XVIII LEGISLATURA
CAMERA DEI DEPUTATI
N. 268
PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa dei deputati
MOLTENI, FEDRIGA, GRIMOLDI, GUIDESI, INVERNIZZI
Delega al Governo in materia di determinazione dei criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale
Presentata il 23 marzo 2018
Onorevoli Colleghi! — Negli ultimi venti anni il ruolo e le funzioni del pubblico ministero sono stati spesso oggetto di riforme e di dibattito in vari paesi democratici (come l'Inghilterra, la Francia, la Spagna, l'Olanda, il Belgio, gli Stati Uniti d'America, il Canada e molti altri ancora), nonché di autorevoli raccomandazioni da parte di organismi sopranazionali come l'Unione europea, il Consiglio d'Europa e i congressi delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine. Un tale interesse è certamente giustificato per almeno due ragioni che sono ben attuali in Italia:
a) a causa del ruolo cruciale che la magistratura requirente svolge nella repressione della criminalità. I pubblici ministeri sono i «guardiani dei cancelli» della giustizia penale. Senza la loro iniziativa non può esservi un efficace intervento repressivo del giudice, che è per sua natura un organo passivo. Il loro ruolo ha, inoltre, acquisito un'importanza via via maggiore per effetto della crescente complessità, pericolosità e diffusione che i fenomeni criminali di livello locale, nazionale e internazionale hanno assunto in tutti i Paesi negli ultimi decenni;
b) a causa delle devastanti conseguenze che un uso indebito, improprio o partigiano, dell'iniziativa penale può avere sulla protezione dei diritti civili, sulla salvaguardia dello status sociale, economico, familiare e politico dei cittadini e sulla loro eguaglianza davanti alla legge penale (come ciascuno di noi sa bene, di per sé l'iniziativa penale spesso genera, di fatto, effetti sanzionatori cui non si rimedia con una sentenza di proscioglimento che inoltre da noi arriva, di regola, a distanza di anni o addirittura di lustri).
Le soluzioni istituzionali e operative che vengono adottate negli altri Paesi a consolidata tradizione democratica per soddisfare le complesse esigenze funzionali che si collegano al ruolo del pubblico ministero danno per scontato che l'esercizio dell'azione penale abbia, e non possa non avere, ampi margini di discrezionalità e che quindi una parte molto rilevante delle politiche pubbliche nel settore criminale dipenda dalle scelte che i pubblici ministeri adottano nel concreto, quotidiano esercizio dell'azione penale.
Vero è che il potere discrezionale dei pubblici ministeri può variare da un Paese all'altro e con esso anche la rilevanza politica del loro ruolo. È certamente più ampio dove i pubblici ministeri dirigono la polizia giudiziaria nel corso delle indagini (come avviene, in varia misura, nei Paesi dell'Europa continentale), mentre lo è molto meno nei paesi in cui sono del tutto esclusi dalla fase investigativa (come in Inghilterra e Galles). Sia che i loro poteri discrezionali siano limitati alla sola iniziativa penale sia che includano le decisioni su come condurre le indagini, la realtà è che sono comunque poteri di grande rilievo politico.
Non può quindi sorprendere che il ruolo del pubblico ministero sia stato ricorrentemente oggetto di dibattito e di riforme nei Paesi democratici. In realtà, nell'affrontare o nel rivedere la posizione istituzionale del pubblico ministero, i Paesi democratici devono comunque cercare di bilanciare a livello operativo due valori confliggenti ma entrambi di grande rilievo.
Da un lato, la consapevolezza che il pubblico ministero partecipa alla formulazione e all'attuazione delle politiche criminali impone l'adozione di meccanismi atti ad assicurare che il ruolo svolto in questo cruciale settore sia in qualche modo disciplinato e controllato nell'ambito del processo democratico.
Dall'altro, l'esigenza di garantire che l'azione penale sia esercitata con rigore, uniformità e correttezza impone di evitare un collegamento troppo stretto con il potere politico, che potrebbe essere usato dalle maggioranze del momento allo scopo di influenzare la condotta (attiva od omissiva) del pubblico ministero per obiettivi di parte; più in generale tale esigenza risponde anche all'obiettivo di assicurare l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale e tutta la trasparenza possibile alla formulazione e alla gestione delle politiche criminali.
Diverse sono le soluzioni che molti Paesi democratici hanno adottato – soprattutto negli ultimi decenni – per bilanciare queste contrapposte esigenze e per soddisfare al contempo le esigenze di funzionalità che derivano dall'accresciuta complessità e rilevanza del ruolo del pubblico ministero.
