PDL 3315

FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 3315

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
PAOLINI, TURRI, BISA, DI MURO, MARCHETTI,
MORRONE, POTENTI, TATEO, TOMASI

Modifiche all'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia

Presentata il 13 ottobre 2021

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Onorevoli Colleghi! — La Corte costituzionale, da ultimo, con la sentenza n. 253 del 4 dicembre 2019 e con l'ordinanza n. 97 dell'11 maggio 2021, ha nuovamente affrontato il tema della concedibilità di vari benefìci penitenziari a detenuti condannati per determinati reati.
Il tema si basa su un consolidato orientamento interpretativo che trova, tra gli altri, antecedenti di particolare interesse nelle sentenze n. 306 dell'8 luglio 1993, n. 466 del 13 dicembre 1999, n. 355 del 7 novembre 2006, n. 189 del 18 maggio 2010, n. 239 del 22 ottobre 2014 e n. 148 dell'11 luglio 2018, nonché con riferimento alla sentenza n. 77633/16 del 13 giugno 2019, nella causa Marcello Viola contro Italia, della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU).
In particolare la Corte – in estrema sintesi e sotto profili diversi – ha posto il problema della legittimità costituzionale di alcune norme dell'ordinamento penitenziario che precludono in modo assoluto la possibilità di accesso ai predetti benefìci penitenziari ad alcune categorie di detenuti, in ciò ravvisandosi un vulnus ai princìpi costituzionali di cui agli articoli 3 (uguaglianza), 27, terzo comma (divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e obbligatorietà del carattere rieducativo della pena), e 117 della Costituzione (obbligo di rispetto degli obblighi internazionali, con riferimento all'articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848)
Come noto, nel nostro ordinamento la pena massima prevista dall'articolo 22 del codice penale è l'ergastolo, che viene plasticamente sintetizzato nel carteggio penitenziario con la formula «fine pena mai». Tale sanzione perenne è, tuttavia, temperata dalla possibilità, sussistendo determinati presupposti, di ottenere benefìci quali permessi premio, semilibertà e libertà condizionale perché, in assenza di tali possibilità, verrebbe meno in toto qualsiasi funzione rieducativa della pena. Questo vale per la gran parte dei condannati.
Il problema che è stato sollevato in più sedi e in tempi diversi è che, per effetto del combinato disposto dell'articolo 22 del codice penale e della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante l'ordinamento penitenziario, ad alcuni detenuti tali benefìci non sono concedibili se non in caso di una loro attiva collaborazione con la giustizia.
In particolare, il comma 1 dell'articolo 4-bis della citata legge n. 354 del 1975 elenca una serie di delitti indicati come ostativi: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza; associazione di tipo mafioso di cui agli articoli 416-bis e 416-ter del codice penale e delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività di tali associazioni; riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (articolo 600 del codice penale); induzione o sfruttamento della prostituzione minorile (articolo 600-bis, primo comma, del codice penale); produzione e commercio di materiale pornografico minorile (articolo 600-ter, commi primo e secondo, del codice penale); tratta di persone (articolo 601 del codice penale); acquisto e alienazione di schiavi (articolo 602 del codice penale); violenza sessuale di gruppo (articolo 609-octies del codice penale); sequestro di persona a scopo di estorsione (articolo 630 del codice penale); delitti relativi all'immigrazione clandestina (articolo 12 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286); associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43); associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309). Da ultimo, per effetto della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (cosiddetta «legge spazzacorrotti»), al catalogo di reati ostativi sono stati aggiunti alcuni delitti contro la pubblica amministrazione: peculato (articolo 314 del codice penale); concussione (articolo 317 del codice penale); corruzione per l'esercizio della funzione (articolo 318 del codice penale); corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio (articolo 319 del codice penale); corruzione in atti giudiziari (articolo 319-ter del codice penale); induzione indebita a dare o promettere utilità (articolo 319-quater del codice penale); corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (articolo 320 del codice penale); istigazione alla corruzione (articolo 322 del codice penale); delitti di cui all'articolo 322-bis del codice penale per le ipotesi di reato sopra richiamate (il richiamo all'articolo 322-bis del codice penale va riferito ai delitti di concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri delle Corti internazionali o degli organi dell'Unione europea o di assemblee parlamentari internazionali o di organizzazioni internazionali e di funzionari dell'Unione europea e di Stati esteri).
In caso di condanna per tali delitti – non a caso definiti «ostativi» – la legge prevede attualmente una preclusione assoluta all'accesso ai benefìci penitenziari, salvo che i detenuti e gli internati collaborino con la giustizia ai sensi dell'articolo 58-ter della citata legge n. 354 del 1975 o del secondo comma dell'articolo 323-bis del codice penale. Tale normativa si estende anche al regime della liberazione condizionale.
Come si intuisce, il meccanismo, nel suo complesso, è ispirato alla volontà del legislatore di incentivare la collaborazione con la giustizia e la reale, convinta e verificabile dissociazione dalle organizzazioni criminali di pregressa appartenenza, al fine di depotenziarne sempre più la capacità operativa.
