Doc. LVII, n. 5-A-ter

RELAZIONE DELLA V COMMISSIONE PERMANENTE
(BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE)

Presentata alla Presidenza il 20 aprile 2017

(Relatore: MARCON, di minoranza)

sul

DOCUMENTO DI ECONOMIA E FINANZA 2017

(Articoli 7, comma 2, lettera a), e 10 della legge 31 dicembre 2009, n. 196)

presentato dal presidente del consiglio dei ministri
(GENTILONI SILVERI)

Trasmesso alla Presidenza il 12 aprile 2017

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  Onorevoli Colleghi ! – Il DEF 2017, il Documento di economia e finanza è contenuto in tre volumi che descrivono il programma di stabilità dell'Italia, l'analisi e le tendenze della finanza pubblica e il programma nazionale delle riforme, per un totale di 522 pagine complessive. In aggiunta, tanti (ben 7) allegati.
  Si aspettano anche i dettagli delle misure della manovrina pare di circa 5 miliardi di euro di correzione dei conti pubblici 2017.

Un DEF plausibile ?

  Una montagna di parole che si possono riassumere in poche righe.
  Il Governo conferma gli obiettivi di programma di deficit pubblico in graduale calo verso lo zero negli anni a venire e di stabilizzazione e progressiva ridiscesa del debito pubblico in rapporto al PIL: il deficit si ferma al 2,1 per cento nel 2017 (0,2 punti in meno grazie alla manovrina), per scendere all'1,2 per cento nel 2018 e quasi azzerarsi (allo 0,2 per cento) nel 2019; il rapporto debito-PIL dovrebbe assestarsi al 132,5 per cento del PIL nel 2017, per poi scendere al 131 per cento nel 2018 e al 128,2 nel 2019; alla riduzione del rapporto debito-PIL dovrebbero concorrere anche proventi da privatizzazioni per 0,3 punti di PIL annui.
  Dati sballati e ottimistici (come la stima sulla crescita del PIL), che sanno di presa in giro.
  Il Governo, infatti, prevede per il 2018 un rapporto deficit-PIL all'1,2 per cento, mentre la Commissione Europea al 2,5 per cento (quest'ultima includendovi già le risorse necessarie per sterilizzare le clausole di salvaguardia, pari a 19,6 miliardi di euro). Nel documento del Governo, invece, l'andamento tendenziale incorpora le «clausole di salvaguardia». Queste clausole, inserite per rassicurare l'Europa, ma che in realtà rappresentano una finzione che ogni anno consente ai Governi di gettare fumo negli occhi fino al bilancio di ottobre, portano il bilancio tendenziale molto vicino a quello programmatico. La manovra di conseguenza è di dimensioni modeste. Ma la realtà è un'altra.

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  A questo punto è del tutto legittimo chiedersi se gli obiettivi di deficit e debito indicati dal Governo sono plausibili, e qui valgono tre riflessioni (Francesco Daveri – Lavoce.info):
  1 – Innanzitutto, è plausibile il deficit indicato ? L'1,2 per cento di deficit per il 2018 può essere di quasi un punto inferiore al dato del 2017 perché il Governo prevede a bilancio l'attivazione delle clausole di salvaguardia derivanti dalla legislazione esistente. Negli ultimi tre anni, il Governo Renzi le ha disattivate. Ma, se non disattivate, le tagliole fiscali garantirebbero allo Stato italiano entrate da imposte indirette per 19,6 miliardi, pari all'1,1 per cento del PIL, nel 2018. Lo stesso per il 2019: dagli aumenti automatici delle imposte indirette arriverebbero 23,2 miliardi di euro, l'1,3 per cento del PIL. Le clausole causano una forte perdita di discrezionalità quando si deve fare la legge di bilancio in autunno.
  Il «quanto» delle riduzioni di imposta che il Governo potrà inserire nella legge di bilancio è dunque vincolato dalla necessità di reperire risorse nel bilancio per disattivare le clausole e far quadrare i conti dello Stato.

  2 – Va poi considerato che il rapporto debito/PIL è a sua volta influenzato dall'eliminazione delle clausole di salvaguardia. Dato che le salvaguardie prevedono aumenti di imposte indirette e che gli aumenti dell'IVA e delle accise fanno salire i prezzi, la loro presenza consente oggi al Governo di fissare un'inflazione in accelerazione dall'1,2 per cento del 2017 all'1,7 nel 2018 e all'1,9 per cento per il 2019. E un'inflazione più elevata concorre Pag. 5alla discesa del rapporto debito-PIL scritto nel DEF perché fa salire il denominatore. Con un effetto boomerang: se con la legge di bilancio il Governo disattiva le clausole, a quel punto IVA, accise e inflazione non salgono, e così il rapporto debito-PIL a fine anno non scende. Non a caso negli ultimi anni il rapporto debito-PIL è stato sempre più alto di quanto previsto nel DEF di primavera. Non dipende solo dai rinvii della spending review (che pure ci sono stati), ma anche dal modo in cui si disegna il Documento.
  Aggiungiamo che il debito crescerà anche per la spesa (10-20 miliardi), senza coperture, necessaria per la ricapitalizzazione delle banche italiane (vedi il decreto-legge n. 237 del 2016).
  Il DEF presentato in aprile 2015 prevedeva che a fine 2017 il debito pubblico sarebbe sceso al 127,4 per cento del PIL. Due anni dopo, l'obiettivo per la stessa data (fine 2017) è stato alzato di 5 punti percentuali, al 132,5 per cento. Probabilmente sarà di più, se non altro per via dei fondi destinati alla ricapitalizzazione di alcune banche.
  Anche quest'anno, il DEF promette una rapida discesa del rapporto debito/PIL negli anni a venire: 131 per cento nel 2018, 128,2 per cento nel 2019, 125,7 per cento nel 2020. L'esperienza passata insegna che sono promesse che non saranno mantenute.
  L'Italia è nel suo decimo anno di seguito di aumento del debito pubblico in rapporto al PIL, se si crede alle previsioni della Commissione UE. Questo prodotto lordo varia in base alla crescita reale e all'inflazione. Il problema del nostro Paese è che il costo medio in interessi sul debito è regolarmente più alto della crescita nominale (cioè inclusa l'inflazione). Il debito cammina più in fretta del reddito, e questo spiega perché esso continui a lievitare in rapporto al PIL: manca la crescita e manca l'inflazione.
  In ogni caso: «Si osserva che per il 2017 l'incremento in valore assoluto del debito pubblico ( 48 miliardi) indicato nel DEF non sembra compatibile con le stime relative alle sue componenti che sembrano condurre ad un risultato complessivo inferiore, pari a circa 43 miliardi di euro». È quanto scrivono i tecnici dei Servizi bilancio e studi del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati in merito al DEF. «Analoghe discrasie sembrano emergere in relazione agli anni successivi», aggiungono i tecnici.

  3 – Troppo ottimismo nelle previsioni della spesa in interessi sul debito pubblico ? Alla riduzione del deficit dopo il 2014 ha contribuito per più della metà il calo della spesa per interessi, scesa di quasi otto miliardi, dai 74 del 2014 ai 66,3 del 2016. Nel DEF 2017 si prevede che la spesa per interessi continui a scendere, ma solo per il 2018, mentre già dal 2019 il dato è opportunamente contabilizzato in aumento. A contare sono circostanze esterne, come l'aumento dei tassi di mercato e la probabile fine o attenuazione del programma di acquisto di titoli da parte della BCE, ma anche interne, come l'aumento dello spread dai 150 punti degli ultimi anni ai 200 attuali. Come rileva la Banca d'Italia: «I tassi di interesse a lungo termine sono aumentati nell'area dell'euro, sospinti da aspettative di rafforzamento delle condizioni cicliche, ma anche da un incremento dei premi per il rischio sovrano, che hanno risentito dell'acuirsi dell'incertezza». Inoltre, la Banca d'Italia mette in guardia su «eventuali peggioramenti delle condizioni di mercato». Insomma, fare previsioni sui tassi di interesse futuri non è possibile.
  Nel complesso, l'Italia rispetta con fatica il vincolo sul deficit, ma non riduce il rapporto debito-PIL e non trova il coraggio di promuovere una forte politica di investimenti pubblici.
  Ottimistiche anche le previsioni per la crescita del 2017 da 1 a 1,1 per cento (servono forse per recuperare circa 800 milioni per la manovrina).
  Ma è solo il Governo italiano a fare tale previsione (Banca d'Italia prevede lo 0,9 per cento; Commissione europea 0,9 per cento; FMI 0,7 per cento; OCSE 1,0 per cento; Consensus Forecasts 0,8 per cento).Pag. 6
  Inoltre, il Fondo monetario internazionale nel suo World Economic Outlook di aprile 2017 stima la crescita italiana pari allo 0,8 per cento sia nel 2017 che nel 2018, smettendo l'ottimismo del nostro Governo. Sia pure di pochi decimali.
  Secondo Banca d'Italia «gli indicatori disponibili segnalano che nei primi tre mesi dell'anno l'economia italiana avrebbe continuato a espandersi in una misura valutabile attorno allo 0,2 per cento rispetto al trimestre precedente, pur con alcuni rischi al ribasso».
  Per il 2018 e 2019 la crescita rimane ancorato all'1 per cento a causa della manovra di finanza pubblica recessiva prospettata.
  Per la crescita, in Europa siamo all'ultimo posto sia nel 2017 che nel 2018 (la media europea sarà tra l'1,5 e l'1,8 per cento).

  Per la Banca d'Italia: «nel 2016 l'indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche in rapporto al prodotto è diminuito dal 2,7 per cento dell'anno precedente al 2,4; il rapporto tra debito e PIL è aumentato di circa mezzo punto percentuale, al 132,6 per cento. Con il Documento di economia e finanza 2017, approvato l'11 aprile, il Governo ha rivisto l'obiettivo per l'indebitamento netto dell'anno in corso dal 2,3 al 2,1 per cento del prodotto; tale risultato verrebbe conseguito grazie alle misure correttive aggiuntive definite alla luce dell'interazione con le autorità europee. Nel 2017 il rapporto tra debito e PIL rimarrebbe sostanzialmente stabile al livello dello scorso anno».
  Dunque, il deficit scende al 2,1 per cento grazie all'effetto combinato del PIL e della manovra correttiva.
  In ogni caso, se si rispettano le regole europee appare difficile spostare ulteriormente in avanti il raggiungimento del pareggio di bilancio strutturale ora previsto per il 2019.
  In ogni caso, anche i dati sull'inflazione non inducono all'ottimismo. Secondo la Banca d'Italia: «Nell'area dell'euro ... l'inflazione è risalita, portandosi all'1,7 per cento nella media dei primi tre mesi dell'anno. L'aumento è tuttavia attribuibile alle componenti più volatili (beni energetici e alimentari); non si è tradotto finora in un innalzamento delle previsioni di inflazione oltre l'anno in corso, a seguito delle ancora deboli prospettive sull'andamento dei salari in molti Paesi».
  Anche in Italia i prezzi al consumo hanno accelerato. Nel primo trimestre l'inflazione si è portata in media all'1,3 per cento, toccando i livelli più elevati degli ultimi quattro anni. Tuttavia la dinamica dei prezzi misurata al netto delle componenti più volatili rimane modesta (intorno allo 0,5 per cento).
  Abbiamo, dunque, al nostro esame un DEF ed un Programma nazionale di riforma (PNR) con indicazioni ambiziose al limite della pura propaganda.
  O, come sostiene Roberto Perotti – economista della Bocconi che era stato chiamato a Palazzo Chigi per dare una svolta alla spending review – «c’è qualcosa di profondamente sbagliato quando un Governo presenta il più importante documento di finanza pubblica, annuncia degli obiettivi che sa di non poter e di non voler Pag. 7raggiungere, tutti vedono che il re è nudo, e nessuno osa dirlo».
  La difficile realtà del Paese fa però capolino anche tra le cifre del DEF.
  Questi gli spot:
   «cruciale abbattimento del cuneo fiscale per aumentare il reddito disponibile dei lavoratori»;
   «taglio dei contributi sociali per le fasce più deboli» (giovani e donne); – 3,2 miliardi per il reddito di inclusione alle famiglie in povertà; – il debito sarà ridotto; – i dipendenti pubblici godranno di un aumento di 85 euro al mese;
   i terremotati otterranno un miliardo di fondi e non pagheranno le tasse in tutta l'area coinvolta nel sisma;
   gli «ulteriori 2,8 miliardi ( ?) per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego»;
   il pacchetto di 47,5 miliardi per investimenti da qui al .... 2032 ( !).

  Questa la realtà:
   crescita nel 2018 e 2019 pari all'1 per cento, la più bassa in Europa;
   pressione fiscale pari al 42,3 per cento nel 2017 (contro il 42,9 per cento nel 2016), ma nei due anni successivi risalirà al 42,8 per cento;
   ma soprattutto, non si dice dove il Governo prenderà i soldi necessari per mantenere questi impegni (tenendo a mente che si dovranno trovare per il 2017 ben 19,5 miliardi per evitare l'aumento delle aliquote dell'IVA e che servirà un aggiustamento strutturale per far diminuire il deficit di almeno 10 miliardi).

  Si tratta di un DEF «finto» in attesa dei risultati della trattativa con Bruxelles e un DEF «falsificato» perché include nel tendenziale l'incremento delle aliquote IVA per un aumento di gettito di circa 19,5 miliardi. Per cui un deficit tendenziale di 1,3 per cento comporta sulla carta una manovra correttiva di un solo decimo di punto (1,6 miliardi) per raggiungere l'indebitamento programmato pari all'1,2 per cento del PIL. Si nutre la speranza di ottenere da Bruxelles margini di deficit in più rispetto all'1,2 per cento scritto nel DEF. Si cercherà di portarlo al 1,8 per cento con la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (NADEF) in autunno.
  In ogni caso, gli umori che filtrano da Bruxelles non sembrano di buon auspicio per la richiesta di nuova flessibilità da parte dell'Italia, anche perché nel 2018 dovrà essere valutato l'uso che Roma ha fatto della flessibilità sin qui concessa.
  Il Documento Economico e Finanziaria (DEF) e il Piano Nazionale delle Riforme (PNR) per il 2018 sono lo specchio fedele dell'attuale dibattito europeo e nazionale (Roberto Romano). Si naviga a vista in attesa di buone nuove. Non mancherebbero le occasioni per disegnare delle politiche economiche adeguate per rilanciare l'Europa, almeno da un punto di vista politico, ma il coraggio non è di questi tempi.
  Il 2017 per l'Unione Europea è un anno fondamentale; il DEF non manca di segnalarlo nel suo consueto e paludato linguaggio, ma lascia tutto in sospeso in attesa di chissà quale primavera. Si aspettano l'autunno e la discussione sul Fiscal Compact. Infatti, l'istruttoria del Consiglio dell'economia e della finanza (ECOFIN) per la revisione dei criteri di base al quale è fissato il valore del deficit strutturale e il così detto PIL potenziale dovrebbe dare i primi risultati in autunno. Non sarà un appuntamento come tutti gli altri.
  Se L'ECOFIN conferma l'inidoneità dei criteri sottostanti il Fiscal Compact, cade proprio il Fiscal Compact come lo abbiamo conosciuto. Dopo 5 anni il Fiscal Compact doveva essere rivisto e valutato. Se L'ECOFIN modifica i criteri attuativi, nei fatti non diventerà diritto comunitario. Non è un caso, allora, che il DEF e il PNR siano «più o meno» e/o «vogliamo o possiamo». La politica economica diventa sostanzialmente l'attesa di buone nuove dal lato della crescita economica, difficile data l'attuale struttura produttiva nazionale e la dinamica dei salari (consumi) e degli investimenti Pag. 8(macchinari), e la speranza che altri assieme all'Italia convergano e/o condizionano l'esito dell'indagine dall'ECOFIN.
  Non mancano le conferme empiriche dell'inidoneità dell'austerità espansiva di antica memoria, ma purtroppo onnipresente nelle discussioni più o meno pubbliche – il gruppo Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento Europeo, per esempio, ha sostenuto il Fiscal Compact –. La manovra correttiva del Governo pari a 3,4-6 miliardi di euro, infatti, riduce la crescita del PIL, e il DEF non manca di segnalarlo nelle tavole, ancorché sfugga nella comunicazione scritta. Alla fine, meno spesa pubblica, pari allo 0,2 per cento del PIL, determina minore crescita per il 2017 e il 2018, e probabilmente sarà maggiore di quella segnalata nei documenti del Governo.
  Il DEF è «provvisorio» perché è difficile misurare la manovra per il 2018. La correzione dello 0,6 per cento del deficit strutturale per il 2018 forse è vera, ma dipende dalle clausole di salvaguardia (legate alle sciagurate politiche di Renzi) e dall'elasticità del PIL potenziale riconsiderato dall'ECOFIN. Nella migliore delle ipotesi la manovra correttiva potrebbe lambire i 10 miliardi, ma solo perché saranno introdotti, pur limitatamente, aumenti IVA e accise. Potrebbe andare peggio se fossero toccate le tax expenditure (agevolazioni fiscali). Servirebbe un ridisegno delle stesse. Il rischio è di utilizzare le risorse «risparmiate» per garantire la riduzione delle imposte alle imprese già contabilizzate nelle proiezioni di finanza pubblica del Governo.
  Insomma, si potrebbe dire che «il Governo tira a campare in attesa dei risultati dell'ECOFIN e del Fiscal compact». In questo praticando un euro-riformismo di facciata che chiede «più Europa», la riforma dei Trattati, maggiore flessibilità e meno rigore, ma in realtà si accontenta del piccolo cabotaggio e degli zero-virgola, rispettoso di regole ingiuste e controproducenti.
  Il precedente Governo Renzi, di cui quello attuale prosegue le politiche, si è sempre lamentato a parole delle regole europee e dell'austerità, ma ha portato avanti una politica economica e fiscale pienamente allineata al pensiero unico: ha rafforzato la precarietà del lavoro, ha provato (riforma costituzionale e riforma della Pubblica amministrazione) ad accentrare maggiormente i poteri nell'Esecutivo.
  Il nostro Paese deve invece intervenire con forza, in tutte le sedi europee, assumendo iniziative per una radicale riscrittura dei Trattati europei, rimuovendo le disposizioni pro-cicliche (come quelle contenute nel Fiscal compact) e lo scorporo della spesa per investimenti dal calcolo del saldo strutturale dal momento che, senza investimenti pubblici, è impensabile che il PIL possa riprendere a crescere oltre lo zero virgola, e quindi permettere al Paese di creare da sé le risorse necessarie per finanziare il fabbisogno del settore pubblico e ridurne il debito.
  In assenza di tale riscrittura, il nostro Governo deve porre il suo veto all'inserimento del Fiscal compact nei Trattati europei.
  Così come va richiesta la mutualizzazione dei rischi del Quantitative Easing e l'introduzione, a livello europeo, di politiche di bilancio di compensazione dei disallineamenti dei cicli economici dei vari Stati membri, esattamente come accadrebbe in una unione monetaria completata dall'unione politica (si veda l'esempio degli Stati Uniti d'America).
  Dobbiamo ottenere l'emissione di eurobond e project bond, per finanziare e promuovere l'occupazione, in particolare quella giovanile, e la riconversione ecologica del sistema produttivo europeo.
  Ci dobbiamo, viceversa, opporre alla nomina di un Ministro europeo delle finanze sostanzialmente incaricato di riscrivere, autonomo da qualsiasi sovranità popolare, quei bilanci nazionali che non aderissero alle regole dell'austerità.
  Dobbiamo costruire, dunque, le basi di una «disobbedienza governativa», ossia la capacità di innescare un vero conflitto con le strutture dell'Unione al fine di correggerne le politiche di austerità.Pag. 9
  Il Governo italiano deve assumere le opportune iniziative normative al fine di cancellare le modifiche agli articoli 81, 97 e 119 della Costituzione, apportate dalla legge costituzionale n. 1 del 2012, al fine di eliminare il principio dell’«equilibrio di bilancio» e di garantire la salvaguardia dei diritti fondamentali, come richiesto dalla nostra Corte costituzionale.
  Anche per evitare la ripetizione, oramai al limite del ridicolo, da diversi anni, del voto su delle risoluzioni che consentono di derogare da tale principio.

La commedia degli equivoci(1)

   (1) L'espressione è di Roberto Perotti.

  Secondo il Documento di Economia e Finanza appena pubblicato, il disavanzo di bilancio passerà nel 2018 all'1,2 per cento del PIL, dal 2,1 (del 2017): una riduzione di circa 15 miliardi. Per dare un'idea di cosa significhi questa cifra, la manovra «lacrime e sangue» del Governo Monti nell'autunno del 2011 comportò una riduzione del disavanzo di circa 20 miliardi. Ma in quel caso tutta la manovra fu sulle entrate. La spesa pubblica scese di soli 2 miliardi. Questo Governo invece ha già fatto sapere che non aumenterà le tasse (anche se sembra che il Ministro Padoan non la pensi così). Qualcosa si cercherà di recuperare dall'evasione, si possono ipotizzare circa due miliardi. Per raggiungere l'obiettivo, sarebbero quindi necessari 13 miliardi di tagli di spesa. Tutti sanno che non succederà.
  Perotti ricorda che nel 2015 e 2016 la riduzione netta della spesa è stata di 4,5 miliardi complessivi.
  «Come si può pensare che questo Governo, fragile e pieno di vincoli e veti, possa e voglia ridurre la spesa di 13 miliardi in un anno, e in un anno elettorale per giunta. Ma anche se volesse ridurla, non è una cosa che si improvvisa; mancano sei mesi alla legge di stabilità, e al momento non esiste nemmeno un abbozzo di piano su come tagliare 13 miliardi. L'unico dettaglio cui si accenna nel DEF è una riduzione della spesa dei ministeri di un miliardo», peraltro senza specificare come saranno attuati questi tagli.
  Secondo l'economista neanche il Governo crede ai suoi annunci.
  «Il DEF è uno delle decine di documenti che le regole europee impongono di produrre nell'arco dell'anno, e in aprile si fa tutto per finta, mentre le cifre serie si fanno in ottobre con il bilancio. Vero.... Ma perché dobbiamo assistere ogni anno allo spettacolo di un Presidente del Consiglio e di un Ministro dell'economia che presentano in grande pompa un documento che essi stessi sanno essere fuorviante ? Perché questa commedia degli equivoci in cui tutti stanno prendendo in giro tutti, tutti lo sanno, eppure tutti perdono tempo a discutere e commentare numeri puramente fittizi ? Che beneficio possono trarre le istituzioni di un Paese dal perpetuare una farsa collettiva che inevitabilmente erode la loro credibilità, anno dopo anno ?»

