ATTO CAMERA

RISOLUZIONE IN ASSEMBLEA 6/00084

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Dati di presentazione dell'atto
Legislatura: 17
Seduta di annuncio: 309 del 14/10/2014
Abbinamenti
Atto 6/00082 abbinato in data 14/10/2014
Atto 6/00083 abbinato in data 14/10/2014
Atto 6/00085 abbinato in data 14/10/2014
Atto 6/00086 abbinato in data 14/10/2014
Atto 6/00087 abbinato in data 14/10/2014
Firmatari
Primo firmatario: BRUNETTA RENATO
Gruppo: FORZA ITALIA - IL POPOLO DELLA LIBERTA' - BERLUSCONI PRESIDENTE
Data firma: 14/10/2014
Elenco dei co-firmatari dell'atto
Nominativo co-firmatario Gruppo Data firma
PALESE ROCCO FORZA ITALIA - IL POPOLO DELLA LIBERTA' - BERLUSCONI PRESIDENTE 14/10/2014


Stato iter:
14/10/2014
Fasi iter:

DISCUSSIONE CONGIUNTA IL 14/10/2014

DICHIARATO PRECLUSO IL 14/10/2014

CONCLUSO IL 14/10/2014

Atto Camera

Risoluzione in Assemblea 6-00084
presentato da
BRUNETTA Renato
testo di
Martedì 14 ottobre 2014, seduta n. 309