Non va dimenticato che le modifiche alla normativa del 1991 di cui si tratta nacquero sull'onda degli attentati del 1992 ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La loro finalità era ed è quella di consentire ai collaboratori di giustizia di accedere in modo preferenziale, rispetto alla generalità dei detenuti, ai benefìci penitenziari. Tale «corsia preferenziale» ha poi assunto un carattere strutturale, al fine di incentivare la «collaborazione» assurta a ruolo di «conditio sine qua non» per godere del menzionato trattamento alleggerito.
Tale presunzione assoluta ha sollevato, negli anni, alcuni dubbi di natura giuridica ma anche etica e morale, che sono stati colti sia dalla Corte costituzionale che dalla CEDU.
Senza entrare troppo nel dettaglio in questa sede, possiamo ricordare i problemi connessi con il fenomeno del cosiddetto «falso pentitismo» ispirato da finalità opportunistiche, quando non di ritorsione mediata verso avversari interni ai sodalizi di appartenenza, o connesso a quei soggetti, peraltro già oggi non esclusi dai benefìci, che, pur volendolo, non possono collaborare perché non sono, o non sono più, in possesso di informazioni utili ovvero di quelli che sono in conflitto morale perché, pur decisi, non vogliono esporre al rischio di gravi ritorsioni i propri cari (il tragico caso del piccolo Giuseppe Di Matteo costituisce un chiaro esempio della situazione ipotizzata), eccetera.
La questione è da ultimo arrivata all'esame della CEDU la cui prima sezione, con la citata sentenza n. 77633/16 del 13 giugno 2019 (con la «dissent opinion» del giudice Wojtyczek), ha esaminato la questione del cosiddetto «ergastolo ostativo», conseguente al combinato disposto degli articoli 22 del codice penale e 4-bis e 58-ter della legge n. 354 del 1975. La Corte è stata chiamata a verificare se l'esclusione della possibilità di concedere permessi premio ad alcune tipologie di detenuti, sul presupposto insuperabile della mancata collaborazione con la giustizia, sia rispettosa dell'articolo 3 della citata Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che vieta la tortura e le pene o i «trattamenti inumani o degradanti». Secondo la prospettazione del ricorrente (capo di un clan mafioso) il condannato per un reato ostativo che non voglia o non possa collaborare con la giustizia è, per ciò solo, e senza possibilità alcuna di vedere valutato il proprio percorso emendativo, di ravvedimento e correttivo, privato di benefìci accessibili, invece, ad altri detenuti.
La CEDU, contrariamente a quanto lasciato intendere da talune fonti di stampa, non ha messo in discussione la piena compatibilità dell'ergastolo con l'articolo 3 della Convenzione, ma solo l'univocità della collaborazione con la giustizia come l'unica strada per ottenere determinati benefìci. In sostanza, la Corte ha posto in discussione l'equazione fissa «non collaborazione uguale non dissociazione» e, dunque, «pericolosità permanente» derivante dal non esplicitato e certificato rifiuto dei disvalori criminali connessi con l'appartenenza ai menzionati sodalizi cristallizzato dalla «collaborazione».
La Corte ha dunque ritenuto non conforme alla Carta europea dei diritti dell'uomo il fatto che il condannato all'«ergastolo ostativo», che non voglia o non possa «collaborare», sarebbe privato di qualsiasi possibilità di riscatto, indipendentemente da qualunque altra considerazione. La buona condotta in carcere, la partecipazione attiva al processo rieducativo e l'assenza di fatti pregiudizievoli non avrebbero alcuna valenza migliorativa del suo status e ciò implicherebbe la perdita di qualsiasi «speranza» di godere i frutti dell'emenda.
La Corte costituzionale, nelle pronunce menzionate, riferibili a vari benefìci penitenziari, si è, in estrema sintesi, orientata in senso analogo.
In particolare con la citata ordinanza n. 97 del 2021 la Consulta, nell'affrontare il tema del cosiddetto «ergastolo ostativo» ha sottolineato la non conformità alla Carta costituzionale delle norme che individuano nella collaborazione «(...) l'unica possibile strada, a disposizione del condannato all'ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale (...)» per contrasto con il principio della funzione rieducativa della pena di cui all'articolo 27, terzo comma, della Costituzione.
La scelta di pronunciarsi con un'ordinanza e non con una sentenza è dovuta al fatto che la Corte si rende conto delle conseguenze che un intervento demolitorio avrebbe sul complessivo sistema della prevenzione e della sicurezza generali e ha, dunque, deciso di dare al legislatore – unico titolare delle scelte di politica criminale – un tempo congruo di valutazione e di studio per introdurre correttivi che contemperino le contrapposte esigenze descritte, prima di decidere. Tale termine è stato fissato, come noto, al 10 maggio 2022.
In questo quadro normativo e giurisprudenziale si inserisce la presente proposta di legge che mira a dare una risposta alle obiezioni del Giudice delle leggi nazionale e della CEDU.
Si è già ricordato perché vennero introdotte nell'ordinamento le norme in esame, che hanno dato notevoli risultati operativi. È anche grazie ad esse che lo Stato ha conseguito, nella lotta alle organizzazioni mafiose e terroristiche, significativi risultati.
Per quanto possano essere affinate le tecniche investigative, la testimonianza dell'«intraneus», specie se di elevato rango criminale, è insostituibile per accertare determinati fatti, per comprendere determinate logiche operative, per identificare le vere linee di comando e le connessioni con il mondo «esterno» alla organizzazione, per punire i colpevoli e per garantire verità e giustizia alle vittime.