Una manovra ancora in discussione tra maggioranza e Governo: per ora si naviga a vista

  Se si vuole evitare l'aumento dell'IVA la manovra supera i 20 miliardi. Per stimolare la crescita, rinnovare i contratti del pubblico impiego, intervenire contro la povertà, ridurre il cuneo fiscale dei salari, ricostruire le zone terremotate, ripartire con gli investimenti pubblici, servono almeno altri 10-15 miliardi.
  Inoltre, proprio dall'Unione europea sembra sia partito l’input per scrivere nel DEF che l'Italia deve farsi trovare pronta per la fine del Quantitative easing nel 2018.
  Peraltro non sembrano ancora chiari gli indirizzi del Governo e della maggioranza su tutti i principali aspetti della manovra di bilancio per il 2018: infatti, in una recente intervista il Ministro Padoan ha definito «un'opzione sostenuta da buone ragioni» lo scambio fra un aumento parziale dell'IVA e un taglio deciso al cuneo fiscale. Una possibilità che si delinea come antitetica alla linea portata Pag. 10avanti dall'ex Premier, Matteo Renzi, e dai renziani del PD, che in più di un'occasione hanno sottolineato la contrarietà a un aumento delle tasse.
  Spiega il Ministro:
  «Lo scambio tra IVA e cuneo fiscale è una forma di svalutazione interna che beneficia le imprese esportatrici, che sono anche le più competitive, le quali non possono più avvantaggiarsi del tasso di cambio. Si tratta di una ricetta classica e siccome io sono un tecnico ricordo che nelle scelte politiche non si possono ignorare gli aspetti tecnici, e viceversa. Diciamo che è un'opzione sostenuta da buone ragioni».
  Nella sua audizione del 19 aprile, in realtà, il Ministro è stato assai reticente sulla manovra. Ribadendo che «l'intendimento del Governo nell'impostazione della legge di bilancio prevede di escludere l'aumento delle aliquote IVA, attuando una manovra alternativa». Salvo poi sostenere che per disinnescare le clausole di salvaguardia non era «in grado di dire quali misure si useranno perché non se ne è ancora parlato nel Governo. È un dibattito che va fatto senza ideologismi».
  Così il quadro programmatico di finanza pubblica che, come ha detto l'Ufficio parlamentare di bilancio (UPB), era già «sostanzialmente indefinito», diventa ancora più vago.
  L'IVA non è la sola imposta che anima l'agenda economica del Governo. Si affaccia, infatti, anche un possibile intervento del taglio dell'IRPEF, che l'ex Premier Matteo Renzi aveva promesso nel 2018 ma di cui non c’è traccia nel Documento di economia e finanza approvato dal Consiglio dei ministri. Padoan spiega che l'ipotesi «non è stata esclusa», rinviando alla legge di bilancio per il prossimo anno che «è ancora tutta da discutere».
  In un quadro economico caratterizzato da «vincoli stretti», come sottolinea Padoan, l'azione del Tesoro punta anche a un impegno forte sul fronte delle privatizzazioni, tema che ha diviso le valutazioni del Ministro da quelle di buona parte della maggioranza ed in particolare dei parlamentari vicini all'ex Premier Renzi, che temono una svendita dei gioielli di famiglia da parte dello Stato. «Non è che siccome c’è stata una levata di scudi allora ci accontentiamo di un po’ meno», ha affermato il Ministro.
  I progetti del Tesoro si muovono, quindi, in un percorso complicato non solo sul fronte degli impegni da rispettare con Bruxelles e con i conti da fare con l'avvio della Brexit, ma anche su quello interno. Sulle accuse, arrivate dalla maggioranza, di voler alzare le tasse, Padoan replica in modo deciso:
  «Intanto ci sono alcuni elementi di metodo. Il primo è riconoscere che il sentiero tra questi due vincoli è effettivamente stretto. Poi su singole misure ci possono essere idee diverse, io ho le mie ma sono pronto a discutere su temi specifici. Infine c’è il metodo del fuoco amico. Ma su questo non faccio commenti».
  Altro tema spinoso per l'economia italiana è quello delle banche. Padoan rassicura sul fatto che i 10 miliardi dei 20 a disposizione, che saranno utilizzati quest'anno, basteranno e rivendica il fatto che nel nuovo regime bancario europeo, il Governo italiano «ha fatto moltissimo». «Siamo il primo Paese – sottolinea il Ministro – che ha messo in campo lo strumento delle ricapitalizzazioni precauzionali».
  Per non parlare di alcune forze della maggioranza che sono arrivate a scrivere che, a proposito del DEF, esse «(stentano) a credere che non si tratti di un testo apocrifo ... Nei sei ambiti indicati come strategici, l'unico che trova una definizione certa è quello relativo al “Debito e finanza pubblica” dove viene indicato con perentorietà il raggiungimento del pareggio di bilancio entro il 2019. Degli altri cinque, dalla lotta all'evasione al lavoro, dal sistema del credito alla competitività, fino agli investimenti pubblici e al Mezzogiorno, restano impegni generici e, in alcuni casi, insufficienti o del tutto errati».

Tutti i dubbi dell'Ufficio parlamentare di bilancio

  Pisauro, presidente dell'UPB, ha messo in rilievo, nella sua audizione del 19 aprile Pag. 11scorso, come siamo in presenza di fattori di rischio legati allo scenario internazionale (emergere di posizioni protezionistiche da parte degli USA, intensificarsi di tensioni nello scacchiere geo-politico, esaurirsi della fase di debolezza dell'euro che favorisce le nostre esportazioni) e all'elevato grado di incertezza che caratterizza, in questa fase, la definizione della politica di bilancio ipotizzata nel Documento.
  La dinamica del PIL reale si colloca all'interno dell'intervallo di previsione del panel UPB (CER, Prometeia e REF Ricerche, oltre allo stesso UBP) anche se risulta al limite della previsione più elevata, soprattutto nel biennio 2018-19. Lo scenario programmatico sconta un'evoluzione dei consumi finali al di sopra dell'intervallo del panel UPB, in particolare nel 2018 e 2019, anno nel quale appare più forte anche il contributo della domanda interna alla crescita del PIL.
  Sui contenuti di finanza pubblica Pisauro ha sottolineato che:
   il quadro programmatico della politica di bilancio è sostanzialmente indefinito. Dando per scontato l'intervento da attuare con il decreto di aprile (0,2 punti di PIL nel 2017 e 0,3 negli anni successivi) e assumendo l'annullamento delle clausole di salvaguardia annunciato nel DEF, sarebbero necessarie misure correttive nette per 0,9 punti di PIL nel 2018 e 1,4 punti in ciascuno dei due anni successivi. Sul contenuto di tali interventi le informazioni sono pressoché assenti: nel DEF si evocano soltanto azioni «sul lato delle spese e delle entrate comprensive di ulteriori interventi di contrasto dell'evasione». Non solo: l'entità delle misure lorde finalizzate al reperimento delle risorse occorrenti dovrebbe essere maggiore, in quanto – si legge nel DEF – «il Governo intende anche trovare spazi per operare misure espansive e di riduzione della pressione fiscale in continuità con le misure introdotte negli anni precedenti». Di nuovo, mancano indicazioni su caratteristiche e dimensione di tali interventi espansivi.
  In questo scenario, appare di difficile realizzazione l'impegno a una disattivazione totale delle clausole di salvaguardia. In realtà, tutto il quadro sconta un'incertezza di base sulla dimensione stessa dell'aggiustamento che sarà necessario, con un sostanziale rinvio alla possibilità che a livello europeo intervengano «cambiamenti nel braccio preventivo del Patto di stabilità e crescita (PSC) in senso più orientato alla crescita e allo sviluppo», tali da «ridurre le correzioni fiscali richieste all'Italia per i prossimi anni».
  Ci rimettiamo, dunque, alla benevolenza della... Commissione UE !

Un DEF «continuista»

  Il DEF 2017 si presenta come la continuazione, in piccolo, delle politiche seguite in questi anni. Un po’ di sgravi, una riduzione delle tasse (rinviata), i tagli alla spesa sociale, la precarizzazione del lavoro e una montagna di privatizzazioni.
  Come negli anni passati, il DEF contiene una contraddizione tra i conti programmatici e le previsioni macroeconomiche. Per raggiungere gli obiettivi su debito e disavanzo, sarebbe necessario un aggiustamento che è difficilmente compatibile con le previsioni di crescita. In passato questa contraddizione ha spinto il Governo a disattendere gli obiettivi di bilancio, pur di non sacrificare la crescita. Succederà così anche questa volta.
  Per cogliere la sostanza del DEF, secondo quanto sostiene Luigi Pandolfi (Il Manifesto del 14 aprile 2017), è sufficiente soffermarsi su due indicatori: indebitamento netto e saldo primario. Il primo, confermato all'1,2 per cento per l'anno prossimo, ci dice quanto espansive, generose, saranno le politiche fiscali dell'Esecutivo nel futuro prossimo; il secondo, che poi è la controprova del primo, quanto della raccolta fiscale (tasse pagate dai cittadini) sarà assorbito dal servizio del debito e, di conseguenza, sottratto alla spesa sociale, alle politiche occupazionali e redistributive. Quanto più alta sarà fissata Pag. 12l'asticella dell'avanzo primario (rapporto tra entrate ed uscite senza considerare gli interessi sul debito), tanto più magro sarà il dividendo per i cittadini.
  Dunque, quest'asticella sale non di moltissimo, ma sale, già a partire dall'anno prossimo (dal 2,4 al 2,5 per cento, rispetto alla Nota di aggiornamento di settembre). E per gli anni avvenire il Documento si dà come obiettivo il 3,8 per cento, da raggiungere in tre anni. Per intenderci, tre decimali in più dell'obiettivo di medio termine fissato per la Grecia nel terzo memorandum. E dire che l'Italia si è sempre comportata bene su questo versante: negli ultimi 25 anni per ben 16 volte abbiamo chiuso i conti con un avanzo primario superiore al 2 per cento del PIL. Primi della classe. Ma questo, evidentemente, non basta. C'entrano il Fiscal compact, il pareggio di bilancio, il vincolo esterno, le clausole di salvaguardia, il pericolo di nuove procedure di infrazione. Certamente, ma non solo. Una risposta esaustiva a questo interrogativo è contenuta nella stessa introduzione al DEF: «Un'elevata credibilità può portare a forti risparmi sulla spesa per interessi, (...) anche alla luce dell'aspettativa di consenso secondo cui la BCE terminerà il suo programma di Quantitative easing entro la fine del 2018».
  Da marzo 2015, Francoforte sta agendo, sebbene indirettamente, da prestatrice di ultima istanza per gli Stati. Le banche centrali nazionali stampano moneta e acquistano titoli di Stato sul mercato secondario per conto di Eurotower, alleggerendo il pancione delle banche private dopo l'abbuffata di bond degli anni precedenti e allentando la pressione dei mercati (speculazione) sui debiti (cosiddetti) sovrani dei Paesi membri.
  Attualmente, il nostro Paese paga all'incirca 20 miliardi di euro all'anno in meno di interessi sul debito grazie all’«alleggerimento quantitativo». La fine del programma, però, potrebbe stravolgere la situazione, a maggior ragione se si considera il livello monstre raggiunto dal nostro debito, 2250 miliardi di euro (il 132,5 per cento sul PIL), di cui poco meno del 40 per cento in mano ad investitori stranieri.
  Il timore è che il venir meno dello scudo del Quantitative easing possa gettare il nostro Paese in acque molto agitate dal punto di vista finanziario, lasciarlo in balia della speculazione. Bisogna saper leggere bene tra le righe del Documento appena licenziato da Palazzo Chigi: in previsione di una probabile interruzione del programma di acquisti da parte della BCE, l'Italia dovrà mostrarsi maggiormente «credibile», che, nel linguaggio finanziario, vuol dire semplicemente tranquillizzare gli investitori sulla propria capacità di ripagare i debiti. Avanzi primari crescenti che fungano da tranquillanti per i mercati finanziari. Maggiore pressione fiscale o meno spesa pubblica, queste le leve che il Governo ha in mano. La scelta: «È intenzione del Governo continuare nel solco delle politiche economiche adottate sin dal 2014, volte a liberare le risorse del Paese dal peso eccessivo dell'imposizione fiscale e a rilanciare al tempo stesso gli investimenti e l'occupazione, nel rispetto delle esigenze di consolidamento di bilancio». Aumento degli investimenti e, contemporaneamente, austerità.
  Al di là di alcune misure elettoralistiche, un film già visto: la sostenibilità del debito caricata interamente sul groppone dei cittadini. Il debito quale asse intorno al quale gira tutta la politica del Governo, alla cui dinamica è appeso il presente ed il futuro di milioni di cittadini, delle nuove generazioni.
  Un monito di The Wall Street Journal da non sottovalutare: «L'Italia preoccupa i mercati più delle elezioni francesi. Le preoccupazioni degli investitori stanno nuovamente aumentando».

Ma quale è l'entità della manovra per il 2018 ?

  Se lo chiede l'economista Roberto Romano stante la vaghezza del DEF 2017 al riguardo (vedi Sbilanciamoci.info).
  Secondo le proiezioni del Governo sarebbe necessaria una manovra correttiva – Pag. 13per il 2018 – pari allo 0,8 per cento del PIL (quadro programmatico), lievemente inferiore allo 0,9 per cento del quadro tendenziale (si tratta di un contenimento della spesa pubblica o di un aumento delle imposte pari a 15 miliardi di euro). Infatti, la stima programmatica ingloba la correzione dello 0,2 per cento del 2017, il cui impatto va ben oltre l'anno corrente: 0,1 per cento per il 2018, 0,4 per cento per il 2019 e 0,4 per cento per il 2020.
  Il Governo, sostanzialmente, anticipa una parte della manovra per il 2018 anche per «contenere» l'effetto (stringente) delle così dette clausole di salvaguardia – aumento di IVA e accise –, con ulteriori recuperi di gettito a parità di aliquote (contrasto all'evasione fiscale) e risparmi di spesa dei ministeri per 1 miliardo l'anno (si noti che la stima dei risparmi pari a un miliardo l'anno di euro dal lato dei ministeri rappresenta, in qualche misura, il fallimento della così detta spending review. L'obiettivo è chiaramente il taglio della spesa e non il governo della formazione della spesa pubblica. Diversamente sarebbe stata predisposta una sorta di cabina di regia di valutazione di efficacia della spesa pubblica).
  Infatti, a legislazione vigente, senza misure compensative, è prevista una crescita delle entrate tributarie: «L'aumento delle entrate tributarie a legislazione vigente è sostenuta dalle imposte indirette per effetto dell'entrata in vigore delle clausole poste a garanzia dei saldi di finanza pubblica da precedenti disposizioni di legge, che produrranno un incremento delle aliquote IVA e delle accise sugli olii minerali a decorrere dal 2018, in assenza di misure compensative di spesa o entrata» (DEF 2017, p. 60).
  Dobbiamo prendere per coerente e/o vera la proiezione del Governo ?
  Se guardiamo allo scostamento dell'indebitamento netto (deficit) tra il 2017 (2,1 per cento) e il 2018 (1,2 per cento), la manovra dovrebbe essere pari allo 0,8 per cento del PIL, per un valore prossimo ai 14 miliardi di euro. In realtà, dobbiamo considerare alcune poste che il Governo «omette» di trattare. Non solo il saldo primario (il saldo tra entrate e uscite al netto della spesa per interessi) cresce di 0,8 punti di PIL tra il 2017 (1,7 per cento) e il 2018 (2,5 per cento); non solo devono essere rifinanziate alcune leggi pluriennali e interventi particolari, per esempio le misure per il terremoto, ma sul bilancio pubblico pendono quasi 20 miliardi di euro di clausole di salvaguardia, cioè aumenti di IVA e accise messe a garanzia dei provvedimenti del 2014 e 2015, sostanzialmente finanziati a debito (Jobs Act, incentivi per l'assunzione del lavoro a tempo indeterminato a tutele – indennità – crescenti, i famosi 80 euro, abolizione della TASI sulla prima casa). Tra le altre misure non dobbiamo dimenticare che «si è decisamente abbassata l'aliquota fiscale totale per le imprese tramite gli interventi su IRAP (2015), IMU (2016) e IRES (2017)» (DEF 2017, p. 8). La riduzione relativa all'IRES (circa 3,4 miliardi) è stata in parte compensata dall'incremento dell'IRPEF di circa 3,5 miliardi, di cui 1,2 miliardi per lavoratori dipendenti e 2,3 miliardi per lavoratori autonomi e le imprese (DEF 2017, p. 148).
  Complessivamente si prospetta una manovra correttiva non inferiore a 35 miliardi di euro per il 2018, e almeno altri 15 miliardi di euro per il 2019.
  Sarebbe una manovra pesante che rischia di rallentare la timida crescita del PIL, già condizionata dalla propria struttura economica e dalla polarizzazione del reddito.

Un DEF che si adegua ai diktat del Fiscal compact

  Nel 60-esimo dei Trattati di Roma, nonostante il clima eccessivamente celebrativo, dovremmo provare a fare un’«operazione verità» sulle condizioni e le prospettive dell'Unione europea e dell'euro-zona.
  L'UE e l'euro-zona sono su una rotta insostenibile. Gli equilibri sono sempre più precari, puntellati da una politica monetaria di emergenza sempre più malsopportata da larghi settori del Paese Pag. 14leader. Le condizioni strutturali per una ripresa stabile e significativa, ossia in grado di innalzare quantità e qualità dell'occupazione, non vi sono. Anzi, la fisiologia indotta dai Trattati europei e dal Fiscal Compact è di segno opposto. Siamo invischiati in uno scenario di sotto-occupazione e insostenibilità del debito pubblico.
  La ragione di fondo del quadro anemico è il mercantilismo liberista e la conseguente svalutazione del lavoro dell'impianto dei Trattati e del Fiscal Compact. La generalizzazione del modello tedesco centrato sull’export, «raccomandato» dalla Commissione UE o contenuto nei Memorandum sottoscritti dai Paesi membri, non può funzionare in quanto, a causa della svalutazione interna, determina per ragioni algebriche una carenza cronica di domanda aggregata. Quindi, semi-stagnazione e sotto-occupazione e insostenibilità del debito pubblico. Il problema non è l'Italia, la Spagna o la Grecia, sempre indietro nel percorso delle «riforme strutturali». Il problema non sono i malati poco responsabili e poco disponibili a somministrarsi l'amara ma efficace medicina. Il problema è la medicina che aggrava la malattia.
  L'insostenibilità del mercantilismo liberista dell'euro-zona diventa ancora più stringente nel contesto della presidenza Trump che archivia la funzione di consumatore di ultima istanza svolta dalla fine delle II Guerra mondiale dagli Stati Uniti.
  In tale contesto, è estremamente preoccupante il sostegno del Governo italiano alla cosiddetta «Europa a più velocità». Accelerare lungo una rotta insostenibile determina l'anticipazione dell'impatto del Titanic Europa con l’iceberg della sofferenza economica e sociale interpretata da forze politiche regressive. Maggiore integrazione politica a Trattati vigenti implica, inevitabilmente, ulteriore subordinazione democratica e condanna all'ulteriore impoverimento sociale, economico e industriale del nostro Paese.
  È, invece, urgente cambiare radicalmente rotta al fine di rivitalizzare una crescita diffusa e qualificata, buona e piena occupazione, sostenibilità del debito pubblico. Cambiare rotta vuol dire definire e applicare un impianto di politica economica alternativo a quello dominante da almeno tre decenni, non semplicemente conquistare qualche decimale di maggior deficit in rapporto al PIL. Quindi, cambiare radicalmente rotta non solo in termini di finanza pubblica, ma nella regolazione degli scambi di merci e servizi (attraverso l'introduzione di standard sociali e ambientali) per proteggere il lavoro e l'ambiente e dei movimenti di capitali (attraverso controlli e limiti), nella politica industriale per l'intervento pubblico discrezionale, nella regolazione del mercato unico, ad esempio attraverso la cancellazione della Direttiva Bolkestein.
  Per rimanere esclusivamente sul terreno di finanza pubblica, cambiare radicalmente rotta apre una profonda contraddizione il Fiscal compact. È necessaria la sospensione del Fiscal Compact per realizzare una virata keynesiana a favore degli investimenti pubblici. Una manovra espansiva, rispetto al deficit tendenziale, di almeno mezzo punto di PIL all'anno per un triennio, diretta a progetti di messa in sicurezza del territorio e delle scuole e alla mobilità sostenibile, in stretta interazione con comuni e regioni. Gli effetti macro-economici sarebbero molto contenuti sulla nostra bilancia commerciale, dato il carattere labour intensive dei programmi finanziati e comunque largamente sostenibili dato l'ampio surplus dell'Italia. Gli effetti di breve periodo sul debito pubblico sarebbero negativi ma modesti e compensati nel medio periodo da una ripresa robusta e radicata del reddito e dell'occupazione.
  Purtroppo, anche il DEF 2018-20 conferma la linea mercantilista percorsa dal Governo Renzi negli ultimi anni in un quadro subalterno ai vincoli, impossibili, del Fiscal Compact. Le principali misure di policy hanno tutte il segno supply side, mentre nulla viene indicato in termini di misure restrittive sul versante della spesa e/o delle entrate. Per la correzione dello scenario a «politiche invariate», contraddistinto secondo le previsioni della Commissione Pag. 15europea (....) da un indebitamento del 2,6 per cento, una variazione positiva del PIL dell'1 per cento e un deflatore del PIL dell'1,1 nel 2018, è necessaria una manovra di circa 1,2 punti percentuali di PIL, al netto degli effetti del decreto correttivo appena approvato.
  In tale contesto, è evidente la sovrastima della crescita prevista per il 2018 a causa degli effetti deflativi della programmata correzione di finanza pubblica. La dimensione della sovrastima aumenta in considerazione del più elevato deflatore del PIL previsto nel DEF rispetto alla richiamata previsione della Commissione.
  Infine, tra le principali contraddizioni del quadro macro-economico presentato nel DEF va segnalato la contrazione della spesa delle pubbliche amministrazioni contenuta nel «tendenziale» a fronte di un aumento della medesima variabile nello scenario di programmazione che, al contrario, dovrebbe far registrare un'ulteriore e significativa diminuzione.