   La Camera,
   premesso che:
    il testo sottoposto al suo esame più che essere una Nota di aggiornamento al DEF, presentato lo scorso 8 aprile 2014, ne rappresenta una completa riscrittura, come mostra la lunghezza del documento che gli è stato sottoposto, e disposizioni che stravolgono, già nella prospettazione dei problemi, rimpianto originario;
    la completa riscrittura del DEF dimostra il fallimento della linea di politica economica fin qui seguita. Errate si sono dimostrate le scelte finora compiute, a partire dalla corresponsione del bonus di 80 euro, errati i presupposti analitici su cui quella politica era fondata;
    a dimostrazione dell'assunto precedente basta considerare lo scarto nella previsione della crescita del PIL (da un +0,8 per cento ad un –0,3 per cento): pari a 1,1 punti di PIL, che supera di gran lunga tutta l'esperienza storica più recente. Senza considerare il grado di realismo implicito in quell'ultima previsione di –0,3 per cento; a giustificare un simile scarto previsionale, in corso d'anno, non si è verificato alcun elemento traumatico. Al contrario, si è seguito solo il trend a ribasso degli anni precedenti: –2,4 per cento nel 2012; –1,9 per cento nel 2013. Per ritrovare il segno più negli andamenti del PIL bisogna risalire al 2010 (+1,3 per cento) e al 2011 (+0,4 per cento), quando il Governo dell'Italia era affidato ad un'altra maggioranza;
    con questo andamento negativo il nuovo DEF non si misura. La tesi che «seppure in misura minore anche il resto dell'eurozona stenta a recuperare i livelli pre-crisi» è solo consolatoria. Né risponde a verità. Secondo i dati dell'Eurostat il reddito nominale dei Paesi dell'eurozona nel 2013 è stato del 4 per cento superiore ai livelli pre-crisi. In Italia siamo invece ancora ben lontani dal raggiungere quell'obiettivo. In termini reali la perdita di PIL resta ancora superiore ai 9 punti;
    non basta, quindi, considerare solo le caratteristiche di uno shock esogeno, legato alla crisi della Lehman Brothers. In Italia quella spinta iniziale si è innestata su problemi di carattere strutturale, determinando l'attuale stato di crisi;
    per comprendere la reale natura dei problemi – cosa che il nuovo DEF non fa – è necessario indagare sulle cause che impediscono all'Italia di seguire il sentiero più virtuoso degli altri Paesi. Cause che sono interamente riconducibili all'intervenuto blocco dell'accumulazione di capitale;
    secondo l'ultimo Bollettino della Banca d'Italia (n. 3 del 2014) negli ultimi cinque anni (primo trimestre 2014-2009), il gap di produttività in Italia rispetto all'eurozona è ulteriormente aumentato di 5,9 punti. Il Clup (costo del lavoro per unità di prodotto) di 0,7. Differenza che si spiega solo con intervenuta contrazione del margine operativo lordo (Mol) delle imprese. A dimostrazione che il tema della produttività sia oggi quello centrale;
    a questo argomento il nuovo DEF non dedica alcuna riflessione. La stessa parola «produttività» è citata solo quattro volte e riportata come semplice item in solo due tabelle, in ben 138 pagine di considerazioni;
    è necessario ricorrere ad altre fonti per conoscere il reale stato della produzione in Italia. Nell'ultimo «Rapporto sulla stabilità finanziaria» della Banca d'Italia si afferma: «Nel 2013 la redditività delle imprese è rimasta a livelli molto bassi. Sulla base dei dati di contabilità nazionale, il Mol è rimasto stabile al 33 per cento del valore aggiunto; gli oneri ne hanno assorbito oltre il 21 per cento». Il livello registrato è ancora più basso di quello indicato nello stesso rapporto dell'aprile del 2012 in cui si affermava che si era toccato il «livello più basso dal 1995». Gli anni immediatamente successivi alla grande crisi del ’92;
    se su quel valore di per sé insufficiente si calcola il peso degli oneri finanziari e del carico fiscale è facile dimostrare la forte compressione dell'utile netto, insufficiente sia per realizzare gli ammortamenti che per remunerare il rischio d'impresa. Situazione che, nonostante le esortazioni, di fatto impedisce una ripresa dei necessari investimenti;
