PDL 1960

FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 1960

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
ROSSELLO, BATTILOCCHIO, CASSINELLI, CATTANEO, D'ETTORE, FERRAIOLI, GIACOMONI, PEREGO DI CREMNAGO, PETTARIN, PITTALIS, RAVETTO, RUGGIERI, SARRO, SIRACUSANO, TARTAGLIONE, VIETINA, ZANELLA, ZANETTIN

Abrogazione dell'articolo 323 del codice penale, concernente il reato di abuso d'ufficio

Presentata il 5 luglio 2019

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Onorevoli Colleghi! – Il reato di abuso d'ufficio è previsto dall'articolo 323 del codice penale, che recita:

«Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità».

Il bene giuridico tutelato è il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione, oltre alla trasparenza dell'azione amministrativa.
Il delitto di abuso d'ufficio è mutato nel tempo: infatti, tale disposizione è stata novellata e sostituita prima dall'articolo 13 della legge 26 aprile 1990, n. 86, e poi dall'articolo 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234. Infine, l'articolo 1, comma 75, lettera p), della legge 6 novembre 2012, n. 190, ha sostituito le parole: «da sei mesi a tre anni» con le attuali parole: «da uno a quattro anni».
Come, tra l'altro, emerso nel dibattito che si è svolto nelle ultime settimane, sono note le critiche rivolte alla fattispecie di cui all'articolo 323 del codice penale o, per meglio dire, alla sua applicazione giurisprudenziale e, più in generale, alla sua utilizzazione giudiziaria quale (asserita) intromissione nella sfera di attività riservata alla pubblica amministrazione. La difficoltà applicativa della norma e la statistica insoddisfazione dei suoi esiti processuali impongono, quindi, un'ampia riflessione sul punto.
Allo stato attuale, risulta essere un fatto che nelle fasi del giudizio di merito – per tacere di quelle d'indagine – i capi di imputazione per tale reato sono spesso articolati in modo sapientemente generico, sicuramente esplorativo e quindi conveniente ai fini dell'attività investigativa, in modo da garantire un ampio accertamento ricognitivo, ma così lati da trovarne poi prescritto l'esito in Cassazione.
Le analisi della procura di Roma segnalano che la maggior parte, anzi la quasi totalità dei processi per abuso d'ufficio è archiviata. Lo confermano le rilevazioni di dieci anni della banca dati online della Corte dei conti: sono solo 150 le sentenze di responsabilità per il reato di abuso d'ufficio, tra l'altro associato ad altre fattispecie (truffa, falso ideologico, violenza e falsità in atti), che intervengono in suo soccorso per sorreggerne il teorema accusatorio. Una quantità enorme di procedimenti che iniziano a fronte di una quantità infinitesimale di quelli conclusi con condanna. Nel frattempo, carriere, vite e famiglie di coloro che ne escono non colpevoli, dopo lunghissimi anni, sono rovinate e spesso costoro sono ridotti in miseria.
La fattispecie, com'è noto, ha una lunga e travagliata storia, che può sintetizzarsi come la ricerca di una tassatività mai compiutamente raggiunta.
Nel codice Rocco, essa era coniata sul modello del reato di mera condotta con dolo specifico ed era concepita come norma penale di chiusura: cosa all'epoca comprensibile, non vigendo un principio di tassatività di rango costituzionale. Fattispecie, quindi, dalla condotta ben poco definita, tutta imperniata sul dato psicologico, che trovava l'unico limite nel fatto che, essendo riservata al pubblico ufficiale quale titolare di specifici poteri, poteva ritenersi richiedere un «atto» della pubblica amministrazione.
Con l'avvento della Costituzione se ne denunciò l'incostituzionalità per indeterminatezza, ma la Corte costituzionale, nella sentenza n. 7 del 1965, ne dichiarò la costituzionalità. La norma delineava una fattispecie di mera condotta, il cui elemento oggettivo appariva – ictu oculi – sfuggente, onde la individuazione della figura criminosa tendeva inesorabilmente a ricadere tutta sul dato soggettivo costituito dal dolo specifico. La locuzione «abusando dei poteri», non a caso, aveva consentito alla giurisprudenza di ravvisarne gli estremi non solo nella emanazione di atti illegittimi (come sostenuto da parte della dottrina nel tentativo di dare maggiore determinatezza alla fattispecie), ma, altresì, nel porre in essere ogni attività, anche materiale, da parte del pubblico ufficiale che si discostasse da una qualsivoglia regola inerente all'espletamento della sua funzione.
Come già ricordato, nel 1990 si ebbe il primo intervento modificativo, che, da un lato, estese la realizzabilità soggettiva del reato anche all'incaricato di un pubblico servizio, dall'altro ne riscrisse il testo in termini non molto diversi dal precedente (il passaggio dal gerundio «abusando» all'indicativo «abusa» non pare particolarmente significativo), peraltro modulato ancora come reato di mera condotta a dolo specifico.
