PDL 1925

FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 1925

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del
CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ECONOMIA E DEL LAVORO

Modifiche all'articolo 46 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, in materia di rapporto sulla situazione del personale

Presentata il 19 giugno 2019

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Onorevoli Deputati! – I dati dell'ISTAT riferiti a dicembre 2018 descrivono ancora in Italia una condizione della donna nel mercato del lavoro che non soddisfa i requisiti delle pari opportunità: in un contesto di crescita debole, con un tasso di occupazione generale del 58,8 per cento (6 punti al di sotto della media europea, pari al 64,7 per cento) e una quota di occupazione maschile pari al 68 per cento, la quota femminile registra appena il 49,7 per cento, collocando l'Italia penultima nella classifica dell'Unione europea, con 10 punti di differenza rispetto alla media europea (59 per cento). Il divario di genere è confermato dal differenziale dei tassi di disoccupazione, 11,6 per cento la quota femminile rispetto al 9,4 per cento maschile, e, soprattutto, dalla rilevante distanza tra i tassi di inattività, il 43,8 per cento delle donne rispetto al 24,7 per cento degli uomini.
Pur avendo conseguito innegabili progressi nelle pari opportunità di genere, l'Italia resta fanalino di coda anche nella graduatoria mondiale elaborata dal World Economic Forum nel Global Gender Gap Report 2018, che vede il nostro Paese al settantesimo posto su 149 Paesi sviluppati, preceduta da Honduras e Montenegro e immediatamente seguita da Tanzania e Capo Verde; al primo posto l'Islanda, che ha percorso per l'85 per cento (indice globale sul «gender gap») il cammino di assorbimento del divario di genere, seguita da Norvegia, Svezia e Finlandia.
I dati a livello globale registrano un trend di contrazione del divario, ma ad un ritmo talmente lento da richiedere secoli per riuscire a colmare la differenza: 108 anni per realizzare la parità di genere nella politica, nella salute e nell'istruzione, 202 anni per assorbire il divario sul posto di lavoro. Elaborazioni del CNEL su dati dell'organizzazione internazionale del lavoro prevedono che in Italia l'assorbimento del differenziale sarà conseguito nell'arco di almeno 70 anni, salvo decisi interventi normativi atti ad accelerare l'andamento di equiparazione in termini salariali, di progressione di carriera, di presenza di servizi complementari al lavoro, di organizzazione dei tempi di lavoro.
Il trend di riduzione del divario è principalmente dato nel nostro Paese dalla maggiore presenza femminile nelle posizioni politiche e ministeriali, dalle pari condizioni di salvaguardia della salute e dalle pari opportunità di accesso all'istruzione. Risulta dal recente FPA Data Insight del centro studi sull'innovazione nella pubblica amministrazione (maggio 2019) che il tasso di presenza femminile nella pubblica amministrazione è salito di ben 3 punti nell'ultimo anno, passando dal 54 per cento al 57,1 per cento, principalmente nei comparti università, agenzie fiscali, magistratura, Presidenza del Consiglio, regioni, autonomie locali e Ministeri. Ciò nonostante, l'elemento di maggiore disparità in Italia si riscontra proprio sul luogo di lavoro e risulta particolarmente critico per la scarsa partecipazione femminile al settore dell'intelligenza artificiale e ai processi di digitalizzazione, che coinvolgono le donne solo per il 28 per cento della forza lavoro, prefigurando un rallentamento dell'andamento positivo verso la parità con l'affermarsi del paradigma Industria 4.0, volto a potenziare la digitalizzazione e robotizzazione del sistema produttivo.
È soprattutto la difficile conciliazione dei tempi di vita e di lavoro a dimezzare la quota dell'occupazione femminile italiana e detta condizione iniqua risulta ancora più significativa se si considera che sono le lavoratrici madri a caratterizzare per il 54,3 per cento la disoccupazione femminile e che la quota di donne madri indotte ad abbandonare il lavoro per prendersi cura dei figli è pari al 27 per cento, di gran lunga superiore alla quota degli uomini nella stessa condizione, che è pari ad appena lo 0,5 per cento.
Rilevazioni dell'Ispettorato nazionale del lavoro registrano, nel 2017, l'abbandono del lavoro da parte di 24.618 madri lavoratrici alla nascita del primo figlio, proprio per la difficoltà nel conciliare i tempi di lavoro con la cura del bambino. Nel 2017 l'EUROSTAT attribuiva all'Italia, rispetto agli altri Stati membri dell'Unione europea, la più alta percentuale di coppie in cui solo l'uomo lavora (37,2 per cento) e le donne risultano esclusivamente dedite alle attività domestiche e di cura.