Non sono pochi i casi in cui efferati delitti e inconfessabili contiguità sono stati svelati grazie al contributo di un ex appartenente al sodalizio che li ha disvelati, quasi sempre dopo essere stato catturato e detenuto. Anche in questo caso non si può dimenticare la lezione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino e della loro capacità di costruzione di un «percorso» psicologico e umano con i soggetti arrestati tale da condurli, passo dopo passo, alla collaborazione con la giustizia.
È opinione comune dei principali investigatori e magistrati impegnati sul fronte del contrasto alle organizzazioni mafiose e terroristiche che privare lo Stato della possibilità di modulare e di condizionare in modo ampio i benefìci penitenziari vorrebbe dire precludersi una significativa aliquota di potenziali collaboratori e fonti informative ma, soprattutto, di perdere una delle poche ed efficaci armi che lo Stato ha contro organizzazioni criminali – sconosciute in altre parti dell'Europa – che percepiscono se stesse, e sono percepite, come vere e proprie «istituzioni» presenti in alcune zone del territorio nazionale da oltre un secolo.
Questa percezione del problema e del relativo rischio, che è ben nota alla magistratura e alle Forze di polizia del nostro Paese, non è altrettanto chiara in altri Paesi europei (e quindi, indirettamente, nei loro giudici) dove esistono, certamente, organizzazioni criminali pervasive, ma che hanno caratteristiche, storia, connessioni, strutturazione, capacità di controllo del territorio, capacità di relazioni internazionali e potenza economica assolutamente diverse. Si pensi che in alcuni Paesi del nord Europa il problema più serio e percepito è costituito dalle «bande di motociclisti», vere e proprie gang mobili dedite a numerosi reati ma che, evidentemente, sono una cosa diversa e dalle nostre organizzazioni mafiose che, purtroppo, non sono «mobili» ma radicate fortemente nel territorio, che in talune aree controllano, di fatto, in modo pervasivo e capillare.
Non esiste, nel nostro continente, un Paese che abbia visto decine e decine di magistrati, uomini delle Forze dell'ordine, politici, preti e giornalisti, cadere sotto i colpi delle mafie, talora con attentati dinamitardi che eravamo abituati a vedere in aree medio orientali e non al centro di Roma, Firenze, Milano e Palermo.
È, inoltre, noto che le più importanti organizzazioni criminali, proprio al fine di ridurre il rischio di dissociazioni, investono somme ingenti per garantire la sussistenza economica dei detenuti e delle loro famiglie e la migliore assistenza legale, oltre alla «conservazione del posto» – se così si può dire – all'interno del sodalizio.
Quando un «capo» – anche di livello non apicale – finisce in carcere, le organizzazioni nominano un «reggente» che agisce in suo nome e per suo conto, durante la detenzione, ma raramente un sostituto, a sottolineare il fatto che nessuno mette in discussione il ruolo occupato prima dell'arresto.
Inoltre, al momento della scarcerazione, il «posto» nella struttura criminale viene generalmente restituito al «legittimo» detentore, anche a distanza di molti anni e addirittura fino alla morte, nel caso di ruoli apicali.
Questa procedura è applicata sia a scopo di garanzia di lealtà reciproca tra sodali, nella buona e nella cattiva sorte, ma, soprattutto, allo scopo di evitare che il detenuto, vedendosi pretermesso, sia incentivato a collaborare con lo Stato e a rivelare tutto quello che sa.
È un fatto noto e processualmente accertato che tra le richieste contenute nel famoso «papello», che sarebbe stato fatto pervenire a organi dello Stato dall'allora capo indiscusso di Cosa nostra, c'erano la chiusura delle carceri dell'Asinara e di Pianosa, la revoca delle norme in materia di sequestro e di confisca di beni, la cancellazione dell'ergastolo e la cancellazione delle norme sul «carcere duro». Tali richieste, esaminandole bene, erano motivate essenzialmente da quella che è la maggiore paura di qualsiasi organizzazione segreta: la delazione dell'intraneus, la rivelazione da parte sua dei «segreti» interni.
Risale solo a qualche mese fa la scarcerazione di Giovanni Brusca, che tante reazioni sdegnate – comprensibilissime tra i «non addetti ai lavori» – ha suscitato nella pubblica opinione ma che, in un'ottica di prevenzione generale e contrariamente alle apparenze, ha rappresentato un'affermazione dell'autorevolezza dello Stato, che ha portato all'individuazione e alla punizione di molti altri colpevoli, e che ha inferto un colpo significativo all'organizzazione di appartenenza. In proposito si può ricordare anche il caso di Felice Maniero che, in cambio della possibilità di usufruire di cospicue riduzioni di pena e di chiudere per sempre i propri conti con la giustizia, ha deciso di collaborare consentendo lo smantellamento della cosiddetta «mafia del Brenta».
Senza la legislazione premiale ciò sarebbe avvenuto? Appare più improbabile che non.
La Corte costituzionale, che come essa stessa afferma, non intende (né può) sostituirsi al legislatore in materia di politica criminale, lo invita tuttavia a elaborare norme che consentano di superare le segnalate incompatibilità, fornendo al detenuto gravato da reati ostativi un'alternativa alla collaborazione per godere di alcuni benefìci penitenziari.
Si propongono, dunque, alcune modifiche normative che consentirebbero di superare alcune delle obiezioni della Corte costituzionale relative alla lamentata non consonanza della tipizzazione per titoli di reato con i «princìpi di proporzione e individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario»:

1) premiare la collaborazione finalizzata alla disarticolazione economica diretta o indiretta dei sodalizi criminali, inserendo nel dettato normativo, come possibilità di sostenere le proprie istanze di concessione del beneficio, la valorizzazione della collaborazione finalizzata anche alla mera sottrazione di risorse economiche ai sodalizi criminali, all'individuazione dei canali di reimpiego, investimento, riciclaggio e autoriciclaggio, nonché all'individuazione di settori della società civile (i cosiddetti «colletti bianchi») che, pur non essendo organici alle organizzazioni criminali, ne costituiscono uno strumento operativo essenziale per l'occultamento e la valorizzazione delle risorse economiche illegalmente accumulate. L'acquisizione di informazioni di natura economico-patrimoniale è già considerata nel nostro ordinamento in sede di acquisizione di informazioni utili a superare la presunzione di attualità dei collegamenti con le organizzazioni criminali di appartenenza, ma tali informazioni si riferiscono principalmente alla sfera patrimoniale del richiedente o dei suoi familiari. Introdurre la possibilità di ottenere i menzionati benefìci anche fornendo informazioni utili all'identificazione e al recupero di risorse economiche, ai canali di riciclaggio, ai fiancheggiatori e ai consulenti inseriti nel tessuto economico legale, utilizzando anche soggetti altri rispetto a se stessi o all'organizzazione di appartenenza, potrebbe innescare un «effetto domino» di ampia portata in danno di soggetti dediti al crimine, ma che, in ipotesi, non hanno alcun legame con il collaborante o il richiedente beneficio, o di cui il medesimo sia venuto a conoscenza solo dopo l'inizio della detenzione. Si tratta, in sostanza, di esplicitare ed incentivare un ulteriore livello di collaborazione, che potremmo definire «in conflitto di interessi con terzi», aggiuntiva rispetto a quella direttamente riferibile alla propria sfera di attività criminale e finalizzata principalmente alla sottrazione di risorse economiche ai «circuiti criminali e del riciclaggio» in senso lato la cui ablazione costituisce un vulnus non meno grave anzi, secondo molti, molto più grave, per i medesimi, rispetto a qualche arresto o all'acquisizione di informazioni di varia natura, circoscritte alla sola organizzazione di appartenenza del richiedente. Tale ulteriore opportunità potrebbe risultare utile anche a superare una sorta di «remora morale» ad accusare il consanguineo o il complice, con cui magari si sono condivisi anni di attività criminosa, o a cui si è legati da amicizia o da parentela. Sarebbe senz'altro moralmente meno problematico indicare all'autorità un canale di riciclaggio, o un consulente, su cui fare naturalmente tutti gli opportuni accertamenti, usato da altri soggetti o addirittura da altre organizzazioni, privi di qualsiasi legame diretto con il dichiarante. Per esemplificare il senso della norma: ogni ladro ha i suoi ricettatori e tutti i ricettatori hanno contatti con molti ladri. Sono due cerchi distinti e separati, ma non di rado accade che un ladro conosca anche il ricettatore del «collega» anche se non è il «suo» ricettatore. Parimenti, ogni trafficante di droga dispone di canali di riciclaggio, consulenti, professionisti e imprenditori, di cui si serve, ma gli stessi non operano, generalmente, in regime di «esclusiva» e quindi può ben accadere che il collaborante possa conoscere non solo chi ha «lavorato» con lui ma anche chi lavora con altri gruppi, pur non avendo mai avuto contatti con lui. Quindi potrebbe essere più facile indurlo a segnalare tale soggetto invece che il proprio sodale, per avere dei benefìci. Se è vero che questo parametro può rientrare nel generale concetto di «collaborazione» già codificato, si ritiene che sia utile cristallizzarlo e prevederlo esplicitamente come parametro specifico e autonomo di valutazione da parte del giudice, anche per dare alla magistratura di sorveglianza uno strumento ulteriore per una valutazione ancora più soggettivizzata del richiedente il beneficio e per superare una delle censure della Corte costituzionale che incide, appunto, sulla necessità di motivare in modo circostanziato, oggettivo e individualizzato ogni eventuale diniego;

