Doc. XXII, n. 36




RELAZIONE

Onorevoli Colleghi! - Qualunque persona che finisca sotto la tutela dello Stato deve essere considerata «sacra»; la morte di un uomo in carcere dovrebbe essere, quindi, vissuta come il più alto degli scandali. Eppure il fenomeno non è affatto episodico. Come sappiamo, sono frequenti le storie di persone che entrano in carcere, in caserma o nei reparti psichiatrici e ne escono morte, spesso in circostanze non chiare. E le storie di quelle morti suscitano, e continuano a suscitare, in Parlamento e nel Paese, il più alto sdegno e la rabbia più accesa. Soprattutto perché è anche molto difficile arrivare alla verità e ottenere giustizia. Nei casi di tortura e di violenze istituzionali, nel nostro Paese perseguire i responsabili è infatti un'operazione tragicamente impossibile. Mancano le norme (come il reato di tortura) e manca una cultura pubblica di rispetto profondo della dignità umana. Spesso, poi, rispetto all'accertamento della verità - duole dirlo - ha prevalso lo spirito di «corpo» che impedisce la ricostruzione puntuale dei fatti e il raggiungimento della verità storica.
I casi sono tanti, troppi. Basta pensare a quelli più eclatanti e resi noti grazie alle associazioni che si occupano a vario titolo di carcere e della denuncia pubblica dei familiari delle vittime: Marcello Lonzi, morto l'11 luglio 2003 nel carcere livornese delle Sughere, uno dei tanti casi archiviati come «morte per cause naturali» e, precisamente, per infarto. «Queste foto parlano da sole, mio figlio è stato ritrovato morto in una pozza di sangue, con otto costole rotte, denti rotti e due buchi in testa, ma il caso fu archiviato tre volte come morte naturale, causa infarto», afferma la madre. Il ragazzo era in carcere per tentato furto e aveva scontato fino ad allora quattro mesi. Il giorno del decesso, la madre non ha ricevuto nessun avviso da parte delle autorità e ha saputo dell'accaduto ad autopsia fatta, recandosi lei stessa al penitenziario. Stefano Cucchi è morto disidratato, segnalano i referti, nell'indifferenza e nell'incuria di un ospedale penitenziario. Il suo corpo era martoriato da lesioni, fratture ed ematomi. Traumi subìti dopo il suo fermo, mentre era nelle mani di chi doveva assicurarne la custodia, ma nessuno è stato dichiarato responsabile per la sua morte nonostante la sua vita sia stata nelle mani di tante istituzioni dello Stato. Decine di operatori della sicurezza, della giustizia e della sanità pubblica sono venuti in contatto con lui in quei giorni che lo hanno portato alla morte. Eppure, secondo la magistratura, non c'è neanche un colpevole. Federico Aldrovandi, un ragazzo che rientrava da un concerto, è stato fermato sul ciglio del marciapiede di una strada di Ferrara e massacrato da alcuni poliziotti. Riccardo Rasman: affetto da problemi psichiatrici, mostrava segni di forte euforia spogliandosi e tirando petardi dalla finestra di casa, da dove fuoriusciva anche musica ad alto volume. L'intervento degli operatori del 113 è finito in tragedia: Rasman è morto soffocato con le caviglie legate da fil di ferro, le pareti dell'abitazione sporche di sangue e il corpo devastato da brutali percosse praticate con oggetti contundenti. Giuseppe Uva è morto il 14 giugno 2008 dopo le percosse subìte in una stazione dei carabinieri e il ricovero coatto in una struttura psichiatrica; Uva pare avesse spostato delle transenne in mezzo alla via. Non aveva commesso reati, al massimo una violazione del codice della strada, di cui al decreto legislativo n. 285 del 1992. Francesco Mastrogiovanni, il maestro anarchico di Castelnuovo Cilento, è stato anche lui fermato per futili motivi e condotto nell'ospedale di Vallo della Lucania dove è deceduto durante un trattamento sanitario ospedaliero; l'autopsia ha rivelato la presenza di un edema polmonare. Mastrogiovanni era rimasto legato per giorni su un letto di contenzione, con i lacci ai polsi, contro ogni regola. Giuseppe Casu, ambulante cagliaritano, era stato fermato e poi ricoverato a forza perché non voleva lasciare la sua bancarella vicino al municipio; sette giorni di letto di contenzione e farmaci somministrati contemporaneamente e in dosi elevate l'hanno ucciso.
L'elenco è assai lungo e da studi recenti si apprende che negli istituti di pena italiani ci si uccide oltre 17 volte di più di quanto si faccia fuori delle carceri. Le morti di persone private o limitate della libertà personale sembrano poi avere tutte un filo comune: colpiscono piccoli consumatori di droghe, persone con disagi psichiatrici o individui percepiti dalla comunità come «diversi». Non può non evincersi un problema d'intolleranza e disprezzo verso popolazioni stigmatizzate, fasce considerate «immeritevoli» di rispetto e diritti. Diritti che invece dovrebbero essere assicurati a tutte e a tutti.
Il legislatore negli anni, nonostante ci siano norme internazionali che lo sollecitino da tempo, non ha peraltro ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale, una lacuna gravissima nel nostro ordinamento. Oggi rappresenterebbe il primo passo per chiarire i limiti dell'esercizio della forza e dei pubblici poteri rispetto a esigenze investigative o di polizia. E, nel Paese, associazioni tra le quali «Antigone» e «Buon diritto», ribadiscono da tempo la necessità e la grave inadempienza italiana circa l'introduzione di tale reato nel nostro ordinamento, come anche circa l'istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale - nonostante l'approvazione di norme tese finalmente alla relativa istituzione, l'istituzione del Garante nazionale è ancora inattuata. Temi rispetto ai quali i proponenti della presente proposta di inchiesta parlamentare sono impegnati da anni e hanno anche presentato proposte di legge fin da inizio legislatura, auspicandone la rapida calendarizzazione e approvazione da parte delle Camere.
Gli stessi hanno quindi ritenuto di sottoporre all'attenzione del Parlamento la presente proposta di inchiesta parlamentare recante l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle morti di persone in stato di privazione o limitazione della libertà personale avvenute in circostanze non chiare, al fine di fare finalmente chiarezza su tali eventi drammatici - spesso rimasti senza verità e senza giustizia - verificandone le relative responsabilità. Appare infatti doveroso il tentativo, l'ennesimo, di uscire dal solco di una storia, quella italiana, che fa fatica a dare giustizia a chi ne ha diritto e fare di tutto affinché non accadano più casi come quello di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e di tutte le altre persone sulla cui morte non è stata fatta piena luce e per cui sono stati imputati, sospettati o semplicemente coinvolti esponenti delle Forze di polizia o soggetti comunque investiti di una responsabilità pubblica.
I proponenti sottopongono quindi la presente proposta di inchiesta parlamentare all'attenzione della Camera dei deputati, prevedendo la natura monocamerale della Commissione parlamentare, senza dubbio in grado di garantire maggiori snellezza e rapidità allo svolgimento dei lavori.


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