BOX: NO AL FISCAL COMPACT NEI TRATTATI EUROPEI

  Il Gruppo parlamentare Sinistra Italiana-SEL-Possibile ha presentato una mozione – la cui discussione si è avviata, nell'aula della Camera, il 18 aprile scorso – per impegnare il Governo italiano a porre il proprio veto all'inserimento del Fiscal compact nei Trattati europei e per una profonda modifica delle regole europee di bilancio.
  Di seguito alcuni stralci della nostra mozione:
   per la prima volta dalla firma del Trattato di Roma nel 1957, le spinte verso la disintegrazione prevalgono sulla costruzione di «una Unione sempre più stretta fra i popoli europei». L'Unione europea è ben lungi dalla stabilità, dalla legittimità, dallo sviluppo concertato che avevano garantito le sue classi dirigenti. Alla vigilia dei negoziati della Brexit, che rappresenta un campanello d'allarme sull'impopolarità del «progetto europeo», sembra al contrario che, questo, sia entrato in una crisi irreversibile e la sua stessa esistenza sia messa in questione;
   (...)
   l'unione monetaria così come è stata realizzata, all'insegna del mercantilismo tedesco e senza politiche comuni in ambito economico, fiscale e sociale, si è dimostrata insostenibile: si è realizzata attraverso una svalutazione del lavoro, la riduzione della spesa pubblica e degli investimenti pubblici, la privatizzazione del patrimonio collettivo ed ha alimentato gli squilibri geografici, ha depresso l'economia e la crescita, ha fatto crescere le diseguaglianze;
   (...)
   l'euro-riformismo di facciata che chiede «più Europa», la riforma dei trattati, maggiore flessibilità e meno rigore, ma che in realtà si accontenta del piccolo cabotaggio e degli «zero-virgola», rispettoso di regole ingiuste e controproducenti non è una soluzione; è la continuazione di politiche neoliberiste che fanno crescere povertà e diseguaglianze;
   infatti, se le pratiche attuali dell'eurogruppo proseguiranno, si avrà presto una grave crisi politico-finanziaria italiana, che avrà ricadute anche in Germania. Si riaffaccia, inoltre, il progetto della «Kernel Europa», un'Unione europea a più velocità ed a cerchi Pag. 16concentrici subordinati ad un nucleo centrale. Questo piano è destinato al fallimento nel medio termine. In ogni caso, l'Italia ne verrebbe probabilmente esclusa di fatto;
   (...)
   il «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'Unione economica e monetaria» o «Patto di Bilancio Europeo» (cosiddetto « Fiscal compact») è un trattato intergovernativo europeo, sottoscritto dai Paesi dell'eurozona,
   (....)
   l'articolo 16 del Trattato prevede che, entro cinque anni dall'entrata in vigore (1o gennaio 2013) del Fiscal compact, esso venga inserito nell'ordinamento comunitario; di conseguenza che avvenga la sua trasformazione – entro il 31 dicembre 2017 – da accordo intergovernativo in parte integrante dei trattati fondativi dell'Unione europea;
   tale trasformazione imporrà ai Paesi sottoscrittori il pieno dispiegamento dei suoi obblighi, il suo farsi parte costitutiva e fondante dell'Unione europea, e assai più difficoltoso, complesso e arduo procedere alla sua cancellazione o anche solo ad una sua revisione;
   per l'inserimento del Fiscal compact nei Trattati europei è necessaria l'unanimità dei consensi;
   (...)
   la gestione neoliberista della crisi economica ha aumentato le asimmetrie e le disuguaglianze esistenti all'interno dei Paesi europei e tra di loro, attuando una competizione sulla base di svalutazioni interne concorrenziali che si sono tradotte in un attacco sistematico al lavoro ed al welfare;
   (...)
   i risultati di queste politiche economiche sono stati largamente fallimentari ed hanno portato alla stagnazione e alla depressione economica. La disoccupazione è cresciuta del 40 per cento, gran parte dei Paesi della zona euro è stata colpita dalla recessione e – nonostante le politiche dei tagli – il debito pubblico è cresciuto mediamente dal 66 per cento (in rapporto al PIL) del 2008 al 93 per cento del 2015;
   (...)
   le misure economiche varate in questi ultimi 15 anni stanno dunque minando alle radici, insieme alla dimensione sostanziale e sociale del costituzionalismo europeo, lo stesso processo di integrazione dell'Unione europea;
   (...)
   la ricetta giusta per uscire dalla crisi è sopperire alla carenza di domanda privata con la politica di bilancio. In un periodo durante il quale consumi ed investimenti privati faticano a crescere, è lo Stato Pag. 17che deve intervenire con politiche espansive, in particolare aumentando la spesa pubblica per investimenti per stimolare direttamente la domanda. (....) Grazie all'effetto moltiplicatore, la politica espansiva genera un aumento più che proporzionale dell’output, innescando un circolo virtuoso: maggiore produzione, maggiori investimenti e maggior capacità produttiva;
   lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore, Matteo Renzi, ebbe a dichiarare nel novembre 2016 che: «Nel 2017 il «fiscal compact», le regole del pareggio di bilancio dovrebbero entrare nei trattati. Io sono nettamente contrario a questa ipotesi. Monti, Bersani e Brunetta ci hanno regalato il fiscal compact. Nel 2017 l'Italia dirà no al suo inserimento nei trattati» (...) C’è da chiedersi se il Governo attualmente in carica, sostenuto dalla stessa maggioranza parlamentare del Governo pro tempore, darà un seguito concreto a tali affermazioni;
   (...)
   l'inserimento del Fiscal Compact nei Trattati europei avrebbe effetti moltiplicativi di queste politiche fallimentari, oltre ad alimentare un clima di distacco e sfiducia delle popolazioni europee verso l'Unione europea. (...)
   il dogma dell'obbedienza cieca ai parametri del Fiscal compact è stato contraddetto anche dalla sentenza della Corte costituzionale italiana n. 275 dell'ottobre 2016, dove si indica – in estrema sintesi – che servizi primari incomprimibili per i cittadini non possono venir negati da vincoli di bilancio e che il corpus normativo costituzionale nazionale ha primazia sul rispetto dei trattati medesimi (anche se inserito in un singolo articolo della Carta costituzionale).
   (...)
   impegna il Governo:
   1) a intervenire con forza, in tutte le sedi europee, assumendo iniziative per una radicale riscrittura dei Trattati europei per ridurne le contraddizioni con i princìpi delle Costituzioni dei Paesi dell'Unione europea, nate dopo la II Guerra mondiale. In assenza di tale riscrittura, a rifiutare di inserire il Fiscal compact nei Trattati europei, opponendo il veto in sede europea;
   2) a promuovere la rimozione delle disposizioni pro-cicliche (come quelle contenute nel Fiscal compact) e lo scorporo della spesa per investimenti dal calcolo del saldo strutturale (...);
   3) a proporre la mutualizzazione dei rischi del Quantitative Easing (...);
   4) a proporre una conferenza europea sui debiti sovrani per affrontare le situazioni nazionali più critiche;
   5) a proporre, in sede europea, che i titoli di Stato comprati dalle banche centrali nazionali nell'ambito del Quantitative Easing siano trasferiti nell'attivo di bilancio della Banca centrale europea e Pag. 18successivamente congelati a tempo indefinito, senza alcuna sterilizzazione;
   6) ad assumere iniziative per reperire, in sede europea, le necessarie risorse finanziarie e, per garantire, specialmente nei Paesi più poveri, che i trasferimenti sociali ai rifugiati non siano a loro spese (...);
   7) a mettere in discussione l'aumento delle spese militari dell'Unione europea (...);
   8) a proporre l'utilizzazione, a livello europeo, di una quota del gettito della tassa sulle transazioni finanziarie, unitamente all'emissione di eurobond e project bond, per finanziare e promuovere l'occupazione, in particolare quella giovanile, e la riconversione ecologica del sistema produttivo;
   9) a proporre la ridefinizione del ruolo della Banca centrale europea come prestatrice di ultima istanza;
   10) a proporre un programma europeo, una sorta di «  social compact», per lo sviluppo sostenibile e la coesione sociale, la lotta alle disuguaglianze ed alla povertà, (...) nel quale inserire, in particolare, un'indennità di disoccupazione europea;
   11) (...) ad assumere iniziative per integrare e a modificare lo Statuto (...) della Banca centrale europea (BCE), al fine di includere tra i princìpi generali per le operazioni di credito a banche dell'eurozona la condizione per cui un credito viene concesso soltanto se appare promuovere sicuramente l'occupazione netta nel Paese dell'ente richiedente;
   12) ad assumere iniziative per fare sì che, in sede di Unione europea, la stesura finale del «Pilastro europeo dei diritti sociali»:
sia approvata definitivamente entro giugno del 2017 (...);
   13) a sostenere, a livello nazionale, attraverso risorse adeguate, azioni, programmi ed iniziative di carattere normativo, il diritto ad un reddito minimo e tutti i diritti recati dal «Pilastro europeo dei diritti sociali»;
   14) ad assumere le opportune iniziative normative al fine di cancellare le modifiche agli articoli 81, 97 e 119 della Costituzione, apportate dalla legge costituzionale n. 1 del 2012, al fine di eliminare il principio dell’«equilibrio di bilancio» (...);
(1-01589) «Marcon, Fratoianni, Civati, Airaudo, Brignone, Costantino, Daniele Farina, Fassina, Giancarlo Giordano, Gregori, Andrea Maestri, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pastorino, Pellegrino, Placido».

  Testo completo: http://aic.camera.it/aic/scheda.html ?core=aic&numero=1/01589&ramo=CAMERA&leg=17&testo=1

Pag. 19

Sul versante delle entrate

  Il documento testimonia la totale subordinazione dell'attuale Governo all'ex Premier Renzi: sembra, infatti, scontare il veto di quest'ultimo nell'affrontare i temi della progressività fiscale, dell'introduzione di una imposta patrimoniale sulle grandi ricchezze ed in generale del ricorso ad una diversa politica delle entrate, la cui distorsione (basti solo pensare all'evasione e all'elusione fiscale, al lavoro irregolare ed all'economia illegale, o a quell'enorme quantità di ricchezza netta concentrata nelle mani del top 10 per cento della popolazione e non investita nell'economia reale) è alla base del costante aumento del debito pubblico degli ultimi trent'anni, ma che sarebbe la sola in grado di garantire enormi margini di recupero di risorse da destinare da un lato al risanamento dei conti pubblici, e dall'altro ad investimenti pubblici per la realizzazione di infrastrutture, offerta di nuovo welfare, tutela del territorio, etc. Un approccio peraltro confermato ed intuibile anche laddove si legge che non si registrerà alcuna variazione particolarmente significativa per la pressione fiscale, destinata a rimanere stabile.
  Di contro, l'unico ricorso alla leva fiscale rintracciabile nel documento ed in perfetta continuità con il passato, è quello orientato a sostenere, peraltro in modo iniquo e generalizzato, le imprese, dimostrando come il Governo con la programmazione fiscale continui a voler perseguire l'obiettivo di una maggiore competitività dai costi, anziché da un'efficace, efficiente ed equa allocazione delle risorse e dei fattori produttivi.
  Del resto una diminuzione generalizzata dal 27,5 per cento al 24 per cento dell'imposta sui redditi delle società (IRES), come quella già prevista dalla legge di bilancio per il 2017, tanto più in un Paese ancora in balia della crisi e con un tasso di disoccupazione che supera l'11 per cento, segna la continuità nel volersi affidare al mercato, nonostante le ripetute prove di inefficacia di questa strategia, ed appare ancor più un ingiustificato «regalo alle imprese».
  Anche il tanto sbandierato taglio delle aliquote IRPEF, che il precedente Governo puntava a realizzare entro la legislatura, scompare dal cronoprogramma delle riforme: il PNR, viceversa, indica come cruciale il taglio del cuneo fiscale per ridurre il costo del lavoro e aumentare parallelamente il reddito disponibile dei lavoratori, un impegno però condizionato dalla sua compatibilità con gli obiettivi di bilancio.
  Il cammino della riduzione del peso della tassazione sui lavoratori e sulle aziende il Governo lo aveva già intrapreso nel 2014, allorquando, sotto l'egida di una riforma strutturale del sistema fiscale, ha riconosciuto un bonus di 80 euro ai percettori di reddito da lavoro dipendente o assimilati fino a 26.000 euro e la deduzione della quota lavoro sull'IRAP, rubricando le due misure come «riduzione del cuneo fiscale». Se il bonus di 80 euro, stante la perdita di potere d'acquisto dei salari e la elevatissima evasione fiscale, appariva come dovuto e comunque positivo, lo stesso non può dirsi per quelle misure – la diminuzione del cuneo per le imprese, e la decontribuzione – che oltre ad essersi rivelate costose hanno dirottato risorse in maniera non selettiva alle aziende senza alcun significativo ritorno in termini di occupazione aggiuntiva.
  Ma è nel biennio 2015-2016 che si sarebbero dispiegati gli effetti combinati dei due interventi (cioè la decontribuzione fino a 8.000 euro per ogni nuovo assunto con il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act e la deduzione della quota lavoro a tempo indeterminato dall'imponibile IRAP), rivelatisi però, in termini di politica economica, poco lusinghieri, avendo avuto solo l'effetto di fornire una ulteriore convenienza a rapporti che sarebbero stati comunque accesi. A tal proposito il Governo ha divulgato a più riprese diversi dati utilizzando le diverse fonti disponibili, in questo modo millantando una ripresa dell'occupazione che nei fatti non c’è stata e se c’è stata è da ricondurre alle fluttuazioni congiunturali o, in gran parte, al normale turnover tra assunzioni e licenziamenti, e solo in minima Pag. 20parte a quella immensa mole di risorse mal stanziate dal Governo. I risultati degli sgravi contributivi sulle nuove assunzioni e della deduzione IRAP sul tempo indeterminato dimostrano che le due misure oltre a non aver stimolato la crescita economica né tanto meno la produttività, hanno inciso poco sull'occupazione «stabile» ( 386 mila occupati permanenti, comprese trasformazioni e assunzioni già previste), restituendo quindi un dato molto contenuto considerando la mole di risorse stanziate (circa 17,4 miliardi nel 2015 e nel 2016). Inoltre i numeri nudi e crudi della serie storica dell'ISTAT dicono che tra dicembre 2014 (ultimo mese pre-sgravi) e dicembre 2016 (ultimo di sgravi effettivi, per quanto ridotti) il tasso di occupazione è salito dal 56 al 57,3 per cento, mentre quello di disoccupazione è calato leggermente dal 12,3 al 12 per cento. Riguardo alle ragioni dell'incessante perdita di competitività da parte delle imprese italiane, le stesse risiedono tutte in un'inadeguata produttività, ed un totale sgravio dall'IRAP, per quanto robusto, non la risolverebbe, ma darebbe alle imprese solo un respiro momentaneo.
  Quel che a questo punto preoccupa è l'intento del Governo, esplicitato in tono neanche troppo sommesso nel DEF 2017, di voler replicare il ricorso ad interventi di riduzione del carico fiscale sui fattori produttivi (attraverso un taglio dei contributi sociali riferibili alle fasce più deboli, cioè giovani e donne), del tutto coerenti alla linea liberista delle istituzioni europee, che puntano sulla competitività dei costi per far ripartire la produzione, sfruttando un (supposto) aumento delle esportazioni derivante da prezzi alla produzione inferiori. Dunque l'unica modalità concepita dal Governo per uscire dalla crisi sembra essere quella di abbassare salari, occupazione e diritti del lavoro, quando invece per creare valore aggiunto occorre proprio aumentare la quantità e la qualità del lavoro così come quelle della produzione.
  Altro obiettivo dichiarato nel PNR, orientato ad una maggiore equità del prelievo fiscale e ad una redistribuzione del reddito, è quello, insieme all'aggiornamento del patrimonio informativo catastale, di una revisione delle 610 spese fiscali (cosiddette tax expenditures ovvero l'insieme delle detrazione, deduzioni e crediti d'imposta che contribuiscono ad erodere le imposte di circa 300 miliardi di euro l'anno), 444 delle quali riguardano le missioni del bilancio statale e 166 la fiscalità locale, un'operazione peraltro socialmente molto sensibile, trattandosi di una serie di agevolazioni che consentono al contribuente, in sede di dichiarazione dei redditi, di sottrarsi parzialmente all'eccessiva pressione fiscale abbattendo sensibilmente il totale dell'imposta dovuta. La revisione sarà volta ad eliminare o rivedere quelle non più giustificate sulla base delle mutate esigenze sociali ed economiche o quelle che duplicano programmi di spesa pubblica. Nel loro totale confluiscono anche le detrazioni per lavoro dipendente, autonomo e pensione (per oltre 37 miliardi di euro), le detrazioni per carichi di famiglia (per 10 miliardi di euro), le detrazioni delle spese mediche (2,3 miliardi di euro), dei lavori di ristrutturazione e via dicendo oltre alle agevolazioni alle imprese che impediscono la doppia tassazione o che costituiscono incentivi catalogabili nell'ambito della politica industriale.
  Tax expenditures è un termine che suona come un inglesismo tecnico, ma che pare destinato a divenire protagonista nel futuro dibattito politico, con importanti ricadute sui contribuenti, trattandosi, come si è visto, di tagli a tutte quelle agevolazioni fiscali tese, nella loro originaria concezione, a ridurre il carico fiscale su cittadini ed imprese, e negli ultimi anni tornate alla ribalta perché già protagoniste di un progetto virtuoso della «creatività» dell'allora Ministro Tremonti, che pensò di sfrondarle per ampliare la base imponibile dei contribuenti e finanziare, attraverso il maggiore gettito che ne sarebbe derivato, la riduzione delle aliquote nominali d'imposta. La galassia delle tax expenditures contempla voci di agevolazioni la cui quota maggiore si concentra su casa e Pag. 21famiglia, come le spese per mutui, per la sanità, per l'assegno di mantenimento, o per le erogazioni liberali e via dicendo, pertanto la loro revisione si tradurrà in un inesorabile aumento della pressione fiscale.
  Dunque l'ipotesi di un intervento di revisione delle spese fiscali non è nuova; anzi è da anni all'attenzione dell'agenda degli ultimi Governi. Il loro ridimensionamento rappresenta un obiettivo della politica fiscale soprattutto da quando si è diffuso il convincimento che, analogamente all'evasione, si sia in presenza di un «tesoretto» cui attingere per soddisfare le necessità di finanza pubblica. Ma l'aspetto ancora più paradossale è che cancellare le agevolazioni significa, de facto, aumentare la pressione fiscale, anche se in base al PNR allegato al DEF 2017, le maggiori entrate derivanti dalla «rimodulazione» saranno in parte destinate al Fondo per ridurre la pressione fiscale. Insomma tutto ed il contrario di tutto.
  Passando poi alla fiscalità immobiliare, semplicistica e demagogica è apparsa l'indiscriminata scelta del Governo di abolire dal 1o gennaio 2016 le imposte su tutte le prime case, rispetto alla necessità reale, di riordinare le imposte sul patrimonio per far concorrere alle finanze pubbliche anche i detentori di quelle grandi ricchezze ingessate, mobiliari ed immobiliari, che se fossero destinate ad investimenti produttivi darebbero nuova linfa all'economia reale. Il solo sostegno alla casa di proprietà, riconosciuto attraverso l'abolizione della tassazione sull'abitazione principale, premia una delle forme di patrimonio certamente più diffusa, ma anche uno dei fattori economici in assoluto più statici. A ciò si aggiunga che l'imperdonabile ritardo e la reiterata dilazione dei tempi con i quali si è fissata, finalmente, a livelli europei la tassazione delle rendite finanziarie, uniti ai provvedimenti di definizione agevolata dell'emersione dei capitali occultati all'estero, hanno sottratto alle politiche pubbliche imponenti risorse che, invece, avrebbero potuto essere dirottate, ad esempio, a garantire maggiore inclusività e maggiore qualità del nostro welfare.
  Una revisione dell'imposizione immobiliare mirata ad una maggiore efficienza, equità e progressività in grado di realizzare una redistribuzione del carico fiscale dai più abbienti al ceto medio-basso, non può prescindere dalla preliminare revisione delle rendite catastali, per renderle più aderenti ai valori di mercato, e deve prevedere forme di esenzione correlate al valore degli immobili ed alla situazione economica dei nuclei familiari che li occupano, anche superando il meccanismo di solidarietà che attualmente vincola proprietario ed affittuario, superando la quota d'imposta a carico di quest'ultimo e che grava soprattutto sulle generazioni più giovani.
  Grande assente all'interno del PNR è una strategia organica per la riduzione strutturale dell'evasione fiscale, anche se è assolutamente condivisibile la strada fin qui battuta dal Governo di volersi affidare alla tecnologia per aumentare la compliance, piuttosto che puntare sulla repressione dell'evasione ormai consumata. Così come positiva è la scelta di descrivere all'interno del PNR i risultati della lotta all'evasione, evidenziando separatamente il recupero ottenuto da somme dichiarate e non versate e da errori materiali. Tuttavia nel capitolo successivo il Governo non si esime dal vantare il trend positivo del recupero, pari nel 2015 a 14,9 miliardi di euro omettendo però di evidenziare che più della metà di queste somme derivano proprio da tributi dichiarati e non versati e da errori materiali. In un Paese come il nostro, in cui così alta è l'evasione, la cifra di 14,9 miliardi è sicuramente bassa, e sconta il fatto che gran parte dell'evasione commessa, pur accertata, è di difficile recupero: come evidenziato nel corso di un'audizione dall'amministratore delegato di Equitalia, solo il 7 per cento dell'evasione finita a ruolo è stata effettivamente recuperata. Del resto i positivi risultati in termini di gettito della voluntary disclosure, dello split payment (rispetto al quale il Governo punta dal 2017 ad una estensione anche alle aziende controllate direttamente o indirettamente dallo Stato o dagli enti pubblici territoriali e le società Pag. 22quotate in Borsa, anche quando queste avranno rapporti con professionisti) e del reverse charge non sembrano suggerire modifiche sostanziali in materia di lotta ai paradisi fiscali e di riorganizzazione dei pagamenti IVA.
  A normativa invariata, rimane il fatto che, da un lato, la fatturazione elettronica e, dall'altro, incentivare l'uso del contante più che della moneta elettronica e tracciabile, appare assai contraddittorio: il contante è il principale strumento di evasione, quando non di corruzione e attività illecite, ragion per cui l'innalzamento della soglia massima a 3.000 euro continui ad essere, senza mezzi termini, un favore agli evasori.
  Di più, per rimanere sullo stesso versante, sarebbe necessario accompagnare i suddetti controlli informatici attuati dall'amministrazione finanziaria con altre misure volte a rafforzarli, come la reintroduzione del reato di falso in bilancio, il ripristino di una serie di norme volte al contrasto del c.d. abuso di diritto, una maggiore tracciabilità dei pagamenti.
  In ultimo, pende ancora sui conti pubblici la parte non sterilizzata delle cosiddette clausole di salvaguardia (nel 2017 per 15,1 miliardi di euro e nel 2018 per 19,6 miliardi di euro) che, se non disinnescate in tempo, imporrebbero il programmato aumento dell'IVA, lo spettro di una trappola in grado di deprimere la domanda con pesanti conseguenze sulla produzione di beni e servizi e sull'intera economia.