2) introdurre la possibilità, per il giudice di merito, di determinare in parte le modalità esecutive della pena. Una delle censure alla normativa in esame è relativa al fatto che si attribuiscano a fattori successivi alla sentenza definitiva di condanna l'applicazione di un regime sanzionatorio più gravoso rispetto a quello ordinario di esecuzione della pena inflitta in tale sentenza. Fermo restando che l'ambito del merito è distinto e diverso dall'ambito esecutivo e che la sentenza di merito determina il «quantum» del debito da pagare alla collettività e l'esecuzione il «quomodo», appare comunque ragionevole e opportuno affrontare il problema segnalato dalla Corte costituzionale facendo ricorso a un istituto che nella legislazione anglosassone è molto duttile e utilizzato: quello di consentire già al giudice di merito, che è colui che più e meglio conosce i fatti, di statuire, insieme alla condanna, anche un periodo variabile prima del quale non sia possibile chiedere alcuni benefìci penitenziari. Non sono rare, nelle sentenze di «common law», le statuizioni che oltre a indicare la pena edittale, statuiscono anche un periodo prima del quale non è comunque possibile richiedere alcuni benefìci (ad esempio, la liberazione condizionale). Tale norma consentirebbe, da un lato, di modulare in modo ancora più individualizzato la pena irrogata, rendendo possibile, ad esempio in sede di «patteggiamento», concordare, in parte, anche le modalità esecutive. Questo istituto, inoltre, non è del tutto estraneo al nostro ordinamento. Si pensi all'articolo 72 del codice penale che prevede, a corollario della pena detentiva, l'isolamento diurno per un periodo compreso tra sei mesi e tre anni, anche al fine di anticipare e di incentivare, già in fase di giudizio di merito, l'eventuale collaborazione dell'imputato all'accertamento della verità, consentendogli, con una condotta processuale collaborativa, di concorrere a predeterminare, in parte, anche il modo, oltre che la quantità, della pena espianda.