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La condizione della donna lavoratrice è ancora oggi fortemente penalizzata dalla rigidità dell'organizzazione del lavoro e dalla inadeguatezza del welfare pubblico, privato e aziendale.
Nell'anno scolastico 2016/2017 sono stati censiti sul territorio nazionale 13.147 servizi socio-educativi per l'infanzia comunali. I bambini di età inferiore a tre anni accolti da strutture pubbliche o finanziate dal settore pubblico sono il 12,6 per cento della popolazione di quella fascia di età. I posti autorizzati al funzionamento sono circa 354.000, pubblici in poco più della metà dei casi, e coprono il 24 per cento del potenziale bacino di utenza (bambini residenti sotto i tre anni). Tale dotazione è ancora sotto al parametro del 33 per cento fissato dall'Unione europea per sostenere la conciliazione della vita familiare e lavorativa e promuovere la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. La diffusione dei servizi risulta inoltre molto eterogenea sul territorio, con posti che variano da un minimo del 7,6 per cento dei potenziali utenti in Campania a un massimo del 44,7 per cento in Valle d'Aosta.
Fatta eccezione per il settore delle cooperative, che adotta il welfare e la cosiddetta white economy tra le linee d'azione strategica per lo sviluppo della cooperazione, anche perché nelle cooperative le donne rappresentano il 60 per cento degli occupati e il 51 per cento della base sociale, per gli altri settori produttivi, dati dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) del 2017 segnalavano che ammontano al 31 per cento le imprese di servizi che garantiscono ai dipendenti servizi di welfare (asili nido aziendali e servizi sociali di assistenza, ricreativi e di sostegno), al 18 per cento nel settore manifatturiero e al 4 per cento nel settore del commercio, posizionando l'Italia 2 punti percentuali sotto la media mondiale, con oltre 15 punti di scarto rispetto ai Paesi scandinavi. In questo contesto risulta significativo evidenziare che solo il 4 per cento delle donne italiane occupate lavora da casa a fronte della quota media europea pari all'11,9 per cento, che sale al 18,5 per cento in Francia e al 22,5 per cento nel Regno Unito.

