TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 99 di Lunedì 8 maggio 2023

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE A RIPRISTINARE
L'ISTITUTO «OPZIONE DONNA»

   La Camera,

   premesso che:

    ben lontano dagli annunci di esponenti dell'attuale maggioranza che ipotizzavano misure legislative finalizzate a scongiurare il ritorno alla «legge Fornero», le norme in materia previdenziale contenute nella legge di bilancio 2023 si caratterizzano, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, per l'irrilevanza sostanziale delle soluzioni prospettate per assicurare forme di flessibilità di uscita pensionistica, nonché per i tagli che vengono applicati agli assegni di milioni di pensionati che si vedranno decurtare gli adeguamenti all'inflazione;

    in questa operazione di tagli alla spesa pensionistica, si distinguono le misure che modificano l'istituto di «opzione donna». Una misura che, introdotta dall'allora Ministro Maroni con l'articolo 1, comma 9, della legge n. 243 del 2004, è sempre stata prorogata da tutti i Governi che si sono succeduti, a decorrere da quella data;

    con le modifiche entrate in vigore dal 1° gennaio 2023, come evidenziato dalla stessa relazione tecnica alla legge di bilancio, la platea delle lavoratrici che teoricamente potranno accedere ad «opzione donna» scendono drasticamente dalle 17.000 ipotizzate sino al 31 dicembre 2022 a neanche 3.000;

    un risultato che è la conseguenza dell'innalzamento dei requisiti anagrafici e della compresenza di restrittivi requisiti:

     a) assistere, al momento della richiesta e da almeno sei mesi, il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap grave, o anche un parente o un affine di secondo grado convivente, se i genitori, il coniuge o la parte dell'unione civile della persona con handicap grave hanno compiuto settant'anni, sono anch'essi affetti da patologie invalidanti, sono deceduti o mancanti;

     b) avere una riduzione della capacità lavorativa, accertata dalle commissioni competenti per il riconoscimento dell'invalidità civile, superiore o uguale al 74 per cento;

     c) essere stata licenziata o essere dipendente da imprese per le quali è attivo un tavolo di confronto per la gestione della crisi aziendale;

    da subito, tali modifiche hanno destato una vasta eco di critiche sia per gli effetti sociali, sia per il segnale politico che ne è scaturito sulla condizione della donna lavoratrice, oltre che per i legittimi dubbi di costituzionalità per quanto concerne la previsione che modula la soglia anagrafica per l'accesso ad «opzione donna» in ragione della presenza o meno di figli;

    di fatto, con la legge di bilancio su «opzione donna» si è operata una manovra per fare cassa sulla condizione delle lavoratrici che aspirano a poter accedere alla pensione, seppure con l'applicazione del metodo contributivo per tutto l'arco della vita lavorativa;

    a distanza di oltre 4 mesi dall'introduzione del nuovo regime e, soprattutto, dopo le tante dichiarazioni di voler rivedere le suddette norme per ripristinare l'originaria disciplina di «opzione donna», nei tanti provvedimenti di urgenza varati dall'Esecutivo, ancora non ha trovato spazio una misura di giustizia sociale quale l'abrogazione delle citate norme della legge di bilancio che, di fatto, hanno reso quasi «irrilevante» tale possibilità di uscita pensionistica per le lavoratrici,

impegna il Governo

1) ad adottare, sin dal primo provvedimento utile, le opportune iniziative volte a ripristinare l'istituto di «opzione donna» nei termini previgenti la legge di bilancio 2023.
(1-00103) «Orlando, Braga, Serracchiani, Laus, Gribaudo, Fossi, Sarracino, Scotto, Malavasi, Ferrari, Guerra».

