PDL 324

FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1
                        Articolo 2
                        Articolo 3
                        Articolo 4
                        Articolo 5

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 324

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
RAMPELLI, MELONI, CIRIELLI, ACQUAROLI, BELLUCCI, BUCALO, BUTTI, CARETTA, CIABURRO, CROSETTO, LUCA DE CARLO, DEIDDA, DELMASTRO DELLE VEDOVE, DONZELLI, FERRO, FIDANZA, FOTI, FRASSINETTI, GEMMATO, LOLLOBRIGIDA, LUCASELLI, MASCHIO, MOLLICONE, MONTARULI, OSNATO, RIZZETTO, ROTELLI, SILVESTRONI, TRANCASSINI, VARCHI, ZUCCONI

Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause della mancata individuazione dei responsabili del disastro aereo avvenuto al largo dell'isola di Ustica il 27 giugno 1980

Presentata il 23 marzo 2018

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Onorevoli Colleghi! — Alle 20 e 59 del 27 giugno 1980, il DC-9 Itavia in volo da Bologna a Palermo precipita in mare sul Tirreno vicino all'isola di Ustica, causando la morte di ottantuno persone. Per le stragi di Lockerbie e del Ténéré sono bastati un paio d'anni di inchiesta per indicare i colpevoli; per Ustica non sono stati sufficienti quasi quarant'anni. Ancora oggi esistono in Italia diverse scuole di pensiero non solo sulla responsabilità dell'attentato, ma persino sulle sue modalità. Perché è caduto in mare il DC-9 Itavia? Non è questo il luogo per approfondire questi temi, che hanno già fatto versare vasche di inchiostro per più di tre decenni, ma è opportuno ricordare che ogni tesi sul disastro è stata ferocemente contestata, fra tracciati radar occultati, morti sospette, depistaggi, perizie contrastanti sul relitto eccetera.
Secondo il cosiddetto partito del missile, l'aereo sarebbe stato abbattuto da un razzo, lanciato presumibilmente da un jet della NATO contro un velivolo che trasportava Muammar Gheddafi nei cieli del Mediterraneo; il missile avrebbe mancato l'aereo libico e colpito per errore il DC-9 italiano. Secondo questa interpretazione, quindi, si sarebbe trattato di un atto di guerra di un Paese dell'Alleanza atlantica – Stati Uniti o Francia, gli unici ad avere velivoli nella zona – per abbattere l'odiato Colonnello. Per inciso, nel febbraio 2007 l'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, Presidente del Consiglio al momento del disastro, dà la sua ennesima versione sulla strage dichiarando che il DC-9 è stato abbattuto da un missile francese «a risonanza e non a impatto», ma secondo l'Aeronautica simili missili non esistono.
Il giudice Rosario Priore, nella sua sentenza-ordinanza su Ustica del 31 agosto 1999, sostiene che il DC-9 precipitò a causa di un evento esterno, ma che non si è ben capito quale sia stato questo evento, probabilmente l'eccessiva vicinanza di un aereo da caccia, che avrebbe potuto comportare, a causa degli spostamenti d'aria anomali, il cedimento di parte dell'ala sinistra e la conseguente caduta del velivolo. Insomma, un jet militare si sarebbe avvicinato troppo e avrebbe involontariamente fatto precipitare il DC-9; è l'ipotesi detta della «quasi collisione», una tipologia di incidente mai riscontrata nella storia dell'aeronautica mondiale.
Nel 2011, invece, il giudice Priore nel libro «Intrigo internazionale» sposa la teoria del missile, indicandone anche la nazionalità: francese. Priore dice di non credere all'ipotesi della bomba, anche se riconosce che «i periti non hanno mai raggiunto l'unanimità dei pareri. A questo proposito, vorrei ricordare che, sin dalle prime indagini, i collegi peritali si sono sempre divisi sulle questioni fondamentali».