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Sull'alto tasso di abbandono del lavoro da parte delle donne per i carichi di cura familiari nel nostro Paese incide anche la permanenza di un fattore culturale incentrato su una visione tradizionale della famiglia, propria dei Paesi dell'Europa mediterranea, caratterizzata dalla non condivisione fra i generi delle incombenze dell'accudimento e da una resistenza culturale in ordine alla delega di responsabilità di custodia dei bambini da parte dei genitori. In Italia e in Spagna la percentuale di uomini convinti che un bambino soffra per l'assenza della madre lavoratrice è più alta che nel resto d'Europa: 76 per cento in Italia e 58 per cento in Spagna a fronte di una quota variabile tra il 20 e il 25 per cento nei Paesi del nord. Contribuisce al superamento di tale visione un'adeguata offerta sul territorio di servizi pubblici e privati che consentano alle donne di esternalizzare parte di quelle incombenze. Alcune stime (CNEL, Rapporto sul mercato del lavoro, 2016, p. 58) calcolano nel 40 per cento l'incremento di offerta di servizi pubblici all'infanzia che sarebbe necessario per portare la partecipazione femminile italiana al mercato sui livelli fissati a Lisbona.
Il divario retributivo di genere costituisce l'ulteriore fattore di discriminazione ed iniquità: fatta esclusione per i redditi da pubblico impiego, maggiormente tutelati, e per le migliori condizioni di lavoro nel settore cooperativo, caratterizzato a forte maggioranza da occupazione femminile, l'ISTAT calcola che le lavoratrici italiane guadagnano in media il 70 per cento del salario degli uomini. L'EUROSTAT rileva in Italia un gap retributivo di genere, parametrato sul salario annuale medio, attorno al 43 per cento, di almeno 2 punti percentuali superiore alla media europea (41,1 per cento).
La penalizzazione retributiva colpisce ancor più le lavoratrici madri per le rigidità dell'organizzazione del lavoro e per la inadeguatezza del welfare aziendale: il Rapporto annuale dell'INPS 2018 riporta una perdita del 35 per cento dello stipendio delle donne occupate a seguito della nascita di un figlio.
Il divario retributivo di genere nel corso della vita lavorativa si trasforma in divario pensionistico di genere soprattutto per la minore durata media della vita lavorativa delle donne (24,5 anni contro i 39,5 degli uomini, con uno scarto che si aggira attorno al 38 per cento, tra i più alti in Europa). Le distorsioni di genere che ne derivano comportano un differenziale medio fra le pensioni percepite dalle donne rispetto a quelle degli uomini pari al 33 per cento, con effetti negativi anche sulle prestazioni assicurative di natura sostitutiva della retribuzione (ad esempio, a carico dell'INAIL in caso di malattia).
Distorsioni di genere si devono anche alla disciplina del riscatto dei periodi contributivi, che risente del calcolo dell'importo da versare basato sulla durata della vita media, che è più lunga per le donne, e al mancato adeguamento del meccanismo di calcolo delle pensioni di reversibilità alla logica del sistema contributivo, problema che riguarda più spesso le donne. Se si riflette sul fatto che attualmente la reversibilità comporta un'erogazione pari a circa il 60 per cento del trattamento del coniuge, si capisce come fra pochi anni gli assegni diventeranno molto più esigui, fruiti ancora in maggioranza da donne.
Alla valutazione di iniquità della disparità di genere del mercato del lavoro vanno accompagnate considerazioni sul «valore economico delle donne» e, pertanto, vanno compiute azioni di contrasto alla perdita economica determinata dal mancato pieno apporto femminile alla crescita e alla competitività: diversi anni fa l'OCSE stimava nella misura di un punto percentuale all'anno la crescita del PIL in Italia qualora fossero stati rimossi gli ostacoli esistenti all'occupazione e alla imprenditoria femminile.
Basti considerare che nel periodo 2010-2015 l'imprenditoria femminile è cresciuta nel nostro Paese di 35.000 unità, rappresentando ben il 65 per cento dell'incremento complessivo del tessuto imprenditoriale nazionale; ad oggi si contano 1.312.000 imprese femminili, che costituiscono appena il 27 per cento del totale, sono nel complesso più dinamiche, più digitali, più giovani, più multiculturali e danno lavoro a circa 3 milioni di persone. Di qui l'utilità di affrontare il problema del mancato apporto alla crescita del Paese determinato dal tasso di inattività delle donne e dall'alta mortalità delle microimprese femminili registrata in concomitanza della nascita di figli e in ragione di necessità di cure a familiari.
Uno studio del Fondo monetario internazionale del 2016 stimava nella misura del 15 per cento la crescita del PIL in Italia, qualora venissero rimossi gli ostacoli esistenti all'occupazione e alla imprenditoria femminile. Ciò è confermato dallo studio della Camera dei deputati su «Le donne condizione della crescita» (Servizio Studi – Dipartimento lavoro, n. 261 del 25 ottobre 2016), che ripercorre gli andamenti e l'evoluzione dell'occupazione e dell'imprenditoria femminile, sulla base dei dati statistici e della ricostruzione normativa dal 1992 ad oggi, nonché la produzione normativa incentrata sulla parità di genere dal 2011 e le disposizioni varate con l'obiettivo di favorire la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Il principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro è sancito dall'articolo 157 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE). L'articolo 153 del TFUE consente inoltre all'Unione di intervenire nell'ambito più ampio delle pari opportunità e della parità di trattamento nei settori dell'impiego e dell'occupazione, e in tale contesto l'articolo 157 del TFUE autorizza anche l'azione positiva finalizzata all'emancipazione femminile.
Con la direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, l'Unione europea inasprisce le sanzioni per i casi di discriminazione e prevede l'istituzione all'interno degli Stati membri di organismi incaricati di promuovere la parità di trattamento tra uomini e donne. Impegna gli Stati membri all'adozione di provvedimenti specifici volti all'attuazione del principio di parità con specifico riferimento alla parità di remunerazione per lavori equivalenti e alla parità di condizioni lavorative e previdenziali. Gli Stati membri sono inoltre chiamati a monitorare lo stato di attuazione del principio di parità di genere in materia di occupazione e impiego e di implementazione della normativa europea di settore.
La Commissione europea rinnova l'obiettivo strategico della parità di genere nel dicembre 2015, con «L'impegno strategico per l'uguaglianza di genere 2016-2019», incentrato su cinque obiettivi prioritari, di cui tre in materia di occupazione e impiego: aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e pari indipendenza economica; riduzione del divario di genere in materia di retribuzioni, salari e pensioni e, di conseguenza, lotta contro la povertà delle donne; promozione della parità tra donne e uomini nel processo decisionale; lotta contro la violenza di genere e protezione e sostegno a favore delle vittime.