(5 aprile 2023)

   La Camera,

   premesso che:

    cresce il gender gap nell'accesso al sistema pensionistico e nel quantum di prestazione assistenziale: il divario tra i generi inevitabilmente riflette la minore e più complicata partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, i cui elementi principali attengono a differenze salariali, discriminazioni e ostacoli nella carriera, storie contributive brevi e frammentate, nonché variabili ulteriori quali quelle legate ai percorsi lavorativi individuali e alle situazioni personali e familiari;

    le più recenti elaborazioni statistiche diffuse da Inps e Istat, infatti, certificano che le pensionate sono più numerose dei coetanei a riposo (8,8 contro 7,2), ma in media percepiscono cifre inferiori, mentre più profondo è il solco tra gli importi destinati alle ex lavoratrici e quelli erogati agli ex lavoratori;

    nel 2020, l'ammontare medio delle nuove pensioni (pensioni di vecchiaia, compresi i prepensionamenti per il fondo pensione dei lavoratori dipendenti e gli assegni sociali, nonché pensioni anticipate, invalidità e reversibilità di tutte le gestioni) scattate durante l'anno è stato di 1.243 euro al mese, con 1.033 euro a testa per le donne (470.181), 1.498 euro pro capite per gli uomini (385.823) e uno scarto di 465 euro (-31,0 per cento, quasi un terzo in meno);

    nel primo semestre 2021, il gender gap pensionistico è salito a 498 euro al mese e gli assegni sono diventati più leggeri, per tutte e tutti. L'importo tipo delle 389.924 nuove pensioni con decorrenza gennaio-giugno è di 1.155 euro, con 931 euro in media per le donne (215.124 le new entry), 1.429 per gli uomini (174.800 posizioni) e 498 euro di differenza (pari al –34,8 per cento, oltre un terzo in meno);

    stante i dati menzionati, la risposta del Governo messa in campo con la manovra 2023 (legge 28 marzo 2019, n. 26), è apparsa quindi sostanzialmente insufficiente ad assicurare forme di flessibilità di uscita pensionistica, quanto mai necessarie e urgenti a maggior ragione per la parte femminile del mondo del lavoro, se solo si considera anche i recenti tagli applicati agli assegni di milioni di pensionati che si vedranno decurtare gli adeguamenti all'inflazione;

    considerata la possibilità dell'esercizio della funzione legislativa da parte dell'Esecutivo di cui all'articolo 77, secondo comma, della Costituzione, infatti, ci si attendeva quantomeno un ulteriore intervento normativo volto a prorogare la disciplina dell'uscita pensionistica per il tramite della cosiddetta «opzione donna», secondo le regole di cui all'articolo 16, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, nel testo vigente al 31 dicembre 2022, ossia le regole previgenti la citata manovra economica;

    la fruizione dell'opzione, infatti, come a suo tempo introdotta dall'allora Ministro Maroni (articolo 1, comma 9, della legge 23 agosto 2004, n. 243), e sempre prorogata da tutti i Governi che si sono succeduti a decorrere da quella data, consentiva, su domanda, di accedere all'assegno pensionistico con requisiti anagrafici più favorevoli rispetto a quelli in vigore, optando per il sistema di calcolo contributivo dell'intero trattamento pensionistico, senza ulteriori penalizzazioni o condizioni aggiuntive come invece introdotte da ultimo con la legge di bilancio 2023 (articolo 1, comma 227, della legge 29 dicembre 2022, n. 197);

    con questo più recente intervento normativo da parte del Governo, tra l'altro, per la prima volta l'età della pensione è stata collegata alla presenza o meno di figli: una novità che, anche se declinabile quale riconoscimento del lavoro di cura più spesso svolto dalle donne, presenta non pochi problemi dal punto di vista dell'equità e della razionalità del sistema previdenziale, e non affronta il problema del gap di genere nelle pensioni. La differenza nei livelli retributivi delle pensioni delle donne rispetto agli uomini, infatti, è maggiore di quella salariale, e questo deriva dal fatto che le donne non solo hanno stipendi più bassi, ma hanno spesso carriere discontinue, con interruzioni e periodi senza contributi, oltre ad essere maggiormente presenti nei lavori precari e dunque con contribuzione bassa o nulla;

