Doc. LVII, n. 3-A-ter

RELAZIONE DELLA V COMMISSIONE PERMANENTE
(BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE)

Presentata alla Presidenza il 22 aprile 2015

(Relatore: MELILLA, di minoranza)

sul

DOCUMENTO DI ECONOMIA E FINANZA 2015

(Articoli 7, comma 2, lettera a), e 10 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e successive modificazioni)

presentato dal presidente del consiglio dei ministri
(RENZI)

Trasmesso alla Presidenza il 10 aprile 2015

I N D I C E

RELAZIONE   Pag. 5

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  Onorevoli Colleghi ! – La presente relazione di minoranza è proposta dal gruppo SEL per illustrare la propria posizione sul Documento di economia e finanza 2015.

Un Documento di galleggiamento, una manovra di attesa
  Il Documento di economia e finanza 2015 (DOC. LVII, n. 3) su cui il Parlamento si deve esprimere nell'arco di poco più di due settimane, entro il 23 aprile, consta di 1.005 pagine suddivise in due Tomi; questo modo di procedere da parte del Governo svilisce il ruolo del Parlamento in nome di un apparente rapidità decisionale che, in questo caso, è solo foriera di improvvisazione e funzionale ad una politica degli annunci più che all'elaborazione di serie riforme.
  Non ci sono gli effetti speciali del bonus di 80 euro, né la riduzione dell'Irap, né gli sgravi di 24.000 euro per le assunzioni. Solo un mini-effetto per stupire il pubblico: 1,6 miliardi che consentono di lanciare l'hastag #bonusdef che ha fatto impazzire il web, un'arma di distrazione di massa per i cittadini-spettatori che hanno potuto giocare a «cosa ne facciamo del tesoretto». Una mancia elettorale in vista delle elezioni regionali di fine maggio.
  Una manovra che secondo il Premier sarà senza tagli né tasse. In realtà i dati Istat confermano che Renzi ha aumentato la pressione fiscale e la spesa pubblica. La novità è che finge di fare il contrario avendo peggiorato la situazione ereditata da Letta.
  La crescita prevista e/o auspicata e la riduzione del rapporto debito/PIL previsto nel 2018 addirittura pari al 124,6 per cento nel 2018 sono poco più che degli auspici.
  Questo DEF «leggero» non deve ingannare: nel 2015-2016 molti nodi verranno al pettine e non ci sarà nessun Piano Juncker in grado di salvarci.
  La filosofia generale che sottende l'analisi di base su cui poggiano le scelte contenute nel DEF si basa sulla scommessa secondo cui ormai ci siamo lasciati la crisi e tutti i suoi nefasti effetti alle spalle, in primis l'insostenibile tasso di disoccupazione, in particolare giovanile e al Sud, e abbiamo ormai decisamente imboccato la via della crescita. Tale eccesso di ottimismo poggia su fragilissime fondamenta composte da dati e stime per il futuro soggetti a molte variabili incontrollabili come la diminuzione ritenuta «forte e duratura» almeno fino al 2020, del prezzo del petrolio, il rafforzamento del dollaro sull'euro, due variabili che scontano fortemente un'instabilità oggettiva di carattere geopolitico che non viene affrontata con sufficiente vigore e unità di intenti e interessi da parte dell'Europa.
  Ma l'Italia è davvero uscita dalla recessione ? Tecnicamente no. Infatti, nel 4o trimestre del 2014 il Pil è ancora negativo. Ma il Governo ritiene che la svalutazione dell'euro e i bassi prezzi del petrolio creano un quadro favorevole alla crescita, secondo un modello export led.
  Il governo non intende modificare il percorso di rientro già prefissato, invocando per il 2016 nei confronti della Commissione la flessibilità nell'interpretazione delle regole introdotta a gennaio 2015 per i Paesi che intraprendono riforme strutturali. Dunque si creerebbero già al momento margini di manovra per il 2015 (1,5 miliardi) e per il 2016 (5,5 di Pag. 6 minori interessi, 1,5 di minore deficit primario, per un totale di 0,4 punti di Pil). Il «tesoretto» 2015 dovrebbe venir speso per rafforzare il sociale. Il «tesoro» 2015 servirebbe per ridurre dall'1 per cento del Pil allo 0,6 per cento la correzione di spesa sul 2016 necessaria per neutralizzare la clausola di salvaguardia di 16,1 miliardi che farebbe scattare gli aumenti IVA.
  Il governo è convinto che ulteriori miglioramenti della congiuntura internazionale e italiana permetteranno a settembre di migliorare ulteriormente le previsioni.

Previsioni troppo ottimistiche
  Già all'inizio della Premessa del DEF è contenuta un'affermazione, improntata a un troppo facile ottimismo su cui si basa tutta l'analisi successiva, e secondo la quale «la forte, duratura flessione dei prezzi del petrolio favorisce il miglioramento delle ragioni di scambio», affermazione già smentita dai fatti in quanto si assiste, proprio in questi giorni, ad un processo di risalita continua del prezzo del greggio accompagnata da ripetute oscillazioni.
  Nel biennio 2016-17 il DEF appare più ottimistico rispetto a quanto stimato dalla maggior parte dei previsori del panel dell'Ufficio parlamentare di bilancio. Questo risultato riflette una diversa visione di quali saranno le determinanti future della ripresa economica: una più forte componente di domanda interna secondo il DEF, una maggior spinta dalle esportazioni per i previsori del panel Upb.
  Non si possono nascondere i rischi a cui le previsioni sono esposte, soprattutto in relazione alle incertezze dello scenario internazionale. Il prezzo del petrolio potrebbe ritornare a crescere a causa delle tensioni geopolitiche che coinvolgono molti dei Paesi produttori. La dimensione e la durata dell'impatto sul cambio e sui tassi di interesse degli strumenti «non convenzionali» di politica monetaria introdotti della BCE restano incerte e dipenderanno anche dalle scelte di politica monetaria di altre aree, in particolare degli Stati Uniti. L'evolversi della situazione in Grecia aggiunge ulteriori timori di instabilità alle prospettive dei mercati finanziari.
  Le proiezioni sulla spesa per interessi sono effettuate utilizzando la struttura attuale dei tassi d'interesse che è molto distorta a causa degli interventi del Quantitative easing della BCE. Il DEF ipotizza che gli interventi non convenzionali della banca centrale siano efficaci nel riportare l'inflazione all'obiettivo già nel 2017. Si dovrebbe però ipotizzare anche che la BCE esaurisca la sua azione d'intervento nel settembre 2016, come previsto, e che quindi i tassi d'interesse tornino a salire dal 2017.
  Non mettendo in linea queste due variabili, l'effetto è di un rigonfiamento della crescita nominale, che nelle proiezioni programmatiche del governo supera il 3 per cento dal 2017. Questo migliora anche la dinamica del rapporto debito/Pil che ora è previsto rispettare la cd. «regola del debito» in tutto l'orizzonte di previsione.
  Previsioni troppo ottimistiche – a nostro avviso – da 4 punti di vista:
   a. Cambio (vedere il grafico): storicamente molto basso. C’è il rischio di innescare un trend di svalutazioni competitive anche perché l'UE ha la bilancia commerciale in attivo il che non giustifica la manovra sul cambio;
   b. Petrolio (vedere il grafico): prezzo del barile storicamente molto basso. Reggerà stante i conflitti in atto ?
   c. Tassi di interesse nominali e reali (vedere i grafici): nominali bassi e reali negativi ! Quanto potranno durare ?
   d. Crescita PIL 2016 1,3 per cento tendenziale e 1,4 per cento programmatico
    i. alto in sé visto il pregresso;
    ii. 1,3 di tendenziale malgrado una manovra di 1 punto sulle indirette. Ma allora com’è che intervenendo per neutralizzare tale aumento, per 0,4 punti in deficit, il programmatico arriva appena ad 1,4 per cento ? Pag. 7

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  Oltre alle fragili e soprattutto incerte previsioni macroeconomiche di carattere globale l'analisi del Governo poggia sull'assunto che l'effetto delle riforme attuate produrrà una forte spinta alla crescita (0,4 nel 2016, 1,8 per cento nel 2020, 3 per cento nel 2025 e 7,2 per cento nel lungo periodo), come la riforma del Jobs Act, della Pubblica amministrazione, della Scuola, la competitività, la Giustizia, la riduzione del cuneo fiscale e l'aumento della tassazione delle rendite finanziarie. Gli effetti di tali riforme, molte delle quali sono appena state presentate in Parlamento e altre che per essere completate devono ancora compiere tutto l'iter parlamentare, secondo le previsioni del DEF avranno un impatto significativo solo a partire dal 2025.
  Il Governo con questo documento conferma la scelta di politica di finanza pubblica recessiva e iniqua in continuità e acriticamente succube ai diktat europei che hanno preteso l'equilibrio dei conti pubblici mettendo in secondo piano la crescita, il lavoro e il sostegno dei redditi. Quando il Governo sostiene di confermare gli obiettivi di indebitamento netto previsti per il triennio 2015-2017 e contemporaneamente di ridurre la pressione fiscale, al netto del bonus degli 80 euro, fa affermazioni in contrasto con i suoi stessi dati che prevedono la crescita delle entrate tributarie dal 30,1 per cento del Pil del 2014 al 31,2 per cento del 2017, mentre la pressione fiscale cresce per tutto il periodo considerato. Sempre a proposito degli 80 euro, che l'Europa considera spesa, mentre il Governo la vede come riduzione della pressione fiscale, vale la pena osservare l'impatto nullo del provvedimento rispetto alla dinamica dei consumi.
  Quello delineato dal DEF è un quadro sconfortante in cui non si ravvisano i cosiddetti «effetti speciali» del bonus di 80 euro, né dalla riduzione dell'Irap, né dagli sgravi di 24.000 euro in tre anni alle imprese per le assunzioni. Dall'intero quadro emerge soltanto una minima differenza tra il deficit programmatico e quello tendenziale di circa un decimo di punto percentuale pari a 1,6 miliardi, un piccolo «tesoretto» che si trasformerà in una ulteriore «mancia elettorale» in vista delle elezioni regionali di fine maggio.
  Nel DEF si afferma che la manovra non conterrà tagli o aumenti di tasse, ma anzi che vi sarà una riduzione della pressione fiscale. In realtà, i dati Istat confermano che l'attuale Governo ha aumentato la pressione fiscale e la spesa pubblica. Nel 2014 la pressione fiscale è risultata pari al 43,5 per cento in aumento di 0,5 punti percentuali rispetto all'anno precedente.
  L'obiettivo dichiarato dal Documento è duplice: evitare di dover aumentare le aliquote IVA e le accise per il 2016, il cui valore complessivo è di 16,1 miliardi per effetto delle clausole di salvaguardia introdotte dalle ultime due leggi di stabilità e aspettare la ormai «mitica» ripresa economica che migliorerebbe la situazione sia dei conti pubblici che dell'economia. Tale obiettivo, secondo il Governo viene raggiunto, in modo virtuoso eliminando l'aumento tendenziale della pressione fiscale, attraverso il miglioramento, del tutto aleatorio, del quadro macroeconomico che si rifletterebbe in un aumento del gettito fiscale, la flessione della spesa per interessi sul debito pari a 0,4 per cento del PIL, tagli di spesa per 9,5 miliardi, pari allo 0,6 per cento, che saranno definiti nei prossimi mesi anche se sono stati in parte già individuati nella contrazione, pari a 1,5 miliardi delle così dette tax expenditures (agevolazioni fiscali), cioè un taglio di deduzioni, detrazioni ed esenzioni che aumenteranno il carico fiscale per i cittadini, nella riduzione per 1,6 miliardi delle agevolazioni alle imprese e nel taglio per 2 miliardi sugli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione.
  Basare le ipotesi di intervento sulla base di una «zavorra» come la clausola di salvaguardia, la cosiddetta spending review 2, che ci portiamo dietro dalle manovre degli scorsi anni, la cui eliminazione dipende da fattori aleatori ed esogeni configura un vero e proprio azzardo del Governo giocato sulla pelle del Paese.
  Di rinvio in rinvio il Governo continua a mancare l'obiettivo di una significativa e robusta crescita, utilizzando le scarse risorse Pag. 9 a disposizione, riducendo i servizi ai cittadini con tagli lineari alla Pubblica amministrazione, aumentando la pressione fiscale col taglio delle deduzioni e agevolazioni a cittadini e imprese e, infine, spostando in avanti la resa dei conti costituita dal peso della clausola di salvaguardia il cui onere aumenta di anno in anno a livelli insostenibili senza dimenticare il macigno costituito dall'obbligo che abbiamo contratto con l'Europa di ridurre il nostro debito attraverso l'accettazione del fiscal compact. Tutti i provvedimenti adottati dall'attuale Governo sono stati, infatti, un anticipo di tagli certi nel futuro.

