PDL 1340

FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1
                        Articolo 2
                        Articolo 3
                        Articolo 4

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 1340

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
RACCHELLA, MOLINARI , ANDREUZZA, BAZZARO, BELLACHIOMA, BELOTTI, BIANCHI, BILLI, BINELLI, BORDONALI, BUBISUTTI, CAFFARATTO, CAPITANIO, VANESSA CATTOI, CAVANDOLI, CECCHETTI, COLMELLERE, COVOLO, DARA, DE ANGELIS, DE MARTINI, DI MURO, DI SAN MARTINO LORENZATO DI IVREA, DONINA, FANTUZ, FERRARI, FOGLIANI, FOSCOLO, FRASSINI, FURGIUELE, GASTALDI, GIACOMETTI, GOBBATO, GRIMOLDI, GUSMEROLI, IEZZI, INVERNIZZI, LATINI, LAZZARINI, LOCATELLI, LOLINI, EVA LORENZONI, LUCCHINI, MACCANTI, MORELLI, MOSCHIONI, PANIZZUT, PATELLI, PATERNOSTER, PETTAZZI, PIASTRA, PICCOLO, PRETTO, RIBOLLA, SASSO, STEFANI, TARANTINO, TATEO, TIRAMANI, TOMBOLATO, TONELLI, VALLOTTO, VINCI, VIVIANI, ZICCHIERI, ZORDAN

Delega al Governo per l'introduzione dello studio
dell'emigrazione italiana nella scuola primaria e secondaria

Presentata il 6 novembre 2018

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Onorevoli Colleghi! – L'evoluzione dell'emigrazione italiana è stata oggetto di molti studi che hanno analizzato a fondo le sue origini e dinamiche. Occorre notare che l'Italia è ancora un Paese di emigrazione, in quanto il fenomeno migratorio in uscita non è mai cessato del tutto. L'emigrazione italiana all'estero ha profondamente inciso sulla storia economica, sociale e demografica del nostro Paese. Circa 27 milioni di italiani sono emigrati all'estero tra il 1876 (anno della prima rilevazione ufficiale degli espatriati) e il 1988 (anno in cui si era praticamente esaurita).
Una parte di quelle migliaia di persone ha fatto rientro in Italia per svariati motivi: alcuni perché non furono ammessi nel Paese di destinazione, altri perché delusi dal punto di vista economico o professionale, altri ancora perché desiderosi di tornare nella loro terra di origine e ritrovare le radici dopo un periodo all'estero. Pertanto è stata una perdita molto elevata per l'Italia, un Paese che nel 1871 contava poco meno di 27 milioni di abitanti e, nel 1991, poco meno di 57 milioni.
Nella storia dell'emigrazione italiana possiamo identificare quattro fasi, distinte l'una dall'altra:

la prima, dal 1876 al 1900;

la seconda, dal 1900 alla Prima guerra mondiale;

la terza, tra la Prima e la Seconda guerra mondiale;

la quarta, dal dopoguerra agli anni ’60-’70.