Alle due tesi fin qui esaminate – missile o «quasi collisione» – si aggiunge quella della bomba, ben riassunta da Paolo Guzzanti nel suo libro «Ustica», in cui sostiene che la notte del 27 giugno 1980 sarebbe esploso un ordigno sistemato sulla parete esterna della toilette centrale dell'aereo. Guzzanti si appoggia su varie testimonianze e perizie, fra cui quella del professor Frank Taylor, un esperto internazionale di disastri aerei che si è occupato anche dell'esplosione di Lockerbie, il quale sostiene che queste testimonianze e perizie non siano state adeguatamente esaminate da magistrati, politici e giornalisti per ragioni di «convenienza, incapacità o pigrizia», arrivando a definire l'inchiesta sul disastro di Ustica «la più lunga, la più costosa, la più inconcludente e frustrante inchiesta che mai sia stata fatta al mondo su una singola sciagura a un mezzo di trasporto».
La verità su Ustica forse non si saprà mai. In questi anni si sono susseguiti procedimenti giudiziari, molti dei quali conclusisi con degli improvvisi cambi di scenario, che si snodano essenzialmente lungo tre filoni: l'individuazione degli autori della strage, l'accertamento delle responsabilità dei Ministeri della difesa e dei trasporti e di alcuni generali dell'Aeronautica nel mancato accertamento della verità e la questione dei risarcimenti alle vittime. Il primo filone è quello che si esaurisce per primo: nell'agosto del 1999, nella sua sentenza ordinanza il giudice Rosario Priore, incaricato dell'indagine sulla tragedia, dichiara di non doversi procedere per strage perché «ignoti gli autori del reato». Per Priore il DC-9 è stato abbattuto, «è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un'azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti. Nessuno ha dato la minima spiegazione di quanto è avvenuto».
Con il medesimo provvedimento prende però avvio il secondo filone giudiziario, quello relativo ai depistaggi che avrebbero impedito l'accertamento delle responsabilità del disastro. Con la stessa sentenza-ordinanza, infatti, il giudice Priore dispone il rinvio a giudizio dei generali dell'Aeronautica Lamberto Bartolucci, Zeno Tascio, Corrado Melillo e Franco Ferri e di altri 5 ufficiali per attentato contro gli organi costituzionali, con l'aggravante dell'alto tradimento. Il processo si chiuderà nell'aprile 2004, con l'assoluzione da tutte le accuse dei quattro generali; solo per un capo di imputazione, nei confronti di Ferri e Bartolucci, relativo alle informazioni errate fornite al Governo in merito alla presenza di altri aerei la sera dell'incidente, il reato è considerato prescritto in quanto derubricato. Nelle motivazioni della sentenza sarà scritto che i militari non si macchiarono del reato di alto tradimento, ma «solo» di quello di turbativa, in quanto non riferirono al Governo né i risultati dell'analisi dei dati del radar di Ciampino, né le informazioni in merito al possibile coinvolgimento nel disastro di altri aerei. I giudici rilevano, peraltro, «una forte determinazione ad orientare nel senso voluto dallo Stato maggiore dell'Aeronautica le indagini a qualsiasi livello svolte su Ustica».
Il procedimento di secondo grado, che si svolge a partire dal novembre 2005 e vede imputati di nuovo i generali Bartolucci e Ferri perché rispondano del reato di omessa comunicazione al Governo di informazioni sul disastro di Ustica, si chiude dopo appena un mese con una nuova assoluzione «perché il fatto non sussiste». Per la Corte sostenere che accanto al DC-9 la sera del disastro c'era un altro aereo significa compiere «un salto logico non giustificabile»; tale ipotesi, si legge nelle motivazioni, è supportata solo «da deduzioni, probabilità e basse percentuali, e mai da una sola certezza». Bartolucci, quindi, secondo il giudice Antonio Cappiello, non poteva «omettere di comunicare al Ministro della difesa ciò che probatoriamente gli era ignoto».