Problemi di controllo della finanza pubblica
  Il controllo della spesa è dubbio:
   Avanzo primario: in realtà rispetto a quanto previsto nella legge di stabilità (1,6 0,3=1,9) il tendenziale è a 1,7, dunque peggiore di 0,2. È la riduzione degli interessi di 0,3 che salva la situazione e dà margini (0,1) !

Imposte indirette:
  Confronto con previsioni in legge di stabilità 2015: DEF 2015, vol. 2 p. 6: nel 2014 «minori entrate derivanti dalle imposte indirette per 4.258 milioni, per effetto di una dinamica dei consumi meno favorevole rispetto a quanto stimato che ha prodotto riflessi negativi, in particolare, sul gettito derivante dall'imposta sul valore aggiunto e dalle accise». A livello complessivo di PA manca 1 miliardo rispetto alla legge di stabilità 2015.
  Confronto con previsioni DEF 2014: DEF 2015, vol. 1 p. 30: «Le entrate correnti hanno registrato un aumento dello 0,9 per cento riflettendo la crescita delle imposte indirette (3,5 per cento) legata al maggiore gettito IVA e delle accise, e dei contributi sociali (0,5 per cento). Tali aumenti sono parzialmente assorbiti dal calo delle imposte dirette (-1,4 per cento)».

Spesa consumi finali PA
  Spesa per consumi intermedi in aumento.
  Solo i redditi da lavoro dipendente dei pubblici danno un sostanziale risparmio (-0,6 punti di Pil fra 2013 e 2014).
  Siamo indietro sulla ripresa della spending review; c’è il forte dubbio che si riesca a trovare entro dicembre lo 0,6 per cento di riduzione senza incidere sulla carne viva del welfare.

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Fattori esterni favorevoli: ma fino a quando ?
  L'attuale esecutivo usufruisce, al momento, di una congiuntura internazionale favorevole per fattori del tutto esogeni rispetto alla sua attività di governo: il Quantitative easing immettendo liquidità nei circuiti finanziari riduce lo spread, e dunque il costo del debito, deprezza l'euro nel cambio con le principali monete e in particolare il dollaro statunitense stimolando le esportazioni, mentre è calato il prezzo dei carburanti di origine fossile. Una piccola spinta alla crescita verrà anche dall'EXPO e dal Giubileo.
  Ma se il commercio mondiale si rafforza, il quadro geopolitico resta incerto e consiglierebbe maggiore prudenza. L'attività economica si consolida negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Giappone, mentre si indebolisce in alcune economie emergenti. Per il 2015 è attesa una lieve accelerazione del commercio mondiale. L'incertezza riguardo alla situazione della Grecia e ai conflitti in Ucraina, in Libia e in Medio Oriente resta elevata, anche se non si è finora riflessa sulle condizioni dei mercati finanziari internazionali.
  Si sono avviati gli acquisti di titoli pubblici da parte dell'Eurosistema. Il programma ha già avuto effetti significativi sui mercati finanziari e valutari: sulla scadenza decennale i rendimenti dei titoli di Stato hanno raggiunto un nuovo minimo storico (0,6 per cento, nella media dell'area) e l'euro si è deprezzato (del 15 per cento nei confronti del dollaro dal novembre 2014). Le aspettative di inflazione, in continua caduta fino all'inizio di gennaio, si sono stabilizzate.
  Il Governo potrà usufruire, inoltre, delle opportunità offerte dalla nuova e relativa flessibilità europea sul versante della disciplina di bilancio prevista dalla «Comunicazione sulla flessibilità», resa nota dalla Commissione UE lo scorso 13 gennaio. Il Governo intenderebbe raddoppiare il margine di deficit rispetto a quello programmato dell'1,8 per cento puntando al 2,2 per cento attraverso una trattativa con la Commissione UE in merito alle «riforme», il cui esito non è affatto scontato, dipendendo sia dalla trattativa stessa che dal livello di crescita che deve rimanere al di sotto del potenziale (determinato a livello europeo per il prossimo anno dell'1,05 per cento) per poter usufruire dello sconto di aggiustamento dei conti dello 0,5 per cento strutturale, così come previsto dalle norme europee.

Una duplice trattativa con Bruxelles
  Si tratta in una parola di un gioco sul filo dei limiti che il Patto di Stabilità e Crescita impone ai Paesi europei. Un uso spregiudicato e tirato al massimo della famosa «flessibilità» chiesta alle istituzioni di Bruxelles. Somiglia ad una «furbata» basata su una sorta di artifici contabili che tendono ad aggirare vincoli europei, anch'essi arbitrari, per evitare il ricorso a una manovra di 10 miliardi, pari allo 0,5 per cento strutturale, che si aggiungerebbe ai 16,1 miliardi necessari per evitare l'entrata in vigore automatica della clausola di salvaguardia. Tali indeterminatezze non escludono il possibile ricorso di qui ad alcuni mesi ad una probabile manovra correttiva.
  Riassumendo: con il DEF il Governo scommette su due carte non prive di rischi. La prima il taglio del deficit strutturale per il 2016 (si auspica lo 0,1 per cento invece dello 0,5 per cento), già riconosciuto per il 2015 per «circostanze eccezionali» ovvero per la prolungata fase recessiva, che se confermato Pag. 11 anche per l'anno 2016 fornirebbe una disponibilità di 6,4 miliardi. In ciò si constata una evidente contraddizione nell'impostazione del DEF che non può puntare contemporaneamente a questi margini di flessibilità ed a previsioni di crescita che certificherebbero la fine della recessione. La seconda quella di ottenere margini maggiori di flessibilità grazie alle riforme già avviate puntando ad ottenere lo 0,4 per cento. Si tratta comunque di una trattativa difficile in sede di Commissione vista la contrarietà alle nuove regole di flessibilità di alcuni Paesi secondo i quali le riforme non devono essere solo «pianificate» bensì «adottate», con un evidente «sfasamento» rispetto alla fase riformista del Governo che procede lentamente come dimostrato dall'attuazione della delega fiscale ferma da quasi due anni.
  L'impossibilità di utilizzare il margine di deficit dello 0,4 per cento comporterebbe automaticamente una correzione dell'indebitamento con una manovra aggiuntiva di oltre 6 miliardi.
  Le stime relative all'impatto delle riforme sul PIL, su cui il Governo poggia le scelte per il 2016, quantificando il loro effetto economico positivo, sono numeri di cui ogni esperto può spiegarne l'arbitrarietà e la cui accettazione da parte dell'Europa non è poi così scontata e anche se l'impostazione italiana fosse accettata in pieno, questa variabile non può sommarsi all'altra nell'auspicio di una ripresa economica più vivace delle previsioni come il Governo segretamente sembra fare affidamento. Con più crescita, infatti, Bruxelles sarebbe più severa sulle regole.
  Il Governo, in attesa di quantificare più nel dettaglio sia l'effetto delle variabili esterne, dal Quantitative easing, al calo dei tassi, sia le variabili interne, come l'impatto delle riforme in termini di incremento del Pil potenziale, si attesta su una linea che definisce «prudenziale». Per il Pil si stima una crescita dello 0,7 per cento nel 2015, target leggermente superiore allo 0,6 per cento stimato a fine 2014 e dell'1,4 per cento nel 2016. Il deficit resterebbe fermo quest'anno al 2,6 per cento, per ridursi nello scenario programmatico attorno all'1,8 per cento nel 2016.

Ma quanto valgono le riforme ?
  Bruxelles vaglierà l'impatto di ogni singola riforma prevista dal Programma nazionale di riforma (vedi la sezione III del DEF) in termini di aumento del PIL potenziale. Su questa base essa calibrerà lo «sconto» sul percorso di riduzione del deficit strutturale.
  Solo nella misura in cui le così dette riforme strutturali sono credibili e fanno crescere il Pil potenziale, anche a costo di una temporanea contrazione dello stesso, è possibile intercettare la nuova flessibilità dei conti pubblici introdotta con la riforma (di gennaio) del Patto di stabilità e sviluppo europeo. Un giudizio eminentemente politico.
  Provate, infatti, a valutare l'effetto di lungo periodo, in media 5-10 anni, delle riforme. L'unica certezza è quella di una contrazione del PIL e del reddito disponibile, in ragione di un potenziale e mai esattamente valutabile miglioramento dell'andamento economico.
  Infine, l'Esecutivo spera ad una maggiore crescita del PIL rispetto a quella che metterà in bilancio già a partire dal 2015.
  Secondo il Governo, l'effetto complessivo legato agli interventi strutturali valgono 0,4 punti del Pil per il 2016. L'effetto espansivo – sempre secondo l'esecutivo – si dilaterà ulteriormente negli anni successivi quando il dispiegarsi di tutti gli effetti delle riforme peserà per l'1,8 per cento sulla crescita del Pil reale nel 2020. Sui saldi di finanza pubblica tale effetto espansivo producono un deterioramento temporaneo. L'indebitamento netto dovrebbe conseguentemente peggiorare di mezzo punto l'anno venturo, con un rapporto debito/Pil in crescita dello 0,6 per cento.
  L'impatto previsto a medio termine (2020):
   0,6 per cento del Pil dal Jobs Act;
   0,4 per cento, rispettivamente, dalla riforma della PA e dagli interventi per la competitività;
   0,3 per cento dalla riforma della «Buona scuola»;
   0,1 per cento dalla riforma della giustizia.

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  La clausola di flessibilità relativa alle riforme strutturali dovrebbe essere nel 2016 pari allo 0,4 per cento. L'impatto sarebbe crescente fino a raggiungere l'1,8 per cento nel 2020. Anche se si prevede un «temporaneo deterioramento» degli indicatori di finanza pubblica.

Le stime sulla crescita
  Le stime del Governo non sono perfettamente in linea con le previsioni degli organismi nazionali e internazionali, ad esempio il FMI e la Banca d'Italia (per il solo 2015) hanno stimato un aumento dello 0,5 per cento del PIL nel 2015 e dell'1,1 per cento nel 2016. Le stime degli altri organismi prevedono per il 2016 al massimo una crescita per l'Italia dell'1,3 per cento, comunque leggermente inferiore a quanto previsto dal nostro esecutivo. L'Ufficio parlamentare di bilancio, in sede di validazione delle previsioni, ha parimenti osservato la troppo ottimistica previsione del MEF relativa alla crescita e in particolare quella relativa alla dinamica sui consumi delle famiglie che non sembra sufficientemente supportata da un adeguato aumento dell'occupazione, e relativa alla crescita degli investimenti in macchinari non sostenuta da un sufficiente miglioramento dell'andamento delle esportazioni e degli investimenti.
  Al momento, e in attesa di quantificare più nel dettaglio sia l'effetto delle variabili esterne (dal quantitative easing al calo dei tassi), sia le variabili interne (l'impatto delle riforme in termini di incremento del Pil potenziale), il governo si attesta su una linea di attesa. Per il Pil, si va verso lo 0,7 per cento, target leggermente superiore allo 0,6 per cento stimato a fine 2014. Nel 2016, la crescita dovrebbe consolidarsi in 1,4 per cento con il deficit che resterebbe fermo quest'anno al 2,6 per cento, per ridursi nello scenario programmatico attorno all'1,8 per cento nel 2016.
  Ma le stime del Governo sono perfettamente in linea con le previsioni degli organismi internazionali (Vedi Tabella): i quali per il 2016 prevedono al massimo una crescita per l'Italia del 1,3 per cento, comunque leggermente inferiore a quanto previsto dal nostro esecutivo.
  In realtà, il Governo spera in una crescita dell'1 per cento nel 2015 e del 1,5 per cento nel 2016.
  Il PIL programmatico per il 2016 (- 6 miliardi) e il 2017 (- un miliardo) è leggermente inferiore al PIL tendenziale. Solo nel 2018 si prevede un leggero scostamento positivo ( 5 miliardi). Come se le politiche del governo non avessero, per ammissione dello stesso esecutivo, alcun impatto positivo sulla crescita, almeno nell'immediato.

