PDL 1064

FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1
                        Articolo 2

XIX LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 1064

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
MAGI, DORI, GIANASSI, SERRACCHIANI, ZANELLA

Istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale nonché modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di esecuzione della pena presso le medesime

Presentata il 30 marzo 2023

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Onorevoli Colleghi! – La disciplina dell'ordinamento penitenziario, introdotta dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, rappresentò una grande riforma, seppure in molti aspetti rimasta inattuata. La cosiddetta legge Gozzini (legge 10 ottobre 1986, n. 663) e il regolamento di esecuzione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, proseguirono l'opera di adeguamento dell'organizzazione delle carceri all'ispirazione della Costituzione. In tutti questi momenti fu presente l'impegno di Alessandro Margara, straordinario magistrato di sorveglianza e ineguagliato capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Alla sua riflessione va ascritta la proposta di legge n. 6164 presentata nella XIV legislatura (firmatari Boato, Finocchiaro, Fanfani, Pisapia e altri). Dal 2005 a oggi molte cose sono cambiate, dal passaggio della tutela della salute dall'amministrazione penitenziaria al Servizio sanitario nazionale alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, eppure la condizione di fondo della reclusione continua a manifestare profonde criticità, a partire dal livello di sovraffollamento, in ragione del quale l'Italia è stata ripetutamente condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per la violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, come nel caso della nota sentenza-pilota Torreggiani e altri contro Italia.
La crescita della penalità resta sostanzialmente concentrata su quella che può essere chiamata l'area della detenzione sociale, che comprende in buona parte tossicodipendenti, alcoldipendenti e immigrati nonché persone che presentano problemi di natura psichica o versano in situazioni di abbandono sociale. Si tratta di un'area che interessa circa due terzi delle persone recluse, cioè la netta maggioranza. In tali casi il carcere rappresenta spesso una «non-risposta», alla quale dovrebbero essere preferiti interventi sociali, sia di prevenzione, così da impedire il conflitto con la norma penale, sia nell'ambito della stessa risposta penale, che più utilmente potrebbe attuarsi con programmi di recupero alternativi alla detenzione. Questa diffusività della penalizzazione determina e si accompagna a un impoverimento dei processi di sostegno sociale alle situazioni critiche, che sono stati a lungo una delle preoccupazioni dei sistemi pubblici. Il complessivo fenomeno di cui si parla è stato descritto come il passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale, caratterizzato da un diffuso intervento penale quale strumento operativo di intervento sociale, realizzato attraverso l'esclusione dalla società e la detenzione in carcere dell'area del disagio e della precarietà. Nell'indicare come necessario e possibile il tentativo di fermare questo processo, è necessario essere consapevoli del fatto che arrendersi davanti allo stesso continuerebbe a rendere impossibile la costituzionalizzazione dell'esecuzione della pena e dell'istituzione penitenziaria che questa proposta di legge intende realizzare. Un carcere all'interno del quale le presenze sono in costante aumento sarà sempre destinato a scontrarsi con una situazione di permanente sovraffollamento, continuerà ad essere un carcere destinato all'ingovernabilità e certamente non potrà essere gestito in maniera costituzionalmente orientata.