Se si considerano le modifiche introdotte nell'assetto istituzionale del pubblico ministero in molti Paesi e il perdurante dibattito sul suo ruolo, si può certamente dire che i tentativi finora fatti per bilanciare i due valori dell'indipendenza e della responsabilità assumono le caratteristiche di un «equilibrio instabile» piuttosto che quelle di soluzioni definitive e pienamente soddisfacenti.
In particolare, in molti Paesi democratici si può notare la ricorrente tendenza a modificare tale equilibrio con misure volte a rendere il pubblico ministero meno dipendente dalle maggioranze governative. Una tendenza, tuttavia, che non viene mai spinta fino al punto da ignorare del tutto il valore democratico della responsabilità. All'interno di questo quadro l'Italia si profila come un caso deviante. Priorità assoluta è data al valore dell'indipendenza. Nessun rilievo viene dato al valore democratico della responsabilità e della trasparenza per le scelte che i pubblici ministeri sono comunque chiamati a prendere nel cruciale settore delle politiche penali.
Da un punto di vista formale la «soluzione» adottata in Italia sembra essere non solo perfetta ma anche la più auspicabile agli occhi di un osservatore superficiale.
Nel predisporre il testo della Costituzione all'indomani della seconda guerra mondiale, il Costituente ha posto grande attenzione alle strutture requirenti.
Per evitare che i poteri del pubblico ministero fossero usati in modo politicamente distorto, come precedentemente avvenuto sotto il regime fascista, il Costituente ha ritenuto necessario recidere definitivamente il tradizionale vincolo che poneva il pubblico ministero alle dipendenze gerarchiche del Ministro della giustizia. Il Costituente non ha tuttavia ritenuto necessario separare giudici e pubblici ministeri in due corpi distinti. Entrambi vengono reclutati con uno stesso concorso pubblico.
Per garantire l'effettiva indipendenza di giudici e pubblici ministeri l'Assemblea costituente ha inoltre optato per una forma molto ampia di «autogoverno» della magistratura, disponendo che tutte le decisioni relative allo status dei magistrati (giudici e pubblici ministeri), dal reclutamento fino al pensionamento, fossero concentrate nelle mani del Consiglio superiore della magistratura (CSM), composto in maggioranza da magistrati direttamente eletti dai colleghi.
L'Assemblea costituente ha poi disposto che i pubblici ministeri debbano avere il monopolio dell'iniziativa penale e nel contempo il potere di disporre della polizia durante la fase delle indagini. Ha inoltre voluto che tale monopolio sia esercitato in piena indipendenza, vale a dire al di fuori di una qualsiasi delle forme di responsabilità politica, diretta o indiretta, esistenti nelle altre democrazie costituzionali.
Onde evitare un uso discrezionale o arbitrario, e quindi politicamente rilevante, del potere inquirente del pubblico ministero, il Costituente ha inoltre ritenuto che bastasse prescrivere l'obbligatorietà dell'azione penale per tutti i reati. Per quanto ci è dato di sapere, nessuno dei Padri costituenti dubitava che una simile disposizione potesse di fatto essere applicata; nessuno sembrava dubitare che tutti i reati potessero essere effettivamente ed egualmente perseguiti.
Inoltre i Costituenti erano fermamente convinti che indipendenza e obbligatorietà dell'azione penale – concepite da loro come due facce della stessa medaglia – sarebbero state il miglior presidio del precetto costituzionale che sancisce l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.
È una soluzione formalmente perfetta ma che presenta un difetto non piccolo: a dispetto della norma costituzionale che impone ai magistrati di perseguire con efficacia tutti i reati, anche in Italia l'azione penale risulta essere di fatto largamente discrezionale, almeno quanto lo è in altri Paesi e per certi aspetti – come si dirà in seguito – anche di più.
Una discrezionalità che con il tempo è divenuta sempre più visibile anche a causa della crescente dimensione e complessità dei fenomeni criminali. Mentre ancora venti anni fa le voci che evidenziavano questo fenomeno erano alquanto isolate, attualmente esso viene sempre più unanimemente riconosciuto.