CRESCITA
(Variazioni percentuali)

2014 2015 2016
Banca d'Italia (gen.) (1) -0,4 0,4 1,2
Commissione europea (feb.) (2) -0,5 0,6 1,3
FMI (gen.) (3) -0,4 0,5 1,1
OCSE (Mar.) (4) -0,4 0,2 1,0
Consensus (mar.) (5) -0,4 0,6 1,1
Governo 1 (ott.) (6) 0,6 1,0
Governo 2 (apr.) (7) 0,7 1,4

  (1) Fonte: Bollettino Economico n.1, gennaio 2015. Dati del PIL corretti per il numero di giornate lavorative.
  (2) Fonte: European Economic Forecast - Winter 2015.
  (3) Fonte: World Economic Outlook Update, aprile 2015.
  (4) Fonte: OECD Economic Outlook, marzo 2015. Dati del PIL corretti per il numero di giornate lavorative.
  (5) Fonte: Consensus Forecasts, 9 marzo 2015.
  (6) Fonte: aggiornamento DEF 2014.
  (7) Fonte: DEF 2015.

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  In ogni caso, la crescita dell'Italia è strutturalmente più bassa della media europea di un punto percentuale e con il passare degli anni la distanza diventa sempre più ampia, malgrado le cd. «riforme strutturali» realizzate.
  Dalla tabella che indica il quadro programmatico degli indicatori di finanza pubblica si evidenzia che il PIL programmatico è leggermente inferiore al PIL tendenziale sia per il 2016 (- 6,2 miliardi) che per il 2017 (- 1,4 miliardi) e solo nel 2018 si prevede un leggero scostamento positivo ( 4,8 miliardi), come se le politiche del governo non avessero, per ammissione dello stesso esecutivo, alcun impatto positivo sulla crescita, almeno nell'immediato.
  Come di consueto in tutti i Documenti di economia e finanza degli ultimi anni e anche nell'attuale si avanzano previsioni del rapporto tra debito e PIL crescenti nel primo anno di riferimento del documento, ovvero nel nostro caso nel 2015 da 132,1 a 132,5 per cento, per poi scendere significativamente nel biennio successivo nel nostro caso nel 2016 e 2017 a 130,9 e 127,4. Secondo il Documento a tale riduzione contribuiranno in maniera decisiva anche le privatizzazioni e le dismissioni del patrimonio immobiliare pubblico; «ciò consentirà» si spiega nella Premessa «di rispettare la regola del debito prevista dalla normativa europea e nazionale.
  Il Premier ha annunciato che nel DEF «non ci sono tagli e non ci sono aumenti delle tasse». Ma è proprio così ?

Nessun taglio ?
  La partita più impegnativa si conferma quella con i tagli strutturali alla spesa corrente. Nel DEF si cifra il nuovo intervento in cantiere in 9,6 miliardi, destinati integralmente a disinnescare le clausole di salvaguardia (per il resto si farebbe fronte con il risparmio atteso dalla discesa dei tassi e dello spread).
  Ma saranno realmente realizzati ? I precedenti ci lasciano perplessi. Servirà dunque per gli occhiuti controllori di Bruxelles una nuova clausola di salvaguardia ? Infatti, malgrado la manovra 2015 prevedesse, ad esempio, tagli ai ministeri nell'anno in corso per 2,3 miliardi, adesso si prevede una riduzione di 1,5 miliardi, mentre la maggior parte dei tagli si è concentrata su Regioni e enti locali.
  Si punta tuttavia anche più in alto. Qualora i risparmi della spending review dovessero risultare più corposi, con la crescita più sostenuta e le riforme in gran parte realizzate, l'intenzione – confermano fonti governative – è di utilizzare il margine aggiuntivo per interventi diretti alla riduzione della pressione fiscale, in primo luogo sul lavoro.
  Il ricorso a parte del maggior deficit nominale servirebbe a finanziare interventi, anch'essi qualificati come fondamentali per il sostegno alla crescita, tra cui la conferma (con criteri forse più selettivi) della decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato.

«La spending review
  Si tratta di tagli per 9,6 miliardi. 7,2 miliardi di riduzione della spesa e 2,4 miliardi da una revisione delle agevolazioni fiscali. Ma saranno realmente realizzati ? Infatti, la manovra sulla spesa del 2015 è passata dai seguenti tagli ai ministeri:
   2015 – 2,3 miliardi;
   2016: – 2,4 miliardi;
   2017: – 2,5 miliardi.
  ai seguenti:
   2015: – 1,5 miliardi;
   2016: – 2,2 miliardi;
   2017: – 2,3 miliardi.

  Mentre la maggior parte dei tagli si è concentrata su Regioni e Enti locali per 5,2 miliardi.
  Stante il conto economico trimestrale diffuso dall'Inps la revisione della spesa non riesce a scalfire la spesa pubblica. Nel periodo ottobre-dicembre 2014, le uscite totali sono cresciute del 2,6 per cento. In termini tendenziali, rispetto allo stesso Pag. 14 periodo del 2013, con un'incidenza in rapporto al Pil del 57,6 per cento contro il 56,1 per cento. Mentre nel totale del 2014, l'aumento tendenziale per le uscite totali è pari al 51,1 per cento del Pil contro il 50,9 per cento del 2013. E questo malgrado, nell'ultimo trimestre del 2014, la riduzione dello 0,8 per cento dei redditi da lavoro dipendente e del 4,6 per cento degli interessi sul debito.
  La Corte dei Conti nel suo ultimo rapporto su «Le prospettive della finanza pubblica dopo la legge di stabilità» (2015) segnala come la spesa corrente primaria sia indicata in aumento nel 2014-2017 per l'1,2 per cento medio annuo nel totale delle amministrazioni pubbliche e per l'1,9 per cento se si guarda solo alle amministrazioni centrali.
  L'aumento delle entrate per circa 5 miliardi ha parzialmente compensato l'incremento della spesa, consentendo in tal modo di chiudere il 2014 con un indebitamento netto al 3 per cento del Pil, dunque sul limite massimo previsto dalla disciplina di bilancio UE.
  Ora nel mirino ci sono:
   1) Regioni e enti locali con la cura a base di costi e fabbisogni standard;
   2) lo sfoltimento della giungla delle partecipate a cominciare dal trasporto pubblico locale e dalla raccolta dei rifiuti;
   3) la razionalizzazione degli immobili pubblici (dagli spazi utilizzati per gli uffici agli affitti);
   4) la centralizzazione acquisti di beni e servizi;
   5) l'ulteriore stretta sulle pensioni di invalidità;
   6) il riordino delle tax expenditures (agevolazioni fiscali);
   7) il riordino degli incentivi alle imprese;
   8) i dipendenti pubblici.

Privatizzazioni e Spending review 2
  Nel programma sono reiterate le solite privatizzazioni per il triennio 2015-17. È un programma datato, ma sempre utile per dire che ci sono ancora proprietà pubbliche da svendere, anche se l'obbiettivo vero sono le 8.000 public utility che nelle intenzioni del governo dovrebbero diventare non più di 1.000. Una sfida rilevante e solo in parte giustificata.
  L'intervento sulle partecipate degli enti territoriali non produce effetti immediati. Si potranno vedere nel medio periodo, e dunque è illusorio pensare che la riduzione del numero delle società partecipate possa dare consistenti riduzioni di spesa nel 2016.
  Il DEF prevede una riduzione degli introiti da privatizzazione: dismissioni di partecipazioni in società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato attraverso piani di privatizzazioni annuali con una stima di entrate nel 2014 pari allo 0,28 per cento del Pil; nel 2015 le previsioni passano dallo 0,7 per cento al 0,41 per cento; per gli anni 2016 e 2017 dallo 0,7 per cento allo 0,5 per cento del Pil, e allo 0,3 per cento nel 2018 per un totale di 1,7 per cento del PIL che corrisponde a circa 2,8 miliardi in quattro anni. L'apporto che le privatizzazioni hanno fornito e possono fornire al risanamento del debito pubblico appare quantitativamente modesto, se non addirittura irrisorio allorquando in un'ottica dinamica si confrontino i rendimenti delle partecipazioni con il costo debito pubblico. Si riconferma quindi la convinzione che il processo di dismissione delle partecipazioni pubbliche segue esclusivamente un'ottica miope e in scia alle imposizioni dell'Europa venendo incontro con cifre ridicole ad esigenze immediate di riduzione del debito pubblico, obliando un'ottica di lungo periodo mirante ad un risanamento strutturale della finanza pubblica. Il tutto è aggravato dalla circostanza che si tratta per lo più di imprese fornitrici di servizi di pubblica utilità (Poste italiane, Enav, Enel, Ferrovie dello Stato).
  Le dismissioni del patrimonio immobiliare dello Stato sono state indicate dalle Pag. 15 prime leggi degli anni ’90 agli ultimi annunci del governo come la panacea per fare cassa e contrastare l'aumento del debito pubblico. Secondo il Documento nel 2015 il governo è pronto a mettere sul mercato il patrimonio immobiliare alloggiativo della Difesa per circa 700 immobili con una stima di introito di 220 milioni nel 2015 e 100 milioni per ciascuno degli anni 2016 e 2017. Mentre della svendita del resto del patrimonio pubblico, incluse le caserme inutilizzate, non si dà conto. Le cifre indicate intanto sono ridicole, a fronte del livello raggiunto dal nostro debito pubblico, e inoltre assolutamente illusorie se consideriamo che nonostante le promesse di vendite miliardarie fatte dai vari governi, negli ultimi 5 anni, il Demanio ha dismesso beni per soli 660 milioni. La crisi, contraendo i prezzi e le compravendite del mercato immobiliare, si è riflessa negativamente nelle vendite degli immobili degli enti, tanto che la percentuale di vendita è scesa dal 60 per cento nel 2003 al 17 per cento nel 2012. Ulteriore negativa conseguenza della crisi, oltre il crollo dei prezzi è la lievitazione dei costi di gestione che hanno finito paradossalmente per gravare ulteriormente sul debito.
  Anche quanto fatto nel 2014 è paradossale: immobili spostati da enti previdenziali a CDP a fine dicembre in modo concitato.
  A compensazione, sulla dinamica del debito, vi è stata la più bassa rivalutazione dei titoli indicizzati, che va direttamente sul debito, a causa della bassissima inflazione del 2014.
  La partita più impegnativa si conferma quella con i tagli strutturali alla spesa corrente. La centralizzazione degli acquisti prevede un risparmio nel 2016 pari a 1,5-2 miliardi in seguito alla completa attuazione del nuovo sistema basato su sole 35 stazioni appaltanti (anche se ci sono ritardi nell'emanazione dei decreti attuativi di questa misura già prevista sia dal DL 80 euro che dalla legge di stabilità 2015). L'operazione, secondo il Governo sarà completata in autunno e a pieno regime dal 1o gennaio 2016. Nel 2014 gli acquisti di beni e servizi tramite la Consip sono stati pari a 38 miliardi. Nel corso del biennio 2015-2016 si prevede di arrivare alla gestione centralizzata di 50 miliardi di acquisti di beni e servizi (più del 50 per cento della spesa dell'insieme della PA «appaltabile» pari a circa 90 miliardi).