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

1. All'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il comma 1 è sostituito dal seguente:

«1. L'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e agli internati per i seguenti delitti alle condizioni del presente articolo: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 416-bis e 416-ter del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal citato articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600, 600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609-octies e 630 del codice penale, all'articolo 12, commi 1 e 3, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, all'articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all'articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Sono fatte salve le disposizioni degli articoli 16-nonies e 17-bis del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82»;

b) il comma 1-bis è sostituito dai seguenti:

«1-bis. I benefìci di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o agli internati per uno dei delitti ivi previsti, purché:

a) collaborino con la giustizia a norma dell'articolo 58-ter della presente legge o dell'articolo 323-bis, secondo comma, del codice penale, compresi i casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, nonché i casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall'articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall'articolo 114 ovvero dall'articolo 116, secondo comma, del codice penale;

b) siano stati acquisiti elementi tali da escludere la sussistenza o l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva ovvero il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Tali elementi di valutazione devono avere carattere fattuale, di concretezza e attualità ed essere allegati dall'istante. Ulteriori elementi valutativi o a riscontro possono essere acquisiti autonomamente dal giudice presso il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o presso le direzioni distrettuali antimafia competenti.

1-bis.1. Ai fini della concessione dei benefìci di cui al comma 1 sono altresì valutabili:

a) la sopravvenienza, la gravità e la natura di nuove incriminazioni;

b) la commissione di significative infrazioni disciplinari;

c) l'esito favorevole della partecipazione al percorso rieducativo trattamentale;

d) l'effettivo risarcimento dei danni materiali e morali dovuti e delle obbligazioni civili nascenti dal reato accertate con sentenza penale o civile passata in giudicato, fatta salva la dimostrazione dell'oggettiva impossibilità ad adempiervi;

e) la sussistenza di concrete e non meramente simboliche condotte riparatorie, anche di natura non economica;