L'emigrazione della prima fase (1876-1900) ha avuto una dimensione ridotta ma, tuttavia, crescente nel flusso migratorio. In questo quarto di secolo partirono circa 5 milioni di persone: prevalentemente uomini (81 per cento) di età assai giovane (il 16 per cento aveva meno di 14 anni) e di provenienza per lo più contadina. La prima grande depressione mondiale (1873-1879), caratterizzata dal crollo delle derrate alimentari e da una politica protezionistica adottata dal Governo, colpì duramente gli agricoltori spingendoli a cercare i mezzi per sopravvivere fuori dall'Italia. Nel periodo che va dal 1870 al 1913, la produzione del reddito crebbe più rapidamente della crescita della popolazione, alzando così il reddito pro capite. In particolare nelle Americhe si è registrato un tasso medio annuo pari all'1,81 per cento, di gran lunga più alto di quello medio mondiale, pari all'1,30 per cento e di quello dell'Europa occidentale pari all'1,32 per cento.
Le mete iniziali furono europee, come Francia e Germania, per poi diventare, a fine secolo, anche extraeuropee, come Argentina, Brasile e Stati Uniti. Il primato del Sudamerica, tuttavia, decrebbe rapidamente con l'avvicinarsi del 1900 a causa della crisi politica e del settore agricolo, ma aumentarono, invece, i flussi migratori verso gli Stati Uniti. Nella scelta del Paese di destinazione ha influito anche la provenienza geografica: nel meridione d'Italia prevalsero le mete extraeuropee, mentre nel settentrione le preferenze ricaddero sul continente europeo, soprattutto sulla Francia.
La seconda fase, dal 1900 alla Prima guerra mondiale, ha coinciso con l'avvio del processo di industrializzazione italiana. Questa fase fu definita da molti studiosi la «grande emigrazione». Sebbene l'Italia in questo periodo vivesse una forte fase di industrializzazione, questa fu disomogenea, differenziata sul territorio e incapace di assorbire la manodopera eccedente (espulsa dal settore agricolo e dalle aree rurali). Si registrò, pertanto, un vero e proprio esodo, considerando che furono 9 milioni gli italiani che emigrarono in quel periodo (una media di 600.000 persone l'anno). Il picco di tale flusso fu raggiunto nel 1913 con più di 870.000 espatri.
L'emigrazione di questo periodo fu largamente extraeuropea: il 45 per cento degli emigranti (prevalentemente meridionali, oltre il 70 per cento) espatriò in America, sebbene una buona parte continuò a preferire l'Europa, soprattutto i settentrionali. Le destinazioni europee registrarono una forte crescita: Francia, Germania e Svizzera si trovarono al centro di tale tendenza. Spesso, in questa seconda fase, a emigrare non furono soltanto uomini in cerca di lavoro, ma anche intere famiglie, accrescendo così il numero di italiani all'estero. Tuttavia permase un fortissimo squilibrio tra i sessi, con prevalenza nettamente maschile. A prescindere dal Paese di destinazione, ci fu un fattore che li accomunava: gli emigrati trovavano occupazione sempre negli stessi comparti produttivi, cioè nelle attività di sfruttamento dei giacimenti, nelle costruzioni di strade e nell'edilizia.
Fu creato proprio in quel periodo (nel 1901) il Commissariato generale dell'emigrazione, con lo scopo di tutelare gli emigranti. Lo scopo era di regolamentare le condizioni per l'espatrio e rendere disciplinato e protetto il flusso migratorio. Tuttavia i gravi problemi igienico-sanitari e sociali degli italiani che si ammassavano nei porti d'imbarco delle grandi città italiane, come Genova, Palermo o Napoli, erano lungi dall'essere risolti. Un esempio eclatante fu l'epidemia di colera che scoppiò a Napoli nel 1911 a causa delle precarie condizioni sanitarie tra le persone in attesa di essere imbarcate, come testimoniato anche da Mark Twain nel suo romanzo «Innocenti all'estero».
La terza fase, quella tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, è stata caratterizzata da un brusco calo delle partenze. Le cause furono molteplici: tra le prime ci furono le restrizioni legislative adottate in quegli anni da alcuni Stati per ridurre e controllare il flusso degli immigrati che sbarcavano cercando fortuna. Gli Stati Uniti furono tra i primi ad adottarle, mediante, per esempio, il famoso Quota Act del 1921 e 1924, con cui furono stabilite le quote massime di uomini da ammettere, soprattutto tra coloro che provenivano da Paesi non più graditi, come l'Italia. Oltre a queste leggi, fu anche la grande crisi del 1929 a far ridurre il flusso degli italiani verso l'America. Lo Stato italiano, dall'altra parte, contribuì al calo delle partenze con la politica restrittiva e anti-emigratoria perseguita dal fascismo. I motivi erano il prestigio e il potenziamento bellico, data l'esigenza di trattenere in patria giovani leve da impiegare per scopi militari. L'emigrazione era una soluzione per una popolazione che si trovava in un periodo di grave crisi economica e con un elevato tasso di disoccupazione. La politica anti-emigratoria del fascismo diede un'alternativa all'emigrazione: i piani di colonizzazione di alcune aree agricole del Paese e la colonizzazione in Africa ne furono un esempio.