Dal Fiscal Compact al Fiscal Combat

  Lo scenario macroeconomico italiano delineato dal DEF 2017 rappresenta una Nazione il cui sistema produttivo si sta sgretolando e che sta esaurendo la sua spinta propulsiva e la sua capacità progettuale, in cui si sono amplificate le diseguaglianze, in cui si è ristretto il perimetro dei diritti, ed in cui l'emarginazione ha allargato la propria platea di ultimi, deboli e meno fortunati: tutti fattori che dimostrano quanto non sia non è più eludibile costruire tutte quelle condizioni adatte a consolidare ed incrementare la crescita economica del nostro Paese, e quanto sia altrettanto indispensabile e coerente con questo obiettivo, realizzare una maggiore equità sociale, anche attraverso una migliore distribuzione del reddito a favore delle fasce della popolazione vulnerabili e quindi più esposte alle difficoltà economiche, attuabile grazie a politiche fiscali mirate ad un significativo alleggerimento della pressione tributaria su lavoratori dipendenti e pensionati, conseguibile solo con un'incisiva e determinata lotta all'evasione fiscale.
  Appare infatti oramai inconfutabile che tra le debolezze strutturali del sistema-Italia, fortemente pervaso anche dalla crisi globale, vi sia un'iniqua distribuzione della ricchezza, aggravata da un iniquo prelievo fiscale, risultato questo a cui si è addivenuti perché processo di risanamento dei conti pubblici messo in atto in questi ultimi anni dagli ultimi governi, inasprito dall'incombente crisi internazionale, ha avuto come attori/destinatari principali i lavoratori dipendenti ed i pensionati, che sono stati chiamati a pagarne la maggior parte del costo. Se il ricorso alla leva fiscale ha, infatti, permesso ai Governi di attuare con successo un processo di risanamento della finanza pubblica, ciò è stato possibile con provvedimenti che non hanno ripartito equamente il carico tributario, ma che hanno progressivamente innalzato il livello della tassazione reale fino all'insostenibile dato del 43 per cento.
  Larga parte dei redditi che non derivano da lavoro dipendente o pensione, e in particolare quelli da capitale, quelli derivanti da cespiti patrimoniali o dall'esercizio di lavoro autonomo e professionale, riescono ad evadere e/o eludere la tassazione personale, sottraendosi così alla progressività ed alla funzione/azione redistributiva del prelievo tributario, e costituendo solo un enorme giacimento di risorse indebitamente sottratto alla collettività, che alimenta quelle attività speculative i cui risultati perversi sono sotto gli occhi di tutti. In queste condizioni, in cui i titolari di redditi diversi da quelli da Pag. 23lavoro dipendente hanno ampi margini di discrezionalità e di valutazione soggettiva della loro base imponibile da utilizzare in sede di tassazione, il principio della progressività del prelievo fiscale (articolo 53 Costituzione) rischia di confinarsi all'imposizione sui redditi delle persone fisiche sostanzialmente dei lavoratori dipendenti e dei pensionati.
  In questo stato di cose l'obiettivo, non più rinviabile per la tenuta della coesione sociale, di ridurre il prelievo fiscale sui redditi di lavoratori e pensionati e di assumere il sostegno alla famiglia come fattore di una maggiore equità distributiva, va intrapreso, ferma restando la tenuta complessiva dei conti pubblici, modificando la composizione del prelievo, compensando il minore gettito con una revisione dei tributi che colpiscono rendite e consumi, un percorso complementare che conduca ad una revisione delle modalità di tassazione del patrimonio e della proprietà, al fine di ricondurre a tassazione tutte quelle basi imponibili che oggi, per svariati motivi, risultano sfuggenti.
  Qualsiasi discorso sull'equità fiscale è compromesso se non si accetta di partire dalla considerazione che il nostro Paese proviene da decenni di evasione fiscale scandalosa che ha consentito l'accumulazione di grandi ricchezze e la realizzazione di grandi patrimoni personali grazie, soprattutto, a transazioni speculative e rendite. La crisi inoltre ha messo a nudo un rancore crescente verso l'ineguaglianza sociale e verso il paradosso che vede l'Italia come uno dei Paesi più ricchi del mondo, senza che questo venga riconosciuto nell'esperienza quotidiana che lo dipinge come un Paese ricco, ma abitato da poveri.
  Di contro, qualsiasi rivendicazione che faccia appello ad una nuova politica dei redditi che, a sua volta, abbia come asse centrale la crescita e lo sviluppo delle capacità produttive e competitive del Paese, con un marcato segno redistributivo verso il lavoro dipendente ed a sostegno delle fasce sociali più esposte, che le ristori ma che faccia anche ripartire i consumi, non può prescindere dal ricorso alla leva fiscale da utilizzare non solo per far emergere le diverse capacità economiche dei contribuenti, ma anche, e soprattutto, come strumento di sostegno allo sviluppo, di redistribuzione del reddito e di lotta al lavoro sommerso.
  Per uscire dalla crisi e finanziare la spesa necessaria a far ripartire l'economia, la politica fiscale del Governo deve cambiare radicalmente strada, andando a scovare le grandi ricchezze laddove fino ad oggi non sono state cercate (tra i più abbienti, tra i profitti, tra le rendite) e spostando la sua attenzione, fino ad oggi accentrata sul lavoro e sulle pensioni, verso le sacche di rendita improduttiva del tutto prive di una funzione propulsiva per la nostra economia, nell'ottica di una redistribuzione del carico fiscale che garantisca il ritorno ad una significativa progressività dell'imposizione, non solo per raccogliere più risorse, ma soprattutto per dare un maggiore senso di giustizia fiscale, perché non può esserci democrazia senza democrazia fiscale.

Quali indicatori per misurare il Benessere Equo e Solidale (BES) ?

  Nel DEF approvato dal Governo compare un allegato con gli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (BES) previsti dalla nuova legge di bilancio (novità da tutti salutata positivamente), indicatori fortemente voluti da un gruppo trasversale di deputati (con una proposta di legge a mia prima firma) che ha ripreso l'esperienza e le proposte di iniziative come quelle di Sbilanciamoci (QUARS), dell'Impronta Ecologica, dell'Indice di Felicità e naturalmente del lavoro dell'ISTAT sul Benessere equo e sostenibile. L'idea è che non basta il PIL e che il benessere non si misura solo con i parametri macroeconomici: e questo è positivo.
  Il DEF – in cui sono inseriti gli indicatori del BES – è però francamente scoraggiante, con la continuazione, in piccolo, delle politiche seguite in questi anni: un po’ di sgravi, una riduzione delle tasse (rinviata), pochi soldi per i contratti dei dipendenti pubblici, qualche spicciolo per Pag. 24il welfare e una montagna di privatizzazioni.
  Sinistra Italiana qualche giorno fa ha lanciato le sue proposte racchiuse in quattro verbi: lavorare (con la promozione di un piano straordinario del lavoro), investire (5 mila cantieri per le piccole opere), assistere (500 euro al mese alle famiglie – 1,5 milioni – in povertà assoluta), istruire (diritto allo studio per 9 milioni di giovani). Il tutto da finanziare sospendendo il Fiscal compact e prendendoci così un punto di PIL (17 miliardi) per fare gli investimenti, riducendo la spesa militare e per le grandi opere, colpendo i privilegi (tassando le multinazionali del web, la finanza speculativa e i grandi patrimoni).
  Padoan nella conferenza stampa di presentazione del DEF – non potendo dire granché altro – ha parlato molto di Benessere equo e sostenibile e si è compiaciuto per i risultati e i progressi fatti dall'Italia. Ma c’è della propaganda: dire che i famigerati 80 euro hanno ridotto le diseguaglianze è una sciocchezza, quando l'ISTAT ha detto proprio il contrario: che quella misura ha favorito le classi medio-alte e non i poveri.
  Ma andiamo con ordine.
  Non va bene che a fare le stime del BES – sui dati ISTAT – siano i tecnici del Ministero dell'economia e delle finanze (cioè il Governo). Non potranno che fare propaganda al loro operato. L'omissione, la manipolazione, la strumentalizzazione sono dietro l'angolo. Serve l'indipendenza di un istituto (sul modello e la natura dell'Ufficio Parlamentare di Bilancio) che non sia influenzato dall'Esecutivo di turno, altrimenti ci misureremo solo su una versione partigiana dei dati. E infatti sui quattro indicatori scelti (reddito, lavoro, diseguaglianze, emissioni CO2) il DEF cosa fa ? Glorifica i risultati raggiunti dall'azione del Governo. Così il BES perde credibilità.
  Fare un BES governativo con 4 indicatori, quando l'ISTAT lo fa con 130 indicatori, anche questo serve a poco. Meglio poco che niente si potrebbe dire. Ma è veramente troppo poco. Così non abbiamo una vera idea del Benessere equo e sostenibile del nostro Paese.
  E poi la trattazione degli indicatori è discutibile e strumentale. Presentare le performance italiane senza alcun paragone con gli altri Paesi europei (come invece l'ISTAT correttamente fa nel suo Rapporto) è scientificamente e politicamente inaccettabile: un modo per evitare un confronto per noi impietoso e per impedirci di renderci conto su dove siamo. Affrontare l'indicatore delle diseguaglianze senza trattare il tema della povertà (come invece l'ISTAT correttamente fa nel suo Rapporto) è un modo abile per indorare la pillola. E presentare gli 80 euro come una misura di riduzione delle diseguaglianze (quando l'ISTAT disse esattamente il contrario in un'audizione in Commissione Bilancio) significa fare marketing.
  Parlare di indicatori del lavoro prendendo solo la «mancata partecipazione al lavoro», senza citare la precarizzazione e senza ricordare l'aumento del numero degli inattivi ( 0,4 per cento, dati ISTAT di aprile) – di coloro che non cercano più lavoro – è un inno alla parzialità. A proposito: il bilancio di genere che fine ha fatto ? Era previsto dalla nuova legge di bilancio, ma ci risulta «non pervenuto».
  Il BES governativo sbandierato da Padoan è molto meno significativo di ciò che sembrava in partenza e del lavoro che seriamente fa l'ISTAT. C’è ancora molto lavoro da fare. Comunque un'occasione mancata in un DEF deprimente.

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BOX: DEF 2017, RIMANDATO ALLA PROVA DEL BENESSERE
Tommaso Rondinella – Sbilanciamoci.info

  Il Documento di economia e finanza 2017 introduce nei documenti di bilancio alcuni indicatori di benessere. Un risultato importante che apre un percorso lungo e pieno di insidie.
  Il Documento di Economia e Finanza (DEF) 2017 prevede un nuovo allegato («Il Benessere equo e sostenibile nel processo decisionale») che introduce nei documenti di bilancio alcuni indicatori di benessere e, per la prima volta, una proiezione dei relativi dati per i prossimi 3 anni considerando tanto la situazione a legislazione vigente (tendenziale) quanto quella in seguito alle misure previste dal DEF (programmatico).
  Si tratta di un risultato importante, ottenuto grazie al lavoro di tanti che si sono spesi perché le politiche economiche guardino al di là della sola crescita economica. Ed è un risultato importante in primo luogo per Sbilanciamoci !, che formulava proposte in questo senso già dal 2010. Tali proposte hanno poi preso forma in una proposta di legge trasversale ai gruppi parlamentari (primo firmatario Giulio Marcon) poi inserita nella legge di riforma del bilancio dello stato (legge n. 163 del 2016).
  Il DEF non è nuovo alla presenza di indicatori di benessere: in particolare il Programma Nazionale di Riforma contiene gli indicatori della Strategia Europa 2020 (occupazione, povertà, innovazione e ambiente, ne abbiamo già parlato, si veda: http://sbilanciamoci.info/europa-2020-la-strategia-dimenticata-24393/). Ma in questo caso, con la stima dei valori tendenziali e programmatici, il Governo è tenuto a quantificare l'impatto atteso sugli indicatori in questione delle misure previste dal DEF.
  Fino qui tutto bene, ma non è che l'inizio di un percorso lungo e pieno di insidie.
  La stima dei valori tendenziali e programmatici richiede che gli indicatori prescelti possano essere inseriti in un qualche modello econometrico in grado di valutare quale effetto possano avere le politiche macroeconomiche su tali indicatori. Questa condizione restringe notevolmente la platea degli indicatori eleggibili. La scelta degli indicatori è nelle mani di un Comitato ad hoc composto da rappresentanti di ISTAT, Banca d'Italia, Ministero dell'economia e delle finanze (MEF) e due esperti accademici.
  In questo «primo esercizio sperimentale» presentato ieri dal Governo sono stati inseriti 4 indicatori che, tra quelli del BES, avevano la caratteristica di poter immediatamente entrare nei modelli di simulazione usati abitualmente dal MEF. Gli indicatori adottati sono: il reddito medio disponibile aggiustato pro-capite; un indice di diseguaglianza del reddito (il rapporto interquintilico); il tasso di mancata partecipazione al lavoro; le emissioni di gas climalteranti.
  Si tratta di misure certamente rilevanti per la misurazione del benessere, ma ancora insufficienti.
  È chiaro che – in linea di massima – non sarà possibile «modellizzare» gli aspetti soggettivi del benessere (ad es. il livello di Pag. 26soddisfazione per le relazioni familiari e amicali o la fiducia nei partiti) o alcuni comportamenti delle persone (i consumi di frutta e verdura, le attività di volontariato o la propensione alla brevettazione). Certamente il Governo può mettere in campo politiche che incentivino o disincentivino comportamenti o percezioni, ma altra cosa è prevederne l'andamento nei prossimi tre anni.
  Tuttavia ci sono decine di indicatori di benessere per i quali è possibile costruire modelli di previsione: è quindi lecito aspettarsi che in futuro entrino a far parte di questo monitoraggio. Esempi sparsi per i vari domini del BES potrebbero essere la speranza di vita o le cause di morte, i livelli di istruzione, gli abbandoni scolastici e l'accesso all'università, l'incidenza di lavoratori con bassa paga, gli occupati irregolari, il tasso di povertà, la ricchezza netta, la vulnerabilità finanziaria, i tassi di criminalità, la cura del paesaggio e la cementificazione del territorio, le aree a rischio idrogeologico o quelle protette, la spesa in ricerca e sviluppo, l'accessibilità dei servizi sociali o l'affollamento delle carceri.
  C’è quindi bisogno di una progressiva sperimentazione in quanto a modellistica per ampliare in misura significativa il set di indicatori oggetto di osservazione. Questa la faranno – auspichiamo – il Comitato e il MEF nei prossimi mesi: ma in questo non possono, e non devono, essere lasciati soli.
  A questo proposito, leggendo le considerazioni presentate dal Governo riguardo i risultati di questo esercizio emerge come sarebbe opportuno che anche altri organi mettessero in piedi modelli analoghi. Quando il MEF presenta le proprie previsioni sul PIL deve infatti confrontarsi con numerosi altri attori che fanno lo stesso e che possono mettere in guardia Parlamento e cittadini riguardo la verosimiglianza di tali stime. Il MEF produce le stime e le commenta, e di certo non può essere il solo a farlo.
  In caso contrario, si viene a configurare con ogni evidenza un conflitto d'interesse.
  Un esempio per tutti: nel commento al buon andamento dell'indice di disuguaglianza, il MEF richiama diverse misure di politica economica tra le quali il bonus 80 euro e l'abolizione della TASI. Ma un esercizio di micro-simulazione fatto recentemente dall'IRPET mostra come per queste due misure la quota di risorse andate al quintile più ricco sia sensibilmente più elevata di quella andata al quintile più povero, producendo quindi nello specifico un aumento della disuguaglianza.

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  Che il Governo tenda a promuovere le proprie iniziative nel DEF non è certamente una novità, ma è essenziale che anche altri attori producano simulazioni analoghe in modo da garantire un dibattito democratico corretto.
  È allora necessario che tali stime (come ci sono ora per le classiche variabili macroeconomiche) siano prodotte anche da un organo indipendente come l'Ufficio Parlamentare di Bilancio.
  Nel caso specifico dell'indice di disuguaglianza, è possibile analizzare criticamente i commenti del Governo perché anche altri attori producono le medesime simulazioni, ormai molto consolidate in ambito istituzionale e accademico.
  L'allargamento del set di indicatori che auspichiamo dovrà poi estendere le simulazioni a territori finora inesplorati. La modellistica sugli indicatori di benessere deve diventare sempre più un patrimonio a disposizione di istituzioni e società civile, non possiamo lasciare che il MEF sia il solo a presidiare questo nuovo mondo.

Il DEF non fa i conti con la crisi, la disoccupazione, la povertà

  In pochi anni abbiamo vissuto l'inizio della crisi finanziaria, la sua trasformazione in crisi del debito e dell'euro che ha portato ad una crisi economica apparentemente senza fine. E ancora, una crisi dei rifugiati, il primo esodo dall'Unione di uno Stato membro con il referendum sulla Brexit e la guerra lungo tutti i confini d'Europa – dall'Ucraina alla Siria alla Libia.
  All'orizzonte, la prospettiva sempre più reale e prossima di una disintegrazione dello spazio europeo.
  Si è proceduto con la moneta unica alla svalutazione del lavoro, al primato del privato sul pubblico ed al rafforzamento del primato dei mercati finanziari che risulta la causa principale della crisi e dell'implosione del sistema.
  La messa in opera della cd. «Agenda 2010» finalizzata ad aumentare la competitività delle esportazioni tedesche attraverso un drastico abbassamento del costo del lavoro (con l'avvento dei mini-jobs) e una riduzione della spesa per il welfare, ha sostituito l'obiettivo della piena occupazione con un regime di sotto-occupazione precaria. La svalutazione del lavoro in Germania rappresenta uno degli elementi principali di squilibrio all'interno dell'eurozona dopo lo scoppio della crisi.
  Il Governo Renzi ha distribuito a pioggia 21 miliardi di sgravi e bonus fiscali senza risultati. Una politica dell'offerta che non è adeguata alla situazione che stiamo vivendo.
  Il rischio è quello di una stagnazione assoluta e decennale.
  Il risultato – secondo il Rapporto Italia dell'ISTAT – è che nella maggioranza degli indicatori analizzati l'Italia appare sistematicamente collocata al di sotto della media europea.
  Ad oggi siamo ancora lontanissimi dai livelli di PIL di prima della crisi e nel frattempo le nostre contraddizioni e disuguaglianze sono aumentate.
  Nel 2016 oltre 100.000 giovani italiani hanno abbandonato il proprio Paese. E mentre si parla del problema dell'immigrazione, problema altrettanto se non più grave, è quello dell'emigrazione.
  Il tasso di occupazione è rimasto poco sopra il 50 per cento, fra i più bassi d'Europa. Se i lavori a chiamata e intermittenti sono aumentati del 2,5 per cento, quelli in somministrazione del 13 per cento, più in generale, nel 2016, abbiamo nuovi impieghi a tempo indeterminato che superano di poco il 20 per cento, mentre quelli a tempo determinato sfiorano il 65 Pag. 28per cento (con un aumento di oltre il 10 per cento fra i giovani), secondo la nota trimestrale sulle tendenze dell'occupazione resa pubblica il 30 marzo dall'ISTAT, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l'INPS e l'INAIL.
  In particolare si è assistito al boom dei voucher cresciuti in un anno di quasi il 25 per cento, superando abbondantemente il tetto dei 30 milioni nell'ultimo trimestre dell'anno passato.
  Quello che ci si prospetta, quindi, è una massa di working poors destinati a sopravvivere, a causa dell'ulteriore precarizzazione e dei bassi oneri contributivi associati al loro sfruttamento, con una pensione ben al di sotto della soglia di sussistenza, se mai saranno in grado di averla.
  Tale radicalizzazione dello sfruttamento della forza-lavoro, associato alla drastica riduzione dei servizi sociali e delle misure assistenziali, è per altro in rapida diffusione in tutta Europa. Così, persino secondo i dati di EUROSTAT, le persone a rischio povertà ed esclusione sono ormai all'interno della UE circa un quarto della popolazione, mentre in Italia ci avviciniamo paurosamente al 30 per cento. Degli oltre 120 milioni a rischio povertà oltre 17 milioni sono nel nostro Paese. A tali allarmanti dati come reagiscono i Governi europei ? In primo luogo mediante una progressiva criminalizzazione della povertà, portata avanti a tutti i livelli: legislativo, amministrativo, mediatico, per non parlare della sua applicazione al governo delle città (a partire dalla criminalizzazione da parte della giunta di Roma di chi è spinto per sopravvivere a dover rovistare nei rifiuti).
  Secondo l'OCSE, in Italia dagli anni ’80 la diseguaglianza economica è cresciuta del 33 per cento (il dato più alto fra i paesi OCSE).
  Nel 2016 i sette italiani più ricchi hanno una ricchezza pari ai 20 milioni più poveri. L'1 per cento detiene il 25 per cento del reddito nazionale e il 20 per cento delle persone più ricche possiede più di quanto detenuto dal 67 per cento della popolazione.
  Questa forbice è il prodotto di chiare scelte politiche:
   – la detassazione delle grandi eredità;
   – la detassazione della prima casa anche per i più abbienti;
   – un sistema fiscale che penalizza lavoratori autonomi.