    si spiega così il «circolo vizioso» dell'economia italiana: gli investimenti privati non crescono a causa dei ridotti margini aziendali; quelli pubblici non decollano a causa delle cattive condizioni di finanza pubblica; di conseguenza l'economia ristagna, mentre lo spiazzamento competitivo derivante dal combinarsi di una bassa produttività aziendale con un'altrettanta limitata «produttività totale dei fattori» la allontana dal resto dell'eurozona. Per non parlare della concorrenza che deriva dalle economie emergenti;
    il nuovo DEF si rende confusamente conto di questi fattori quando propone a tutta l'Europa «il rilancio degli investimenti» e «le riforme sul mercato del lavoro». Ma il primo obiettivo – rilancio degli investimenti – può essere conseguito solo se si modificano le condizioni aziendali e si liberano risorse, grazie alla spending review, rivolte sia al rilancio degli investimenti pubblici che alla riduzione del carico fiscale;
    nell'attesa che questi provvedimenti possano diventare esecutivi, nel tempo strettamente necessario, è possibile puntare fin da subito su un aumento della produttività aziendale, con l'obiettivo di recuperare il più in fretta possibile almeno quel gap di produttività che, relativamente all'ultimo quinquennio, ci divide dal resto dell'eurozona. Obiettivo che dovrebbe divenire un target importante nella linea di politica economica;
    la realizzazione dell'obiettivo di cui al punto precedente richiede un mix di incentivi e disincentivi. Incentivi come la detassazione del salario di produttività, nel maggior sviluppo possibile della contrattazione aziendale. Ma anche la necessità di disincentivare comportamenti devianti – si pensi solo all'assenteismo – che ne negano in radice i fondamenti. Occorre in proposito rimodulare le tutele, poste a giusta difesa del lavoro, affinché queste ultime non si trasformino in un alibi che deresponsabilizza, induce a forme di lassismo, alimenta il mancato impegno personale;
    è necessario che le stesse forze sindacali si impegnino nella necessaria opera pedagogica – che fu una delle caratteristiche più alte della storia del movimento operaio – affinché vi sia un rinnovato impegno volto a privilegiare il merito, la partecipazione consapevole al processo produttivo, l'impegno personale all'apprendimento di quelle nuove tecnologie che caratterizzano il mondo contemporaneo;
    non appare, pertanto, convincente la preannunciata intenzione del Governo di rendere strutturale il cosiddetto bonus di 80 euro, in quanto quella misura nega in radice i principi esposti in precedenza. È una semplice elargizione a pioggia, completamente slegata dai sottostanti livelli di produttività, e dà poco a chi merita di più e troppo a chi non fa alcunché per contribuire al miglioramento delle condizioni generali;
    l'auspicio è pertanto che la ventilata riforma del mercato del lavoro possa far fronte a queste incongruenze. I risultati, di là da venire, dovranno essere valutati in relazione al rilancio del merito e della partecipazione. Occorrerà premiare chi lavora meglio e di più e introdurre elementi di deterrenza per sconfiggere quelle posizioni di rendita che si annidano anche nel mondo del lavoro;
    questi temi «alti» potevano essere già affrontati nel corso del dibattito parlamentare. Condizione pregiudiziale era la presentazione di un disegno di legge organico sui quale fosse possibile aprire un confronto sereno in Parlamento, per distinguere le posizioni responsabili dal semplice opportunismo. Il Governo, invece, ha preferito ricorrere ad una Legge delega, dall'ampiezza indefinita, per rinviare nel tempo il confronto all'interno della propria maggioranza. Confronto che ci dovrà comunque essere nel momento in cui saranno affrontati i necessari decreti legislativi di attuazione; la scelta di questa procedura ha comportato tuttavia un drammatico allungamento dei tempi, nonché il sorgere di contestazioni che si prolungheranno nei mesi a venire e che avranno, eventualmente, la loro coda velenosa in ricorsi giurisdizionali, vista l'indeterminatezza della delega, che potranno giungere fino alla Corte costituzionale;
    il Governo stesso si è reso conto di questi pericoli, allorquando ricorda: «la delicatezza della fase attuativa che ha spesso deluso in passato le aspettative degli italiani e degli investitori stranieri». Preoccupazione assolutamente condivisibile, subito disattesa, tuttavia, dai suoi comportamenti effettivi. Del resto, lo scarto tra preposizioni teoriche e comportamenti effettivi è la vera cifra che caratterizza l'intero documento;

