legge 27 marzo 1992, n. 257)

1. Dopo l'articolo 9 della legge 27 marzo 1992, n. 257, sono inseriti i seguenti:

«Art. 9-bis. – (Istituzione di un fondo per la riconversione e la riqualificazione degli immobili e delle aree industriali dismesse) – 1. Al fine di favorire un razionale uso del suolo, nonché il recupero e la valorizzazione di immobili e di aree con presenza di manufatti contenenti amianto, è istituito, nello stato di previsione del Ministero dell'ambiente e della sicurezza energetica, il Fondo per la riconversione e la riqualificazione di immobili con presenza di amianto, di seguito denominato “Fondo”, con una dotazione iniziale di 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2023, 2024 e 2025.
2. Le risorse del Fondo sono destinate al cofinanziamento di progetti di riconversione e riqualificazione degli immobili e delle aree con presenza di manufatti contenenti amianto adottati dalle regioni, d'intesa con i comuni ricadenti nel proprio territorio.
3. Possono accedere al cofinanziamento di cui al comma 2 i progetti che promuovono la riconversione e la riqualificazione di immobili con presenza di manufatti contenenti amianto, per la destinazione degli immobili e del suolo a finalità pubbliche, produttive, commerciali, residenziali e turistiche, favorendo il recupero e la bonifica ambientale dei siti e la realizzazione di infrastrutture strettamente funzionali agli interventi di recupero.
Art. 9-ter. – (Modalità di accesso al Fondo per la riconversione e la riqualificazione di immobili con presenza di amianto) – 1. Le regioni, ferma restando l'osservanza delle disposizioni previste dal decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36, previa l'eventuale individuazione di aree destinate a discariche idonee a ricevere amianto e materiali contenenti amianto e previa analisi dei flussi dei rifiuti contenenti amianto e individuazione delle idonee modalità di gestione e smaltimento nell'ambito regionale, allo scopo di evitare rischi sanitari e ambientali connessi all'abbandono incontrollato di tali rifiuti come previsto all'articolo 199, comma 3, lettera r-quater), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, entro il 31 dicembre 2023, con effettivo avviamento delle stesse entro il 31 dicembre 2024, possono stipulare appositi accordi di programma che disciplinano gli interventi agevolativi, l'attività integrata e coordinata con gli enti locali e con i soggetti pubblici e privati, le modalità di esecuzione degli interventi nonché la verifica dello stato di attuazione e del rispetto delle condizioni fissate.
2. Gli accordi di programma approvati dal presidente della regione determinano l'approvazione delle eventuali e conseguenti variazioni degli strumenti urbanistici e sostituiscono i titoli abilitativi edilizi, previo assenso del comune interessato. Ove gli accordi comportino variazioni agli strumenti urbanistici, l'adesione del sindaco deve essere ratificata dal consiglio comunale. L'approvazione degli accordi comporta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza delle opere, infrastrutture e impianti compresi negli accordi medesimi.
3. Per la definizione e l'attuazione degli interventi compresi negli accordi di cui al comma 2, le regioni possono avvalersi dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e dell'Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa Spa – Invitalia, le cui attività sono disciplinate mediante apposita convenzione con il Ministero delle imprese e del made in Italy.
4. Il Ministro delle imprese e del made in Italy, d'intesa con il Ministro dell'ambiente e della sicurezza energetica e con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con decreto di natura non regolamentare, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, individua i criteri e le modalità per la ripartizione delle risorse del Fondo per il cofinanziamento dei progetti di cui all'articolo 9-bis, comma 2.
Art. 9-quater. – (Progetti di riconversione e riqualificazione delle aree industriali dismesse) – 1. I progetti cui all'articolo 9-bis, comma 2, prevedono:

a) gli interventi di bonifica delle aree in cui sono presenti edifici contenenti amianto o costituiti anche solo in parte da manufatti contenenti cemento-amianto, oggetto di riconversione e riqualificazione;

b) la destinazione di una quota non inferiore al 20 per cento degli edifici a finalità di utilizzo pubblico, a servizi di interesse pubblico o a edilizia residenziale sociale;

c) gli interventi per la salvaguardia e la valorizzazione delle sagome e delle volumetrie degli edifici industriali di maggiore pregio storico e architettonico.