Nel frattempo, aveva preso avvio anche il terzo filone giudiziario, relativo sia ai risarcimenti da riconoscere ai familiari delle vittime del disastro, sia a quelli chiesti dalla compagnia Itavia, proprietaria del DC-9 precipitato in mare quella notte, in forza della tesi che il disastro di Ustica «non fu provocato da cedimento strutturale dell'aereo, ma da un missile lanciato da un altro aereo».
Alla base di tutte le richieste risarcitorie si trova la medesima questione: i depistaggi che avrebbero impedito l'accertamento della verità, voluti dallo Stato e messi in opera concretamente da esponenti dei Ministeri della difesa, dei trasporti e dell'interno, che farebbero scaturire un obbligo risarcitorio in capo al Governo pro tempore e, per esso, ai Governi successivi.
Per quanto riguarda i familiari delle vittime, dopo due prime sentenze intervenute nel 2006 e nel 2007 che avevano riconosciuto il diritto al risarcimento in capo alle famiglie solo di alcune delle vittime, nel gennaio del 2008 ben ottantotto familiari delle vittime della strage citano in giudizio, dinanzi al tribunale di Palermo, i Ministeri della difesa e dei trasporti, «colpevoli delle omissioni e delle negligenze» che, di fatto, avrebbero impedito di sapere cosa accadde la sera del 27 giugno del 1980. A ottantuno di essi sarà effettivamente riconosciuto il risarcimento da parte dei giudici della terza sezione civile del tribunale di Palermo. Il tribunale, ricostruendo i fatti accaduti la sera del 27 giugno 1980, ha deliberato di ritenere responsabili i Ministeri sia per non avere garantito la sicurezza del volo Itavia, sia per l'occultamento della verità, con depistaggi e distruzione di atti. Secondo la sentenza si può «ritenere provato che l'incidente occorso al DC-9 si sia verificato a causa di un intercettamento realizzato da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del DC-9 viaggiavano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del DC-9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell'esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l'aereo nascosto oppure di una quasi collisione verificatasi tra l'aereo nascosto ed il DC-9».
Nel frattempo, invece, la famiglia Davanzali, proprietaria dell'Itavia, stenta a vedersi riconoscere un corrispettivo economico per il danno subìto a causa della tragedia. In primo grado, nel gennaio del 2004, il tribunale civile di Roma rigetta la domanda di risarcimento promossa nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei Ministeri della difesa e dei trasporti. In secondo grado la corte d'appello di Roma, pur riconoscendo che «vero è che vi è stato depistaggio», non individua il nesso causale tra questo e il «fallimento della Compagnia Itavia» e, confermando il primo grado, rigetta nuovamente la domanda di risarcimento. Ma gli eredi del patron dell'Itavia ricorrono anche avverso questa sentenza, questa volta in Cassazione. E la terza sezione civile della Cassazione, accogliendo il ricorso, decide che sarà un nuovo processo civile a stabilire le eventuali responsabilità dei Ministeri della difesa e dei trasporti nel mancato controllo dello spazio aereo in cui avvenne la tragedia del DC-9. I giudici osservano che «il solo fatto che i Ministeri non avessero conoscenza della presenza di velivoli nell'aerovia assegnata ad Itavia, e a maggior ragione, che si trattasse di aerei militari non identificati, di per sé non è elemento idoneo ad escludere la colpevolezza, poiché integra proprio, se non altrimenti giustificato, l'inosservanza delle norme di condotta e di sorveglianza e di controllo o quanto meno il difettoso esercizio di tali attività».