In linea con gli obiettivi europei, il CNEL ha sempre rivolto una particolare attenzione al tema delle pari opportunità, pronunciandosi nelle passate consiliature, e nell'attuale, sia con l'elaborazione di osservazioni e proposte sia con la presentazione di progetti di legge. In tal senso, il progetto di legge presentato dal CNEL «Disposizioni in materia di statistiche e politiche di genere» già nell'ottobre 2013 individuava nella rilevazione delle statistiche di genere uno strumento fondamentale per la necessaria valutazione d'impatto delle normative sulle politiche di pari opportunità e proponeva l'istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei ministri del Comitato consultivo per le statistiche e le politiche di genere. Anche al fine di acquisire dati di genere sul territorio, il CNEL sottolineava l'importanza dello strumento del bilancio di genere a livello sia di amministrazioni centrali che di governi locali, di raccordo con l'applicazione di indicatori locali di benessere equo e sostenibile (BES) elaborati nell'ambito del progetto per l'adozione di parametri sociali e culturali oltreché economici, ritenuti più adeguati a misurare il progresso di una società rispetto all'attuale PIL esclusivamente calcolato su rilevazioni economiche. Sottolineava, per un verso, i limiti del contributo fornito dai bilanci di genere che le singole amministrazioni sono tenute a includere tra i contenuti della relazione annuale sulla performance ai sensi del decreto legislativo n. 150 del 2009, per altro verso la necessità di introdurre l'obbligatorietà del bilancio di genere a livello locale oltreché centrale, sulla base di un format che, pur tenendo conto delle specificità del tessuto sociale del territorio, consentisse raffronti tra le realtà locali e tra queste e il Governo centrale. Ad oggi, infatti, questo strumento costituisce in Italia l'esperienza di pochi governi locali (regione Emilia Romagna; provincia di Modena, 2001; province di Siena e di Genova, 2003) e il contributo di alcune singole amministrazioni in ottemperanza all'obbligo dettato dal decreto legislativo n. 150 del 2009.
Il CNEL ritornava sul tema nel novembre 2017 con la pronuncia «La rimozione dei divari di genere nelle imprese e nel lavoro», nella quale rinnovava le proposte di utilizzo del bilancio di genere, a livello di governi centrale e locale, in raccordo con l'applicazione dei BES, richiamando in particolare, tra le dodici dimensioni di benessere selezionate da CNEL e ISTAT, la dimensione «lavoro e conciliazione dei tempi di vita», a sua volta articolata in cinque sotto-dimensioni misurate da tredici indicatori quantitativi; due di questi indicatori riguardano direttamente la partecipazione femminile al circuito lavoro-pensione. Proponeva, inoltre, con riferimento alle norme in materia pensionistica, di eliminare quelle disposizioni di dettaglio che determinano effetti penalizzanti per il genere femminile, ad esempio, nella disciplina in tema di riscatto dei periodi contributivi, che impone un calcolo dell'importo da versare basato anche sulla durata della vita media che è più lunga per le donne, oppure nel mancato adeguamento del meccanismo di calcolo delle pensioni di reversibilità (di cui fruiscono maggiormente le donne). Prevedeva – nel quadro delle politiche già avviate in tal senso – incentivi fiscali, da rendere disponibili attraverso la contrattazione di secondo livello, a favore di imprese disponibili ad assumere e formare donne vittime di violenza, sul solco del «metodo Scotland» maturato nel Regno Unito e avviato con successo anche in Spagna. Al fine di conciliare i tempi di lavoro della donna con i tempi della scuola, proponeva, infine, l'introduzione nella scuola media inferiore di sezioni a tempo pieno, con offerta formativa dedicata, in particolare, allo sviluppo delle competenze linguistiche straniere e informatiche, con i costi sostenuti prevedendo una contribuzione da parte dei fruitori.
Proseguendo sul tracciato propositivo volto al perseguimento dell'obiettivo della parità di genere, il CNEL vede la necessità di acquisire dati dal tessuto imprenditoriale al fine di muovere azioni di contrasto ai divari di genere nelle imprese e nel lavoro, e in tal senso, nell'esercizio della propria facoltà di iniziativa legislativa, propone alcune modifiche e integrazioni all'articolo 46 del codice delle pari opportunità, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, al fine di garantire una più efficace attuazione del principio di parità di condizioni tra uomini e donne per uno stesso lavoro.
A fondamento dell'iniziativa vi è la constatazione che, ancora oggi, nel mercato del lavoro hanno luogo discriminazioni di genere nel rapporto lavorativo, che ostacolano la piena integrazione degli uomini e delle donne nella vita economica e sociale. A tale riguardo il CNEL ritiene che il rapporto sulla situazione del personale (introdotto dall'articolo 9 della legge 10 aprile 1991, n. 125), di cui all'articolo 46 del codice delle pari opportunità, possa costituire un efficace strumento di rilevazione dello stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell'intervento della cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti, qualora si adottino disposizioni vincolanti e si applichino congrue sanzioni, parametrate alla capacità retributiva aziendale, nei casi di inottemperanza dell'obbligo di redazione biennale del rapporto e sua trasmissione, prevedendo altresì un istituto sanzionatorio che si rinnovi in caso di recidiva. Il CNEL propone altresì una formulazione normativa che renda certo l'arco temporale di riferimento del rapporto, al fine di garantire un flusso di dati tracciati, nonché la comparazione e valutazione degli stessi.
In considerazione, infine, della possibilità per le imprese – intervenuta lo scorso anno – di avvalersi per la trasmissione dei dati della procedura on line, il CNEL propone l'estensione dell'obbligo di redazione del rapporto biennale sulla situazione lavorativa alle aziende pubbliche e private che occupano oltre cinquanta dipendenti, con l'opportunità di facilitare la procedura prevedendo un unico soggetto istituzionale destinatario sul territorio, preposto alla raccolta ed elaborazione dei dati, alla segnalazione per l'attivazione dell'istituto sanzionatorio, alla trasmissione di osservazioni e proposte agli organi legislativi e di governo, alla divulgazione pubblica degli elementi conoscitivi al fine di garantire un'azione permanente di sensibilizzazione sull'obiettivo della parità di genere.
Va infine evidenziato che la proposta di legge apporta modifiche alla normativa vigente dalle quali non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