Al riguardo basti ricordare che:
1) la commissione di riforma dell'ordinamento giudiziario, nominata dall'allora Ministro della giustizia Conso con proprio decreto 8 febbraio 1993 e composta in maggioranza da magistrati di varie correnti, aveva riconosciuto l'impossibilità di perseguire tutti i reati, neppure con la più ampia depenalizzazione, e aveva pertanto ritenuto che fosse necessario stabilire delle priorità nell'esercizio dell'azione penale. Rimase soccombente tuttavia l'orientamento che, data la natura politica della materia, il compito di fissare le priorità spettasse al Parlamento. Prevalse invece la decisione che fossero le stesse procure della Repubblica a stabilire le priorità (Documenti Giustizia, 1994, pagina 1100);
2) l'esigenza di fissazione delle priorità risulta perfino da sentenze disciplinari, come nel caso in cui la sezione disciplinare del CSM aveva giudicato un pubblico ministero che era stato trasferito e aveva lasciato nel suo ufficio di origine una considerevole mole di lavoro non espletato e che nella scelta delle priorità aveva utilizzato criteri suoi. La sezione disciplinare lo aveva assolto affermando che la mole di lavoro non consentiva il pieno smaltimento dei casi a lui assegnati e che la definizione delle priorità effettuata personalmente non costituiva illecito disciplinare in quanto non vi erano priorità stabilite per tutti i sostituti dalla procura in cui l'incolpato aveva prestato servizio (sentenza disciplinare n. 33 del 1997);
3) la necessità di fissare priorità risultava dagli stessi verbali del CSM come, ad esempio, dall'allegato A al verbale del plenum del 10 giugno 1998, ove si prendeva atto che in alcune procure generali di corte d'appello erano state fissate priorità, peraltro in termini più o meno generici, e in altre no;
4) l'esigenza di fissare priorità nell'esercizio dell'azione penale è stata oggetto di una raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa. In tale delibera si raccomandava l'adozione del principio di opportunità dell'azione penale e si indicavano le garanzie che dovevano accompagnare tale scelta. Agli Stati membri che in Costituzione prevedono l'obbligatorietà dell'azione si raccomandava di adottare misure che consentissero di raggiungere gli stessi obiettivi che si ottenevano con l'adozione del principio di opportunità e con le garanzie a esso relative (raccomandazione n. R(87) 18 adottata dal Comitato dei ministri il 17 settembre 1987).
È di tutta evidenza che le scelte che si effettuano nell'esercizio dell'azione penale e nell'uso dei mezzi di indagine sono per loro natura scelte di grande rilievo politico. Dal loro concreto esercizio dipende non solo la effettiva protezione di valori che riguardano la libertà e la dignità dei cittadini, ma anche la definizione di una rilevantissima parte delle scelte di politica criminale relative alla repressione dei fenomeni criminali e quindi anche l'efficacia complessiva dell'azione repressiva della criminalità.
È una discrezionalità che, a differenza degli altri Paesi democratici, viene da noi esercitata in piena indipendenza da un corpo burocratico che in nessun modo può essere chiamato, neppure indirettamente, a rispondere delle scelte che compie nell'ambito del processo democratico.
Sarebbe difficile cogliere appieno la portata dei poteri del pubblico ministero in Italia e degli ambiti di discrezionalità di cui gode senza ricordare alcuni suoi poteri e caratteristiche e poteri che si sono venuti sviluppando e consolidando nel corso degli anni.
Tra i poteri del pubblico ministero, due sono particolarmente rilevanti:
a) i pubblici ministeri hanno progressivamente acquisito il pieno controllo sulla polizia giudiziaria nel corso dell'intera fase delle indagini. Il codice di procedura penale approvato nel 1988 ha infatti esplicitamente affidato ai pubblici ministeri la responsabilità di ogni decisione relativa alle indagini, quale strumento volto ad assicurare che l'incondizionata indipendenza dei pubblici ministeri nell'applicare il principio costituzionale di obbligatorietà dell'azione penale non sia compromessa da decisioni o iniziative adottate autonomamente dalla polizia. Il codice del 1988 ha anche espressamente stabilito all'articolo 330 che il pubblico ministero prenda «notizia dei reati di propria iniziativa» e quindi possa di sua propria iniziativa avviare indagini su reati che lui stesso, più o meno fondatamente, ritiene siano stati commessi;
b) nel corso degli ultimi trenta anni l'iniziativa penale è via via divenuta un attributo più del singolo magistrato che dell'ufficio cui questi appartiene, a dispetto del fatto che i poteri gerarchici siano formalmente attribuiti al capo dell'ufficio.