Il rapporto Cottarelli
  Un anno dopo la loro consegna, il governo ha pubblicato su un sito web liberamente accessibile la relazione riassuntiva dell'allora commissario per la revisione della spesa Carlo Cottarelli e i tanti file che riassumono il lavoro dei venti gruppi che vi hanno collaborato.
  Le aree coperte nei vari rapporti sono: investimenti pubblici, organizzazione della pubblica amministrazione, costi della politica, acquisti di beni e servizi, immobili pubblici, pubblico impiego, partecipate locali, fabbisogni e costi standard, province, comuni, regioni più nove ministeri (sviluppo economico, infrastrutture, economia, difesa, sanità, giustizia, lavoro, esteri, interno). Un totale di 803 pagine (72 dal rapporto Cottarelli e 731 dai rapporti dei venti gruppi di lavoro) di slide, analisi e proposte.
  C’è la relazione riassuntiva di Cottarelli, a disposizione del governo da molti mesi e con indicazioni per ora rimaste nel cassetto: la politica ha probabilmente giudicato troppo «politico» il rapporto riassuntivo del «tecnico» Cottarelli.
  Rimangono allora le 731 pagine dei rapporti di lavoro, forse più tecnici. Qui il guaio è che i file dei gruppi di lavoro di Cottarelli non sono la Treccani della spending review. In molti casi le relazioni sono di grande utilità, perché includono un riassunto e vari allegati in cui le proposte sono descritte con precisione. In altri, però, le proposte sono incomplete e delineate solo per capitoli.
  Gli squilibri di impianto e stesura sono molto evidenti nel caso dei rapporti sui ministeri. Quelli su sanità e lavoro sono dettagliati, rispettivamente su 94 e 101 pagine. Il rapporto sulla giustizia è invece di tre pagine e contiene solo una tabella Pag. 16 con l'indicazione dei potenziali risparmi di spesa, senza commenti e senza allegati. Il rapporto relativo al ministero dell'Economia è di quattro pagine, con tante parole e pochi numeri. Il documento rimanda a un allegato non pubblicato.
  Se poi si guarda lo schema grafico della distribuzione dei compiti tra i vari gruppi si trova una lista di tredici ministeri. I rapporti ministeriali scaricabili sono invece solo nove: all'appello mancano beni culturali, politiche agricole, istruzione e università e ambiente.
  Gli stessi squilibri si trovano anche nei rapporti cosiddetti «orizzontali» tra enti pubblici: otto pagine su pubblico impiego e investimenti pubblici, centosette pagine sui costi della politica, un vero e proprio libro comprensivo di una pagina di ringraziamenti. E poi ci sono sovrapposizioni tra un rapporto e l'altro, come è inevitabile che sia data la procedura di raccolta dal basso delle indicazioni. Ad esempio, il file che si occupa dei costi della politica parla di come tagliare le spese per il funzionamento di comuni e regioni. Ma dello stesso argomento hanno trattato anche, con punti di vista diversi, i partecipanti ai gruppi specializzati, rispettivamente, nell'analisi di comuni e regioni.
  I piani di revisione della spesa pubblica intrapresi negli ultimi anni (quello di Cottarelli è venuto dopo quelli di Piero Giarda e di Enrico Bondi) hanno sofferto di un problema irrisolto: descrivere le riduzioni di spesa come fossero una questione tecnica, chirurgica, mentre il problema era ed è politico.
  Fino a che la politica dà in appalto ai tecnici la stesura di un listone di cose da fare, anche radicali, non si va da nessuna parte. Le listone dei chirurghi dei tagli sono montagne che hanno finora partorito solo il topolino della listina di spesa «aggredibile». Con l'unico risultato che la spesa pubblica in percentuale sul Pil è aumentata di tre punti dal 2003 a oggi, per un totale di cinquanta miliardi in più.

I tagli hanno colpito soprattutto gli enti territoriali
  Da un recente studio della Cgia di Mestre emerge che i ministeri dal 2009 ad oggi avrebbero subito solo 6,4 miliardi di tagli, mentre le misure di austerità sarebbero costate agli enti locali e territoriali 26,4 miliardi. In compenso è salito di molto il peso delle tasse locali, che gravano sui cittadini con un aumento della pressione fiscale sempre elusa nelle analisi del Governo: solo nel 2014 i tributi regionali sono saliti di quasi il 4 per cento e quelli comunali del 9 per cento.

TAGLI AI TRASFERIMENTI DELLE AUTONOMIE LOCALI
(in milioni di euro)

2011 2012 2013 2014 2015
REGIONI
a Statuto Ordinario
4.000 5.200 5.500 6.000 9.752
REGIONI
a Statuto Speciale
0 1.520 2.120 2.620 3.343
PROVINCE 300 1.415 2.115 2.560 3.742
COMUNI 1.500 4.450 6.200 6.826 8.313
TOTALE 5.800 12.585 15.935 18.005 25.150

  L'ISTAT, nella sua audizione del 21 aprile 2015 sul Documento di economia e finanza presso le Commissioni bilancio del Senato e della Camera, ha dato cifre ben precise e assolutamente preoccupanti. L'ISTAT ci dice che il peso delle imposte Pag. 17 dirette e indirette dei comuni sulle entrate totali è salito dal 27,1 per cento del 2011 al 43,8 per cento del 2014. L'ISTAT afferma, inoltre, che contemporaneamente la spesa sociale è diminuita rispetto al 2010 del 4 per cento, oltre un miliardo di euro. Sulle entrate totali dei comuni i trasferimenti da parte dello Stato sono scesi del 17 per cento in quattro anni.
  C’è da augurarsi che l'allentamento dei vincoli generali di finanza pubblica e la consapevolezza della sproporzione degli oneri richiesti ai comuni possano riaprire il percorso di superamento del Patto di stabilità e di autonomia finanziaria locale di cui il Paese ha bisogno.
  È ancora in corso la trattativa riguardante i tagli previsti dalla legge di stabilità del 2015 e pari a oltre tre miliardi. I problemi sono molteplici e riguardano:
   il contributo alla manovra 2015 delle Città metropolitane, contributo che necessita di un riequilibrio del carico tra le varie città (la versione definitiva ha alleggerito il carico comunque fino a quota 256 milioni). I tagli infatti si scaricano per oltre il 75 per cento su Roma, Firenze e Napoli;
   la riforma del Patto di stabilità e delle sanzioni per chi lo ha sforato nel 2014 in particolare per la Città metropolitane che hanno ereditato tale sforamento dalle Province;
   la replica del fondo perequativo IMU-Tasi di 625 milioni, risorse distribuite l'anno scorso a 1.800 Comuni, essendo il fondo previsto per il solo 2014 ed essendo però la local tax rinviata al 2016;
   lo stanziamento di maggiori ed adeguate risorse finanziarie da parte del governo da destinare all'eventuale scostamento tra il gettito effettivamente riscosso dai comuni e le stime ministeriali del gettito atteso in relazione al nuovo regime di imponibilità dei terreni montani di cui al decreto-legge n. 4 del 2015 come modificato dalla legge di conversione n. 34 del 2015 (c.d. Imu agricola), al fine di evitare scompensi sugli equilibri dei bilanci di competenza 2014 e i conseguenti rischi di mancato rispetto del Patto si stabilità da parte degli enti locali;
   ed inoltre, la questione delle Province e del loro dipendenti (l'UPI denuncia che anche le poche Province che riusciranno a chiudere i bilanci nel 2015 non riusciranno a farlo nel 2016) per la parte che concerne l'assorbimento di tale personale da parte delle Città metropolitane e dei Comuni.

  Secondo il Governo nella legge di stabilità 2016 non ci saranno tagli ulteriori per Regioni ed enti locali. Ma è un'affermazione collegata ai soli tagli diretti, quelli intesi come minori trasferimenti, o minori risorse utilizzabili dalle Regioni e dai Comuni. La revisione della spesa, tuttavia, non è solo questo: ci sono i tagli alla sanità, al trasporto pubblico locale, alla raccolta rifiuti ed il riordino delle partecipate. Una buona parte delle «Spending review 1 e 2» rischia di abbattersi sulla sanità e in generale sui servizi ai cittadini sul territorio.
  Con la radicale revisione dell'impostazione del Patto per le regioni a statuto ordinario, sin ora basato sul controllo della spesa finale con l'esclusione di quella sanitaria, è previsto l'anticipo al 2015 dell'equilibrio tra entrate e spese finali nella fase di rendicontazione del bilancio. È inoltre previsto un incremento del contributo di 3,5 miliardi annui nel periodo 2015-2018 per le regioni a statuto ordinario e di circa mezzo miliardo ogni anno per le regioni a statuto speciale e le province autonome. Le regioni a statuto ordinario assicureranno l'equilibrio anche in termini di previsione dal 2016. Tale revisione del Patto e l'aumento del contributo porteranno inevitabilmente a un ulteriore contenimento della spesa sanitaria e a un conseguente peggioramento dei servizi offerti ai cittadini.

Come si può risparmiare sulla salute ?
  Già con la legge di stabilità 2015 circa 2,3 miliardi vennero ricavati dai tagli al sistema sanitario. Ora si parla eufemisticamente di «razionalizzazione della spesa Pag. 18 sanitaria», ma nei 7,2 miliardi di riduzione della spesa, una quota sarà a carico della sanità (circa 2,6 miliardi). Rimane in piedi la trattativa riguardante l'attuazione dei tagli previsti dalla legge di stabilità del 2015 pari a oltre tre miliardi.
  Il Documento di economia e finanzia propone tagli di una decina di miliardi, e tra questi i 2,352 al Fondo sanitario nazionale. Di sviluppo e crescita c’è poco o nulla.
  Come volevasi dimostrare il contributo che il Governo con la legge di stabilità 2015 ha imposto alle regioni per il contenimento della spesa pubblica, e che si somma ai tagli previsti dalle altre misure finanziarie precedenti (per complessivi quasi 5,9 miliardi), si tradurrà in un nuovo pesante taglio alla sanità pubblica.
  L'onere della manovra a carico del Servizio sanitario nazionale è stato quindi fissato in circa 2,352 miliardi a decorrere dal 2015, con conseguente riduzione di pari importo del livello di finanziamento del SSN.
  In realtà, il totale dei tagli è di 2,637 miliardi, in quanto ai 2,352 miliardi di minore stanziamento del fondo sanitario, stabilito dall'intesa Stato Regioni del 26 febbraio scorso, si sommano i 285 milioni in meno per l'edilizia sanitaria, previsti anch'essi dall'intesa di febbraio.
  Le previsioni del DEF sulla spesa sanitaria, stimano una crescita inferiore a quella del PIL, con un calo dal 6,8 per cento del 2015 al 6,5 per cento dell'anno 2019, fino a raggiungere il punto più basso nel 2020 (6,6 per cento) nel rapporto fra spesa sanitaria e PIL.
  Il governo prosegue con la politica dei tagli al Servizio sanitario, senza ricordare che la spesa sanitaria pubblica italiana risulta inferiore a quella dei principali Paesi europei: poco meno di 2.500 dollari pro capite nel 2012, a fronte degli oltre 3.000 spesi in Francia e Germania.
  Si rammenta che la stessa Corte dei Conti, nella sua recente «Relazione sulla gestione finanziaria per l'esercizio 2013 degli enti territoriali», ha ricordato come «Ulteriori risparmi, ottenibili da incrementi di efficienza, se non reinvestiti prevalentemente nei settori dove più carente è l'offerta di servizi sanitari, come, ad esempio, nell'assistenza territoriale e domiciliare oppure nell'ammodernamento tecnologico e infrastrutturale, potrebbero rendere problematico il mantenimento dell'attuale assetto dei LEA, facendo emergere, nel medio periodo, deficit assistenziali, più marcati nelle Regioni meridionali, dove sono relativamente più frequenti tali carenze».
  Il DEF 2015 in esame, conferma ancora una volta come si sia lontani dall'uscire dal paradigma dei tagli ed entrare in quello della qualità. In questi ultimi anni, il nostro paese è diventato più diseguale sul piano della garanzia delle cure, con territori periferici che negli anni si sono visti sottrarre servizi, tagliare prestazioni sanitarie e sociali, depauperare il sistema di protezione sociale. Con un sistema di prevenzione sempre più impoverito.
  Non si prevedono risorse aggiuntive per lo sviluppo della rete territoriale finalizzata principalmente alla prevenzione, alla deospedalizzazione e a garantire in maniera uniforme su tutto il nostro territorio nazionale l'appropriatezza delle prestazioni. Investire oggi sulla prevenzione, l'assistenza domiciliare e territoriale, e sulla razionalizzazione delle reti ospedaliere, nella consapevolezza che questi ambiti possono davvero consentire nel prossimo futuro importanti risparmi al SSN, oltre che evidenti benefici alla collettività.
  In questo ambito vale la pena segnalare come il decreto legge 95/12, aveva previsto una razionalizzazione della rete ospedaliera favorendo l'assistenza residenziale e domiciliare. Ebbene a quasi tre anni da quel decreto non è stato ancora emanato il regolamento che doveva fissare gli standard relativi all'assistenza ospedaliera. Lo schema di regolamento che il governo aveva predisposto e inviato al Consiglio di Stato, è stato da questi «bocciato» il 6 novembre scorso, che ne ha chiesto la sua completa riscrittura.