Se da una parte decresceva l'emigrazione oltreoceano, aumentava invece l'emigrazione verso l'Europa, che si dirigeva «soprattutto verso la Francia, alimentata anche dai numerosi espatri oltralpe degli oppositori politici del fascismo (specialmente comunisti), e verso la Germania negli anni ’30, specie dopo la firma del Patto d'acciaio» (InStoria, periodico mensile). Dal 1920 al 1940, emigrarono circa 3 milioni di italiani, principalmente verso Francia e Germania, supplendo così alla deficienza di manodopera nazionale nell'agricoltura, nell'edilizia e nell'industria. In questa terza fase, la componente maschile della popolazione emigrata scese (sebbene rimanesse la prevalente), mentre si registrò un aumento della componente giovanile (persone di età inferiore a 14 anni).
Il Commissariato generale dell'emigrazione perse in un primo momento la propria autonomia poiché fu incorporato nel Ministero degli esteri, per essere poi sostituito con la Direzione generale per gli italiani all'estero.
Nella quarta e ultima fase, dal dopoguerra alla fine degli anni Sessanta, l'Italia è tornata a fornire consistenti flussi emigratori, con circa 7 milioni di espatri. Nello stesso tempo, però, il nostro Paese è diventato protagonista di grandi e profondi cambiamenti economici, sociali e politici, che hanno mutato le ragioni e gli effetti dell'emigrazione. La rapida industrializzazione (soprattutto delle regioni del nord), il boom economico (fra il 1950 e il 1970) e un considerevole aumento del PIL (da 165 a 522 miliardi di dollari) hanno dato il via a un flusso migratorio interno dalle aree rurali e meno sviluppate verso i grandi centri urbani e le regioni più industrializzate bisognose di manodopera.
Sono state due le destinazioni principali alla fine degli anni quaranta: extraeuropea (America latina, sebbene in calo per le continue crisi economiche e politiche, Australia, Venezuela) ed europea (Francia, Svizzera, Germania). «Peculiare è l'esperienza di emigrazione in Belgio, destinata al lavoro in miniera e improvvisamente abbandonata nel 1956, in seguito alla tragedia di Marcinelle nella quale persero la vita anche 136 minatori italiani» (InStoria, periodico mensile).
I flussi migratori verso le destinazioni che una volta erano più appetibili, come gli Stati Uniti d'America, calarono a causa delle molte restrizioni agli ingressi adottate dai Governi; pertanto, la ridotta emigrazione che comunque scelse di partire era costituita principalmente da familiari di persone che erano già emigrate e aspettavano di ricongiungersi. In particolare, l'Australia, sebbene fosse considerata nel secondo dopoguerra come il nuovo sbocco emigratorio, perse i suoi flussi immigratori perché troppo lontana.
Durante gli anni Cinquanta la meta transoceanica continuò a calare sempre di più, mentre si intensificò la meta europea. I trasferimenti oltreoceano furono in larga parte definitivi, mentre quelli europei furono spesso individuali e temporanei e si caratterizzarono per un gran numero di rientri. La vicinanza geografica tra il Paese di origine e il Paese di arrivo favorì sicuramente la temporaneità dell'emigrazione. Nel dettaglio, la Germania cercò di evitare sul proprio territorio gli insediamenti definitivi a vantaggio di quelli temporanei, con migranti che partivano dalla propria casa all'inizio dell'anno e vi rientravano alla fine. L'emigrazione di questo periodo fu in genere più qualificata (numerosi furono i corsi di formazione e di addestramento professionale tenuti anche nei Paesi di destinazione) e molto frequentemente controllata e assistita. La maggior parte delle persone che emigravano provenivano prevalentemente dal sud Italia: il sud, che rappresentava il 36 per cento della popolazione italiana, forniva il 70 per cento dell'emigrazione continentale e l'80 per cento di quella transoceanica.
Una tanto consistente, prolungata e numerosa emigrazione ha avuto per l'Italia una serie di conseguenze, alcune positive, altre negative, ma tutte di grande rilievo. Una tra le conseguenze più evidenti è sicuramente la perdita di popolazione e, in particolare, di forza lavoro. In alcune zone del Paese la perdita di popolazione è stata talmente imponente da alterare il tessuto demografico, provocando lo spopolamento di alcuni comuni (a volte in maniera irreversibile) e depauperando il capitale umano. In alcune regioni, il Molise ad esempio, l'emigrazione del secondo dopoguerra è stata di tale portata che, nel 1971, si registrava la metà della popolazione in età lavorativa che ci sarebbe stata in assenza di emigrazione. A causa dello spopolamento si è avuta, di conseguenza, una «razionalizzazione», forse anche forzata, degli insediamenti umani: i piccoli borghi arroccati in montagna o in alta collina sono quasi totalmente scomparsi. Una conseguenza positiva è stata l'acquisizione delle rimesse o dei capitali guadagnati dagli emigrati all'estero: molto spesso i redditi degli emigrati avevano una funzione vitale e di sostentamento per le famiglie rimaste in patria, specialmente per quelle meridionali. L'emigrazione ha certamente modificato anche la vita degli uomini, dei familiari delle persone che sono andate all'estero a cercar fortuna: gli stili vita, gli atteggiamenti, i comportamenti delle persone rimaste in loco sono stati influenzati, sia per gli interscambi con gli emigrati, sia per il ritorno (temporaneo o definitivo) di un gran numero di espatriati con qualità professionali e culturali acquisite all'estero. Un'ennesima conseguenza è stata il consolidarsi di più stretti e intensi rapporti politici, economici e culturali fra l'Italia e i Paesi d'immigrazione nei quali sono insediate influenti comunità italiane.