  Esiste dunque un serio problema di ridistribuzione della ricchezza.
  L'Osservatorio pensioni dell'INPS il 30 marzo ha reso noto che il 76,5 per cento delle donne percepisce meno di 750 euro al mese, collocandosi così al di sotto della soglia di povertà, in compagnia di oltre 11 milioni di pensionati, ovvero 6 su 10. Nel 26 per cento dei casi, rimanendo sotto i 500 euro al mese, la pensione è al di sotto del livello di povertà assoluta. Sono i brillanti risultati della riforma Fornero, passati con un supporto bipartisan in Parlamento e senza suscitare significative proteste da parte delle stesse forze sindacali. Tale riforma si accaniva, ancora una volta sui più deboli, le donne, la cui età pensionabile è stata elevata di ben 5 anni. L'attacco alle pensioni non è finito con il Governo Monti, ma è stato portato avanti, anche se in forme meno aperte, dallo stesso Governo Renzi.
  Inoltre, con il blocco delle rivalutazioni degli assegni pensionistici medi e medio-bassi, come denuncia un'indagine dello SPI presentata il 4 aprile, l'abbassamento del livello delle pensioni porta gli anziani a dover risparmiare progressivamente persino sul cibo, sempre più razionato e di cattiva qualità, e sulle cure mediche e dentistiche, con inevitabili conseguenze sulle aspettative di vita. Così il 17,5 per cento di anziani, al solito più donne che uomini, si vede costretto a saltare o il pranzo o la cena. Del resto si tratta di un problema che non colpisce i soli pensionati, considerato che, dovendo pagare i costi della crisi, Il 57 per cento delle famiglie è stata costretta a diminuire quantità e qualità della spesa.Pag. 29
  Il DEF afferma che l'azione di contrasto alla povertà sarà incentrata su una strategia innovativa delineata dalla legge delega approvata nel marzo scorso dal Parlamento, che il Governo ha ferma intenzione di attuare intervenendo su tre ambiti:
   a) il varo del Reddito di Inclusione, misura universale, si fa per dire dato che si rivolge ad un percentuale minima di famiglie in povertà assoluta, di sostegno economico ai nuclei in condizione di povertà che prenderà il posto del Sostegno per l'inclusione attiva, con un progressivo ampliamento della platea di beneficiari (già nel 2017 oltre 400 mila nuclei familiari, per un totale di 1 milione e 770 mila persone), una ridefinizione del beneficio economico condizionato alla partecipazione a progetti di inclusione sociale e un rafforzamento dei servizi di accompagnamento verso l'autonomia;
   b) il riordino della carta acquisti per minori e dell'assegno di disoccupazione ASDI;
   c) il rafforzamento e coordinamento degli interventi in materia di servizi sociali, finalizzato a garantire maggiore omogeneità territoriale nell'erogazione delle prestazioni. Le risorse stanziate ammontano complessivamente a circa 1,2 miliardi per il 2017 e 1,7 per il 2018.

  A fronte delle roboanti dichiarazione del Governo, l'ISTAT ha rilevato che nel 2015 un milione e 582 mila famiglie, il 6,1 per cento delle famiglie residenti, risultava in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni e 598 mila persone, ovvero il 7,6 per cento dell'intera popolazione.
  Le famiglie in condizione di povertà relativa, sempre secondo l'ISTAT nel 2015 erano 2 milioni e 678 mila, il 10,4 per cento di quelle residenti, per un totale di 8 milioni 307 mila persone, il 13,7 per cento dell'intera popolazione.
  L'ISTAT, nel dossier relativo al DEF 2017, illustrato nel corso dell'audizione nelle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, ha dichiarato che l'11,9 per cento delle famiglie italiane nel 2016 si è trovata nelle condizioni di grave deprivazione materiale, che i minori che nel 2016 risultano in condizioni di grave deprivazione sono 1.250.000, pari al 12,3 per cento della popolazione con meno di 18 anni, mentre tra il 2015 e il 2016 l'indice peggiora per le persone anziane (65 anni e più) da 8,4 per cento a 11 per cento e per chi vive in famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione (da 32,1 per cento a 35,8 per cento).
  Ancora una volta la scelta è quella di un intervento parziale e neanche esaustivo nei confronti delle famiglie in povertà assoluta senza prevedere alcun intervento strutturale di reddito minimo a livello europeo, previsto dall'articolo 34 della Carta di Nizza, ma anche dal Pilastro europeo dei diritti sociali, si persegue così un intervento che invece di affrontare compiutamente la questione della povertà si interviene su una quota di questa lasciando la stragrande maggioranza delle famiglie nella povertà assoluta e in quella relativa, nella povertà.

Gli investimenti

  I bassi investimenti sono i responsabili della bassa crescita, in quanto gli investimenti complessivi restano «drammaticamente inferiori» (Pierluigi Ciocca) ai livelli antecedenti la crisi. Rispetto al 2007, infatti, sono inferiori del 28 per cento. In particolare, gli investimenti pubblici nel 2009 si attestavano ancora a 54 miliardi per scendere nel 2016 a soli 36 miliardi.
  Dobbiamo sottolineare come, secondo l'econometria del Fondo monetario internazionale, l'effetto moltiplicatore degli investimenti pubblici, che dovrebbero trascinare gli investimenti privati, sarebbe pari a 2, mentre quello basato su trasferimenti e detassazione sarebbe appena dello 0,7-0,8 per cento. Le politiche basate sugli incentivi portate avanti perlomeno dagli ultimi due Governi sono fallite.
  Il totale in Italia degli investimenti fissi lordi sul PIL è passato dal 21,2 nel 2008 al 26,6 per cento del 2015. Nel medesimo Pag. 30arco di tempo gli investimenti pubblici sono crollati del 23 per cento in Italia (dell'11 per cento in Europa). La contrazione degli investimenti privati è stata più accentuata che di quelli pubblici. Gli investimenti privati nel 2009 e nel 2011 sono crollati per ben due volte del 15 per cento, un calo senza precedenti nel giro di pochi anni. Un crollo, nonostante il recupero del 4 per cento nel 2016, ancora lontano da essere riassorbito.
  Secondo l'ISTAT i dati recenti di contabilità nazionale mostrano che il calo degli investimenti a prezzi correnti nel settore pubblico prosegue ininterrottamente da sette anni. Dopo la lieve caduta del 2015 (-0,3 per cento sul 2014, la variazione a prezzi correnti), nel 2016 gli investimenti pubblici hanno subito una forte contrazione (-4,5 per cento, equivalente a -1,6 miliardi), dovuta alla riduzione della spesa nelle amministrazioni locali (-13,7 per cento), non compensata dall'aumento degli investimenti nelle amministrazioni centrali ( 9,5 per cento).
  Nel 2016 c’è stata un ulteriore contrazione degli investimenti pubblici, proprio nell'anno in cui il nostro Paese poteva sfruttare una clausola di flessibilità concordata con l'Unione europea e costituita da un ulteriore spesa pari a 4 miliardi (cioè lo 0,25 per cento del PIL) rischiando addirittura la revoca di tale concessione.
  La ripresa di condizioni adeguate e durature di crescita dell'economia è legata anche a una ripresa degli investimenti delle amministrazioni pubbliche.
  Nonostante l'analisi del Governo converga spesso sulla necessità di maggiori investimenti fissi, si programma un'ulteriore riduzione degli investimenti pubblici (dal 2,1 del 2016 al 2,0 per cento del PIL nel 2020). Tale impostazione, purtroppo, risulta coerente con le privatizzazioni programmate (1,2 punti di PIL nel quadriennio, ovvero 5 miliardi di euro all'anno) e la riedizione di molti incentivi generalizzati alle imprese, pur essendo ormai riconosciuto da tutti – compreso il Ministero dell'economia e delle finanze – che l'ingente numero di risorse erogate al mercato abbia restituito solo una minima parte di investimenti, innovazione e occupazione all'economia reale.
  Si esaltano i 47 miliardi del piano di investimenti da qui al 2032. In 15 anni rappresentano lo 0,2 per cento del PIL (3,133 miliardi l'anno). Uno spot che ci si poteva risparmiare.
  Per la spesa in conto capitale le previsioni tendenziali del DEF mostrano un andamento complessivamente decrescente nel periodo 2017-2020: a fine periodo l'aggregato si attesta su un valore pari a 56,7 miliardi, inferiore di circa 1 miliardo rispetto al valore previsto per il 2017. L'andamento descritto viene confermato dalla dinamica della spesa in termini di PIL, che dal 3,4 per cento del 2017 scende al 3 per cento nel 2020. Si determinano peraltro valori più elevati nel 2018 e nel 2019, che mostrano un'incidenza della spesa in conto capitale rispetto al PIL, rispettivamente, del 3,5 per cento e del 3,3 per cento.
  Anche il piano Juncker, sbandierato tre anni fa come il toccasana della crescita, con investimenti per i quali era prevista una leva di 1 a 15, è sostanzialmente fallito. A fronte di soli 21 miliardi – sottratti in gran parte ad altri capitoli di spesa o forniti dalla BERS – si sarebbero dovuti ottenere ben 315 miliardi di investimenti dai privati.
  Il rapporto OCSE pubblicato nel febbraio 2016 lo giudica «deludente». Ecco i risultati reali rispetto a quelli previsti dalla Commissione:

Pag. 31

  Gli investimenti dopo un anno e mezzo restano inchiodati ad un magro 0,35 per cento di PIL, quando il piano Juncker prevedeva investimenti per il 2,3 per cento in tre anni. La leva (rapporto tra denaro UE e apporto dei privati) è in realtà intorno a un più ragionevole rapporto di 1 a 4 o di 1 a 5. Un flop del velleitario piano Juncker prevedibile (e previsto da Sinistra Italiana). In controluce sembra proprio che l'OCSE sostenga che è illusorio contare sugli investimenti privati per rilanciare la domanda.

L'occupazione, il fallimento del Jobs Act, la precarizzazione

  Nelle premesse al Documento il Governo esibisce come risultato della inversione di tendenza in materia occupazionale una crescita degli occupati di circa 734 mila unità, una contrazione del numero degli inattivi, la riduzione del tasso di disoccupazione e del ricorso ai trattamenti di cassa integrazione. Nessuna rilevanza viene attribuita, invece, al fatto che l'INPS ha segnalato che nel 2016 vi è stato un calo delle assunzioni, nel settore privato, incluse le assunzioni stagionali, di 464.000 unità rispetto al corrispondente periodo del 2015 (-7,4 per cento). Il rallentamento delle assunzioni ha riguardato principalmente i contratti a tempo indeterminato (pari a –37,6 per cento). Come lo stesso INPS ha sottolineato, la riduzione va collegata all'abbattimento integrale dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di tre anni per le assunzioni effettuate nel 2015. Come in molti avevamo denunciato, dunque, finiti gli incentivi è finito il vantaggio ad assumere, specie a tempo indeterminato, a riprova del sostanziale fallimento del Jobs Act.
  Quello che il Documento di economia e finanza tace, inoltre, è che l'aumento complessivo dei contratti a tempo indeterminato rispetto a inizio 2015, non ha riguardato i giovani. La frattura generazionale, anzi, complice le rigidità della legge Fornero che ha allungato l'età pensionabile, si è allargata: in 23 mesi il numero di ultracinquantenni al lavoro in Italia è cresciuto di 690 mila unità. I nuovi posti per i ragazzi tra i 14 e i 25 sono stati invece solo 36 mila. E se da un lato vi è stata una crescita del numero di chi è tornato a cercare un impiego, dall'altro il Pag. 322016 ha segnato un nuovo record di oltre 100 mila giovani italiani che hanno abbandonato il proprio Paese per andare a trovare fortuna all'estero.
  E non si tratta evidentemente di un problema di risorse economiche, che negli ultimi anni sono arrivate ingenti attraverso il programma «Garanzia Giovani» (Youth Garantee), ma che i Governi di questa legislatura – e su questo il DEF non interviene – hanno dilapidato per mancanza di una visione, di una strategia e di capacità organizzative. A sentenziare il fallimento del programma «Garanzia Giovani» in Italia è intervenuta la Corte dei conti europea rilevando che solo il 31 per cento dei giovani inattivi coinvolti ha trovato lavoro, a fronte del 64 per cento in Irlanda e del 90 per cento in Francia. Per non parlare poi dei ritardi nell'erogazione dei rimborsi per chi ha partecipato ai tirocini, strumento per la Corte troppo abusato in Italia.
  A descrivere il fallimento del Jobs Act e l'ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro che ha prodotto, vi sono l'esplosione dell'abuso dei voucher, sui quali il Governo è dovuto intervenire con un decreto-legge per impedire che fossero spazzati via dal referendum e gli ultimi dati del Sistema delle comunicazioni obbligatorie del Ministero del lavoro e dello politiche sociali, secondo i quali nel 2016 ci sono stati quasi 900 mila licenziamenti (899.053), considerando tutte le fattispecie, in crescita del 5,7 per cento sul 2015.
  Il DEF insiste sul tema delle politiche attive del lavoro, la seconda gamba del Jobs Act, ma a parte i ritardi accumulati, quanto viene scritto ha un aspetto propagandistico, perché vi sono problemi strutturali che non ci cura di affrontare. Basti pensare che oltre il 70 per cento dei lavoratori dell'Agenzia nazionale delle politiche attive (ANPAL) sono precari con contratti a tempo determinato e collaborazioni, che hanno cominciato a scadere da marzo. Proprio loro che dovrebbero coadiuvare i centri per l'impiego (anch'essi popolati da almeno 2 mila precari) i disoccupati e i precari a trovare un lavoro o ad affrontare i programmi di ricollocazione, sono dei precari a loro volta.
  Il Governo dovrebbe invece invertire la rotta imboccata con il Jobs Act favorendo l'occupazione stabile con misure che agiscano come leve per la creazione di nuovi posti di lavoro (come proposto da Sinistra Italiana con il programma Green New Deal), sostenendo con misure adeguate i contratti di solidarietà espansiva per favorire la contrattazione della riduzione di orario a parità di salario e ripristinando la tutela reale in caso di licenziamento illegittimo dei lavoratori, approvando un nuovo Statuto dei lavoratori come quello proposto dalla legge d'iniziativa popolare promossa dalla CGIL.
  Nel settore degli ammortizzatori sociali occorre che il Governo, intervenga con provvedimenti mirati in quanto il perdurare della crisi economica, fa avvertire l'insufficienza di un unico strumento, quale la NASpI, che non appare in grado di coprire tutte le situazioni di criticità cui, nel passato, facevano fronte anche gli ammortizzatori sociali in deroga e l'istituto della mobilità.

Turn over nel pubblico impiego e rinnovo dei contratti

  Nel Documento il Governo, alla sezione del PNR 2017 afferma, in generale, che «il completamento e l'attuazione della riforma della Pubblica Amministrazione entro l'anno è un obiettivo chiave del Governo poiché da essa dipendono un migliore ambiente imprenditoriale, maggiori investimenti e la crescita della produttività».
  Si tratta del completamento dell'attuazione delle deleghe di cui alla legge n. 124 del 2015 (cosiddetta «legge Madia»), anche attraverso l'adozione dei decreti correttivi resisi necessari dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2016.
  Alle dichiarazioni contenute nel DEF non corrispondono, tuttavia, dei cambi di direzione che vadano nella direzione di migliorare la grave situazione di nella quale versa la pubblica amministrazione a causa dei continui tagli lineari alle risorse Pag. 33e alle assunzioni. Il DEF riporta che l'incidenza della spesa per prestazioni di lavoro pubblico è calato al 9,8 per cento del prodotto interno lordo nel 2016, contro il 10,9 per cento registrato nel 2009, per l'effetto congiunto dei provvedimenti volti a contenere le retribuzioni e di quelli che hanno limitato il turn over nelle pubbliche amministrazioni. Il blocco del turn over nel pubblico impiego, tuttavia, non ha prodotto una razionalizzazione efficace e un miglioramento dei servizi e delle prestazioni ma è stata semplicemente una delle voci ragionieristiche di spending review i cui effetti si sono rilevati catastrofici per i lavoratori e per i cittadini.
  Il Governo deve risolvere il problema del turn over introducendo un ricambio minino del 100 per cento dei dipendenti andati in quiescenza, mentre le ipotesi di elevazione del tetto attualmente in vigore sono di molto al di sotto dei bisogni effettivi, soprattutto presso gli enti locali.
  Anche sul fronte dei rinnovi contrattuali nel settore del pubblico impiego, sui quali è stato raggiunto l'accordo lo scorso novembre tra Governo e sindacati, il Documento di economia e finanza non reca precise indicazioni circa le risorse necessarie per finanziarli e questa mancanza è davvero grave.

Industria 4.0 e banda larga

  Il piano Industria 4.0, che prevede una serie di incentivi volti alla diffusione di tecnologie digitali nel sistema produttivo, può costituire un utile mezzo volto alla crescita della competitività e dello sviluppo del sistema produttivo italiano. Generalmente ci si riferisce ad una serie di cambiamenti nei modi di produzione di beni e servizi che porterà inevitabilmente anche un profondo cambiamento nei rapporti di produzione, tra datore di lavoro e lavoratore.
  Molti parlano di «nuova rivoluzione industriale». Non vi è dubbio che si tratta comunque di un processo ampio di ri-orientamento e contemporaneamente aggiornamento culturale che deve essere guidato e attuato prima dell'applicazione delle tecnologie. L'azione di un Governo responsabile non può limitarsi a fornire incentivi spesso calati «a pioggia» senza un'opera «di accompagnamento culturale» come precondizione necessaria perché le tecnologie digitali e il loro utilizzo si diffondano oltre gli attuali confini e producano effetti sistemici e rivoluzionari, non a scapito esclusivamente della forza lavoro, attraverso la sua drastica diminuzione.
  Ogni progetto di innovazione digitale deve porsi ad esempio l'obiettivo del mantenimento della straordinaria biodiversità produttiva italiana che basa la sua forza nella presenza del 99,4 per cento di micro e piccole imprese nel sistema produttivo italiano.
  Inoltre vi è la necessità di nuovi investimenti pubblici a sostegno della riuscita del progetto, innanzitutto come infrastrutture strategiche, materiali e immateriali, risorse per la ricerca e lo sviluppo, innovazione nella pubblica amministrazione e incentivi «selettivi» affinché la politica industriale del Governo si fondi su una governance più democratica, anche perché la condizione del lavoro e la creazione di nuova e buona occupazione sono prerequisiti indispensabili per far crescere il nostro apparato produttivo e assicurare un salto di qualità nel nostro modello di specializzazione.
  Industria 4.0 deve affiancarsi e camminare insieme a Lavoro 4.0, come chiedono unanimemente i sindacati italiani. Non solo gli aspetti di innovazione tecnologica devono divenire centrali ma i temi della formazione e delle competenze, quello degli orari, della loro gestione, di una diversa redistribuzione e di nuove possibilità di riduzione, anche per fronteggiare efficacemente i rischi di disoccupazione tecnologica già messi in evidenza dal caso ormai divenuto paradigmatico dell'Adidas.

Coesione, riequilibrio territoriale e Mezzogiorno

  I temi della coesione, del riequilibrio territoriale e del Mezzogiorno nel DEF Pag. 34vengono affrontati enfatizzando immotivatamente i risultati relativi ai dati sulla chiusura del primo ciclo di programmazione 2007-2013, per il quale come osserva la UIL nell'audizione svolta «è stata fatta una corsa disperata per evitare di perdere risorse», anche se tale «corsa disperata» non ha dato tutti i frutti sperati in quanto sussiste ancora il rischio di desertificazione per una quota di circa un miliardo di euro, più precisamente 972 milioni relativi al PON Ricerca, poiché ai sensi dell'articolo 95 del Reg. (CE) 1083/06 ne è stata richiesta la sospensione. Senza considerare che la stragrande maggioranza dei singoli progetti finanziati, soprattutto al Sud, sono relativi a interventi micro-settoriali, di scarso impatto sullo sviluppo reale delle aree più bisognose, e che configurano obiettivi qualitativi che non danno la certezza di validi risultati nel medio periodo.
  Per il periodo di programmazione 2014-2020 all'Italia spetterebbero 42,7 miliardi di euro tra i fondi strutturali FESR e FSE compreso il Fondo per lo sviluppo rurale (FEARS) e quello per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP). Il cofinanziamento nazionale contribuisce con circa 31 miliardi, portando il totale a 73,6 miliardi. Ai quali si aggiungono le risorse nazionali rinvenienti dal Fondo di sviluppo e coesione (FSC), 54,8 miliardi di euro, l'80 per cento delle quali assegnate alle otto regioni meridionali.
  Sino ad ora, cioè quasi alla metà del periodo di vigenza del programma, l'Italia ha utilizzato solo 880 milioni di euro, vale a dire l'1,2 per cento del totale, trattandosi per di più di risorse in larghissima misura rivolte a consulenze per progetti. Scontando anche le difficoltà oggettive legate alla partenza a rilento nell'utilizzo dei fondi europei, a causa dei necessari adempimenti previsti dalle procedure, l'Italia, secondo Paese europeo, dopo la Polonia, per entità di risorse concesse, è già agli ultimi posti nella classifica del loro utilizzo e della spesa.
  A dimostrazione dell'incapacità dei vari Governi che si sono succeduti nel trovare strumenti adatti a produrre stimoli convintamente efficaci all'utilizzo delle ingenti risorse volte alla crescita e allo sviluppo, specie del Mezzogiorno, basta osservare i dati di spesa relativi alle singole regioni. Per il solo Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) la Val d'Aosta ha speso già il 10 per cento delle risorse che le spettano, la Lombardia il 4,1 per cento. Nulla è stato ancora utilizzato da regioni come l'Abruzzo, la Campania, il Lazio e la Sicilia. Stesso discorso vale per il Fondo sociale europeo (FSE) le cui risorse sono state già utilizzate per l'11,4 per cento dal Piemonte e per il 6,5 per cento dalla Lombardia, mentre dei 7,1 miliardi di euro ad essa destinati, la Puglia ne ha spesi zero, così come zero sono gli euro spesi sempre dalla Puglia relativamente alle risorse previste dal Fondo per l'agricoltura (FEARS).
  Nonostante le politiche specificatamente rivolte al Mezzogiorno esplicitate dal Masterplan per il Sud a partire dal 2015, implementato nel 2016 con una assegnazione supplementare da parte del CIPE di 13,4 miliardi di euro a valere sul Fondo di sviluppo e coesione (FSC) e l'emanazione nel 2017 del cosiddetto decreto-legge «Mezzogiorno» che prevede interventi urgenti per occupazione, ambiente, risanamento dell'ILVA, incremento del Fondo per le non autosufficienze, i risultati positivi e, soprattutto, qualitativamente significativi, non si vedono.
  Nel Mezzogiorno il tasso di occupazione cresce complessivamente dello 0,9 per cento in un anno, meno tuttavia rispetto al Nord ( 1,1 per cento) e ancora del 2,6 per cento sotto il livello raggiunto nel 2008. Rimangono poi estremamente accentuati i divari territoriali: nel Centro-Nord sono occupate 6 persone su 10, mentre nel Mezzogiorno il loro numero cala a 4 su 10. Il tasso di disoccupazione cresce solo al Sud, in concomitanza inoltre con una forte diminuzione del numero degli inattivi e in costanza di un continuo, incessante spopolamento del Meridione a causa del manifestarsi di un inarrestabile e crescente fenomeno di emigrazione specie di giovani laureati e diplomati, per cui i divari relativi di disoccupazione nei territori Pag. 35nazionali si ampliano: i disoccupati crescono al 19,6 per cento al Sud e scendono al 7,6 per cento al Nord.
  Un recente studio dello SVIMEZ rivela inoltre che se l'introduzione del principio di riequilibrio territoriale nelle spese in conto capitale, tardivamente anche se meritoriamente previsto nel decreto-legge «Mezzogiorno» quest'anno, fosse stato applicato nel 2008, all'inizio della crisi, la perdita di PIL e occupazione al Sud sarebbe risultata dimezzata rispetto a quella effettivamente subita e senza ulteriori e significativi impatti negativi sull'intera economia del Paese. Come a certificare, secondo il detto popolare, che ora «si chiude la stalla quando i buoi sono scappati».
  In realtà, non si tiene conto che lo sviluppo e la crescita del Paese, passa necessariamente dalla crescita qualitativamente significativa del Mezzogiorno. Al Sud non servono politiche straordinarie, ma proposte economiche concrete di medio periodo valide per tutto il territorio nazionale con una declinazione specifica per il Sud e una maggiore intensità di aiuti da destinare a quei territori, così come prevedeva la cosiddetta e dimenticata «clausola Ciampi per il Sud».