Dipendenti pubblici: riduzione del personale e nessun rinnovo dei contratti per 9 anni
  Per i dipendenti pubblici si profila un ulteriore rinvio del rinnovo del contratto Pag. 19 fino al 2019, anno nel quale si ipotizza il pagamento della così detta indennità di vacanza contrattuale relativa al triennio 2019-2021. Il blocco dei contratti pubblici durerà dunque 9 anni (dal 2008 al 2019).
  Il DEF indica inoltre un calo delle spese per il personale dal 10,1 per cento del Pil nel 2014 al 9 per cento del 2019 con ciò configurando un calo del numero di personale dipendente dalla PA o del monte stipendi equivalente, in linea con quanto previsto dalla Riforma delle amministrazioni pubbliche, attualmente in discussione al Senato, che fa intravedere, nell'ambito di criteri e principi estremamente ampi, vaghi e generici, la possibilità di contenimento delle assunzioni e di licenziamento, oltre che della dirigenza, anche del personale dipendente e della modifica delle regole che sono alla base della contrattazione collettiva. In termini equivalenti e tenendo conto della prevista crescita del Pil nel periodo, si tratta di 0,8 punti, vale a dire circa 13 miliardi di euro in meno su una spesa che l'anno scorso ha sfiorato i 164 miliardi.

La pressione fiscale cresce
  Le eventuali riduzioni di aliquote fiscali per il 2016 saranno possibili solo «se ci saranno le condizioni», si afferma nel DEF. Sembra che il ritardo dell'adozione del DEF 2015 da parte del Consiglio dei ministri sia stato dovuto alla necessità propagandistica del Premier di chiarire che la curva della pressione fiscale sia decrescente. Una nota a piè di pagina della prima versione è stata così trasformata in un Focus «Pressione fiscale: un profilo decrescente». Peccato che i dati delle tabelle restano quelli originari e rigorosamente legati – come è giusto – ai criteri di contabilità pubblica e non ai desiderata del Premier: la pressione che parte dal 43,5 per cento del 2015 salirà fino al 44 per cento del 2018 ed al 43,7 per cento del 2019. Con buona pace delle slides renziane.
  In realtà, le dichiarazioni dei redditi presentate nel 2014 certificano un aumento della tassazione del 9,3 per cento in più rispetto alle dichiarazioni 2008, mentre nello stesso periodo i redditi sono aumentati del solo 5 per cento. Pesa l'effetto delle addizionali locali alle quali gli enti territoriali sono costretti per via dei tagli ai trasferimenti e per non dover chiudere servizi essenziali.
  Da metà 2014, il bonus da 80 euro segna un'inversione di tendenza molto parziale: vale un po’ meno di 9 miliardi all'anno, mentre i rincari cumulati dall'Irpef ne valevano già 14,3 miliardi l'anno scorso. Di fatto il bonus è stato più che pagato con l'aumento delle tasse locali.
  Dalla riduzione delle agevolazioni fiscali si ipotizza che ne deriveranno risparmi per complessivi 2,4 miliardi. Si tratta a tutti gli effetti di un aumento della pressione fiscale.
  Una revisione della spesa troppo accentuata rischia, peraltro, di essere controproducente in quanto avrebbe una ricaduta recessiva sull'economia.
  Per il riordino delle agevolazioni sarà adottato un decreto delegato (Vedi delega fiscale) annuale che preveda da parte del governo la redazione di un rapporto sulle detrazioni fiscali da allegare al DdL di bilancio. Tale rapporto dovrà identificare le detrazioni non giustificate da esigenze sociali o economiche o che costituiscono una duplicazione al fine di eliminarle o riformarle, salvaguardando tuttavia la tutela dei redditi da lavoro dipendente e autonomo, dei redditi di imprese minori e dei redditi di pensione, della famiglia, della salute, delle persone economicamente o socialmente svantaggiate.
  Il punto di partenza per le tax expenditures sarà il Rapporto Vieri che nel 2011 aveva inventariato ben 720 agevolazioni fiscali per un valore di 253 miliardi l'anno.
  Per gli incentivi alle imprese si parte dalla ricognizione che nel 2012-2013 fu messa a punto dalla Commissione Giavazzi. In quel documento si prevedeva un potenziale intervento fino a 10 miliardi. Ma le sue tesi suscitarono polemiche in quanto toccava trasferimenti alle FS e ad altre società di servizi pubblici, collegati ai contratti di servizio.
  C’è anche il rischio che siano ridotti gli incentivi destinati a sollecitare il recupero Pag. 20 edilizio ed il risparmio energetico, come del resto il Governo ha già provato a fare in altri provvedimenti.

Anche la disoccupazione continuerà a crescere
  Nel DEF l'occupazione non registra grandi scostamenti. Non si trova traccia di un piano per creare lavoro. Come l'Istat ha confermato, il lavoro che arriva dalle agevolazioni alle imprese e dal Jobs act è solo lavoro sostitutivo. Per il momento il saldo occupazionale è zero, i dati dell'Inps al riguardo sono impietosi indicando un aumento ridicolo di soli 13 contratti in un anno ( !) che smentisce ogni facile trionfalismo. Nei primi due mesi dell'anno aumentano i contratti a tempo indeterminato del 12,3 per cento considerando anche le trasformazioni di rapporti a termine e apprendisti, ma diminuiscono quelli a termine del 7 per cento e in apprendistato dell'11,3 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso portando di fatto a zero la variazione dell'occupazione sul 2014.
  Il Fondo monetario internazionale dà la disoccupazione nel nostro Paese pari al 12,6 per cento nel 2015 ed al 12,3 per cento nel 2016, mentre il governo si vende un molto ottimistico 12,3 per cento quest'anno ed addirittura l'11,7 per cento nel 2016.
  Purtroppo, però, la disoccupazione continuerà a crescere, in particolare quella giovanile. Secondo le previsioni di molti ed in particolare quelle della Banca centrale europea (Bce), pubblicate a metà marzo, l'economia dell'eurozona dovrebbe tornare gradualmente al suo indice di crescita storico del 2 per cento (il cosiddetto potenziale) nel 2017. Ma se si guarda all'ultima riga della tabella pubblicata dalla Bce, c’è un numero che getta un'ombra nera su questa ripresa. Nel 2017 il tasso di disoccupazione sarà del 9,9 per cento, neanche due punti più basso di quello di oggi. Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera del 27 marzo 2015 ha scritto che poiché questo corrisponde alla crescita potenziale, la previsione implica che, nell'eurozona, il cosiddetto tasso «naturale» di disoccupazione, cioè quello che si realizzerà quando tutti gli occupabili avranno trovato lavoro, è quasi del 10 per cento. Questo 10 per cento non scomparirà con la ripresa e per quanto definito naturale nel linguaggio tecnico, di naturale ha ben poco e a questo 10 per cento si aggiungono le persone che non cercano un impiego attivamente in quanto scoraggiate, e si considera che questo numero è composto in gran parte di disoccupati da lungo tempo, stiamo quindi dicendo che la zona euro, una delle più ricche economie del pianeta, dovrà imparare a convivere con un esercito di esclusi dal mercato del lavoro. Questi sono i numeri di tutta l'eurozona: Nord e Sud. L'Italia è messa ben peggio. Nonostante oggi il nostro tasso di disoccupazione sia appena superiore a quello della zona euro, la sua composizione è terrificante: 40 per cento di disoccupati tra i giovani, con una concentrazione molto alta nel Mezzogiorno e tra i senza lavoro di lunga durata. La crisi per noi è stata molto costosa: dal 2007 il numero dei disoccupati è praticamente raddoppiato, passando da 1,76 milioni a 3,4 milioni e, purtroppo, è destinato a crescere, in particolare per quanto riguarda i giovani. Infatti, il FMI (Country Report n. 14/199, Euro Area Policies 2014 Article IV Consultation, Selected Issues, Luglio 2014) ha spiegato che per far scendere la disoccupazione giovanile in Italia servirebbero tassi di crescita doppi o tripli rispetto a quelli attuali. Secondo la Commissione UE (MEMO «The EU Youth Guarantee», 8 ottobre 2014), un tasso di crescita inferiore all'1,5 per cento fa correre la crescita della disoccupazione giovanile. In tale contesto, l'Italia – insieme ad altri Paesi europei – sta letteralmente bruciando oltre un miliardo e mezzo di risorse per il piano Youth guarantee (Piano per i giovani), che la Corte dei conti europea il 24 marzo ha criticato per come si sta realizzando e che rischia di essere un fallimento se non vi saranno cambiamenti sostanziali del piano.
  Il DEF dà per realizzate alcune misure previste nel Jobs act, ma che in realtà sono Pag. 21 finanziate in via sperimentale solo nel 2015. Non sono infatti previsti finanziamenti per il decreto legislativo dedicato alla conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, né per il decreto attuativo concernente gli ammortizzatori sociali nel quale non si prevedono finanziamenti a decorrere dal 2016 per l'estensione di ASDI e DIS-Coll.
  Ed invero il Jobs Act si è già rivelata un'operazione di lifting normativo che toglie forza negoziale ai lavoratori ed individua risposte sbagliate ad una crisi occupazionale che trova la sua causa principale non tanto nelle supposte rigidità del mercato del lavoro quanto piuttosto nel perdurante calo della domanda interna.
  La generalizzazione della precarietà e la liberalizzazione de facto dei licenziamenti che decreto legislativo sulle cc.dd. «tutele crescenti» da una parte e c.d. decreto Poletti sul contratto a termine dall'altra determineranno, daranno definitivamente il colpo di grazia alle aspettative di un'intera generazione di giovani, peraltro già provata dalla legislazione degli ultimi 15 anni tutta improntata alla riduzione delle tutele e dei diritti anche retributivi dei lavoratori, che mal si concilia con l'obiettivo dichiarato nello stesso «Jobs Act» di promuovere forme di occupazione stabile attraverso forme di deregolamentazione del mercato che passino da una facilitazione, anzi peggio, legittimazione dei licenziamenti.
  Tutti gli indicatori economici insegnano, ed i primi dati già lo confermano, che non esiste una correlazione univoca e consequenziale tra la flessibilizzazione del mercato del lavoro e la crescita occupazionale, essendo quest'ultima strettamente legata ad una domanda di lavoro che, a sua volta, non dipende dalle condizioni dell'offerta, anche se precarie e a basso costo, del lavoro, ma dalle prospettive di vendita e di allocazione della produzione industriale. L'unico effetto ascrivibile semmai al Jobs Act è quello di incentivare il turn over, ma che se non corroborato da una reale ripresa economica, moltiplicherà il numero degli esclusi dal mercato del lavoro. Inoltre il Jobs Act, anche se combinato alle forme di decontribuzione previste nella legge di Stabilità 2015, come la deducibilità del costo del lavoro dal reddito ai fini Irap e lo sgravio contributivo per i primi tre anni di assunzione, non pare sufficiente, in costanza di una totale assenza di interventi pubblici e di politiche di sostegno agli investimenti e alla domanda aggregata, volti a stimolare l'innovazione diffusa dei processi produttivi, a determinare la tanto invocata crescita occupazionale, né s'intravede in esso, alcuna minima coerenza con la logica di fondo della c.d. norma-incentivo che è quella di indurre, con forme premiali o anche penalizzanti, comportamenti virtuosi che, altrimenti, non sarebbero spontaneamente adottati da imprese e operatori economici privati. Il rischio, in altri termini, e come dimostrato da taluni studi empirici sulle misure di incentivazione economica alla occupazione già promosse nel nostro Paese, è quello di avviare l'ennesimo piano occupazionale per sovvenzionare assunzioni che, comunque, sarebbero state avviate a prescindere dalla esistenza o meno di forme più o meno generose di esenzione contributiva.