Quando, oltre tre quarti di secolo fa, nel terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione, il Costituente ha stabilito che: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», al contempo ha implicitamente prescritto che negli istituti di pena debba essere garantito un regime di vita che non arrechi danni psicofisici alle persone ivi recluse e che, quindi, non debba essere negata loro – nella perdita della libertà di spostamento dall'istituto di detenzione – la possibilità di movimento e di vita attiva in quell'ambito. Ne deriva l'urgenza – che grava anzitutto sul legislatore – di superare le situazioni di sovraffollamento degli istituti, di garantire che la vita quotidiana delle persone si sviluppi tra locali di pernottamento e locali comuni in cui svolgere attività che impegnino la giornata, di intervenire affinché tali locali rispondano ad adeguati criteri igienici, di fornire un'alimentazione adeguata e sufficiente nonché, in generale, di assicurare condizioni di vita tali da evitare il danno da istituzionalizzazione, che colpisce coloro i quali sono costretti a una condizione di vita inerte e coartata, quale è quella dei detenuti e degli internati. Dall'articolo 27, terzo comma, della Costituzione, si ricava, inoltre, il principio della finalità rieducativa della pena, che deve essere orientata all'obiettivo di una concreta risocializzazione del detenuto, cui si rifanno numerose pronunce della Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 204 del 1974.
La condizione attuale del sistema penitenziario, tuttavia, in ragione della strutturale situazione di sovraffollamento, non consente l'attuazione degli scopi costituzionali della pena né di quanto la normativa penitenziaria stabilisce al fine di un concreto reinserimento del condannato nella società, come si evince, ad esempio, dalla considerazione dell'istituto del lavoro penitenziario, che – anche a seguito delle modifiche introdotte dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 124 – dovrebbe essere al centro del trattamento penitenziario quale fattore decisivo ai fini di un effettivo reinserimento. Risulta evidente come tutti questi obiettivi non possano certamente essere perseguiti continuando a incrementare gli spazi della detenzione, cioè con la costruzione di nuove strutture carcerarie. È pacifico, al contrario, che vadano abbandonate le carceri che si trovano in condizioni irrecuperabili, come ad esempio quello di Pordenone, e che altre vadano invece recuperate attraverso adeguati interventi, secondo il virtuoso esempio del carcere di Udine.
È necessario dare concreta attuazione al principio in base al quale la pena detentiva e, quindi, il carcere costituiscono l'extrema ratio, in particolare per l'area della detenzione sociale, cioè per quella parte della popolazione detenuta nella cui esperienza di vita è centrale un problema sociale, non affrontato affatto o non affrontato in modo adeguato. Negato con fermezza che il carcere possa essere una discarica sociale e, quindi, il luogo di contenimento di persone per le quali sono mancate o sono fallite le soluzioni sociali, è importante che le risorse necessarie siano mobilitate più efficacemente, affinché quelle soluzioni abbiano maggiore successo. L'area della detenzione sociale è pari ai due terzi circa dei detenuti, e anche la sola riduzione di tale percentuale in misura significativa invertirebbe il processo di «ricarcerazione» degli ultimi anni, deflagrato soprattutto dopo la pandemia.
Non sono, quindi, le carceri ad essere poche, ma sono i detenuti ad essere troppi e la soluzione non può essere quella di agire per aumentare i posti per detenuti ma, al contrario, deve essere quella di istituire, regolamentare e realizzare nuovi luoghi ove si affrontino i problemi del disagio sociale.
È evidente che una soluzione alla radice dovrebbe passare per una modifica organica e radicale della legge proibizionista sulle droghe, considerato che – come è testimoniato dal libro bianco redatto da tredici anni dalla Società della ragione e da altre associazioni impegnate sul carcere e la giustizia – il solo articolo 73 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, è causa di più del 30 per cento delle presenze in carcere, per imputazioni o condanne dovute a detenzione e piccolo spaccio. Sarebbe necessario legalizzare e regolamentare la produzione e il commercio della cannabis o comunque, quanto meno, modificare il comma 5 del citato articolo 73, relativo ai fatti di lieve entità, rendendolo articolo autonomo per garantire una corretta applicazione della fattispecie.