Messa in sicurezza del territorio e zone interne

  I drammatici eventi sismici che hanno sconvolto alcune regioni del Paese hanno in realtà accelerato e reso più evidente il processo di abbandono di vaste zone collocate ai margini dello sviluppo, dove all'esodo territoriale, in particolare delle giovani generazioni, si sommano evidenti fenomeni di delocalizzazione produttiva ed impoverimento del tessuto economico. Nella sola Umbria, fra il 2000 e il 2010, hanno chiuso oltre 15.000 aziende agricole, un segnale di generale arretramento dell'economia e della qualità della vita nelle zone interne che ha preceduto il terremoto e ne amplifica le conseguenze.
  Nel DEF si accenna a misure di riequilibrio territoriale incentrate sui fondi strutturali, ai cosiddetti «Patti per il sud», che dovrebbero collocare gli interventi in un quadro più coerente, e alla definizione di una Strategia per le aree interne rivolte ad invertire nel prossimo decennio il calo demografico in 68 aree pilota che comprendono 1.043 Comuni.
  È evidente l'inadeguatezza delle misure previste e delle risorse finanziarie stanziate rispetto alla complessità delle questioni che intervengono nei processi di abbandono territoriale. Ad infrastrutture, trasporti, difesa del suolo e ricerca sono destinati appena 2,6 miliardi l'anno. Concorre a determinare un sostanziale stallo degli interventi il tentativo del Governo di centralizzare a Palazzo Chigi la gestione delle risorse e delle competenze, peraltro in un quadro di dubbia costituzionalità. Il riferimento in questo contesto è alla struttura di missione «Casa Italia» che, sovrapponendosi alle regioni, rischia addirittura di ritardare l'implementazione del Piano nazionale contro il dissesto idrogeologico, la cui attuazione è invece di primario rilievo per il recupero territoriale delle aree interne e l'incremento dell'occupazione. Noi di Sinistra Italiana insisteremo nel ripresentare in questo documento di programmazione interventi volti alla messa in sicurezza del nostro territorio, perché oggi non possiamo più continuare semplicemente e solamente a tamponare le emergenze a tragedia avvenuta. Noi dovremmo aver capito che l'unica possibilità per un Paese come il nostro di salvare le comunità locali e anche tutti i nostri beni culturali e le nostre bellezze è investire in un piano decennale o ventennale contro il dissesto idrogeologico e la messa in sicurezza del nostro Paese.

Trasporti

  Il DEF 2017 prevede la stabilizzazione del Fondo destinato al finanziamento del trasporto pubblico locale 4.789.506.000 euro per l'anno 2017 e 4.932.554.000 euro per gli anni dal 2018 in poi inoltre prevede l'incremento dal 60 per cento all'80 per cento dell'anticipazione dell'erogazione del predetto fondo, anche al fine di ridurre i tempi di pagamento dei debiti della pubblica amministrazione.Pag. 36
  Sono previste, altresì, fra le misure per lo sviluppo economico e in materia di infrastrutture, anche quelle per la qualità del servizio di trasporto pubblico locale ed il rinnovo del materiale rotabile e l'adeguamento delle linee ferroviarie regionali agli standard di sicurezza nazionali ma senza indicare precisamente con quali risorse e in che tempi al momento appare solo una espressione di volontà.
  Uno studio pubblicato da Cassa depositi e prestiti in collaborazione con ASSTRA rivela come quello del trasporto pubblico sia un settore chiave sia per l'economia, con un giro d'affari complessivo di oltre 12 miliardi di euro l'anno, sia per l'occupazione grazie alle oltre 1.000 imprese attive, oltre 126 mila addetti occupati e 5,2 miliardi di passeggeri trasportati ogni anno.
  Appare del tutto evidente che senza investimenti adeguati che non si fermino alla sola stabilizzazione delle risorse come previsto dal DEF 2017, il comparto non può essere in grado di mettersi al livello degli standard europei.
  Il trasporto pubblico è composto da un parco autobus con un'età media di quasi 12 anni, lo standard europeo è di una età media di circa 7 anni, a questo va aggiunto un servizio ferroviario regionale operato con treni mediamente più vecchi della media europea e di una rete urbana su ferro complessivamente poco capillare, di fatto la tanto auspicata «cura del ferro» non è mai stata assunta come obiettivo concreto e strategico.
  In passato la Commissione europea, nel documento sugli squilibri macroeconomici, aveva sottolineato con gli investimenti in infrastrutture di trasporto abbiano subito riduzioni dall'1,6 per cento del PIL nel 2006 allo 0,5 per cento nel 2013 con una bassa qualità del trasporto.
  Lo stesso trasporto ferroviario è soggetto a proteste periodiche da parte dei pendolari che denunciano il fatto che in Italia che i convogli ferroviari in servizio a livello regionale hanno una anzianità di servizio media pari a 18 anni, mentre dal 2010 a oggi, sono stati stimati riduzioni delle risorse pari al 6,5 per cento del servizio ferroviario regionale e questo contestualmente all'aumento della domanda, a questo il Governo risponde con la stabilizzazione delle risorse, complessive, non certo il cambio di passo che ci si aspettava.
  Il trasporto pendolare diventa così il paradigma sul quale testare la volontà del governo in materia di trasporto pubblico che invece di rappresentare un elemento prioritario sia dal punto di vista delle esigenze di milioni di lavoratori e studenti pendolari dovrebbe rappresentare una priorità delle politiche di Governo, sia perché potrebbe rappresentare un indubbio vantaggio in termini di ambiente e clima perché rappresenterebbe una alternativa al trasporto su gomma privato.
  Occorre dunque avviare un Programma per la mobilità sostenibile con una dotazione non inferiore a due miliardi l'anno, nel trienni, 2018-2020 per il rinnovo e l'aumento della dotazione dei treni destinati alle tratte dei pendolari nonché di autobus urbani e extraurbani, utilizzati in particolare da lavoratori e studenti pendolari.

Il programma delle privatizzazioni

  Nel PNR viene confermato l'impegno sulle privatizzazioni, sia pure ridimensionato da 8 a 5 miliardi l'anno nel triennio (dallo 0,5 allo 0,3 per cento del PIL). Lo strumento dovrebbe essere la cosiddetta «super-CDP». Una nuova normativa codificherà il processo per metterlo a riparo da qualsiasi ostacolo legale. Si prevede la possibilità di trasferire partecipazioni del Ministero dell'economia e delle finanze, anche indirette, alla CDP o a società partecipate dalla Cassa medesima.
  Questi trasferimenti possono avvenire anche nella forma di conferimenti (quindi senza un acquisto). I passaggi devono essere stabiliti con un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che può specificare se le partecipazioni vengono trasferite con la governance, o se questa resta al Ministero dell'economia e delle finanze (come oggi accade per ENI e Poste Italiane). Gli azionisti che potranno essere coinvolti sono le fondazioni bancarie, le Pag. 37casse previdenziali, i fondi pensione, le banche e le assicurazioni, nonché i fondi d'investimento anche esteri.
  Per garantire la gestione in capo al Ministero dell'economia e delle finanze sono previsti diverse tipologie di azioni: azioni ordinarie (con diritto di voto) per le fondazioni, azioni privilegiate per gli enti previdenziali e fondi pensioni con una cedola più alta, obbligazioni subordinate per tutti gli altri investitori (con rendimento elevato ma nessun ingresso nel capitale) e via dicendo.
  «Si ritiene auspicabile un approfondimento, con indicazioni più dettagliate sulle partecipazioni oggetto di dismissioni, circa la realizzabilità degli introiti attesi dalle privatizzazioni, cifrati pari a 0,3 punti percentuali annui dal 2017»: è quanto scrivono i tecnici del Servizio bilancio del Senato in merito al DEF. La richiesta, chiarisce il dossier, è avanzata «anche alla luce del fatto che, a fronte di una stima del DEF 2016 che li stimava pari allo 0,5 per cento del PIL per il medesimo anno, i ricavi effettivamente conseguiti sono stati pari a circa 0,1 punti percentuali di PIL».
  Un rilievo simile viene dalla Banca d'Italia che in riferimento alle dismissioni osserva come il DEF non dà informazioni sulla strategia da seguire in merito e che «se si vuole dissipare del tutto l'incertezza occorrerà meglio esplicitare i programmi».
  Ma andrebbe, innanzitutto, fatto un bilancio della politica delle privatizzazioni prima di proporne una fase ulteriore. L'operazione di privatizzazione delle banche di interesse nazionale (1990) fu un madornale errore. Esse non ressero alla concorrenza di quelle straniere; ci furono fusioni e indebitamenti con titoli tossici, fino ad arrivare per alcune al fallimento. Alla privatizzazione delle banche, segui la privatizzazione delle industrie pubbliche (1991- 1992). Sono state vendute anche aziende in posizione monopolista, come Telecom Italia e Autostrade, cessioni che hanno garantito agli acquirenti posizioni di rendita. La Corte dei conti (nel 2010) ha segnalato che il recupero di redditività da parte delle aziende passate sotto il controllo privato è dovuto essenzialmente all'incremento delle tariffe, ben al di sopra dei livelli degli altri paesi europei.
  A queste si aggiungono le normative (dal 2000) che hanno consentito le «privatizzazioni» degli immobili pubblici incluse parti del nostro demanio, e in particolare, del nostro patrimonio artistico e storico. I risultati non certo brillanti si possono leggere nel libro di Salvatore Settis, Italia SpA.
  Complessivamente, il nostro debito pubblico, anche a seguito di questa politica di privatizzazioni (la più imponente nell'ambito dell'Unione europea), si è impennato.

Sistema bancario e finanziario

  All'interno del Programma nazionale di riforma del DEF 2017, il paragrafo II.3 è dedicato al sistema bancario e finanziario.
  Il Governo rivendica la riforma delle banche popolari e delle BCC e l'obiettivo di avere «banche più grandi, forti e trasparenti». È difficile capire quali motivazioni spingano nella direzione di banche di sempre maggiore dimensione, così come è difficile capire il perché dell'urgenza di una riforma delle banche popolari (addirittura per decreto-legge) e delle BCC, quando poco o nulla viene fatto per le banche SpA. Solo per fare un esempio, diverse proposte di legge riguardanti la separazione tra banche commerciali e di investimento sono all'esame della Commissione finanze della Camera. Un tema di importanza fondamentale, ma sul quale non si trova traccia nel testo del PNR. Eppure gli stessi rapporti commissionati dalle istituzioni europee segnalano come tale separazione sarebbe un passo fondamentale per evitare il ripetersi di una crisi come quella del 2007-2008.
  Anche guardando qui da noi, da un giorno all'altro è stato necessario stanziare 20 miliardi di euro di debito aggiuntivo per correre al capezzale soprattutto di Monte dei Paschi di Siena, non certo di banche di piccole dimensioni. Ancora, secondo i dati della Banca d'Italia, il 70 per cento delle sofferenze è in mano al 3 per cento dei debitori.Pag. 38
  È incomprensibile come si continui a ragionare su un modello bancario «a taglia unica», con regole cucite su misura per i gruppi di maggiore dimensione. Sarebbe al contrario necessario, in un'ottica di reale riforma del sistema bancario, ragionare su come tutelare ed espandere la «biodiversità bancaria» per rispondere a diverse esigenze. Un artigiano e una multinazionale non hanno gli stessi bisogni finanziari, e in questi anni di credit crunch spesso le BCC sono quelle che più hanno risposto ai bisogni sul territorio.
  È sicuramente condivisibile la proposta di intervenire sulla vendita di prodotti rischiosi (il PNR si riferisce soprattutto alle obbligazioni), ma sembra il proverbiale caso di chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati. Davvero tra Banca d'Italia, CONSOB e controlli vari era impossibile accorgersi qualche anno fa che le banche vendevano prodotti rischiosi e inadatti anche a piccoli risparmiatori a digiuno di finanza ? Possibile che nessuno si sia accorto che la MIFID era inutile per colmare l'asimmetria informativa tra cliente e banca ? E su tali questioni, come intende muoversi il Governo ? Intervenire oggi sulla vendita di obbligazioni appare per lo meno tardivo, e anche poco efficace, tenendo conto che dopo l'approvazione della normativa bail in, in cui azionisti e obbligazionisti sono chiamati a pagare le eventuali perdite di una banca in crisi, e dopo il crollo della fiducia legato ai casi di Banca Etruria e dintorni l'acquisto di obbligazioni bancarie presso il grande pubblico è già oggi estremamente ridotta.
  Ma «sembrano permanere quegli elementi di incertezza circa le modalità, i tempi e l'entità finanziaria degli interventi» di tutela del sistema bancario: è quanto scrivono i tecnici del Servizio bilancio del Senato in merito al DEF.
  I tecnici ricordano, infatti, che il rapporto di inizio anno del Governo consegnato alla Commissione indica un valore del rapporto debito/PIL pari al 132 per cento per il 2017, al netto del supporto al sistema bancario. «Atteso che la stima per il presente anno non dovrebbe aver subito modificazioni per altre motivazioni, si può presumere che l'indicazione per l'omologo dato del valore del 132,5 per cento nel presente DEF derivi dall'ipotesi di un impatto per mezzo punto percentuale sul fabbisogno delle misure precauzionali predisposte a tutela del settore bancario. Si tratterebbe di uno sforzo, a fronte di uno stanziamento per 20 miliardi di euro tramite la costituzione di un fondo ad hoc nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, pari a circa 8,5 miliardi di euro», si legge nel dossier. «Circa l'effettivo ammontare delle necessità occorrenti per il sistema bancario e dell'impatto degli interventi statali a suo sostegno, si auspicano maggiori informazioni, anche considerando la discrasia rinvenibile fra il dato testé indicato e quello desumibile in altra parte del DEF, parificato a circa la metà delle risorse rese disponibili per la ricapitalizzazione precauzionale delle banche tramite il decreto-legge n. 237 del 2016 (20 miliardi). Sembrano pertanto permanere quegli elementi di incertezza circa le modalità, i tempi e l'entità finanziaria degli interventi già espressamente riconosciuti» nella Relazione presentata dal Governo al Parlamento, nel dicembre scorso, per ottenere l'autorizzazione a ricorrere all'indebitamento per realizzare operazioni relative alle partite finanziarie.

Politiche scolastiche, università, ricerca

  Da oltre un decennio gli atti legislativi e governativi relativi all'istruzione, all'università e alla ricerca statale hanno avuto come unico riferimento la logica della riduzione dei costi e del pareggio di bilancio, attuata con tagli indiscriminati ai finanziamenti e alle risorse umane. Quale vantaggio potrebbe avere uno Stato nel cercare in modo così spasmodico di ridurre il numero dei laureati, il 16 per cento rispetto al 40 per cento della media europea, spingere i ricercatori ad emigrare, bloccare la mobilità sociale in un paese già cristallizzato, interrompere una ricerca già scarsamente finanziata, sia essa in ambito scientifico o umanistico, sia pura che applicata, rinunciando alla possibilità Pag. 39di produrre tecnologia e servizi di qualità ? La spesa complessiva per istruzione e ricerca universitaria in Italia è pari a circa l'uno per cento del PIL, un dato che si colloca agli ultimi posti dei Paesi OCSE, mentre quello per l'istruzione è pari al 4,1 per cento a fronte di una media europea che supera il 5 per cento. Il livello di finanziamento ordinario deve permettere non solo il funzionamento delle strutture, ma anche adeguate risorse per la ricerca e per garantire servizi essenziali agli studenti e alla comunità all'interno della quale l'università o l'ente operino.
  Per giustificare questa operazione di smantellamento dell'istruzione pubblica, si è fatto ricorso ad una vasta campagna di denigrazione. Da un lato, presentando la scuola come luogo di assunzioni clientelari, con troppi insegnanti nullafacenti e incapaci, così come ha cercato di fare nelle sue premessa la legge sulla «Buona Scuola», dall'altro, accusandola di non adempiere alle richieste del mondo del lavoro e del mercato.
  In nome di questa visione, tutta ideologica, sono state riproposte vecchie gerarchie, forme autoritarie di didattiche frontali, tese a ripristinare un ritorno al nozionismo, all'esecuzione silente e acritica del compito, all'apprendimento meccanico da parte degli studenti e ad un ruolo essenzialmente trasmissivo e sanzionatorio da parte dei docenti.
  Un grave colpo alla scuola pubblica, a cui non è stato ancora posto rimedio, è stato inferto dalla legge finanziaria n. 133 del 2008, dove all'articolo 64 si è dato mandato al Ministro Gelmini di rivedere l'assetto ordinamentale, organizzativo, didattico del sistema scolastico italiano, di aumentare il numero degli alunni per classe, di accorpare classi di concorso, di rivedere i curricoli e gli orari delle discipline dei piani di studio della scuola superiore, di riorganizzare la scuola primaria, di modificare i criteri della formazione delle classi, di ridurre il personale docente e amministrativo.
  Di fatto, senza alcun dibattito in Parlamento e nella società, così come è avvenuto per la sopraccitata «Buona Scuola», l'allora Governo ha stravolto il sistema di istruzione italiano dalle fondamenta, con l'unico obiettivo di compiere un rilevante taglio di personale e di risorse finanziarie: 140.000 posti di lavoro in 3 anni e più di 8 miliardi di euro sottratti ad una scuola già in sofferenza e bisognosa di vere riforme. Ma in questi anni i tagli hanno riguardato anche i trasferimenti dei fondi alle regioni per il diritto allo studio, di fatto insoddisfacenti.
  Anche l'università vive molte contraddizioni e negatività, dall'istituzione dei «super professori» (Cattedre Natta), emerse anche nel recente parere del Consiglio di Stato e le carenze economiche che l'ultima legge di bilancio non ha sopperito. Inoltre è un enorme problema il calo delle immatricolazioni (25 per cento in meno rispetto al 2003), che costringe di fatto a riflettere che vadano messi in campo strumenti per recuperare questo gap che ci colloca tra gli ultimi posti in Europa.
  Nel DEF si sceglie di continuare con le misure di austerità e si ribadisce una politica economica liberista. Tra le uscite correnti, vengono finanziati il fondo per l'attuazione dei provvedimenti legislativi sulla «Buona Scuola» (300 milioni) e le misure a favore dell'università, della ricerca e del diritto allo studio (169 milioni).
  In particolare, per le deleghe della «Buona Scuola», la legge di bilancio ha previsto risorse per 500 milioni dal 2019 (300 nel 2017 e 400 nel 2018). Inoltre si legge che sono stati stanziati 150 milioni nel 2017 e 400 milioni dal 2018 per il personale della scuola con lo scopo di aumentare l'organico dell'autonomia. Peccato però che per il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca vanno utilizzate tutte le risorse stanziate dalla legge di bilancio 2017 per l'incremento dell'organico dell'autonomia, al fine di consolidare in diritto circa 20.000 posti comuni dell'organico, ai quali aggiungere 5.000 posti di sostegno in deroga. La Ragioneria generale dello Stato contesta le stime del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, sostenendo che per la sola ricostruzione di carriera occorrerebbe almeno il doppio delle risorse Pag. 40stanziate per l'operazione, e cioè circa 800 milioni di euro all'anno, con ciò facendo intendere di essere disposta a finanziare non più di 8.000 stabilizzazioni.
  Inconsistenti risultano anche gli interventi per le università, giacché non sono sufficienti 45 milioni l'anno per il finanziamento delle attività di ricerca di base, così come i 25 milioni aggiuntivi sul Fondo ordinario per gli enti di ricerca (FOE). Il problema è che siamo ancora purtroppo molto lontani dallo stanziare le risorse che sarebbero effettivamente necessarie ed è importante allora non «sprecare» le risorse aggiuntive che pure si mettono, come ad esempio l'inutile spot dei 500 euro ai diciottenni, ma finalizzarle a garantire il dettato costituzionale della garanzia di accesso per tutti e a tutti i livelli di istruzione, a partire dal superamento totale dello scandalo degli idonei senza borsa.
  In alcuni casi, come l'aumento del Fondo ordinario per gli enti di ricerca vigilati dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, si tratta di vere e proprie briciole per entità e destinazione, peraltro solo a partire dal 2018, che smentiscono gli stessi contenuti della delega sulla semplificazione riproponendo la distinzione tra enti strumentali non vigilati dal predetto Ministero ed enti non strumentali. I primi non ricevono alcun aumento di risorse, ma anzi rischiano di subire il contraccolpo del taglio delle spese per i ministeri come già avvenuto in passato.