Infrastrutture ed investimenti
  Il DEF indica che le grandi opere restano nel numero di 25 e i costi scendono da 76,3 a 69,2 miliardi con un risparmio stimato nel triennio di 7,1 miliardi.
  Ricordiamo che dal 2007 ad oggi in Italia abbiamo avuto un calo complessivo degli investimenti pubblici del 25 per cento. Un'enormità. Ci sarebbe inoltre l'intenzione di archiviare il primato della legge obiettivo, delle procedure straordinarie, della struttura di missione. Bene. Peccato però che alle indispensabili piccole opere degli enti locali andranno invece gli spiccioli: il Cipe ha approvato il finanziamento per soli 200 milioni di 137 piccole opere tra le migliaia segnalate dai sindaci.
  Il DEF inverte di posto la rotta: prevedendo un più 1,9 per cento nel 2015, 4,5 per cento nel 2016, 2,4 per cento nel Pag. 22 2017 (3,3 miliardi in più). Dopo anni di forti riduzioni questo è ben lungi da quello che servirebbe per rilanciare la crescita.

I tagli valgono il doppio per il Mezzogiorno
  Da un'analisi di Svimez sulla «Spending review e divari regionali in Italia» si evidenziano gli alti costi sopportati dal Mezzogiorno: dal 2001 al 2012 la spesa in conto capitale per le aree sottoutilizzate al Sud è scesa del 58 per cento e tale riduzione è continuata negli anni successivi, tanto che la spesa pubblica in conto capitale ha registrato al Sud riduzioni da due a tre volte in più rispetto al Centro-Nord: -1,6 per cento nel 2013 contro il -0,5 per cento del Centro-Nord; nel 2014 -1,9 per cento contro -0,7 per cento dell'altra ripartizione, arrivando nel 2015 a -2,1 per cento al Sud contro -0,8 per cento del Centro-Nord. Sempre secondo le stime Svimez «le manovre effettuate dal 2010 ad oggi dai vari Governi (il cui valore cumulato arriva a oltre 109 miliardi di euro nel 2014) in rapporto al Pil sono pesate più nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord. In particolare, il peso cumulato delle manovre sul Pil per il 2013 sarebbe del 6 per cento a livello nazionale, ma territorialmente le differenze sono assai più accentuate: 5,5 per cento nelle regioni centro settentrionali e 7,8 per cento in quelle meridionali. Stesse dinamiche negli anni successivi: per il 2014 l'impatto sul Pil è stimato al 6,5 per cento quale risultato del 5,9 per cento al Centro-Nord e dell'8,7 per cento al Sud. L'impatto della manovra sul Pil cresce ancora nel 2015, arrivando al 6,8 per cento a livello nazionale. Ma se al Centro-Nord il peso sul Pil si ferma al 6 per cento, al Sud sale fino al 9,5 per cento». Il DEF 2015 non prevede nessuna inversione di tendenza di tali politiche che hanno così fortemente penalizzato il Mezzogiorno.
  I dati sulla povertà in Italia sono drammatici: dal 2008 al 2014 la crisi in Italia secondo i dati Istat, ha raddoppiato e quasi triplicato i numeri della povertà relativa ed assoluta attestandosi a 10 milioni quelli in povertà relativa, il 16,6 per cento della popolazione complessiva, ed ad oltre 6 milioni, il 9,9 per cento della popolazione, in povertà assoluta. Ma oltre i dati relativi alla condizione specifica della povertà, dobbiamo comprendere nel computo finale tutte quelle fasce sociali a rischio povertà: dagli oltre 3,2 milioni di lavoratori e lavoratrici working poor ai precari, dagli over 50 senza alcun lavoro alle donne, dai migranti ai giovani, dagli anziani a coloro che hanno difficoltà abitative il numero dei soggetti a rischio potrebbe aumentare in maniera esponenziale. Nel 2013, il 12,6 per cento delle famiglie è in condizione di povertà relativa per un totale di 3 milioni 230 mila e il 7,9 per cento lo è in termini assoluti, 2 milioni 28 mila famiglie. Le persone in povertà relativa sono 10 milioni 48 mila persone, il 16,6 per cento della popolazione, mentre quelle in povertà assoluta sono 6 milioni 20 mila, il 9,9 per cento del totale della popolazione.
  Il DEF conferma che non c’è nessuna inversione di rotta, e nessuna efficace e credibile politica di reale contrasto alla povertà nel nostro Paese. Una vera emergenza che dura ormai da più di sette anni, e che colpisce fasce sempre più larghe della popolazione.

Si monetizza il welfare
  Le politiche del Governo continuano a privilegiare i trasferimenti monetari rispetto ad azioni strutturali e stabili e all'incremento dei fondi per le politiche sociali, per il sostegno alla famiglia ed all'infanzia, per la non autosufficienza.
  In questi anni, seppur dinanzi a una crisi economica sempre più forte, i fondi nazionali per il contrasto della povertà si sono sensibilmente ridotti (un miliardo e 536 milioni di euro dall'inizio della crisi al 2013).
  Accanto al rifinanziamento della «social card», l'Esecutivo ha introdotto il cd. «bonus bebé», un assegno per ogni figlio nato o adottato dal 1o gennaio 2015 fino al 2017, purché la condizione del nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente sia in condizione economica Pag. 23 corrispondente a un valore ISEE non superiore a 25 mila euro annui. Una misura che costerà complessivamente 3,642 miliardi di euro complessivi (fino al 2020). Anche in questo caso siamo di fronte a un trasferimento monetario alle famiglie meno abbienti che decideranno nei prossimi tre anni di metter al mondo dei figli. Sotto questo aspetto, si è scelto per un sostegno monetario diretto piuttosto che in un rafforzamento dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. Cosa che avrebbe consentito (al contrario del bonus) di investire nel futuro del Paese, rispondere meglio alle esigenze reali dei genitori meno abbienti, e dare nuove opportunità di occupazione.
  Allo sviluppo dei servizi socio-educativi per l'infanzia, l'ultima legge di stabilità destina solo 100 milioni di euro per il 2015), laddove sarebbe necessario provvedere al rifinanziamento del Piano straordinario di interventi per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi previsto dalla legge 296/2006.
  Per quanto concerne le non autosufficienze, non si prevedono ulteriori risorse. L'ultima legge di stabilità ha stanziato 400 milioni per il solo anno 2015, e questo – tra l'altro – grazie al lavoro parlamentare, visto che il Governo aveva inizialmente previsto solo 250 milioni. Dal 2016 le risorse stanziate scendono alla ridicola cifra di 250 milioni di euro annui. Senza peraltro alcun vincolo di destinazione di parte di detto stanziamento, per i servizi di assistenza domiciliare.
  L'iniquo intervento sulle pensioni di invalidità, che porterebbe a risparmi dell'ordine di 100 milioni nel 2015 e di 200 milioni a decorrere dal 2016, si articola, nel DEF, in tre interventi distinti il primo dei quali è quello di collegare l'erogazione dell'indennità di accompagnamento, che attualmente è una misura universale che costa 12 miliardi l'anno, ad un test reddituale; il secondo prevede la sospensione dell'indennità di invalidità nei casi di ricoveri ospedalieri superiori a 30 giorni; il terzo prevede di armonizzare le soglie di reddito per l'accesso a tutte le prestazioni.

Ci sarà un ulteriore intervento sulle pensioni ?
  Sempre in tema di pensioni procurano allarme sociale le ricorrenti dichiarazioni del Presidente dell'Inps, che avanza l'ipotesi di un possibile ulteriore intervento sul sistema previdenziale che mira, da un lato, al ricalcolo delle pensioni in essere portandole tutte al metodo contributivo e, dall'altro, ad introdurre un ulteriore contributo di solidarietà sulle pensioni più alte (salvo poi scoprire che «le più alte» sono considerate le pensioni da 1.200 euro al mese !), facendo eco e poggiandosi sulle dichiarazioni dello stesso tenore del Capo del Governo all'epoca del suo insediamento, e che fanno intravedere il reale pericolo che il Governo, a corto di risorse, adotti tali sciagurati propositi nelle prossime manovre.

La spesa per l'istruzione, l'università e la ricerca
  Al netto di una crescita fino al 2016 legata all'incremento delle risorse in legge di stabilità, il DEF stabilisce su una proiezione di medio-lungo periodo una previsione di spesa in istruzione che cala drasticamente, fino ad una riduzione di circa 10 miliardi. La spesa in istruzione infatti resta sempre al di sotto della media OCSE, e tocca il punto più basso nel 2030-2035 (3.3 del Pil). Il calo degli studenti per ragioni demografiche – oramai stabilizzato da due decenni – non può giustificare politiche di costante definanziamento del sistema pubblico, né riesce a rappresentare quelle fasce amplissime di dispersione (17 per cento nel nostro paese) legate ad un inadeguato sistema di diritto allo studio e alla totale assenza di un welfare studentesco.
  La spesa per la formazione e la scuola italiana resta al di sotto della media europea e la legge di stabilità per il 2015 non ha stanziato adeguate risorse per eliminare il gap di offerta formativa col resto dell'Europa. Il governo, per supplire alla scarsità degli investimenti dello stato, con il DDL «La Buona scuola» ha introdotto le «sponsorizzazioni», con la concessione Pag. 24 di crediti d'imposta a cittadini e imprese per donazioni alle scuole e con la destinazione del 5xmille della dichiarazione dei redditi, con il rischio di creare e accrescere le forti disuguaglianze tra scuole di aree economico-sociali diverse, con buona pace dell'uguaglianza d'accesso di tutti i cittadini al diritto allo studio e del carattere nazionale e unitario del sistema d'istruzione.
  Il DDL scuola affida la realizzazione della «piena» autonomia delle istituzioni scolastiche alla figura dei dirigenti scolastici, che scelgono e valutano i propri alcuni docenti, trasformando così in maniera inaccettabile lo status giuridico dei docenti, spingendoli in un'inedita area di natura privatistica dove risponde del proprio operato al dirigente e dove la stessa libertà di insegnamento è a rischio. Ad aggravare la situazione il DDL attribuisce ai dirigenti scolastici il potere di assegnare direttamente un «bonus insegnanti» sulla base di non meglio precisati criteri di misurazione della qualità didattica. Per il «bonus» sono previsti solo 200 milioni annui, che corrispondono a meno della metà del complesso dei tagli operati sul Fondo dell'Istituzione scolastica per il riconoscimento del lavoro aggiuntivo. Il voucher di 500 euro per docente per l'aggiornamento professionale attraverso l'acquisto di libri, testi, strumenti digitali, iscrizione a corsi, l'ingresso a mostre ed eventi culturali, sembra un ridicolo contentino a un personale, sottopagato, qualificato e a cui affidiamo la formazione dei nostri giovani.
  Il DDL prevede, come punto centrale, un Piano straordinario di assunzioni riferito a circa 100.000 docenti con l'assenza assoluta di ogni considerazione del personale tecnico (ATA). Ai precari che hanno contratti per oltre 36 mesi, nonostante la condanna inflitta al MIUR dalla Corte di giustizia europea per la loro mancata assunzione viene riconosciuto solo un risarcimento dei danni. In seguito si assumerà soltanto tramite concorsi triennali cancellando le attuali graduatorie provocando un aumento esponenziale dei contenziosi.
  Oltre al finanziamento previsto nella finanziaria del 2015 per le scuole private, il DDL prevede una serie di risorse aggiuntive alla famiglia sotto forma di agevolazioni e di detrazioni fiscali che riguardano le spese per l'iscrizione, un credito d'imposta in caso di donazioni oltre alla possibilità di usufruire della destinazione del 5xmille.
  Per ultimo il DDL scuola attraverso deroghe e abrogazioni che rilegificano il rapporto di lavoro di pubblico impiego per la scuola abolisce di fatto il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro.
  È inaccettabile infatti l'attivazione dell'albo professionale territoriale dei docenti, così come le modifiche unilaterali sulla mobilità territoriale e professionale.