Vi è poi una presenza, pari al 28 per cento, di detenuti qualificati come tossicodipendenti, che avrebbero bisogno di percorsi alternativi sul territorio, elaborati dai servizi pubblici per le dipendenze patologiche del Servizio sanitario nazionale e delle misure alternative già previste, le quali tuttavia non vengono realizzate in ragione di difficoltà organizzative e di carenza di risorse (come, ad esempio, mancanza di educatori in carcere, insufficienza degli uffici per l'esecuzione penale esterna, mancanza di organici dei tribunali di sorveglianza).
Infine, sarebbe determinante una nuova legislazione che regoli il fenomeno dei flussi migratori, in quanto gli immigrati rappresentano una significativa presenza in carcere, in condizioni di povertà e di irregolarità, destinati all'espulsione o alla clandestinità.
La presente proposta di legge ha un obiettivo molto più limitato ma comunque significativo, limitandosi a stabilire che in taluni casi, ove la ridotta pericolosità sociale del reo sia tale da consentirlo, la detenzione debba essere scontata all'interno di specifiche strutture appositamente istituite, di dimensioni ridotte, che riprendono il modello, adottato fino a pochi decenni fa, delle case mandamentali, nelle quali, su decisione del pretore, erano ammessi i condannati ad una pena non superiore a dodici mesi, e caratterizzate da programmi di trattamento espressamente finalizzati alla ricollocazione sociale del condannato, comprendenti lavori di pubblica utilità e progetti che coinvolgano figure di educatori, psicologi e assistenti sociali nonché attività cogestite con enti del Terzo settore. In particolare, si stabilisce che i soggetti che stanno espiando una pena detentiva non superiore a dodici mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché i detenuti e gli internati assegnati al lavoro esterno e i condannati in regime di semilibertà siano ammessi a scontare la pena presso apposite case territoriali di reinserimento sociale, di capienza compresa tra cinque e quindici persone. Nel dettaglio, si osservi che – in base ai dati forniti dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia – i soggetti che stavano espiando una pena detentiva non superiore a dodici mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, quindi suscettibili di beneficiare di tale misura, al 31 dicembre 2022 risultavano essere 7.259 unità, pari al 18 per cento del totale. Di queste, come più volte denunciato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, 1.471 persone sono state condannate – con almeno una condanna definitiva – a una pena inferiore a dodici mesi di reclusione, che attualmente stanno scontando in carcere; tali persone, in base a questa proposta, sarebbero invece automaticamente ammesse alle case di reinserimento, senza bisogno di essere assegnate dal provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria.
L'istituzione delle case sarà disposta con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sentiti i comuni interessati, da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge.
È opportuno segnalare, infine, che anche il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presieduto da Mauro Palma, ha evidenziato l'opportunità di istituire strutture di responsabilità territoriale diverse dal carcere, adibite ad accogliere persone che abbiano commesso reati di minore rilevanza, nello spirito della proposta avanzata dall'allora direttore generale del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Alessandro Margara, nonché della presente proposta di legge.
Sarà importante verificare se si tratti di uno strumento idoneo a garantire un concreto reinserimento sociale, che sia accompagnato dall'azione del volontariato e dal lavoro di rappresentanti del Terzo settore, in condizioni di vita comunitaria affidate alla responsabilità individuale e alla crescita dell'autonomia personale.