f) l'avere ottenuto il perdono esplicito e formale delle vittime del reato;

g) l'essersi distinto per comportamenti particolarmente lodevoli;

h) le ragioni della mancata collaborazione;

i) l'aver fornito indicazioni idonee all'identificazione dei soggetti, delle reti e delle metodologie utilizzati, anche da terzi, per riciclare o reimpiegare proventi economici di natura illecita;

l) l'eventuale permanenza di un ruolo funzionale o gerarchico all'interno del sodalizio criminale di appartenenza;

m) la sussistenza di contatti, anche telematici, con organizzazioni, reti o formazioni criminali straniere;

n) altri congrui specifici elementi di valutazione acquisiti anche in procedimenti riferibili a terzi non ancora pervenuti a sentenza definitiva.

1-bis.2. Nei confronti dei condannati istanti non collaboranti si procede sempre, a cura delle procure distrettuali o della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, agli accertamenti patrimoniali previsti dall'articolo 79 del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, che sono estesi anche al nucleo familiare e alle persone collegate, nonché all'accertamento della pendenza o definitività di misure di prevenzione personali o patrimoniali»;

c) il comma 2 è sostituito dal seguente:

«2. Ai fini della concessione dei benefìci di cui al comma 1 il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide dopo aver acquisito dettagliate informazioni:

a) dal procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto dove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza in esecuzione;

b) dal comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato, cui è chiamato a partecipare anche il direttore dell'istituto in cui il condannato è detenuto;

c) dal comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica del luogo di residenza precedente all'arresto;

d) dal comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica dove il detenuto intende stabilire la sua residenza;

e) per i detenuti e gli internati sottoposti al regime di cui all'articolo 41-bis, anche dal procuratore distrettuale e dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo;

f) per i detenuti e gli internati per i reati di cui al comma 1-ter, dal questore del luogo in cui sono stati accertati i fatti oggetto della condanna»;

d) il comma 2-bis è abrogato;

e) il comma 3 è sostituito dal seguente:

«3. Ai fini della concessione dei benefìci ai detenuti per i reati di cui al comma 1-ter, in ogni caso, il giudice decide decorsi trenta giorni dalla richiesta delle informazioni. Tale termine è di sessanta giorni per i detenuti sottoposti al regime di cui all'articolo 41-bis. I citati termini sono prorogabili rispettivamente a sessanta e a novanta giorni qualora il procuratore della Repubblica di cui alla lettera a) o i comitati provinciali di cui alle lettere b), c) e d) ovvero il procuratore distrettuale o il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo di cui alla lettera e) del comma 2 del presente articolo ritengano che sussistano particolari esigenze di sicurezza ovvero che i collegamenti potrebbero essere mantenuti con organizzazioni operanti in ambiti diversi da quelli già noti o extranazionali. In tale caso ne danno comunicazione al giudice nei termini indicati dal presente comma. La proroga di cui al presente comma è automatica e non è rinnovabile»;

f) il comma 3-bis è sostituito dai seguenti:

«3-bis. L'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI non possono essere concessi ai detenuti e agli internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il procuratore distrettuale, d'iniziativa o su segnalazione di uno dei comitati provinciali di cui alle citate lettere b), c) e d) del comma 2, esprima motivato parere negativo. In tale caso si prescinde dalle procedure previste dai commi 2 e 3.
3-ter. Con il provvedimento di concessione del beneficio di cui al comma 1 possono essere stabiliti prescrizioni, limitazioni e divieti, compreso l'obbligo o il divieto di soggiorno in uno o più comuni, finalizzati a evitare la commissione di reati, il ripristino di relazioni e di contatti, anche telematici, con organizzazioni o con persone legate alla criminalità organizzata, al terrorismo o all'eversione. Con la sentenza di condanna il giudice può statuire anche un periodo, non superiore a tre anni, entro il quale sia preclusa la possibilità di richiedere tutti o alcuni dei benefìci previsti dalla presente legge»;

g) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Condizioni per la concessione dei benefìci e accertamento della pericolosità sociale per taluni delitti».

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