2. Le risorse del Fondo sono destinate al cofinanziamento dei progetti di cui all'articolo 9-bis, comma 2, con priorità di assegnazione agli interventi di riqualificazione e di riutilizzo degli edifici e dei terreni a finalità pubbliche e di edilizia residenziale sociale, nonché agli interventi per la realizzazione di infrastrutture strettamente funzionali agli interventi di recupero.
Art. 9-quinquies. – (Agevolazioni per il recupero e la messa in sicurezza degli immobili) – 1. Ai soggetti proprietari di immobili non più utilizzati per lo svolgimento di attività produttive e ricompresi nei progetti di cui all'articolo 9-bis, comma 2, che avviano, con spese a proprio carico, interventi di riqualificazione energetica degli immobili medesimi, si applicano le agevolazioni di cui all'articolo 1, comma 344, della legge 27 dicembre 2006, n. 296.
2. Alle persone fisiche proprietarie di immobili non più utilizzati per lo svolgimento di attività produttive e ricompresi nei progetti di cui all'articolo 9-bis, comma 2, che avviano, con spese a proprio carico, interventi di ristrutturazione e messa in sicurezza degli immobili medesimi, si applicano le disposizioni di cui all'articolo 16-bis del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.
3. Alle imprese proprietarie di immobili non più utilizzati per lo svolgimento di attività produttive e ricompresi nei progetti di cui all'articolo 9-bis, comma 2, che avviano, con spese a proprio carico, interventi di ristrutturazione e messa in sicurezza degli immobili medesimi, si applicano le disposizioni di cui all'articolo 54, comma 2, ultimo periodo, del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986».

Art. 4.
(Modifica dell'articolo 12 della legge 27 marzo 1992, n. 257)

1. L'articolo 12 della legge 27 marzo 1992, n. 257, è sostituito dal seguente:

«Art. 12. – (Rimozione dell'amianto e tutela dell'ambiente) – 1. Con decreto del Ministro della salute, da adottare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono stabilite le norme relative agli strumenti necessari ai rilevamenti e alle analisi del rivestimento degli edifici, nonché alla pianificazione e alla programmazione delle attività di rimozione e di fissaggio e le procedure da seguire nei diversi processi lavorativi di rimozione.
2. Le imprese che operano per lo smaltimento e la rimozione dell'amianto e per la bonifica delle aree interessate debbono iscriversi all'Albo nazionale gestori ambientali di cui all'articolo 212 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152. Le imprese di cui al presente comma sono tenute ad assumere, in via prioritaria, il personale già addetto alle lavorazioni dell'amianto, purché dotato dei titoli di cui all'articolo 10, comma 2, lettera h), della presente legge».

Art. 5.
(Modifica dell'articolo 15 della legge 27 marzo 1992, n. 257, e altre disposizioni in materia di responsabilità penale e amministrativa)

1. L'articolo 15 della legge 27 marzo 1992, n. 257, è sostituito dal seguente:

«Art. 15. – (Responsabilità penale e amministrativa) – 1. Chiunque immette sul mercato, commercializza, importa, esporta, produce amianto o prodotti contenenti amianto, estrae, utilizza, installa, tratta o lavora amianto fuori dai casi consentiti dalla presente legge, è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la reclusione da tre a sei anni e con la multa da 20.000 euro a 50.000 euro. Le pene sono aumentate nei confronti di chiunque contribuisca a determinare o ad anticipare in uno o più soggetti l'insorgenza di un mesotelioma. Se taluno dei fatti di cui al presente comma è commesso per colpa, le pene ivi previste sono diminuite da un terzo a due terzi.
2. Chiunque non adotta misure idonee a garantire il rispetto dei valori limite di cui agli articoli 251, comma 1, lettera b), e 254 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con le pene rispettivamente previste negli articoli 262, comma 2, lettera a), e 263, comma 1, lettera a), del citato decreto legislativo n. 81 del 2008.
3. Per l'inosservanza degli obblighi concernenti l'adozione delle misure di sicurezza previste dai decreti adottati ai sensi dell'articolo 6, commi 3 e 4, si applica la pena dell'arresto da tre a sei mesi o dell'ammenda da 2.500 euro a 6.400 euro.
4. A chiunque operi nelle attività di smaltimento, rimozione e bonifica senza il rispetto delle condizioni di cui all'articolo 12, comma 2, si applica la pena dell'arresto da tre a sei mesi o dell'ammenda da 2.500 euro a 6.400 euro.
5. Per l'inosservanza degli obblighi di cui all'articolo 9, commi 1 e 2, si applica la pena dell'arresto fino a sei mesi e dell'ammenda da 2.500 euro a 8.000 euro. La stessa pena si applica per l'inosservanza della disposizione di cui all'articolo 9, comma 4.
6. La delega di funzioni per le attività previste dalla presente legge, ove non espressamente esclusa, è ammessa con i seguenti limiti e condizioni:

a) che essa risulti da atto scritto recante data certa;

b) che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;

c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;

d) che essa attribuisca al delegato l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;

e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.

7. Alla delega di cui al comma 6 deve essere data adeguata e tempestiva pubblicità.
8. La delega di funzioni non esclude l'obbligo di vigilanza in capo al delegante in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite.
9. Il soggetto delegato può, a sua volta, previa intesa con il soggetto delegante, trasferire specifiche funzioni alle medesime condizioni di cui ai commi 6 e 7. La delega di funzioni di cui al primo periodo non esclude l'obbligo di vigilanza in capo al delegante in ordine al corretto espletamento delle funzioni trasferite. Il soggetto al quale sia stata conferita la delega di cui al presente comma non può, a sua volta, delegare le funzioni delegate.
10. Chiunque, avendo nell'esercizio di un pubblico servizio, di una pubblica funzione o di una professione sanitaria prestato il suo ufficio, funzione, assistenza od opera in caso di mesotelioma, ovvero in relazione ad un caso certo o sospetto di altra patologia correlabile all'esposizione all'amianto, omette di riferire senza ritardo all'autorità giudiziaria la patologia, nonché, ove conosciute, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona interessata e di coloro che siano informati sui fatti, è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa da euro 10.000 a euro 30.000.
11. Chiunque, avendo nell'esercizio di un pubblico servizio, di una pubblica funzione o di una professione sanitaria prestato il suo ufficio, funzione, assistenza od opera in relazione ad un caso di mesotelioma, omette di riferirne senza ritardo ai centri operativi regionali del Registro nazionale mesoteliomi è punito con la pena di cui al comma 10.
12. Ai fini di cui alla presente legge, il disastro ambientale di cui agli articoli 434, 449 e 452-quater del codice penale s'intende consumato sino a che non ne cessino gli effetti lesivi o pericolosi per l'ambiente o per le persone».

2. All'articolo 25-undecies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, è aggiunto, in fine, il seguente comma:

«8-bis. In relazione alla commissione di taluno dei reati previsti dall'articolo 15, comma 1, della legge 27 marzo 1992, n. 257, si applica all'ente nella cui struttura è commesso il reato, la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a seicento quote. Nel caso di condanna per taluno dei reati di cui al primo periodo, si applicano, oltre alla sanzione pecuniaria ivi prevista, le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore a un anno».

3. Il comma 4-ter dell'articolo 76 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, è sostituito dal seguente:

«4-ter. La persona offesa dai reati di cui agli articoli 572, 583-bis, 609-bis, 609- quater, 609-octies e 612-bis, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di cui agli articoli 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice penale, può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dal presente decreto. La stessa disposizione si applica anche alle persone offese dai reati di cui agli articoli 434, 437, 449, 582, 575, 590 del codice penale commessi in relazione all'esposizione all'amianto, e ai familiari delle persone offese dai reati di cui agli articoli 575 e 589 del medesimo codice commessi in danno di soggetti esposti all'amianto».

Art. 6.
(Copertura finanziaria)

1. Agli oneri derivanti dall'attuazione della presente legge, pari a 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2023, 2024 e 2025, si provvede mediante corrispondente riduzione delle risorse del Fondo di cui all'articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307.

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