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PROPOSTA DI LEGGE D'INIZIATIVA DEL CNEL

Art. 1.

1. All'articolo 46 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 1, le parole: «oltre cento dipendenti» sono sostituite dalle seguenti: «oltre cinquanta dipendenti» e la parola: «almeno» è soppressa;

b) il comma 2 è sostituito dal seguente:

«2. Il rapporto di cui al comma 1 deve essere redatto in modalità esclusivamente telematica, attraverso la compilazione di un modello pubblicato nel sito internet istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali. La consigliera e il consigliere regionale di parità, che accedono attraverso identificativo univoco ai dati contenuti nei rapporti trasmessi dalle aziende aventi sede legale nel territorio di competenza, elaborano i relativi risultati trasmettendoli alle sedi territoriali dell'Ispettorato nazionale del lavoro, alla consigliera o al consigliere nazionale di parità, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri e al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (CNEL)»;

c) il comma 4 è sostituito dal seguente:

«4. Qualora, nei termini prescritti, le aziende non trasmettano il rapporto di cui al comma 1, l'ispettorato territoriale del lavoro invita le aziende stesse a provvedere entro sessanta giorni. In caso di inottemperanza, l'ispettorato stesso applica una sanzione fino all'1 per cento del monte retributivo aziendale. In caso di reiterazione dell'inottemperanza, si applica la sospensione per un anno dei benefìci contributivi e fiscali eventualmente goduti dall'azienda»;

d) dopo il comma 4 è aggiunto il seguente:

«4-bis. Con cadenza biennale il CNEL, tenendo conto anche della relazione sul bilancio di genere redatta ai sensi dell'articolo 38-septies, comma 3-bis, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, trasmette una relazione al Parlamento nella quale sono contenute considerazioni e proposte, anche legislative, volte a garantire effettive condizioni di pari opportunità di genere nel mercato del lavoro».

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