Diversi fattori hanno contribuito a questa evoluzione. Fra questi la tendenza del CSM a comprimere in maniera molto marcata i poteri gerarchici dei capi degli uffici di procura proprio con l'intento di promuovere la piena e incondizionata affermazione dell'obbligatorietà dell'azione penale (svincolandola da condizionamenti di natura gerarchica) e un'indipendenza dei singoli pubblici ministeri di portata uguale a quella del giudice.
I pubblici ministeri, se lo vogliono, possono pertanto decidere, in relazione ai singoli casi e secondo le rispettive inclinazioni, se ed in che misura esercitare direttamente funzioni di polizia giudiziaria, in che misura utilizzare gli strumenti investigativi disponibili e che ampiezza dare alle indagini (e quindi, in buona misura, le sorti del singolo caso).
In altre parole è considerato pienamente legittimo che ciascuno di essi inizi e conduca, in assoluta indipendenza, indagini di qualsiasi tipo su qualsiasi cittadino, utilizzando le varie Forze di polizia per accertare i reati che egli stesso (più o meno fondatamente) ritenga essere stati commessi. I pubblici ministeri, inoltre, non possono in alcun modo essere ritenuti responsabili per queste decisioni, nemmeno qualora le accuse – come è di fatto ricorrentemente successo – si rivelino, negli anni successivi, del tutto infondate nel corso del dibattimento, cioè quando le molteplici sanzioni sociali, politiche ed economiche o familiari, che di fatto spesso si collegano alle iniziative penali, hanno già prodotto appieno i loro dirompenti effetti sui cittadini indagati o imputati e sulle loro famiglie.
Nella sostanza l'obbligatorietà dell'azione penale formalmente e definitivamente trasforma qualsiasi atto discrezionale del pubblico ministero in «atto dovuto».
L'analisi delle decisioni che vengono prese nella gestione del personale togato e perfino nella giurisprudenza ordinaria rivelano ulteriori aspetti della discrezionalità dei magistrati inquirenti che rivestono notevole interesse: l'effettuazione di indagini assolutamente improduttive, anche di notevole costo, non può dar luogo ad alcuna forma di responsabilità del pubblico ministero ed è del tutto irrilevante ai fini della valutazione della sua professionalità; è possibile rilevare vari casi in cui i magistrati inquirenti hanno assunto decisioni motivandole con riferimento a documenti inesistenti o su affermazioni false senza che questo abbia dato luogo a sanzioni né disciplinari né tantomeno penali.
In un caso si è persino stabilito che non sussisteva responsabilità disciplinare neppure in un caso in cui il pubblico ministero aveva omesso di rivelare al giudice del riesame l'esistenza di consistenti elementi a discarico di un imputato che si trovava in detenzione preventiva e che è stato poi scarcerato solo otto mesi dopo (sentenza della sezione disciplinare del CSM del 23 gennaio 1998 e successiva sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione).
Esistono poi documentazioni videoregistrate di casi in cui il pubblico ministero prospetta ai testimoni la gravità dei reati di cui sarebbero accusati se non si decidono a «dire la verità» (interrogatorio di Gabriella Alletto dell'11 luglio 1997) e altri in cui i pubblici ministeri avvertono gli imputati dei gravi reati in cui potrebbero incorrere se rivelassero l'esistenza di reati commessi da persone contro cui il pubblico ministero stesso non desidera iniziare l'azione penale (C. Bonini, F. Misiani, Le toghe rosse, pagg. 182-94).
I casi indicati sono venuti alla luce solo accidentalmente ed è difficile dire quanto siano diffusi. Ciò che comunque fa assumere ad essi piena e gravissima rilevanza per chi intende prospettare riforme di tipo liberale ispirate a valori di tutela delle libertà del cittadino, è che eventi di quel genere possano avvenire e divenire pienamente noti senza che ne consegua alcuna responsabilità per i pubblici ministeri che ne sono stati protagonisti.
Che non vengano in alcun modo sanzionati significa infatti che nel nostro sistema quei comportamenti sono pienamente legittimi. Di ciò il legislatore deve tenere conto non solo nel ridisegnare il ruolo del pubblico ministero ma anche nel rivedere le caratteristiche del procedimento disciplinare.
Date queste condizioni, non deve sorprendere che la piena e irresponsabile indipendenza dei pubblici ministeri, intesa poi come attributo di ciascuno di loro, sia sfociata in un uso dei loro amplissimi poteri discrezionali che si differenzia da caso a caso, in base a orientamenti, preferenze o ambizioni personali. Un simile fenomeno – spesso evidenziato dalla stampa negli ultimi venti anni – emerge in tutta chiarezza dalle interviste condotte su un campione dei mille magistrati penalisti (vedi Di Federico, Codice di procedura penale e diritti della difesa, 1996) e dagli scritti di autorevoli magistrati inquirenti.