Il flop della Buona Scuola

  Il piano straordinario di immissioni in ruolo, a cui già si faceva riferimento, costituisce uno degli aspetti ritenuti dalla maggioranza più rilevanti della legge. Noi ne avevamo chiesto lo stralcio e di rinviare il resto ad un dibattito più ampio e condiviso. Da fine agosto 2015 a tutto il 2016 la legge ha previsto di immettere in ruolo almeno 102.734 docenti, seppure inizialmente i numeri erano molto più alti. Il piano ha previsto quattro diverse fasi (0, A, B e C), in cui i posti vacanti venivano assegnati nelle prime 2, con la fase B i posti residuati nelle due precedenti e nella face C, su scala nazionale, per andare a coprire il potenziamento, una sorta di organico aggiuntivo per realizzare il Piano triennale dell'offerta formativa. Ma a quasi due anni dall'approvazione di una legge voluta fortissimamente dall'ex Premier tante sono ancora le tappe di un'odissea continua: il caos dei trasferimenti, la chiamata diretta dei presidi, docenti che avrebbero dovuto potenziare l'offerta formativa costretti a fare i «tappabuchi», mentre le cattedre continuano ad essere scoperte soprattutto sui posti di sostegno. Solo per citare alcuni dati, in quest'anno scolastico sono state conferite 15.943 supplenze annuali, ovvero fino al 31 agosto, e 109.889 fino al 30 giugno, per un totale di 125.832 contratti a tempo determinato. La legge n. 107 del 2015 è stata inoltre particolarmente ingerente su diversi aspetti contrattuali, non rinnovati ormai dal 2006. Infatti, la modalità dell'assegnazione della sede di servizio prevista dalla legge rappresenta una novità assoluta nell'ordinamento scolastico. Il docente non è più titolare in una scuola, ma è inserito in ambito territoriale di dimensione sub provinciale. Non è più il docente a scegliere la scuola, ma la scuola, o meglio il dirigente scolastico, oggi su delibera e indicazione del collegio dei docenti con il nuovo contratto sulla mobilità, a scegliere il docente neo assunto, attraverso la valutazione dei curriculum, delle esperienze e competenze professionali con riferimento ai bisogni rappresentanti nel piano triennale dell'offerta formativa. Se lo ritiene opportuno, il dirigente procede a un colloquio con i docenti candidati e al termine di questo accertamento formula la proposta di incarico, aprendo di fatto una serie di contraddizioni della politica del personale.
  La legge individua numerosi obiettivi che le istituzioni scolastiche autonome possono inserire nel piano triennale, avvalendosi anche di un organico potenziato degli insegnanti. Quest'organico però nella realtà non è corrisposto alle esigenze delle richieste espresse dalla scuola e ha escluso la scuola dell'infanzia, relegandola a «Cenerentola» Pag. 41dell'istruzione e della formazione.
  In riferimento al merito dei docenti, la legge si è rivelata un tentativo maldestro di guadagnare il consenso della categoria, ottenendo il risultato opposto, perché la sensibilità degli insegnanti italiani, tra i più malpagati in Europa, è stata ferita soprattutto dalla pretesa di squilibrare il potere a favore del preside. La legge n. 107 del 2015, infatti, demanda ora alle singole istituzioni scolastiche la responsabilità di definire i criteri per valutare i docenti, e al dirigente scolastico il compito di individuare, sulla base dei criteri messi a punto dal comitato di valutazione. La premialità per merito comporta una valutazione delle prestazioni professionali e viene attribuita annualmente a una quota di insegnanti, non a tutti.
  L'ultima, tra le tante novità previste dalla legge, è l'alternanza scuola-lavoro che ha rappresentato finora un aspetto minore dell'ordinamento scolastico ed è spesso misconosciuta a tanti, anche all'interno dell'istruzione secondaria superiore. La legge, oltre ad introdurre l'obbligo non ben regolamentato di 200 ore per i licei e di 400 ore per i tecnici e i professionali, confonde spesso l'alternanza con l'apprendistato. Sono profondamente regressive le idee che tendono a considerare la scuola e i luoghi della formazione come esclusive interfacce del mondo del lavoro.

Le nostre proposte

Istruzione

  È indispensabile «riversare sulla scuola risorse economiche aggiuntive», in modo da garantire livelli di funzionalità accettabili per un Paese progredito. Questo intervento è ritenuto prioritario anche rispetto ai finanziamenti dell'università, che pure è stata oggetto di tagli.
  Tullio De Mauro, già ministro dell'istruzione nel Governo Amato, in un excursus storico, ha rilevato che la scuola italiana ha ottenuto miglioramenti significativi ogni qualvolta gli stanziamenti sono stati incrementati. Di fronte ai tagli, invece, i risultati sono stati sempre di segno opposto.
  Riteniamo, invece, che ci sia bisogno di una sostanziale inversione di tendenza, con un graduale e costante incremento dell'investimento pubblico per l'istruzione, per recuperare i tagli e portare l'Italia in linea con le richieste delle strategie europee (Lisbona, Horizon 2020).
  Occorre in particolare:
   ricondurre a dimensioni gestibili le unità Scolastiche, reintroducendo i limiti standard, previsti dal decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999, da 500 a 800 alunni;
   garantire che in ogni parte del Paese sia soddisfatta la richiesta e la gratuità dei percorsi di istruzione secondaria superiore espressa dagli studenti e dalle famiglie, offrendo tutti gli indirizzi previsti dal sistema;
   stabilire l'ammontare del finanziamento da parte dell'amministrazione centrale in modo certo e senza vincoli sulla destinazione d'uso (tranne quello per il personale);
   assicurare finanziamenti perequativi nei casi di criticità o di disagio sociale territoriale (scuole a rischio);
   controllare gli investimenti economico-finanziari di soggetti esterni, che devono comunque avere carattere compensativo e non sostitutivo dei finanziamenti statali e fissare i limiti oltre i quali, nelle scuole di Stato, non si possa usufruire di finanziamenti di privati, senza una contemporanea riduzione dei contributi statali;
   rivedere il sistema paritario previsto dalla legge n. 62 del 2000, togliendo l'incostituzionale finanziamento di scuole istituite da privati e garantendo controlli per i requisiti di autorizzazione e di equipollenza;
   individuare un soggetto autonomo rispetto al Ministero per la valutazione del sistema-scuola, nazionale e territoriale;
   assegnare a ciascuna scuola autonoma un organico tale da prevedere non più di 25 alunni in ogni ordine e grado, Pag. 42con riduzione in presenza di disabili. Il dato complessivo di presenze in ciascuna classe va comunque lasciato all'autonomia organizzativa delle scuole e non al Gruppo di inclusione territoriale (GIT) così come specificato dai decreti legislativi su «La Buona Scuola», al tipo di attività programmata e alle modalità di organizzazione della didattica. L'organico va assegnato per almeno un triennio e non deve coincidere con il numero delle classi, ma con alcuni parametri standard (numero di alunni, plessi, complessità sociale, disagio, disabili, indirizzi, cattedre disciplinari, laboratori, eventuali sperimentazioni).

  Inoltre, la scuola dell'infanzia va generalizzata con garanzia di offerta pubblica, statale o comunale, su tutto il territorio nazionale. Anche dove sia presente e più ampia la presenza di scuole affidate, con Convenzioni, a privati, deve essere comunque offerta alle famiglie che ne facciano richiesta la possibilità di frequentare sezioni statali o comunali.
  Proponiamo di innalzare l'obbligo a 18 anni, con un percorso scolastico complessivo dai 5 ai 18 anni. Ci vogliono ingenti risorse, ma è questa la miglior ricetta contro la dispersione scolastica.
  È quanto mai necessario superare la precarietà e a tal proposito nella scuola i numeri sono impressionanti e, nelle attuali condizioni, il ministero non è in grado di garantire nessuna prospettiva di soluzione soddisfacente del problema.
  A fronte di 45.000 iscritti nelle graduatorie ad esaurimento, 70.000 nelle seconde fasce d'istituto e di oltre 400.000 in quelle di terza fascia, il numero delle immissioni in ruolo previste in base al turnover per il prossimo anno scolastico non è ancora chiaro. Stessa sorte per il personale ATA, profilo per cui è difficilissimo anche sostituire gli assenti per iniqui divieti normativi.
  Il tema del precariato può essere affrontato solo agendo su più piani e su una serie di questioni tra loro strettamente collegate. I gruppi di Sinistra Italiana in questa direzione hanno depositato in entrambe le Camere una proposta di legge sull'avvio di piano pluriennale di assunzioni a tempo indeterminato nelle scuole al fine di superare il fenomeno del precariato scolastico.
  Pertanto per realizzare quanto detto è opportuno:
   aumentare la qualità complessiva dell'istruzione pubblica, recuperando i tagli effettuati negli ultimi anni (circa il 6 per cento del suo bilancio). Gli effetti di questi tagli sono stati devastanti: scuole chiuse il pomeriggio, mancanza di strumenti didattici, carenza anche degli accessori più banali come gessetti e carta igienica;
   reperire le risorse necessarie, 3-4 miliardi di euro l'anno, per esempio riducendo le spese militari, a cominciare dalla rinuncia all'acquisto dei velivoli F35-JFS;
   fornire un adeguato finanziamento per l'edilizia scolastica. Occorre la messa in sicurezza degli istituti che cadono a pezzi, (il 50 per cento delle scuole non sono a norma) ed investimenti sull'efficienza energetica e sull'utilizzo di energie rinnovabili per rendere gli edifici scolastici «sostenibili».

  Il problema della reperibilità dei fondi non è certamente insormontabile: infatti il finanziamento per le scuole private è passato da 244 milioni nel 2014 a 473 nel 2016, così come quello delle università e scuole non statali che vede ingenti investimenti.

Welfare studentesco

  Il diritto allo studio nel nostro Paese è un diritto praticamente inesigibile. Eppure è uno degli strumenti più importanti per favorire la mobilità sociale, praticamente assente in Italia.
  Occorre bloccare l'erosione dei fondi per le borse di studio e cominciare ad investire significative risorse per realizzare un welfare studentesco che tuteli i «meritevoli benché privi di mezzi» come sancito dall'articolo 34 della Costituzione. Da anni si chiede una legge quadro che stabilisca Pag. 43i livelli essenziali delle prestazioni ed adeguati finanziamenti alle regioni che, con la Riforma del Titolo V, sono titolate ad implementare il diritto allo studio.
  Per assicurare pari opportunità agli studenti bisogna garantire:
   copertura totale delle borse di studio (attualmente più del 50 per cento delle regioni non è in grado di farlo);
   alloggi adeguati e sufficienti rispetto al numero degli idonei;
   forme di reddito indiretto (mobilità gratuita, mense agevolate, misure per l'accesso alla cultura, luoghi di aggregazione culturale sui territori), oggi quasi del tutto inesistenti.

Università e Ricerca

  Nell'immediato, è necessario garantire un finanziamento adeguato che permetta l'eliminazione del blocco del turn over, inasprito dalla spending review. I fondi che si rendono disponibili devono essere utilizzati per una quota di almeno il 50 per cento per un piano straordinario di assunzioni di ricercatori a tempo determinato con un reale meccanismo di tenure track, stanziando da subito i fondi per l'eventuale ingresso in ruolo. È necessario quindi:
   favorire la creazione di pin-off dalla ricerca pubblica, creando nuove piccole e medie imprese al alto contenuto tecnologico e/o culturale, e intrinsecamente dedicate alla ricerca. Si deve prevedere un supporto finanziario e consulenze per semplificare lo start-up e si devono programmare agevolazioni fiscali;
   puntare a progetti di finanziamento di consorzi misti pubblico/privato, che prevedano un sostanziale co-finanziamento da parte del privato nel supportare la ricerca;
   garantire agevolazioni fiscali per la promozione di una ricerca genuinamente privata legate a meccanismi di valutazione e controllo.

Permangono gli effetti negativi della riforma Fornero delle pensioni

  Per quanto concerne il settore previdenziale, il Documento di economia e finanza si limita a richiamare gli interventi realizzati dal Governo con la legge di bilancio per il 2017, che sostanzialmente si riducono all'introduzione dell'APE, per applicare la quale dovranno essere superati ancora molti problemi e dalla quale tanti sono i soggetti esclusi. Si tratta peraltro di una misura la cui natura è solo secondariamente previdenziale, trattandosi di un prestito che verrà fatto pagare a pensionandi già impoveriti – considerata peraltro le ridotte risorse stanziate per l'APE sociale e i requisiti per averne diritto che consentiranno l'accesso a un ridotto numero di lavoratori.
  Nessun riferimento o intervento viene invece previsto per risolvere i problemi determinati dall'ultima e inutile riforma delle pensioni (2011), che ha prodotto dannose conseguenze sociali e occupazionali. Infatti, gli stessi dati utilizzati dal Governo nella I Sezione del Documento di economia e finanza illustrano che gli interventi di riforma del sistema pensionistico italiano che si sono succeduti dal 2004 hanno comportato effetti strutturali, determinando una progressiva riduzione dell'incidenza della spesa pensionistica sul prodotto interno lordo. Dei risparmi che sono venuti a determinarsi, pari ad una riduzione cumulata dell'incidenza della spesa previdenziale di circa 60 punti percentuali del PIL fino al 2050, solo un terzo deriverebbe dagli interventi previsti nel decreto-legge n. 201 del 2011 (manovra Fornero).
  Questo conferma l'inutilità dell'intervento Fornero dal punto di vista previdenziale – essendosi risolta in una manovra per fare cassa – alla quale i Governi successivi non hanno inteso porre rimedio.
  D'altro canto la sostenibilità finanziaria della spesa pensionistica è stata messa in sicurezza da almeno 15 anni, essendo essa in attivo se si sottrae la parte destinata a fini assistenziali (che è a carico dello Stato, ma figura nel bilancio INPS) e non Pag. 44previdenziali e la quota relativa alle tasse (IRE) che ritornano o rimangono nelle casse dello Stato. Con tali sottrazioni, per esempio, il saldo contabile per il 2013 è stato positivo di circa 1,3 punti percentuali sul PIL (circa 21 miliardi), ma negli anni precedenti ha anche superato il 2 per cento.
  Il risultato raggiunto dalle riforme previdenziali non è positivo, tuttavia, dal momento che tutte esse hanno inciso sul sistema di calcolo della pensione e sull'innalzamento dell'età pensionabile. Con la conseguenza che l'effetto immediato di risparmio prodotto dall'innalzamento dell'età pensionabile, è in contrasto con gli effetti negativi che esse hanno avuto sul PIL, ad esempio per la sua incidenza sulla produttività e sulla innovazione, che sono anche legate all'età anagrafica.
  Tuttavia, le riforme pensionistiche che si sono succedute, in particolare l'ultima, hanno sempre avuto l'obiettivo di sottrarre risorse al sistema previdenziale per sostenere il bilancio dello Stato, all'interno di una visione economica, politica e sociale, secondo cui la riduzione della media degli importi delle pensioni e l'innalzamento dell'età pensionistica favorirebbe la crescita del PIL e aumenterebbe l'equità a vantaggio delle giovani generazioni. Attualmente il rapporto tra pensione media e salario medio è pari al 45 per cento, ma è previsto che scenda a circa il 33 per cento nel 2036.
  L'esperienza di questi ultimi 25 anni (ovvero dall'inizio delle riforme degli anni novanta) dimostra che tale impostazione è sbagliata perché la situazione della crescita non è migliorata, né quella delle giovani generazioni. La conclusione dovrebbe essere che la scelta di continuare a far ricadere sulla popolazione anziana il peso dell'invecchiamento demografico, anziché sull'intera popolazione, è ideologica e fondamentalmente sbagliata dal punto di vista etico, del patto tra generazioni e della credibilità del sistema nel tempo.
  Per tale motivo il Governo nel DEF dovrebbe prevedere interventi per ristabilire la solidarietà interna al sistema pensionistico, mediante il principio della flessibilità di accesso alla pensione di vecchiaia, riportando l'anzianità contributiva richiesta a 40 anni, tenendo conto che la spesa pensionistica per ogni singolo soggetto non muta all'interno del regime contributivo. Dovrebbe inoltre introdurre meccanismi di solidarietà e garanzia per tutti i percorsi lavorativi, al fine di eliminare le diseguaglianze derivanti dal rapporto intercorrente tra l'età media attesa di vita e quella dei singoli settori di attività; eliminare le diseguaglianze e le conseguenze negative delle riforme pensionistiche degli ultimi anni sulle donne; introdurre meccanismi di rafforzamento dei percorsi contributivi dei lavoratori discontinui; aumentare la concorrenza nel settore della previdenza integrativa, istituendo una forma di previdenza complementare pubblica presso INPS. La scelta di introdurre la previdenza complementare presso l'INPS determinerà maggiori entrate che i contributi volontari apporteranno nel sistema pensionistico pubblico migliorando i bilanci dell'INPS e dello Stato e accresceranno di svariati miliardi di euro le risorse a disposizione dello sviluppo economico del Paese, mentre oggi la previdenza complementare privata investe gran parte delle risorse in titoli stranieri.

Migranti

  Nessuna novità contiene il DEF in materia di immigrazione e questo costituisce una grave mancanza. Il Documento si limita a ricordare che la realizzazione dei piani UE di ricollocamento non ha dato luogo agli esiti attesi, ma che l'Italia continuerà a realizzare nuovi centri hotspot, anche tramite strutture mobili in mare.
  Questa affermazione è in aperta contraddizione con la petizione di principio recata nella prima parte del Documento dove viene evidenziata la necessità di interventi che permettano di cogliere i benefici storicamente associati all'immigrazione, che per una società che invecchia superano nel medio-lungo termine i costi di breve periodo associati alla gestione dei flussi migratori.Pag. 45
  Infatti, è necessario che il Governo abbandoni nei fatti l'approccio repressivo al fenomeno e chiuda i centri hotspot. Come hanno rilevato tutte le ONG, ma anche le istituzioni (Commissione parlamentare d'inchiesta e Commissione per i diritti umani del Senato della Repubblica), nei centri hotspot vi è una sistematica violazione dei diritti umani delle persone migranti, che qui subiscono una detenzione amministrativa al di fuori di ogni previsione normativa, sono sistemati in maniera del tutto precaria e promiscua e sono anche fatte oggetto di azioni coercitive.
  Il recente decreto-legge n. 13 del 2017 ha persistito in una prevalente ottica repressiva del fenomeno, con l'accentuazione degli strumenti di rimpatrio forzoso, attraverso alcune modifiche di dettaglio della disciplina del rimpatrio, ma, soprattutto, con la decisione di dare inizio all'apertura di numerosi nuovi centri di detenzione amministrativa in attesa del rimpatrio (ora chiamati Centri di permanenza per i rimpatri, invece che CIE).
  Da anni risulta chiaro, invece, come un sistema efficiente di rimpatri non possa basarsi solo sull'esecuzione coattiva degli stessi, ma debba, in primo luogo, riformare le norme in materia di ingresso e soggiorno, aprendo canali di ingresso regolare diversi da quello, ora quasi unico, della protezione internazionale, così dando maggiore stabilità ai soggiorni, oggi resi precari da disposizioni eccessivamente rigide, riducendo così il ricorso all'allontanamento per ipotesi limitate e comunque incentivando i rimpatri volontari, con strumenti normativi e finanziari specifici.
  Il Governo deve procedere ad una ampia e organica revisione delle strategie di governo dei flussi migratori, con la rivisitazione delle norme del testo unico sull'immigrazione che impediscono un ordinato programma di regolarizzazione ed inserimento controllato dei migranti, prendendo atto del fallimento, sotto il profilo dell'effettività e della sostenibilità economica, di un approccio esclusivamente orientato all'allontanamento forzoso di soggetti le cui precarie condizioni sociali e civili interpellano peraltro il tema della garanzia dei diritti fondamentali.
  Parallelamente, deve instaurare una cooperazione mirata e rafforzata con i Paesi di origine e transito dei flussi che preveda un piano di investimenti per fronteggiare le cause di fondo del fenomeno, la ricerca di condizioni di vita dignitose, della sicurezza, del lavoro. All'offerta di supporto finanziario e operativo ai Paesi partner devono corrispondere impegni precisi in termini di efficace controllo delle frontiere, riduzione dei flussi di migranti, cooperazione in materia di rimpatri/riammissioni, rafforzamento dell'azione di contrasto al traffico di esseri umani e al terrorismo.