   considerato altresì che:
    nelle previsioni per il 2015, il nuovo DEF ipotizza una crescita del PIL pari allo 0,6 per cento. A questo obiettivo dovrebbe contribuire soprattutto la domanda interna, che subirebbe un balzo di un punto di PIL, passando da –0,3 per cento nel 2014 a +0,7 per cento nel 2015. Questo passaggio non è ulteriormente motivato, né si considera l'effetto di trascinamento della brusca caduta dell'anno precedente;
    nello stesso tempo, l'elemento più dinamico della situazione internazionale è ritenuto essere l'andamento del commercio mondiale, che dovrebbe crescere dal 4 per cento del 2014 al 5,1 per cento del 2015, ma con scarsi effetti (contributo netto pari alla crescita pari a –0,1 per cento) sull'economia italiana. Gli elementi giustificativi apportati sembrano del tutto aleatori. Allo stato degli atti è meglio rimanere fermi alle ipotesi avanzate nell'ultimo numero dell’Economist (11 ottobre 2014): «The world economy is weaker then it looks»;
    nella logica del documento, le previsioni di crescita rappresentano il floor su cui calcolare l'impatto delle possibili riforme. Rispetto al tendenziale sarebbero destinate a determinare una crescita del potenziale produttivo pari in media allo 0,2 per cento, nel corso del triennio. Ma il loro maggior effetto lordo è compensato dall'onere recato dalle misure di salvaguardia, poste a difesa del rispetto dei parametri del deficit. Misure che potrebbero scattare a partire dal 2016, per importi predeterminati fin da ora e pari a 12,6 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Con conseguente aumento della pressione fiscale, che si stabilizzerebbe ad un livello superiore al 44 per cento del PIL. Ipotesi da scongiurare fin dall'inizio;
    l'insieme di questi dati, al di là dell'eleganza formale del ragionamento contenuto nella premessa della Nota al DEF, dimostrano quanto sia ancora impervio il sentiero per uscire dalle secche della crisi. Specie se se ne valutano i riflessi negativi sulle pubbliche finanze. I cui aggregati – in termini di previsione – lasciano trasparire un notevole ottimismo;
    il nuovo DEF non fornisce indicazioni sulla costruzione del «tendenziale», nonostante le prescrizioni di legge. Mancano altresì specifiche indicazioni da parte dell'Ufficio parlamentare del bilancio. Si precisa, infatti, che «lo scenario macroeconomico ha ottenuto la validazione dell'Ufficio». Ma non è dato sapere quale sia stata la procedura seguita, né si ricava dalla documentazione fornita al Parlamento;
    le lacune indicate spingono a confrontare i dati recati dal «tendenziale» con i risultati acquisti nel corso del 2014 al fine di riscontrare possibili coerenze;
    nei primi otto mesi del 2014 le entrate erariali, secondo la competenza economica, hanno fatto registrare una flessione dello 0,4 per cento. Allorquando a fine anno, secondo le previsioni del nuovo DEF, si dovrebbe invece avere un aumento dello 0,37 per cento. Se così non fosse lo scarto sarebbe pari a 3,5 miliardi, destinato ad impattare sul deficit – già previsto al 3 per cento – e riflettersi negli esercizi successivi;
    al termine dei primi sette mesi del 2014, secondo le valutazioni della Banca d'Italia (bollettino statistico del 12 settembre) il debito pubblico ammontava a 2.168 miliardi. Secondo il nuovo DEF, il consuntivo di fine anno dovrebbe essere pari a 2.140. C’è una differenza di meno 55 miliardi. In rapporto al PIL dovrebbe scendere dagli attuali 133,5 per cento al 131,6. Se così non fosse l'effetto di trascinamento, sul 2015, già previsto in circa di 2 punti di PIL, risulterebbe ben più consistente, con possibili effetti negativi sulla dinamica della spesa per interessi;
    nella Relazione al Parlamento, infine, resa ai sensi dell'articolo 6 della legge 243 del 2012, si sottolinea il ruolo delle privatizzazioni, «che si prevede consentano introiti pari allo 0,7 per cento di PIL dal 2015 e per ogni anno successivo del periodo considerato». Si rinnova stancamente un impegno già preso con il DEF originario, ma del tutto disatteso. Anche allora, infatti, si affermava che «l'accelerazione e rapida attuazione del programma di privatizzazioni, avviato dal precedente Governo» era tesa a «promuovere introiti attorno a 0,7 punti percentuali di PIL all'anno, dal 2014 e per i tre anni successivi»;
    di quel «piano ambizioso» – per riprendere le conclusioni del DEF di aprile – non solo non esiste traccia, ma la stessa sorte è toccata alla spending review: la via maestra per il rilancio degli investimenti pubblici e l'abbattimento della pressione fiscale. A dimostrazione di quante siano le vite di quello statalismo che soffoca la vita dell'economia e della società italiana;
    in conclusione, si può pertanto sottolineare come l'attuale quadro programmatico sia venato da profonde incertezze programmatiche e dalla profonda discrasia tra il «dire» e il «fare». Esso è reticente nell'individuare i veri punti che sono all'origine dello shock endogeno che persiste nell'economia italiana, intimamente legato alla sua bassa produttività. E il riflesso di un quadro politico incerto, in cui persistono linee al fondo divergenti, segnato da fratture difficilmente conciliabili, che riducono la capacità operativa del Governo. Lo costringono a defatiganti azioni di mediazione, allungando i tempi della decisione politica. Il tutto in aperto contrasto con le esigenze di chiarezza che sono richieste dai mercati e dalla Commissione europea, che non perde occasione per far conoscere le proprie riserve, lanciando ripetuti avvertimenti;
    l'alternativa a questa linea, nei fatti inconcludente, è chiaramente indicata nei punti riportati in premessa. È stata sviluppata partendo da quelli che sono i reali problemi dell'economia e della società italiana, basandola su dati che sono forniti dai principali osservatori neutrali. Non risponde, pertanto, ad alcun machiavellismo di parte. Come tale essa è messa a disposizione dell'intero Parlamento, nella speranza che possa contribuire a sconfiggere le posizioni sbagliate e convincere gli incerti,

impegna il Governo

ad operare in coerenza con le premesse indicate, quale precondizione per sviluppare un più intenso dialogo intereuropeo, al fine di dare a quel semestre di presidenza italiano – fin troppo scialbo – l'occasione di un rilancio. Dobbiamo sgomberare il campo dall'ipotesi che l'accento riposto sulla necessità dello sviluppo sia un alibi per continuare nelle vecchie abitudini di sempre. L'impegno proposto mira, appunto, a rafforzare la posizione negoziale dell'Italia e a costringere anche gli altri – soprattutto la Germania – a fare la propria parte.
(6-00084) «Brunetta, Palese».

Classificazione EUROVOC:
EUROVOC (Classificazione automatica provvisoria, in attesa di revisione):

prodotto interno lordo

crescita economica

promozione degli investimenti