Clima e ambiente
  I cambiamenti climatici già agiscono con evidenza nel nostro Paese, esposto, secondo le previsioni UNFCCC, al rischio dei rilevanti impatti previsti per l'area del Mediterraneo. Nell'anno della decisiva XXI Conferenza delle parti dei Paesi aderenti alla Convenzione quadro, si ritiene che il Governo debba avere un orientamento ben più incisivo sia in sede internazionale, assumendo una chiara posizione in materia di riduzione delle emissioni da gas serra, che adottando quanto prima la Strategia nazionale di adattamento, supportata da robuste politiche di settore, con priorità assoluta per il risparmio energetico e il risanamento idrogeologico, settori ad oggi privi di risorse significative nelle scelte di bilancio.
  Il governo non ha una strategia energetica adeguata alla sfida dei cambiamenti climatici. L'insistenza sulle fonti fossili, ribadita con le misure inserite nel recente decreto legge «Sblocca Italia», colloca l'Italia in evidente contrasto con gli orientamenti europei. La forzatura istituzionale compiuta sulle estrazioni di idrocarburi ha aperto uno scontro frontale con le Regioni interessate e non apporterà alcun vantaggio concreto al bilancio energetico del Paese.
  Nel DEF il governo riafferma la sua scelta di politica energetica che ha delineato Pag. 25 la Strategia energetica nazionale (SEN) puntando sui gasdotti, sui rigasificatori, sulle infrastrutture di trasporto del gas naturale e di stoccaggio e sulle attività di ricerca e coltivazione degli idrocarburi nel territorio con lo sblocco di investimenti stimabili in 15 miliardi. Nel campo delle energie rinnovabili è chiarissima l'intenzione del governo di non sostenere più l'ulteriore sviluppo di tali energie pulite, scrivendolo per altro a chiare lettere quando si sostiene che, l'Italia avendo già raggiunto nel 2013 con il 16,7 per cento gli obiettivi europei fissati al 2020 (17 per cento dei consumi finali), non occorre più prevedere risorse aggiuntive per la loro incentivazione.
  Incoerente con il dichiarato obiettivo di invertire la rotta in materia di consumo di suolo è tuttora la politica del governo in materia di infrastrutture. Anche qui il riferimento è al DL Sblocca Italia, laddove le misure approvate non configurano segnali della necessaria drastica revisione delle scelte, a cominciare dalla necessità di mettere in discussione la logica degli interventi a pioggia che ha supportato la Legge Obiettivo.
  Pressoché inesistente l'impegno del governo in materia di aree naturali protette. Parchi nazionali e riserve marine sopravvivono in stato di agonia, con riduzione delle risorse tale da azzerare le politiche di tutela e con nomine improprie che perpetuano logiche di spartizione correntizia. Occorre rilanciare questa grande risorsa del nostro Paese e inserire organicamente nel sistema delle aree protette tutte le aree Natura 2000.
  Si registra un grave ritardo anche nelle politiche per la tutela degli animali, a cominciare dalla necessaria revisione delle normativa penale, tutt'ora carente, dalla necessità di rivedere alcuni aspetti della normativa venatoria in evidente contrasto con la disciplina europea (richiami vivi), all'urgenza di un nuovo orientamento in materia di sperimentazione a fini scientifici, alla necessità di rafforzare il contrasto al traffico illegale delle specie protette.
  Nella riforma della Pubblica amministrazione la previsione dell'assorbimento, nelle altre forze di polizia, di uomini, mezzi, esperienze e capacità affermate in anni di impegno nella difesa dell'ambiente, del territorio e della sicurezza agro-alimentare del Corpo Forestale dello Stato, configura la volontà esplicita del Governo di pervenire ad uno smembramento del Corpo e quindi ad una sua soppressione di fatto e di conseguenza alla dispersione di energie e di esperienze preziose e indispensabili senza le quali vengono meno quelle funzioni fondamentali e necessarie per il rispetto dei principi di salvaguardia e di tutela dell'ambiente e del territorio il rischio reale di indebolire vistosamente gli interventi di contrasto degli eco-reati.

Politiche agricole
  Le politiche per il comparto agroalimentare evidenziano una permanente carenza di indirizzi nazionali, in grado di intervenire concretamente sulle crisi di settore che investono tuttora alcuni dei comparti più significativi. Abbiamo a più riprese sollecitato la dotazione di risorse idonee per i Piani nazionali di settore, già approvati dal Ministero, ma privi di qualunque stanziamento, a cominciare dal piano olivicolo e dal piano cerealicolo.
  Manca completamente una politica del governo per il contrasto dei fenomeni di abbandono dell'agricoltura nelle aree interne e svantaggiate. Il fenomeno si sta anzi aggravando anche per effetto delle scelte condotte in materia di IMU agricola che hanno aggravato l'imposizione fiscale sul settore.
  Occorre riorganizzare e potenziare i servizi di controllo fitosanitario. La ricorrenza di gravi problematiche connesse alla fitopatie indica la necessità di dedicare ben altro impegno alla prevenzione, di consentire l'accesso alle risorse disponibili per le calamità naturali, di prevedere interventi concreti per rinviare le scadenze fiscali e previdenziali nelle aree territoriali e per i settori che risultano più colpiti dall'emergenza.
  L'EXPO deve essere un'occasione per valorizzare la straordinaria ricchezza del patrimonio agroalimentare del nostro Pag. 26 Paese, non certo per fornire una vetrina alla grande industria e alle multinazionali del cibo.

In sintesi:
  Il DEF esprime una visione eccessivamente ottimistica: se la congiuntura non tiene, o la crescita è minore del previsto, o la Commissione chiede un intervento suppletivo sul 2016, non vi sono margini se non l'aumento delle imposte indirette.
  Non sembra vi sia una effettiva capacità di controllo della finanza pubblica e di indirizzamento delle risorse.
  Ci si affida soprattutto alla congiuntura internazionale.
  Si parla di tesoretto 2015, ma in realtà esso deriva solo dai risparmi sugli interessi, peraltro già in buona parte assorbiti dalla riduzione dell'avanzo primario.
  Per il 2016 sarà difficile recuperare margini per non far scattare le clausole di salvaguardia (che sono pari – non scordiamocelo – a 16,1 miliardi nel 2016, a 25,5 miliardi nel 2017 ed a 29 miliardi nel 2018), mentre anche interventi che il governo considererebbe centrali non sembrano al momento finanziati.

Un DEF diverso è possibile
  Un DEF orientato alla crescita, agli investimenti, al lavoro, senza tagli agli enti locali, alla sanità, ai servizi sociali è possibile. Servono almeno 23 miliardi per rilanciare l'Italia.
  Proponiamo per recuperare le necessarie risorse per una manovra di finanza pubblica alternativa:
   a) di utilizzare tutto lo spazio esistente del rapporto deficit-pil consentito dai Trattati, portando l'indebitamento netto ad un valore pari al 3 per cento del Pil seguendo almeno in parte l'esempio francese (il cui indebitamento supera il 4 per cento del Pil). Siamo ancora in una fase di recessione, di deflazione e solo alla fine di quest'anno avremo forse il segno positivo del Pil. Siamo ancora in una fase di emergenza economica. Per questo dobbiamo ottenere da Bruxelles di arrivare anche per il 2016 al 3 per cento del rapporto deficit-Pil, rispetto al 2,5 per cento tendenziale. Questo permetterebbe di liberare 8 miliardi di risorse per gli investimenti, la crescita, il lavoro;
   b) di ottenere un miliardo aggiuntivo rispetto a quanto previsto da una più incisiva azione di riduzione degli incentivi alle imprese;
   c) di ottenere un gettito aggiuntivo di 3,5 miliardi dalla Tobin tax. Attualmente abbiamo una Tassa sulle transazione finanziarie, varata dalla ultima legge di stabilità del Governo Monti assolutamente «light»: vengono tassate le transazioni finanziarie relative a poco più del 3 per cento delle azioni e solamente il «saldo di fine giornata». Tassando le transazioni di tutti i prodotti finanziari (derivati, sdo, ecc.) e tassando – anche con una modestissima aliquota dello 0,01 per cento – le singole operazioni di natura speculativa e non solo il «saldo di fine giornata», si potrebbero recuperare almeno 3,5 miliardi di euro;
   d) di recuperare 6 miliardi di euro rinunciando agli inutili e costosi F35 ed alla TAV Lione-Torino. Nel settembre del 2014 la Camera dei Deputati ha approvato una mozione che impegna il governo a dimezzare la spesa per gli F35. Questo significa un risparmio di almeno 6 miliardi di euro. Il governo non ha ancora dato seguito a quello impegno. È vero che la spesa si riferisce non solo al 2016, ma anche agli anni successivi. È per questo che tale risorse potrebbero essere utilizzati anche negli anni a venire per finanziare misure permanenti e stabilizzare le misure di seguito indicate;
   e) di ottenere 5 miliardi di gettito da una patrimoniale sulle ricchezze finanziarie. Oggi è pari a circa 3.500 miliardi di euro l'ammontare delle ricchezze finanziarie – escluse quelle immobiliari – detenute da società, famiglie e singoli. Quelle superiori ai 100mila euro sono in mano ad una fascia ristrettissima della popolazione (non più del 5 per cento). Escludendo la fascia sotto i 100mila euro e con una Pag. 27 imposizione aggiuntiva minima (su rendite, azioni, ecc.) dello 0,5 per cento si potrebbero recuperare ben più di 5 miliardi di euro;
   f) di ottenere alcuni miliardi di euro derivanti dall'applicazione anche graduale delle misure di contrasto all'evasione dell'IVA proposte dal centro studi NENS, contestualmente operando per ridurre l'impatto in termini di liquidità che reverse change e split payment hanno avuto sulle PMI; un recupero di gettito la cui quantificazione avverrebbe ex-post mentre le risorse recuperate potrebbero essere trasferite ad un apposito Fondo;
   g) come proposto dagli stessi sindacati si possono utilizzare i fondi pensione dei lavoratori per misure di sviluppo del Paese.

  Proponiamo di utilizzare questi 23 miliardi (e forse anche una somma maggiore) sostanzialmente per due obiettivi:
   a) un piano straordinario del lavoro, capace di attivare investimenti che possano creare almeno 500mila nuovi posti di lavoro: piccole opere, lotta al dissesto idrogeologico, messa in sicurezza delle scuole, diffusione delle energie rinnovabili, welfare pubblico. Si tratterebbe di un piano non assistenziale, ma capace di attivare una «domanda di lavoro», grazie ad un piano di investimenti pubblici;
   b) l'istituzione del reddito di cittadinanza. Si potrebbe destinare una parte delle risorse – utilizzando nel contempo in aggiunta anche i finanziamenti già destinati all'ASPI e altre forme di erogazioni di natura assistenziale – per far fronte all'introduzione di un reddito di cittadinanza inizialmente finalizzato a garantire l'integrazione al reddito di chi si trova in condizioni di povertà e di disoccupazione.