Tra essi certamente il più noto, anche sul piano internazionale, Giovanni Falcone. In un suo scritto egli osserva infatti come in assenza di una politica giudiziaria vincolante «tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti (...). Mi sento di condividere l'analisi secondo cui, in mancanza di controlli istituzionali sull'attività del pubblico ministero, saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e collegamenti occulti con centri occulti di potere possano influenzare l'esercizio di tale attività.
Mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e coordinare l'attività del pubblico ministero finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell'obbligatorietà dell'azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli sulla sua attività» (G. Falcone, Interventi e proposte, 1994, pagine 173-174).
Il tutto con la conseguenza di dare anche una «immagine della giustizia che a fronte di interventi talora tempestivi soltanto per fatti di scarsa rilevanza sociale, e talora tardivi per episodi di elevata pericolosità, appare all'opinione pubblica come una variabile impazzita del sistema» (ibidem, pagine 180-181).
Una simile «frammentazione» delle iniziative dei pubblici ministeri e la totale assenza di responsabilità per l'esercizio personalizzato di un potere discrezionale di notevole ampiezza hanno ulteriormente moltiplicato le occasioni di diseguale trattamento dei cittadini davanti alla legge penale, che derivano comunque dalla mancata regolamentazione della discrezionalità. Ciò ha creato le condizioni più favorevoli per un uso distorto di ciò che l'allora giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Jackson aveva definito come «il potere più pericoloso del pubblico ministero», ossia «(...) quello di scegliere le persone da colpire piuttosto che i casi su cui indagare (...)» e quindi effettuare su di loro indagini a tutto campo (R.H. Jackson, The Federal Prosecutor, 1940), un'accusa che infatti è stata ripetutamente mossa ai nostri pubblici ministeri più attivi.
Paradossalmente, quindi, proprio l'obbligatorietà dell'azione penale che era stata voluta dal Costituente per tutelare il valore dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, è divenuta, anche per le interpretazioni che di essa sono date, il principale impedimento alla possibilità di regolare la discrezionalità dell'azione penale per rendere quella tutela effettiva.
Due ulteriori conseguenze disfunzionali si connettono poi alla «personalizzazione delle funzioni requirenti» e alle quali in questa sede si può solo accennare.
Da una parte essa ha spesso rappresentato un grave ostacolo alle indagini sulla criminalità organizzata che quasi sempre richiedono il coordinamento tra i diversi uffici di procura (i poteri di coordinamento attribuiti al Procuratore nazionale antimafia sono molto limitati).
Dall'altra ha portato a trascurare quasi completamente il perseguimento e la repressione dei cosiddetti «reati minori» (furti negli appartamenti, aggressioni, scippi), cioè proprio di quei reati che più direttamente minano il senso di sicurezza del cittadino (G. Di Federico, Obbligatorietà dell'azione penale, coordinamento delle attività del pubblico ministero e loro rispondenza alle aspettative della comunità, 1991).
Per ovviare alle molteplici disfunzioni che abbiamo sommariamente descritto ed effettuare anche da noi quel trasparente bilanciamento tra indipendenza e responsabilità del pubblico ministero che viene in vario modo perseguito negli altri Paesi democratici, nonché per assicurare un coerente ed efficace esercizio dell'azione penale e con esso una più adeguata protezione dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, è necessaria una procedura per stabilire le priorità dell'azione penale e per predisporre strumenti di monitoraggio che rendano per quanto possibile trasparente la gestione delle politiche pubbliche nel settore criminale.
Prima di formulare le proposte intese a realizzare questo obiettivo è necessario ricordare che la definizione delle priorità è – come ci insegna l'esperienza di altri Paesi democratici – un compito assai complesso e mai pienamente definitivo.
Al riguardo è pertanto più utile prevedere una procedura che consenta l'acquisizione di tutti i contributi di conoscenza necessari a quel fine piuttosto che indicazioni relative agli aspetti sostantivi delle priorità stesse.