La situazione, quindi, mutava ben poco: anzi, l'estensione soggettiva all'incaricato di pubblico servizio, implicando la dilatazione dei contorni del reato al di là degli atti tipici del pubblico ufficiale (atti amministrativi in senso proprio), ne aumentava gli inconvenienti e potenziava la frizione tra la pubblica amministrazione e la magistratura, consentendo una penetrante intromissione di questa nell'attività amministrativa. Il fenomeno, anzi, si intensificava e dava luogo anche a forti contrasti; la norma fu di nuovo portata avanti alla Consulta dal giudice per le indagini preliminari di Piacenza con l'ordinanza n. 890 del 16 aprile 1996, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 39 del 25 settembre 1996, per la sua indeterminatezza (articolo 25, secondo comma, della Costituzione), ma, nelle more della pronuncia della Corte costituzionale, intervenne la nuova riforma dell'articolo 323 del codice penale, ad opera della legge 16 luglio 1997, n. 234, che ha formulato l'attuale testo.
La modifica questa volta è radicale; non solo la condotta è dettagliatamente descritta, ma il reato non è più di mera condotta: il reato è di evento, a condotta tipicizzata e, sul piano dell'elemento psicologico, si richiede un dolo intenzionale.
Al di là delle critiche di tipo tecnico che si possono muovere alla nuova formulazione, non si può certo negare che essa sia ben più tassativa delle precedenti.
Inoltre, la relazione che accompagna la legge specifica che la nuova norma restringe la portata dell'incriminazione a specifiche violazioni di specifiche norme.
Tuttavia, al radicale cambiamento normativo non corrisponde un corrispondente mutamento giurisprudenziale; anzi, può dirsi che la situazione sostanzialmente non è mutata.
Lo sguardo alla giurisprudenza rivela che i fatti ritenuti integranti il reato di cui all'articolo 323 del codice penale concernono episodi di modestissimo o, comunque, modesto rilievo. Le sentenze di condanna riguardano – sotto il profilo oggettivo – per lo più irregolarità amministrative, comportamenti che si assumono «parziali», anche se non consistenti in espresse violazioni di una specifica norma. Fatti il cui disvalore penale in nulla e ben poco obiettivamente si distingue da quello dell'illecito amministrativo o disciplinare.
Questa considerazione deve essere direttamente rapportata al principio costituzionale di sussidiarietà e di extrema ratio dell'impiego del diritto penale.
Ai fini della contestazione del reato il vantaggio, per chi lo commette, deve essere «patrimoniale», ossia qualunque vantaggio suscettibile di una valutazione economica (la cosa più facile e immediata è la contestazione dell'attribuzione di un posto di lavoro). Il danno, invece, definito come ingiusto, prescinde dall'indagine se sia patrimoniale o non patrimoniale.
Si rende, però, sempre più necessario nel teorema accusatorio l’«appoggio» ad altre fattispecie criminose, che complica enormemente la prova del conseguimento di un vantaggio ingiusto o il prodursi di un danno ingiusto con dolo intenzionale e non più dolo eventuale. Si dilatano, inoltre, a dismisura i tempi dell'accertamento.
La Cassazione ha ritenuto che l'ingiustizia del profitto o del danno non possa de plano farsi discendere dal fatto che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio abbia agito in violazione di norme di legge o di regolamento, chiedendo di operare una duplice distinta valutazione (cosiddetto criterio della doppia o autonoma ingiustizia): violazione di legge o di regolamento, da un lato; ingiustizia del profitto o del danno, dall'altro. Il ventaglio accusatorio necessita, quindi, di imponenti accertamenti, spesso esplorativi, che solo una tenace e costosa attività difensiva può tentare di arginare.
L'ipotesi di una descrizione della fattispecie che – esplicandosi in modo più tassativo – possa superare le criticità è francamente di difficile formulazione. La storia delle riscritture (e dei tentativi di riscrittura) dell'articolo 323 del codice penale pare piuttosto eloquente al riguardo. Allo stesso modo, le varie proposte avanzate in passato.
Inoltre, va riconosciuto che il vuoto di tutela conseguente a una eventuale abrogazione della disposizione sembra rivelarsi – alla luce di quanto sopra detto – non particolarmente significativo e, soprattutto, ben poco comparabile con gli inconvenienti che la previsione penale in esame porta con sé.
Infine, come sopra rilevato, una corretta applicazione dei princìpi di sussidiarietà e di extrema ratio, che debbono governare l'impiego del diritto penale, pare indurre a riservare alle sanzioni extrapenali la copertura di quegli spazi di tutela o di gran parte di essi.
In conclusione, la presente proposta di legge intende, dunque, abrogare l'articolo 323 del codice penale.

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

1. L'articolo 323 del codice penale è abrogato.

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