La politica sanitaria

  Il DEF per il 2017 fissa la spesa sanitaria a 114,138 miliardi con una incidenza sul PIL del 6,7 per cento e un incremento dell'1,4 per cento rispetto al 2016, per il 2018 l'incremento stimato scende dall'1,4 per cento del 2017 allo 0,8 per cento e l'incidenza sul PIL viene prevista al 6,5 per cento con una spesa sanitaria pubblica complessiva stimata di 115,068 miliardi di euro, nel 2019 la spesa totale prevista è di 116,105 miliardi, con un incremento dello 0,9 per cento e un'incidenza sul PIL prevista del 6,4 per cento, solo nel 2020 si prevede un aumento della spesa del 2,1 per cento arrivando a 118, 758 miliardi ma ferma al 6,4 per cento del PIL.
  In attuazione del Patto per la Salute per il 2014-2016, a gennaio 2017 è stato approvato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che ha provveduto all'aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Con il citato decreto vengono introdotte le procedure diagnostiche e terapeutiche migliorando l'offerta di servizi pubblici gratuiti o soggetti a pagamento di un ticket, ma resta il nodo di risorse insufficienti che, pur essendo l'aggiornamento un fatto positivo, non garantiscono l'uniformità sul territorio nazionale della loro applicazione e fruizione.
  Per quanto attiene i rinnovi contrattuali del pubblico impiego e tra questi dei Pag. 46lavoratori della sanità, non si prevedono aumenti delle risorse già stanziate, del resto largamente insufficienti, ed il DEF non va oltre un generico impegno «del Governo a proseguire, compatibilmente con gli obiettivi di bilancio, il processo di riduzione del carico fiscale che grava sui redditi delle famiglie e delle imprese, e a prevedere risorse per il rinnovo contrattuale nel pubblico impiego», né tantomeno si registrano passi in avanti sulla stabilizzazione dei lavoratori precari della sanità.
  Appare ancora lontano l'obiettivo di una incidenza della spesa sanitaria sul PIL del 7 per cento, il cui raggiungimento nella tabella del DEF è previsto sono nel 2040, mentre con l'attuale DEF si prevede una sorta di accompagnamento alla decrescita, tenuto conto della previsione della spesa sanitaria di passaggio dal 6,7 per cento di incidenza sul PIL nel 2017 al 6,4 per cento nel 2020.
  Il Censis a giugno 2016 ha rilevato che sono 11 milioni gli italiani che hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie nell'ultimo anno a causa di difficoltà economiche, non riuscendo a pagarle di tasca propria, e che rispetto al 2012 sono aumentati di 2 milioni.
  Sono inoltre 7,1 milioni gli italiani che nell'ultimo anno hanno fatto ricorso all'intramoenia nel 66,4 per cento dei casi per evitare le lunghe liste d'attesa, mentre il 30,2 per cento si è rivolto alla sanità a pagamento anche perché i laboratori, gli ambulatori e gli studi medici sono aperti nel pomeriggio, la sera e nei weekend, segnalando come l'inadeguatezza di risorse del Fondo ha escluso dalle cure le persone sulle quali pesa maggiormente la crisi economica, spostando sul privato la parte di cittadini che hanno possibilità economiche mentre le difficoltà del Servizio sanitario nazionale sostengono la sanità privata a pagamento.
  La preoccupazione rispetto al diritto alla salute non deriva da questo DEF, che di fatto non prevede alcun cambio di marcia e che lascia l'Italia fanalino di coda tra i principali Paesi in materia di risorse destinate alla spesa sanitaria, alla prevenzione e alla cura.
  Il percorso avviato dalla legge di stabilità del 2016 in materia di detassazione crea di fatto le condizioni per introdurre attraverso i contratti di lavoro delle mutue sostitutive, e le aziende quindi potranno detrarre il costo delle mutue dal costo complessivo del lavoro, introducendo un welfare aziendale a costo zero, che di fatto apre ad uno smantellamento del Servizio sanitario nazionale e all'universalismo del quale è portatore.
  In questo modo il Governo finanzia di fatto i datori di lavoro per depotenziare l'articolo 32 della Costituzione in materia di diritto alla salute e per avviare un percorso che nei fatti riduce la sanità pubblica ad assistenza caritatevole, da cui l'avvio dell'universalità derubricata e la soggiacente idea al liberismo in nome della sostenibilità economica.
  Eppure la recente sentenza della Corte costituzionale n. 275 del 2016 ha sancito che sui diritti incomprimibili dettati dalla Costituzione in particolare chiarisce che «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l'equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione».
  Il diritto alla salute non può essere declinato solo a questioni relative a numeri percentuali di incidenza della spesa sanitaria in rapporto al PIL, o derubricarla ad una sussidiarietà sostitutiva da parte del terzo settore appaltando importanti settori della sanità al volontariato.
  Non è un caso che quindi oggi assistiamo all'aumento dei cittadini che accedono alla sanità pagando direttamente, accedendo al mercato di prestazioni private cui chi può pagare viene di fatto indirizzato, mentre al contempo vengono abbandonate le persone escluse dalla prevenzione e dalla cura in quanto non in possesso di risorse, che non possono accedere né a mutue, né ad assistenza privata, esclusi anche dall'accesso alla sanità pubblica da ticket.
  Si è assistito quindi ad una sanità pubblica che, pur nelle difficoltà, esprime ancora complessivamente un'eccellenza riconosciuta ma costretta ad arretrare da tagli lineari, dal blocco del turn over, dal Pag. 47blocco dei rinnovi contrattuali, dal taglio dei posti letti, e non più in grado di rispondere alle aspettative sociali.
  Occorre dunque assumere le necessarie misure per garantire l'effettiva universalità del Servizio sanitario nazionale al fine di raggiungere l'obiettivo di una spesa sanitaria al 7 per cento di incidenza sul PIL, in particolare attraverso la riduzione delle liste di attesa, avviando il superamento del blocco del turn over nel comparto sanitario ed individuando risorse adeguate a garantire il rinnovo dei contratti e per la stabilizzazione dei precari.
  Il Governo deve attuare un contrasto efficace alla corruzione e agli sprechi nel comparto sanitario destinando le maggiori risorse ai farmaci innovativi, alla cura delle malattie croniche, all'aumento delle risorse per la non autosufficienza ed alla garanzia dell'applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale della legge n. 194 del 1978 in materia di interruzione volontaria di gravidanza.

Le politiche abitative

  In Italia la precarietà abitativa presenta numeri impressionanti: 650.000 famiglie collocate nelle graduatorie per una casa di edilizia residenziale pubblica, circa 70.000 sentenze di sfratto emesse ogni anno, di cui il 90 per cento per morosità, circa 35.000 sentenze di sfratto eseguite ogni anno, decine di migliaia di famiglie in sofferenza nel pagamento dei mutui e migliaia ogni anno si vedono espropriati delle loro case. Ma nel DEF 2017 non si trova traccia di alcun intervento o programma.
  L'unico elemento afferente le politiche abitative si ritrova nel Programma nazionale di riforma dove nella policy del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti si dà come obiettivo 2017-2020 il programma di recupero di edilizia residenziale pubblica, di cui all'articolo 4 della legge n. 80 del 2014, un programma minimale che ha il fine di portare a riutilizzo alloggi inutilizzati e in degrado, eppure a tre anni dall'avvio del piano su un obiettivo di 6.594 alloggi da recuperare entro il 31 dicembre 2016 ne sono stati recuperati solo 2.697.
  Si è inoltre proceduto con l'ultima legge di bilancio all'azzeramento del Fondo contributo affitto di cui all'articolo 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, e alla riduzione del Fondo morosità incolpevole dai circa 60 milioni di euro del 2016 ai 37 milioni di euro del 2017, ma il DEF 2017 di tali fondi non fa menzione.
  Occorre assumere misure finanziarie efficaci in materia di politiche abitative per l'incremento dell'offerta di alloggi di edilizia residenziale pubblica, anche prevedendo l'istituzione di un apposito fondo presso la Cassa depositi e prestiti per il sostegno di programmi da parte dei comuni al recupero di immobili pubblici inutilizzati del demanio civile e militare ai fini di edilizia residenziale pubblica da destinare alle famiglie collocate nelle graduatorie comunali per l'accesso ad alloggi a canone sociale e per famiglie con sfratto eseguito o da eseguire per morosità incolpevole, nonché il rifinanziamento del Fondo contributo affitto di cui all'articolo 11 della legge 9 dicembre 1998 n. 431, e l'incremento del Fondo per la morosità incolpevole.

Politiche per l'energia

  Il Governo dichiara di essere in grado di sottoporre alla consultazione pubblica e all'approvazione entro il 2017 la nuova Strategia Energetica Nazionale (SEN) che dovrà costituire il quadro di riferimento per l'attuazione degli obblighi derivanti dall'Accordo di Parigi sul clima e per ridefinire il ruolo del settore nell'ambito della crescita sostenibile del Paese. In questo contesto vengono declinate nel Programma nazionale di riforma una serie di azioni rivolte a ridurre i costi energetici per le imprese, a incrementare l'efficienza nell'impiego delle risorse, a migliorare la sicurezza dell'approvvigionamento energetico nazionale.
  Per interpretare più efficacemente la reale strategia energetica del Governo bisogna in realtà rintracciarne l'orientamento in un altro capitolo del Programma Pag. 48nazionale di riforma, laddove si delineano gli interventi in materia di concessioni pubbliche, in particolare per quanto concerne le concessioni relative alla ricerca, all'estrazione e allo stoccaggio di idrocarburi liquidi e gassosi. Nel prossimo quadriennio scadranno 130 concessioni già in essere e il Ministero dello sviluppo economico, con il decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 3 aprile, ha già chiaramente definito una strategia rivolta a potenziare le estrazioni di fonti fossili, anche agendo in deroga al divieto di estrarre nella fascia di 12 miglia dalla costa e concedendo alle imprese già titolari di diritti estrattivi di variare il programma concessorio con l'installazione di nuovi impianti.
  Una politica per l'energia che si sostanzia pertanto in un'evidente ambivalenza, che vede il Presidente del Consiglio a più riprese avventurarsi in dichiarazioni che intendono collocare l'Italia nella fascia più avanzata dei paesi europei, quando invece dal Governo giungono segnali di orientamento opposto, con gli interventi riduttivi già operati sugli incentivi per le fonti rinnovabili e con il rilancio, di fatto, di politiche rivolte all'incremento dell'estrazione e dell'impiego di fonti fossili.

Settore agroalimentare

  Attualmente il settore agroalimentare mantiene un'interessante vivacità nelle esportazioni che testimonia le potenzialità di sviluppo del comparto, in prospettiva trainante per la ripresa economica e per l'immagine dell'Italia nel mondo.
  Il Governo richiama nel DEF gli sgravi fiscali introdotti a favore dell'agricoltura con la legge di stabilità per il 2017, la recente legge di contrasto del caporalato e la necessità di dare attuazione alle deleghe conferite dal Parlamento per la riforma della normativa di settore.
  Non compare invece nel DEF alcun riferimento alle gravi crisi settoriali che stanno interessando il comparto agricolo e minando la sua capacità di fronteggiare le sfide della competizione internazionale. Il riferimento va in particolare al comparto del latte, dell'allevamento zootecnico e alle aziende cerealicole, con la grave crisi di redditività che ha interessato queste produzioni di primario rilievo nel corso del 2016 e il conseguente incremento delle importazioni.
  È necessario che il Governo metta a punto una strategia di politica nazionale per l'agroalimentare, che si lasci alle spalle gli interventi spot e configuri un sostegno attivo alle aziende a conduzione familiare che costituiscono tuttora la spina dorsale del settore.

Aree naturali protette

  Nella Strategia per lo sviluppo sostenibile, alla quale si accenna nel DEF, non trovano una adeguata collocazione gli interventi per la tutela e la valorizzazione delle aree naturali protette.
  È noto che la maggioranza ed il Governo sostengono il disegno di legge di riforma del settore (A.C.4144), già approvato al Senato e attualmente in discussione alla Camera dei deputati, che ha incontrato la ferma opposizione di gran parte delle associazioni ambientaliste, anche a seguito del tentativo di condizionare ulteriormente la governance dei parchi con interessi localistici.
  È necessario invece rilanciare gli investimenti nella conservazione, con un nuovo Piano triennale per le aree protette adeguatamente finanziato, rivedere a fondo la dotazione organica e la capacità finanziaria degli Enti gestori, oggi allo stremo, con evidenti riflessi negativi sulle attività istituzionali, a cominciare dalla vigilanza.

Fiscalità riallocativa: i sussidi ecologicamente dannosi

  Con la legge n. 221 del 2015 è stato approvato il cosiddetto collegato ambientale (Green economy), che all'articolo 3 istituisce la Strategia nazionale di sviluppo sostenibile, con aggiornamento da parte del CIPE almeno ogni 3 anni. La citata legge prevede, altresì, all'articolo 68 il Catalogo dei sussidi nocivi per l'ambiente. In data 23 Pag. 49febbraio 2017 è stato reso disponibile dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare il Catalogo dei sussidi ecologicamente dannosi e dei sussidi ecologicamente favorevoli, che può rappresentare a pieno titolo un elemento essenziale per politiche ambientali ed economiche efficaci ed efficienti.
  L'Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e l'Agenda 2030 dell'ONU, che reca 17 obiettivi per uno sviluppo sostenibile, rappresentano una sfida e un impegno che devono entrare nell'agenda politica ed economica del Governo. Il DEF2017, terza parte, contiene solo un richiamo dell'attività in corso, presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, circa l'articolo 3 del cosiddetto collegato ambientale (Green economy), relativo alla Strategia nazionale di sviluppo sostenibile, ma nel richiamo non vengono prese in considerazione il potenziale di «riallocazione» attivabile grazie alle rilevanti risorse rese disponibili, nel citato Catalogo, dalla eliminazione graduale dei sussidi ecologicamente dannosi SAD. Infatti, dalle tabelle allegate al «Catalogo dei sussidi ecologicamente dannosi e dei sussidi ecologicamente favorevoli» si evince che la quota di bilancio statale destinata ai SAD è di oltre 16 miliardi di euro su base annua, di cui una parte rilevante a favore dei settori energia e per agevolazioni fiscali.
  Sono 16 miliardi di euro all'anno quelli destinabili a nuovi interventi sostenibili che potrebbero riverberare effetti importanti sia in termini industriali che occupazionali, nonché la possibilità di individuare le risorse necessarie alla operatività effettiva dell'Accordo di Parigi COP 21.
  Secondo recenti ricerche, la rimozione e il conseguente reimpiego green di una parte consistente delle ingenti risorse derivanti dalla riallocazione dei sussidi dannosi ecologicamente consentirebbe di attivare il processo di avvio della strategia di raggiungimento degli obiettivi di COP21 con importanti benefici sia sul versante dell'abbattimento della CO2 che sul versante occupazionale, con un aumento stimato di circa 200.000 ULA su base annua.
  In tema di occupazione, una parte delle risorse derivanti dalla riallocazione dei sussidi dannosi dovrebbero essere rese disponibili, per una quota non inferiore al 20 per cento, per il reimpiego sostenibile di forze di lavoro in eventuale difficoltà nei settori che perdono sussidi.
  Si tratta quindi di affermare un tema che dal DEF 2017 non è contemplato: la fiscalità riallocativa, uno strumento attraverso il quale si potrebbero raggiungere una serie di obiettivi benefici e strategici, ambientali, energetici, sociali, sanitari, industriali, di bilancia commerciale e turistici, senza alcun aumento di tasse a carico dei cittadini.

La proposta di una terapia d'urto per uscire dalla crisi

  Il DEF doveva prendere atto del fallimento conclamato della linea seguita dal Governo Renzi, invece ci viene presentato lo stesso menu. Il risultato inevitabile sarà quello di un impatto negativo sull'economia. Rivedere il Fiscal Compact e aumentare di un punto, per tre anni, il rapporto tendenziale deficit/PIL portandolo al 3,6 così da trovare le risorse per stimolare la ripresa economica: è questa, in sintesi, la proposta di Sinistra Italiana per il prossimo DEF.
  Quello che propone il Governo oggi sono pannicelli caldi, c’è una disperazione governativa per sterilizzare le clausole di salvaguardia, che sono pari a 19,5 miliardi di euro che altrimenti provocherebbero un aumento dell'IVA su tanti prodotti.
  Serve un cambio di rotta e utilizzare un punto di PIL rispetto al tendenziale, che oggi è intorno al 2,5-2,6 per cento, e arrivare al 3,6 per cento per fare politiche pubbliche di investimento e dare una scossa a questo Paese. Il nostro debito pubblico è alto ma anche la Spagna in questi anni ha sforato il rapporto deficit/PIL senza che ciò creasse alcun terremoto.
  Il problema dell'Italia e dell'Eurozona è innanzitutto la carenza di domanda. Da qui discende la necessità di sospendere l'attuazione del Fiscal Compact e l'aumento di un punto di PIL sull'andamento tendenziale per un periodo transitorio.Pag. 50
  Rispetto al Fiscal Compact chiediamo di non prevederlo nei Trattati europei. Il Gruppo Sinistra Italiana-SEL-Possibile ha depositato anche un progetto di legge per l'abrogazione del pareggio di bilancio in Costituzione.
  Per reperire risorse, puntiamo anche sul taglio della spesa militare e delle grandi opere, su una spending review fatta correttamente, su un'operazione «per colpire i privilegi e le ingiustizie». Abbiamo un problema macroscopico di ingiustizia fiscale e di multinazionali, come quelle del web, che non pagano le tasse: ciò impone dunque una lotta efficace all'evasione fiscale.
  In sintesi, quello che proponiamo è un DEF in quattro verbi: lavorare, investire, assistere, istruire.
  Lavorare vuol dire anche redistribuire il tempo di lavoro e finanziare misure di solidarietà attiva, cioè una riduzione dell'orario di lavoro senza decurtazione del salario per sostenere i consumi.
  Rispetto al tema degli investimenti, con mezzo punto di PIL si potrebbero finanziare circa 5 mila piccoli cantieri.
  Alla luce di queste premesse, il Governo deve essere impegnato a evitare qualunque altra misura supply side (come l'annunciata decontribuzione per i neo-assunti); evitare ulteriori privatizzazioni dirette o indirette, via Cassa depositi e prestiti, di asset pubblici per fare cassa, comunque irrilevanti ai fini della sostenibilità del nostro debito pubblico; sospendere, per un triennio, l'applicazione del Fiscal Compact e concentrare risorse aggiuntive sul sostegno selettivo alla domanda interna, ed a investimenti pubblici.
  Proponiamo dunque una terapia d'urto di 40 miliardi per tre anni, con 5 proposte per le cose da fare.

2 miliardi per lavorare. Un piano del lavoro per 200 mila nuovi posti di lavoro

  Occorre prevedere il finanziamento di un piano straordinario del lavoro per un Green New Deal collegato ai 5 mila cantieri pubblici per le piccole opere e alla riconversione ecologica (quali la rigenerazione delle periferie, l'efficienza energetica degli immobili, l'innovazione tecnologica, la cura e la valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali, pranzi bio nelle scuole e negli ospedali), nonché una serie di misure specifiche come «l'imponibile di manodopera» sugli appalti pubblici, un piano speciale per il lavoro di cittadinanza di 50 mila giovani nei servizi sociali del welfare locale ed il sostegno ai contratti di solidarietà espansiva per ridurre l'orario di lavoro ed aumentare l'occupazione.

8 miliardi per investire. 5 mila cantieri per il Paese e l'ambiente

  Occorre prevedere un programma straordinario di 1.000 piccole opere per la messa in sicurezza del territorio, delle zone sismiche, delle scuole, e per la rigenerazione urbana in collaborazione con il sistema delle autonomie locali, 5 mila cantieri per interventi sul territorio e per l'ambiente, le scuole da mettere in sicurezza, a partire da quelle nelle zone sismiche e dall'eliminazione dell'amianto, le energie rinnovabili (pannelli su tutti gli edifici pubblici), le infrastrutture sociali (1.500 nuovi asili nido), riservando il 45 per cento degli investimenti pubblici al Mezzogiorno (ripristino della «Clausola Ciampi») e collocando fuori dal Fiscal Compact gli investimenti pubblici anche nazionali e non le spese militari.

4 miliardi per assistere. Diritti per 11 milioni di malati e 4,6 milioni di poveri

  Il welfare non è una spesa, ma un investimento. Secondo il Censis, sono 11 milioni gli italiani che saltuariamente o in modo continuativo non si curano per problemi economici. Servono dunque almeno 2 miliardi per il finanziamento dei Livelli Essenziali di Assistenza e del Fondo per la non autosufficienza, l'eliminazione del super ticket e 2 miliardi in più per finanziare il Fondo per la lotta alla povertà (oltre alle somme previste dalla legge di stabilità per il 2016 e dal bilancio 2017) e potere integrare il reddito con 500 euro aggiuntivi medi mensili a famiglia (6.000 euro l'anno) Pag. 51per aiutare una parte dei 4,6 milioni in povertà assoluta, come prima sperimentazione e avvio di un reddito minimo generalizzato prevedendo una spesa di 7 miliardi a regime.

3 miliardi per istruire. Portare l'abbandono scolastico al 10 per cento e diritto allo studio per 9 milioni di giovani

  Con la cultura si mangia. Occorre prevedere un aumento dei livelli di finanziamento del sistema pubblico di istruzione: risorse finalizzate a dimezzare dal 20 al 10 per cento la percentuale di abbandono scolastico, a garantire l'effettività del diritto allo studio a tutti gli idonei, dell'offerta formativa, degli alloggi studenteschi da portare gradualmente ad almeno 100 mila unità, dei livelli occupazionali del personale docente e non, del finanziamento del Fondo per l'università.

19,5 miliardi per togliere le clausole di salvaguardia. Sostenere la domanda ed i consumi

  No alle tasse regressive. 19,5 miliardi servono per non far scattare gli aumenti dell'IVA nel 2017, aumenti che vanno evitati per impedire ricadute negative sulla domanda interna e sui consumi.

3 modi per trovare i soldi:

Un punto di PIL di deficit in più rispetto a quello tendenziale

  Portare nel 2018 il rapporto deficit-PIL un punto più alto del deficit tendenziale dal 2,6 per cento al 3,6 per cento (la Francia e la Spagna da anni superano il 3 per cento). Con questa previsione si possono recuperare quasi tutte le risorse che servono per cancellare le clausole di salvaguardia o si possono utilizzare per gli investimenti, il lavoro, il welfare, la cura ambientale del Paese.

11,5 miliardi dal taglio della spesa pubblica inutile. Ridurre spese militari, grandi opere, sussidi e sgravi fiscali inutili

  Tagliare si può, ma non ai poveri. Prevediamo la riduzione del 10 per cento delle spese militari (2,3 miliardi) a partire dai sistemi d'arma come gli F35 e le fregate FREMM, la cancellazione al finanziamento delle grandi opere come la TAV (3 miliardi), la cancellazione dei sussidi all'istruzione privata (300 milioni) e tutta una serie di agevolazioni per le imprese (sgravi IRES per 3,9 miliardi ed altro ancora) che non hanno prodotto lavoro stabile e reali investimenti. Serve una vera revisione della spesa basata su piani di settore con riforme strutturali del funzionamento di ogni singola pubblica amministrazione (2 miliardi).

9 miliardi colpendo i privilegi. Un'Italia più uguale e più giusta

  Prendere i soldi dove ci sono. Colpire l'evasione fiscale e chi paga troppo poco. Contrastare l'evasione fiscale attuando le misure contro l'evasione/elusione dell'IVA predisposte dal Nens come la generalizzazione della fatturazione elettronica. «Quello che i ricchi chiamano il problema della povertà, i poveri lo chiamano il problema della ricchezza». Ecco perché proponiamo la revisione della tassa di successione sui lasciti sopra il milione di euro e della TASI sulla prima casa per le fasce di reddito più alte, una vera Tobin tax e l'introduzione di una digital tax, la reintroduzione della tassa sugli yacht e i panfili, la tassa sul lusso e la cancellazione della flat tax per i ricchi, l'accentuazione della progressività fiscale (portare a 50 per cento l'aliquota più alta a partire da 100 mila euro), l'abolizione dei condoni fiscali (voluntary disclosure), l'aumento delle royalties sull'estrazione di idrocarburi e della tassazione sul porto d'armi e la vendita d'armi.

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Giulio MARCON,
Relatore di minoranza.