Proponiamo inoltre:

Scuola, università e ricerca:
   di predisporre un programma pluriennale per ottenere un incremento delle spese in istruzione, formazione e ricerca fino al 6 per cento del Pil, come nella media dei Paesi europei;
   di uscire dalle enunciazioni generiche sull'elaborazione di un nuovo programma nazionale sulla ricerca che incrementando il numero dei ricercatori possa far risalire l'Italia nella classifica europea sulla ricerca, attraverso l'indicazione precisa di uno stanziamento di adeguate risorse finanziarie già a partire dal 2015, con l'emanazione immediata di misure per contrastare la precarietà dei ricercatori e degli assegnisti di ricerca;
   di prevedere un piano triennale di stabilizzazioni di tutto il personale docente ed ATA compreso, che ponga fine all'uso improprio del precariato e che tenga conto anche degli abilitati attraverso i percorsi TFA e PAS, rinviando ogni indizione di nuovi concorsi dopo il completamento del piano triennale di assunzione dei precari;
di aumentare gli stanziamenti previsti a favore dell'edilizia scolastica puntando prioritariamente nel contempo al recupero e alla ristrutturazione degli edifici esistenti e solo in subordine alla costruzione di nuove scuole;
   di prevedere la soppressione di tutte le agevolazioni a favore delle scuole private con l'eliminazione dello school bonus, poiché frequentare le scuole private è una libera scelta dei cittadini che deve avvenire, secondo il dettato costituzionale, senza oneri per lo Stato, della detraibilità fiscale prevista per le scuole private nonché della destinazione del 5 per mille alle stesse scuole private
   di eliminare ogni previsione di poteri aggiuntivi affidati ai dirigenti scolastici nella scelta dei docenti da utilizzare nella propria scuola, nella valutazione e nel riconoscimento del merito e nell'attribuzione di incrementi retributivi, in quanto tutto ciò provocherebbe lo snaturamento delle funzioni del dirigente e dell'attuale profilo così come delineato dal vigente quadro normativo e contrattuale;

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Energia
   di assumere, nell'ambito dell'Unione europea ed in vista della XXI Conferenza a Parigi nel prossimo dicembre 2015 per un nuovo accordo mondiale sul clima, un ruolo propulsore per far sì che l'Europa diventi leader nella sfida per un'economia e per una società low-carbon al 2030 attraverso la revisione dei targets previsti e realizzazione vincolante di tre obiettivi: il taglio del 55 per cento delle emissioni di CO2, il raggiungimento di una quota pari ad almeno il 45 per cento di energia da fonti rinnovabili ed ad almeno il 40 per cento di efficienza energetica;
   di garantire che il piano energetico nazionale preveda la centralità delle fonti energetiche rinnovabili e che le linee guida e le incentivazioni in esso contenute siano coerenti e conformi con le reali esigenze del Paese, attraverso la necessaria modifica della Strategia Energetica Nazionale (SEN) con il sostegno, con mezzi finanziari adeguati e procedure e misure incentivanti idonee ed efficaci, dell'innovazione tecnologica nel campo della produzione di energia da fonti rinnovabili;
   di prevedere interventi normativi concreti per la realizzazione di una maggior efficienza energetica da parte del comparto privato, del comparto pubblico e del comparto industriale, in linea con quanto fatto già dall'industria europea in termini di investimento e realizzazione in questo settore e al fine di ridurre il fabbisogno energetico;
   di modificare radicalmente l'orientamento delle politiche in materia energetica, assicurando il necessario impegno per lo sviluppo delle fonti rinnovabili e provvedendo all'abrogazione delle disposizioni normative che configurano procedure incostituzionali e ambientalmente inadeguate per le estrazioni di idrocarburi, a cominciare dall'articolo 38 del decreto-legge n.133 del 12 settembre 2014.

Ambiente e agricoltura
   di adottare entro l'anno in corso la Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, adeguando il dimensionamento degli stanziamenti di bilancio alla rilevanza delle emergenze in atto, con assoluta priorità per le dotazioni finanziarie finalizzate al risanamento idrogeologico;
   di calendarizzare quanto prima la revisione dell'impianto normativo della Legge 21 dicembre 2001, n.443, in materia di infrastrutture strategiche, riorientando le risorse in direzione del trasporto pubblico e della mobilità nelle aree metropolitane, e procedendo alla modifica sostanziale delle procedure di affidamento, a cominciare dalla figura del Contraente Generale;
   di prevedere idonei stanziamenti per il funzionamento del sistema dei parchi, delle riserve naturali e delle aree marine protette, con particolare riferimento alla risorse necessarie a consentire interventi adeguati in materia di tutela della biodiversità e protezione della fauna;
   di riconsiderare la volontà espressa di uno smembramento o addirittura di una vera e propria soppressione del Corpo forestale dello Stato mantenendo l'autonomia e l'operatività del Corpo, anche integrando efficacemente nella struttura operativa dello stesso le polizie ambientali di competenza regionale e provinciale al fine di rafforzare gli obiettivi di tutela dell'ambiente e del territorio costituzionalmente garantiti, le funzioni di controllo nel campo della sicurezza nel settore agroalimentare nonché l'impegno per il contrasto dei reati in materia ambientale;
   di dotare delle necessarie risorse finanziare i Piani nazionali di settore approvati dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, a cominciare, nel corso dell'anno 2015, dal piano olivicolo e dal piano cerealicolo;
   di provvedere all'abolizione dell'IMU sui terreni condotti da imprenditori agricoli e coltivatori diretti, predisponendo nel contempo un'adeguata strategia fiscale rivolta Pag. 29 a contrastare l'abbandono dell'agricoltura nelle aree interne e svantaggiate;
   di procedere, d'intesa con le Regioni, alla riorganizzazione e al potenziamento dei Servizi fitosanitari, prevedendo altresì, al fine di fronteggiare le fitopatie in atto, l'accesso alle risorse disponibili per le calamità naturali e il rinvio delle scadenze fiscali e previdenziali per i settori e nelle aree più colpite dall'emergenza.

Asili nido
   di rifinanziare il Piano straordinario di interventi per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi previsto dalla legge 296/2006;

Salute
   di incrementare sensibilmente dal 2016 le risorse destinate alle non autosufficienze;
   di invertire le politiche dei continui tagli alla sanità pubblica, implementando le risorse per lo sviluppo dell'offerta dei servizi socio-sanitari con particolare riguardo alla prevenzione, l'assistenza domiciliare e territoriale, garantendo l'uniformità su tutto il nostro territorio dell'appropriatezza delle prestazioni.

Enti locali
   di dare risposte positive a quanto chiesto dai Comuni in merito all'applicazione della legge di stabilità 2015;
   di sopprimere i tagli ai trasferimenti ai Comuni, eventualmente compensandoli con riduzioni delle spese delle amministrazioni statali;
   di accelerare la rinegoziazione dei mutui con CDP e più in generale a rivedere le condizioni alle quali vengono erogati mutui ai Comuni;
   di ricostituire per il 2015 il Fondo compensativo di 625 milioni già riconosciuto per il 2014;
   di stanziare maggiori ed adeguate risorse finanziarie da parte del governo da destinare all'eventuale scostamento tra il gettito effettivamente riscosso dai comuni e le stime ministeriali del gettito atteso in relazione al nuovo regime di imponibilità dei terreni montani di cui al decreto-legge n. 4 del 2015, e successive modificazioni;
   di rimodulare in maniera consistente verso il basso le sanzioni per le città metropolitane per lo sforamento del Patto di stabilità ereditato dalle Province;
   di garantire ai Comuni i tempi indispensabili per la redazione dei bilanci definendo ogni anno entro una data precisa le risorse a loro disposizione e dando poi loro due-tre mesi di tempo da tale scadenza per l'approvazione dei bilanci;
   di non modificare nell'esercizio in corso le disposizioni relative alla fiscalità locale ed a non ridurre per il medesimo esercizio i trasferimenti a loro favore.

Personale Province
   di rispettare i termini ed a giungere, entro il 31 dicembre 2016, al pieno ricollocamento di tutto il personale delle province al fine di evitare il collocamento in disponibilità anche di un solo dipendente e scongiurare l'avvio dei licenziamenti al termine di tale periodo;
   di avviare un confronto serio che assicuri ai cittadini ed ai lavoratori interessati la piena sostenibilità del sistema e la salvaguardia occupazionale intervenendo, se necessario, anche normativamente per correggere i tagli finanziari a regioni, province e comuni.

Politiche comunitarie
   di prevedere l'istituzione di un Ministro per le politiche comunitarie che si occupi anche di monitorare con continuità i procedimenti sanzionatori nei confronti del nostro Paese e della gestione dei fondi comunitari in maniera organica.

Ammortizzatori
   di garantire le necessarie risorse per finanziare, a decorrere dal 2016, sia le Pag. 30 misure previste per la conciliazione dei tempi di lavoro e di vita di cui al Jobs act, che le risorse per l'estensione di ASDI e DIS-Coll.

Spending review
   di attuare, nell'ambito delle ulteriori misure di revisione della spesa, una riforma dei regimi di esenzione, di esclusione e di favore fiscali con l'esclusione delle disposizioni a tutela dei redditi di lavoro dipendente e autonomo, dei redditi da pensione, della famiglia, della salute, delle persone economicamente o socialmente svantaggiate, del patrimonio artistico e culturale, della ricerca e dell'ambiente.

In conclusione
  Il DEF 2015 delinea una manovra di finanza pubblica con la quale il Governo cerca di «comprare tempo» in attesa di una ripresa che tarda ad arrivare e che in ogni caso si presenta modestissima per il nostro Paese, e che soprattutto non sembra in grado di rilanciare adeguatamente l'occupazione e la crescita.
  Le previsioni sono improntate all'ottimismo e sono al netto dei rischi rappresentati da elementi esterni ora favorevoli ma che rapidamente potrebbero venire a mancare. Il caso Grecia, le tensioni e le crisi internazionali in corso, potrebbero minare, insieme al persistere del surplus commerciale tedesco, la tenuta dell'eurozona. Si potrebbe, inoltre, innescare un meccanismo di svalutazioni competitive tra l'Unione europea, gli Usa e i BRICS, che metterebbe fine assai rapidamente alla sia pure minima tendenza alla crescita delle economie europee, la nostra in primis.
  Il DEF esprime una certa succube diligenza da parte dei nostri governanti nell'accettare tutte le regole europee di bilancio anche se in altre occasioni definite «stupide». Non c’è nessun serio tentativo di aprire un confronto per la riforma del Fiscal compact e degli altri trattati, magari in occasione del confronto sul caso greco. Al massimo si prova ad ottenere pochi decimali di flessibilità. La Grecia è lasciata sola anche dal governo italiano che non intende disturbare il manovratore germanico.
  Il DEF delinea una manovra in perfetta continuità con quelle dei Governi Monti e Letta, secondo una linea delineata dalla lettera della BCE dell'agosto 2011, e di cui Renzi è il più solerte esecutore.
  A nostro avviso serve tutt'altro. Le politiche della trojka e dell'austerità ci hanno condotto fin qui. Occorre un'inversione di tendenza, un «cambiare verso» reale in direzione di un Piano per il lavoro e verso l'istituzione di un reddito di cittadinanza. In questa relazione abbiamo cercato, sia pure sinteticamente, di indicare le misure e le risorse necessarie per la manovra alternativa che proponiamo.
  Solo dal rilancio degli investimenti pubblici «green», dell'innovazione, della ricerca, della crescita della domanda interna aggregata, può determinarsi una vera ripresa e soprattutto maggiore e duratura occupazione nell'ambito di un nuovo modello di sviluppo per il nostro Paese.

Gianni MELILLA,
Relatore di minoranza