Certamente nella fissazione delle priorità assumeranno rilievo:
a) i criteri di priorità già indicati dall'articolo 227 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, e cioè «della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l'accertamento dei fatti, nonché dell'interesse della persona offesa», anche «indipendentemente dalla data del commesso reato o da quella delle iscrizioni del procedimento»;
b) le indicazioni, in buona parte coincidenti, contenute nelle raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa del 1987 – come la citata raccomandazione n. R(87) 18 – che indicano in primo luogo serietà, natura, circostanze e conseguenze del crimine; la personalità dell'indagato; la solidità degli elementi di prova ai fini della condanna; gli effetti della condanna sull'indagato; l'interesse della persona offesa.
La presente proposta di legge delega ha l'obiettivo di raggiungere questi scopi, stabilendo i princìpi e criteri direttivi che il legislatore delegato deve seguire a tale fine.
PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
1. Il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi aventi ad oggetto l'individuazione dei criteri per la determinazione delle priorità nell'esercizio dell'azione penale, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) prevedere che ciascun procuratore generale di corte d'appello, sentiti i procuratori del suo distretto, formuli proposte motivate di priorità che tengano specificamente conto dei fenomeni criminogeni del proprio distretto;
b) prevedere che, nel formulare le proposte di cui alla lettera a), i procuratori generali delle corti d'appello individuino anche le possibili connessioni tra i tipi di crimini da perseguire e i mezzi d'indagine da utilizzare, tenendo conto anche dei criteri di priorità indicati nell'articolo 227 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51;
c) prevedere che i procuratori generali delle corti d'appello inviino le proposte motivate di cui alla lettera a) al procuratore generale presso la Corte di cassazione, che le trasmette al Ministro della giustizia con le sue osservazioni e le sue proposte;
d) prevedere che il Ministro dell'interno e il Ministro dell'economia e delle finanze, in considerazione della loro maggiore conoscenza dei fenomeni criminali, trasmettano al Ministro della giustizia proprie proposte, relative sia alle priorità sia ai mezzi d'indagine;
e) prevedere che il Ministro della giustizia, sulla base delle informazioni ricevute ai sensi del presente comma, presenti alle Camere una coerente e motivata proposta sulle priorità da seguire e la sottoponga all'approvazione delle stesse Camere;
f) prevedere che i soggetti che partecipano alla definizione delle priorità effettuino un monitoraggio sull'efficacia operativa delle priorità decise dalle Camere e sulle loro eventuali carenze e ne comunichino i risultati al Ministro della giustizia con cadenza annuale;
g) prevedere che, nell'ambito delle attività di monitoraggio di loro competenza ai sensi della lettera f), i procuratori generali delle corti d'appello verifichino anche l'efficacia dell'iniziativa penale promossa dai singoli sostituti del distretto, o di quella promossa da pool di sostituti che si occupano congiuntamente di singoli casi, tenendo analiticamente conto degli esiti giudiziari di tali iniziative;
h) prevedere che con cadenza annuale i procuratori generali delle corti d'appello trasmettano al Ministro della giustizia i risultati della loro attività di monitoraggio sull'esercizio dell'azione penale, sull'uso dei mezzi di indagine riguardanti il loro distretto e sull'uso delle misure restrittive delle libertà personali;
i) prevedere che i procuratori generali delle corti d'appello si servano degli uffici distrettuali dell'amministrazione giudiziaria per tutte le ricerche e le elaborazioni necessarie a svolgere i compiti di cui alle lettere a), b), c), g) e h);
l) prevedere che il Ministro della giustizia riferisca annualmente alle Camere sullo stato della giustizia, incluse le risultanze del monitoraggio relativo all'azione penale e alle sue risultanze giudiziarie, all'uso dei mezzi d'indagine e all'uso delle misure restrittive della libertà personale;
m) prevedere che il Ministro della giustizia, anche sulla base delle segnalazioni che riceve dai procuratori generali delle corti d'appello e dagli altri Ministri, possa proporre alle Camere modifiche alle priorità precedentemente fissate, in occasione della propria relazione annuale sullo stato della giustizia, di cui alla lettera l), o comunque quando lo ritenga necessario;
n) ristabilire il principio dell'unità dell'azione penale e la struttura unitaria degli uffici del pubblico ministero, per consentire ai procuratori della Repubblica e ai procuratori generali delle corti d'appello, nell'ambito delle rispettive competenze, di assicurare che nelle attività d'indagine i sostituti si attengano alle indicazioni concernenti le priorità e l'uso dei mezzi d'indagine, per rendere maggiormente efficace l'azione repressiva ed eliminare le disfunzioni che si connettono al fenomeno della personalizzazione delle funzioni del pubblico ministero.