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale)

1. Le case territoriali di reinserimento sociale sono strutture di dimensioni limitate, di capienza compresa tra cinque e quindici persone, destinate ad accogliere i soggetti che debbono espiare una pena detentiva non superiore a dodici mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché i detenuti e gli internati assegnati al lavoro all'esterno e i condannati ammessi al regime di semilibertà, di cui, rispettivamente, agli articoli 21 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354.
2. Le case territoriali di reinserimento sociale di cui al comma 1 sono istituite con decreto del Ministro della giustizia, da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sentiti i comuni interessati, da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.
3. L'intesa sancita nella Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, formulata sentiti i comuni interessati, determina le sedi presso cui sono istituite le case territoriali di reinserimento sociale, in numero tale da garantire una capienza minima complessiva non inferiore a quella necessaria ad accogliere i soggetti di cui al comma 1, nonché le modalità di realizzazione delle case e le risorse organizzative necessarie per la loro gestione.
4. I detenuti e gli internati che debbono espiare una pena residua non superiore a dodici mesi sono assegnati alle case territoriali di reinserimento sociale dal competente provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria.
5. Il direttore della casa territoriale di reinserimento sociale è il sindaco del comune competente o un soggetto da esso delegato. Presso le case territoriali opera personale dipendente dal comune, assunto mediante concorso pubblico, sulla base di disposizioni stabilite con legge regionale, che regolano anche la determinazione delle piante organiche, lo stato giuridico ed economico e la disciplina del rapporto di lavoro del personale medesimo.
6. Presso le case territoriali di reinserimento sociale svolgono la propria attività operatori specializzati che curano la realizzazione dei programmi di reinserimento sociale. Il reclutamento, lo stato giuridico ed economico e il rapporto di lavoro di tali operatori sono disciplinati con la legge regionale di cui al comma 5. In caso di necessità, è consentito di ricorrere, per tempi limitati, all'impiego di educatori operanti presso gli istituti penitenziari ordinari. Gli operatori dei centri di servizio sociale per adulti svolgono le funzioni di loro competenza presso le case territoriali nell'ambito degli interventi previsti sulla base della normativa vigente.
7. I programmi di reinserimento sociale espressamente finalizzati alla ricollocazione sociale del reo, per i detenuti e gli internati che non siano già assegnati al lavoro esterno né ammessi al regime di semilibertà, possono comprendere lavori di pubblica utilità, progetti con la partecipazione di educatori, psicologi e assistenti sociali nonché attività cogestite con enti del Terzo settore di cui all'articolo 4 del codice di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117. I programmi di reinserimento sociale di cui al primo periodo sono predisposti dalla direzione e dagli operatori della casa territoriale, che li trasmettono al magistrato di sorveglianza per l'approvazione. L'esecuzione dei programmi di reinserimento sociale è di competenza della direzione e degli operatori della casa territoriale. Per i detenuti che debbono espiare una pena detentiva non superiore a dodici mesi è favorito un regime esecutivo orientato verso l'ammissione a misure alternative alla detenzione, ivi compreso il lavoro all'esterno.
8. Le spese occorrenti per l'istituzione e la gestione delle case territoriali sono a carico dello Stato, che provvede ai corrispondenti trasferimenti ai comuni secondo i seguenti criteri:

a) le spese sostenute dai comuni per l'istituzione delle case territoriali sono ristorate dallo Stato, a conclusione delle opere necessarie per la realizzazione delle stesse, sulla base di specifico rendiconto verificato dall'organo di revisione economico-finanziaria del comune e approvato dalla giunta comunale;

b) i finanziamenti necessari per la gestione delle case territoriali sono anticipati dallo Stato in base al bilancio di previsione approvato dal consiglio comunale e sono liquidati definitivamente in base al rendiconto della gestione, trasmesso al Ministero della giustizia unitamente alla documentazione relativa.

9. La ripartizione degli oneri finanziari di cui al comma 8 tra lo Stato e i comuni può essere modificata, anche per periodi di tempo limitati, mediante convenzione stipulata tra la regione competente e il Ministero della giustizia.
10. La forma di espiazione della pena prevista dal presente articolo non si applica ai condannati minorenni nei cui confronti sia stata disposta una delle misure penali di comunità di cui agli articoli 4, 5 e 6 del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121.

Art. 2.
(Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354)

1. Alla legge 26 luglio 1975, n. 354, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) dopo l'articolo 47 è inserito il seguente:

«Art. 47-bis. – (Assegnazione alle case territoriali di reinserimento sociale) – 1. I condannati che debbono espiare una pena detentiva non superiore a dodici mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, i condannati ammessi al regime di semilibertà di cui all'articolo 50 nonché i detenuti e gli internati assegnati al lavoro all'esterno secondo le modalità previste dall'articolo 21 sono ammessi a scontare la pena presso le case territoriali di reinserimento sociale»;

b) all'articolo 48, secondo comma, le parole: «in appositi istituti o» sono sostituite dalle seguenti: «alle case territoriali di reinserimento sociale di cui all'articolo 47-bis.1, oppure, se queste ultime non sono istituite, ad».

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