Se dovessimo fare un bilancio a livello collettivo, l'emigrazione italiana può essere valutata positivamente per la vita delle popolazioni. Tuttavia questa non ha risolto, e non avrebbe potuto risolvere da sola, i gravi problemi di arretratezza economica di tutte le aree di esodo. L'emigrazione ha sicuramente alleggerito la pressione della popolazione, ma senza un intenso sviluppo economico non vi è stato alcun riscatto né risanamento delle aree di esodo. Una politica davvero globale in favore degli italiani all'estero si è delineata soltanto dopo più di un secolo d'intensa emigrazione italiana, con la prima Conferenza nazionale dell'emigrazione, tenutasi a Roma nel 1975. Solo nel 1989 è stato stabilito per legge che si tenesse il primo censimento degli italiani residenti all'estero.
Secondo quanto riferito dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, gli italiani all'estero sarebbero 4.500.000, di questi il 35 per cento vive in Europa, l'11 per cento nel Nord America, il 50 per cento nell'America latina, il 2 per cento in Africa e il 2 per cento in Oceania. Gli oriundi (figli, nipoti, pronipoti o parenti stretti d'italiani che hanno acquisito una cittadinanza straniera) invece, sempre secondo il Ministero, sono 58.500.000: praticamente un'altra Italia. Di questi oriundi il 3,4 per cento si troverebbe in Europa (quasi tutti in Francia), il 27,5 in nord America (principalmente Stati Uniti d'America), il 68,1 nell'America del sud (in particolare in Brasile e Argentina).
Gli stereotipi più diffusi e durevoli del pregiudizio anti-italiano all'estero nacquero e furono alimentati principalmente dai giornali satirici stranieri. In tutti i Paesi in cui c'è stata una forte e numerosa presenza di emigrati italiani sono nati su di loro soprannomi di ogni genere: alcuni spiritosi, altri volgari, altri ancora infamanti. Gian Antonio Stella, in «L'Orda, quando gli albanesi eravamo noi», raccoglie i nomignoli più insultanti rivolti agli italiani all'estero. Tra i più diffusi ci sono «dago» (usato nei Paesi anglosassoni, alcune fonti dicono derivi da they go, finalmente se ne vanno, altre fonti da dagger, ovvero coltello, accoltellatore, in linea con uno degli stereotipi più diffusi sul «popolo dello stiletto»), «maccheroni», «macaroni» o «maccarrone» (mangia pasta, usato in tutto il mondo e in tutte le lingue), «wop» (without passport o without papers, usato in America principalmente) e «carcamano» (ovvero furbone, quello che calca la mano sul peso della bilancia, diffusissimo in Brasile).
Esperienze di approfondimento scolastico della migrazione regionale si sono avute in Veneto, dove in tutte le scuole di ogni ordine e grado si studia la storia dell'emigrazione veneta. Lo prevede il protocollo di intesa tra la regione Veneto, l'ufficio scolastico regionale e le sette associazioni venete per l'emigrazione: a partire dall'anno scolastico in corso 2018/2019 a insegnanti e studenti sono proposti interventi di approfondimento, incontri con i testimoni e lezioni di storia per comprendere il fenomeno migratorio che ha interessato il Veneto a partire dagli ultimi tre decenni dell'ottocento fino al secondo dopoguerra.
Per fare solo un esempio, si calcola che gli emigranti veneti e i loro discendenti siano almeno 5 milioni, tanti quanti i residenti nello stesso Veneto, e molti di loro hanno conservato lingua, cultura, tradizioni e un forte legame con la terra d'origine. Promuovere la conoscenza e lo studio del fenomeno migratorio e delle sue ricadute è un atto di omaggio al coraggio e all'intraprendenza di chi è partito e un modo per tenere vivi i legami con chi si sente ancora italiano, anche se ormai ha messo radici in altri Paesi e altre culture.
La presente proposta di legge, all'articolo 1, prevede una delega al Governo per adottare un decreto legislativo per l'introduzione, nella scuola primaria e secondaria, dello studio dell'emigrazione italiana. Partendo dall'esperienza migratoria, infatti, si possono approfondire, in una chiave diversa e innovativa, molti argomenti: dalla storia alla geografia, dalla politica ai temi sociali, dall'economia alla letteratura eccetera.
All'articolo 2 si prevede che, a decorrere dall'anno scolastico 2020/2021, il progetto sia inserito nell'ordinaria programmazione formativa, con le modalità stabilite dalla legislazione vigente e nel rispetto dell'autonomia delle istituzioni scolastiche. Nello stesso articolo si prevede che l'insegnamento sia multidisciplinare e faccia ricorso a metodologie laboratoriali, anche avvalendosi della collaborazione e del supporto delle associazioni degli italiani residenti all'estero. Inoltre si prevede di favorire l'integrazione tra le aree disciplinari e la costruzione di reti, anche extraregionali, tra i diversi istituti ai fini dell'attuazione del progetto educativo. Si prevede, inoltre, il coinvolgimento diretto delle famiglie degli studenti al fine di favorire un più immediato e corretto recupero della memoria e delle problematiche degli eventi migratori nonché di promuovere un legame più efficace con i territori interessati.
Con l'articolo 3 si stabilisce un passaggio parlamentare dell'atto governativo per il relativo parere delle Commissioni interessate, mentre con l'articolo 4 si stabilisce che la legge non comporta oneri per la finanza pubblica.
Si esprime l'auspicio che su questa proposta di legge, che tiene conto delle sollecitazioni provenienti da comunità di origine italiana, da soggetti associativi operanti in questo settore in Italia e all'estero e da enti regionali e locali, si raccolga in modo trasversale la più ampia condivisione del Parlamento ai fini di una sua prossima approvazione.