Nel settembre del 2012, rovesciando l'impostazione seguita fino ad allora, la corte d'appello di Roma condanna, per omessa attività di controllo e sorveglianza, i Ministeri della difesa e dei trasporti a risarcire l'Itavia e opera un rinvio per la quantificazione del danno che, un anno dopo, dalla medesima corte, sarà determinato in oltre 265 milioni di euro. Secondo i giudici civili lo Stato è responsabile di «omessa attività di controllo e sorveglianza della complessa e pericolosa situazione venutasi a creare nei cieli di Ustica».
Infine, l'ultimo, clamoroso – solo in ordine di tempo – colpo di scena: il 22 ottobre 2013 la terza sezione civile della Corte di cassazione dispone un nuovo processo d'appello per valutare la responsabilità dei Ministeri della difesa e dei trasporti nel fallimento della compagnia Itavia. Nella sentenza la Suprema Corte conferma che ad abbattere il DC-9 fu un missile e che il depistaggio delle indagini sul disastro deve considerarsi definitivamente accertato: «se depistaggio deve qui aversi per definitivamente accertato esservi stato, risulta oltretutto perfino irrilevante ricercare la causa effettiva del disastro nonostante la tesi del missile sparato da aereo ignoto, la cui presenza sulla rotta del velivolo Itavia non era stata impedita dai Ministeri della difesa e dei trasporti, risulti ormai consacrata pure nella giurisprudenza di questa Corte». Per la Cassazione, inoltre, la sentenza impugnata «erra nel mancare di porsi il problema dell'eventuale efficacia di quell'attività di depistaggio».
In conclusione, a fronte di quasi quaranta anni di indagini e di inchieste, di conferme e di smentite, nonché di continue nuove clamorose rivelazioni, l'unico dato che, a dire della Cassazione, e come abbiamo visto, a detta anche di altri collegi giudicanti, è definitivamente e incontrovertibilmente accertato è l'attività di depistaggio operata da una parte – se non tutto – il Governo nazionale.
Per quali motivi questo sia avvenuto rimane, tuttavia, ignoto, pur a fronte di una ridda di speculazioni. Per conto di chi ha agito il nostro Governo nel contesto della strage, con ciò violando la nostra sovranità nazionale e, in ultima istanza, il diritto non solo dei familiari delle vittime, ma dell'Italia tutta, di conoscere la verità su ciò che è accaduto quella notte nei cieli dell'Italia?
A questo quesito auspichiamo che possa dare risposta la Commissione parlamentare di inchiesta la cui istituzione sollecitiamo con la presente proposta di legge. Il 27 giugno 2011, nella ricorrenza del trentunesimo anniversario della strage, in un messaggio ai familiari delle vittime il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva affermato che: «L’iter tormentoso di lunghe inchieste e l'amara constatazione che le investigazioni svolte e i processi celebrati non hanno consentito la esauriente ricostruzione della dinamica dell'evento e la individuazione dei responsabili non debbono far venir meno l'impegno convinto di tutte le istituzioni nel sostenere le indagini tuttora in corso. Ogni sforzo deve essere compiuto, anche sul piano internazionale, per giungere finalmente a conclusioni che rimuovano le ambiguità, i dubbi e le ombre che ancora oggi circondano quel tragico fatto».
Trentotto anni fa qualcosa e qualcuno hanno fatto precipitare in mare un aereo pieno di passeggeri, uccidendo ottantuno innocenti. Il Governo dell'epoca depistò le indagini assecondando i voleri di potenze straniere invece di difendere la sovranità italiana e i diritti delle vittime e delle loro famiglie. Oggi, anche alla luce dell'ultimo pronunciamento della Corte di cassazione, appare ancora più importante, per il bene del nostro Paese, accertare la verità. Ci auguriamo che il popolo italiano possa arrivare a conoscere quella verità e che i responsabili italiani dei depistaggi siano processati per alto tradimento.

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Istituzione, compiti e durata).

1. È istituita, ai sensi dell'articolo 82 della Costituzione, una Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause della mancata individuazione dei responsabili del disastro aereo avvenuto al largo dell'isola di Ustica il 27 giugno 1980, di seguito denominata «Commissione».
2. In particolare, la Commissione accerta:

a) se siano state poste in essere attività di depistaggio volte ad occultare le cause del disastro e da chi tali attività siano state poste in essere, siano essi organi dello Stato, organizzazioni o singoli individui;

b) le eventuali attività di depistaggio al fine di verificare se esse fossero volte ad assecondare interessi stranieri in modo prioritario rispetto all'interesse nazionale.

3. La Commissione conclude i propri lavori entro diciotto mesi dalla sua costituzione, presentando alle Camere una relazione sull'attività svolta e sui risultati dell'inchiesta. Sono ammesse relazioni di minoranza.

Art. 2.
(Composizione della Commissione e funzionamento).

1. La Commissione è composta da venti senatori e da venti deputati nominati, rispettivamente, dal Presidente del Senato della Repubblica e dal Presidente della Camera dei deputati, in modo da rispecchiare la consistenza proporzionale di ciascun gruppo parlamentare e comunque assicurando la presenza di un rappresentante per ciascun gruppo costituito in almeno un ramo del Parlamento.
2. Con i criteri e con la procedura di cui al comma 1 si procede alla sostituzione dei componenti in caso di dimissioni dalla Commissione o di cessazione del mandato parlamentare.
3. L'ufficio di presidenza, composto dal presidente, da due vicepresidenti e da due segretari, è eletto a scrutinio segreto dalla Commissione tra i suoi componenti. Nell'elezione del presidente, se nessuno riporta la maggioranza assoluta dei voti, si procede al ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti. In caso di parità di voti, è proclamato eletto o entra in ballottaggio il più anziano di età.
4. Per l'elezione, rispettivamente, dei due vicepresidenti e dei due segretari, ciascun componente della Commissione scrive sulla propria scheda un solo nome. Sono eletti coloro che hanno ottenuto il maggior numero di voti. In caso di parità di voti, si procede ai sensi del comma 2.
5. La Commissione approva, prima dell'inizio dell'attività di inchiesta, un regolamento interno per il proprio funzionamento.
6. Le spese di funzionamento della Commissione sono stabilite nel limite massimo di 30.000 euro e sono poste per metà a carico del bilancio interno del Senato della Repubblica e per metà a carico del bilancio interno della Camera dei deputati.

Art. 3.
(Attività di indagine).

1. La Commissione procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le medesime limitazioni dell'autorità giudiziaria. Per le audizioni a testimonianza davanti alla Commissione si applicano le disposizioni degli articoli 366 e 372 del codice penale.
2. Alla Commissione, limitatamente all'oggetto delle indagini di sua competenza, non può essere opposto il segreto di Stato né il segreto d'ufficio. Per i segreti professionale e bancario si applicano le norme vigenti. È sempre opponibile il segreto tra difensore e parte processuale nell'ambito del mandato. Quando gli atti o i documenti siano stati assoggettati al vincolo del segreto funzionale da parte delle competenti Commissioni parlamentari di inchiesta, detto segreto non può essere opposto alla Commissione. La Commissione acquisisce tutta la documentazione raccolta o prodotta sul disastro di Ustica dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, di cui alla legge 17 maggio 1988, n. 172.
3. La Commissione può avvalersi dell'opera di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria e delle collaborazioni che ritenga necessarie. Può richiedere informazioni e documenti all'Agenzia informazioni e sicurezza interna, all'Agenzia informazioni e sicurezza esterna e al Dipartimento dell'informazione per la sicurezza.
4. La Commissione può ottenere, anche in deroga a quanto stabilito dall'articolo 329 del codice di procedura penale, copie di atti o documenti relativi a procedimenti o inchieste in corso presso l'autorità giudiziaria o altri organi inquirenti. L'autorità giudiziaria provvede tempestivamente e può ritardare, con decreto motivato solo per ragioni di natura istruttoria, la trasmissione di copie degli atti e documenti richiesti. Il decreto ha efficacia per trenta giorni e può essere rinnovato. Quando tali ragioni vengono meno, l'autorità giudiziaria provvede senza ritardo a trasmettere quanto richiesto.
5. Tutte le volte che lo ritenga opportuno la Commissione può riunirsi in seduta segreta.
6. La Commissione, a maggioranza assoluta dei propri componenti, decide quali atti e documenti possono essere divulgati. Devono comunque essere coperti da segreto i nomi, gli atti, i documenti attinenti a procedimenti giudiziari nella fase delle indagini preliminari.

Art. 4.
(Obbligo del segreto).

1. I componenti della Commissione, i funzionari e il personale addetti alla Commissione stessa e tutte le altre persone che collaborano con la Commissione o compiono o concorrono a compiere atti di inchiesta oppure di tali atti vengono a conoscenza per ragioni di ufficio o di servizio, sono obbligati al segreto, anche dopo la cessazione dell'incarico, per tutto quanto riguarda gli atti e i documenti di cui all'articolo 3, comma 6.
2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la violazione dell'obbligo di cui al comma 1, con la diffusione di informazioni in qualsiasi forma, è punita a norma dell'articolo 326 del codice penale.
3. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, le stesse pene si applicano a chiunque diffonde, in tutto o in parte, anche per riassunto o informazione, atti o documenti del procedimento di inchiesta dei quali sia stata vietata la divulgazione.

Art. 5.
(Entrata in vigore).

1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

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