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

1. Il Governo è delegato ad adottare, entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo recante disposizioni per l'introduzione, nella scuola primaria e secondaria, dello studio dell'emigrazione italiana, da attuare nell'ambito dell'ordinaria programmazione scolastica, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) prevedere, anche attraverso incontri con persone che direttamente o indirettamente ne hanno fatto esperienza, lo studio approfondito della storia del fenomeno migratorio italiano, nel suo complesso e in relazione alle singole regioni, a partire dagli ultimi tre decenni del diciannovesimo secolo fino al secondo dopoguerra;

b) promuovere iniziative volte a sensibilizzare e formare il personale docente ai fini dell'acquisizione delle conoscenze e delle competenze necessarie per l'attuazione dello studio dell'emigrazione italiana;

c) promuovere la diffusione nelle giovani generazioni di una conoscenza approfondita dell'entità e delle cause del fenomeno migratorio in Italia e nelle singole regioni, nonché dei cambiamenti sociali, culturali e politici da esso determinati in Italia e nei Paesi di destinazione degli emigranti italiani;

d) definire gli indirizzi generali dello studio dell'emigrazione italiana, con riferimento ai diversi ordini e gradi di istruzione e alle specifiche aree disciplinari, in modo da garantirne un'applicazione flessibile in relazione alle specificità territoriali e alla creatività degli studenti.

Art. 2.

1. A decorrere dall'anno scolastico 2020/2021, gli istituti scolastici della scuola primaria e secondaria, all'atto della definizione dei piani triennali dell'offerta formativa, previsti dall'articolo 3, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275, stabiliscono le modalità di attuazione dello studio dell'emigrazione italiana, sulla base di quanto disposto dal decreto legislativo di cui all'articolo 1 della presente legge, tenendo conto dei contesti sociali e territoriali in cui essi operano.
2. I piani triennali dell'offerta formativa di cui al comma 1 prevedono, in particolare, che lo studio dell'emigrazione italiana sia inserito nell'ambito delle attività curricolari e favoriscono il ricorso ad attività e a metodologie laboratoriali e interdisciplinari, da attuare anche attraverso la collaborazione e il supporto delle associazioni degli italiani residenti all'estero. I medesimi piani prevedono, inoltre, l'istituzione di appositi corsi per i docenti e di moduli di approfondimento per gli studenti relativi allo studio dell'emigrazione italiana.
3. Nell'attuazione di quanto previsto dal presente articolo sono favorite l'integrazione tra le diverse aree disciplinari di uno stesso istituto scolastico e la collaborazione tra istituti scolastici, anche aventi sede in regioni diverse, ed è previsto il coinvolgimento diretto delle famiglie degli studenti, anche al fine di favorire un più immediato e corretto recupero della memoria degli eventi legati all'emigrazione italiana e di promuovere un legame più efficace con i territori interessati.

Art. 3.

1. Lo schema del decreto legislativo di cui all'articolo 1 è trasmesso alle Camere ai fini dell'espressione dei pareri da parte delle Commissioni parlamentari competenti per materia, che sono resi entro trenta giorni dalla data di assegnazione. Trascorso il termine previsto per l'emissione del parere, il decreto legislativo può essere comunque adottato.

Art. 4.

1. Dall'attuazione della presente legge e del decreto legislativo di cui all'articolo 1 non devono derivare nuovi o maggiori oneri o diminuzioni di entrate a carico della finanza pubblica.

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