    in tal senso, uno dei limiti del sistema di «opzione donna» è che, dando alle donne il «privilegio» di andare in pensione prima, ma calcolando l'assegno con il solo sistema contributivo (cioè sulla base dei contributi versati), comporta pensioni molto basse e dunque amplifica, piuttosto che ridurre, il differenziale di genere nelle pensioni;

    sebbene in definitiva la misura sia suscettibile di migliorie volte a limitarne il conseguente effetto di ostacolo alla chiusura del divario pensionistico di genere, sta di fatto che il Governo ha invero ridotto così drasticamente la platea delle lavoratrici che teoricamente avrebbero potuto accedere a tale forma di uscita flessibile, che di fatto ha trasformato questa disciplina, pure costruita come favor per le donne in uscita dal mercato del lavoro, in una «opzione cassa» volta a finanziare misure altre di cui non si ha ancora contezza;

    risale al 13 febbraio 2023 lo svolgimento più recente del cosiddetto tavolo tra il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e le parti sociali, condotto dal Sottosegretario leghista Claudio Durigon e alla presenza dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil;

    mentre in quell'occasione è stato esplicitamente chiesto al Governo di avere una risposta sul tema, tra gli altri, della flessibilità in uscita, entro il 12 aprile 2023, il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, Giancarlo Giorgetti, martedì 11 aprile 2023 ha approvato il Documento di economia e finanza (DEef) 2023, da cui parrebbe non derivare alcuna prospettiva di risoluzione della questione,

impegna il Governo:

1) a prevedere iniziative mirate a ridurre il gap pensionistico, attraverso:

   a) il ripristino, nel prossimo provvedimento utile, della disciplina sull'uscita pensionistica per il tramite della cosiddetta «opzione donna» alle regole vigenti sino al 31 dicembre 2022;

   b) l'adozione di ulteriori misure suscettibili di affrontare in modo più incisivo e risolutivo le condizioni che sono alla base della penalizzazione femminile in campo previdenziale ovverosia la disuguaglianza di genere nel mercato del lavoro, con particolare riguardo ai bassi livelli contributivi e alle interruzioni di contribuzione per maternità e lavoro di cura.
(1-00119) «Appendino, Barzotti, Aiello, Carotenuto, Tucci, Morfino, Torto».

(14 aprile 2023)

   La Camera,

   premesso che:

    la parità di genere è un valore fondamentale dell'Unione europea, è un motore riconosciuto per la crescita economica: il principio della parità retributiva per uno stesso lavoro, o per uno di pari valore, è sancito dai Trattati, a partire da quello di Roma del 1957, ed è previsto oggi dagli articoli 2 e 3 del Trattato sull'Unione europea e dagli articoli 8, 155 e 157 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. In particolare, il Trattato di Lisbona del 2009 non solo ha riaffermato il principio di uguaglianza tra donne e uomini, anche in ambito lavorativo, ma lo ha inserito tra i valori dell'Unione europea;

    pur a fronte di una crescente sensibilità delle politiche nazionali e di una aumentata attenzione al fenomeno da parte delle istituzioni, il divario di genere nel mondo del lavoro risulta essere ancora oggi per il nostro Paese uno dei fattori di disparità maggiormente persistenti;

    a confermarlo, anche il Gender equality index, il rapporto annuale dell'Istituto europeo per la Gender Equality (Eige) che sintetizza la parità di genere dei 27 Stati membri dell'Unione europea in un unico dato che rappresenta la combinazione delle performance tracciate tramite 31 indicatori che compongono sei dimensioni: lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute;

    nell'ultima edizione, relativa al 2022, emerge come l'Italia si collochi al quattordicesimo posto della classifica, con 65 punti su 100, sotto la media europea che si attesta a 68,6 punti. Fra gli indicatori, i peggiori riguardano proprio il lavoro: l'Italia è infatti ultima in Europa per quanto riguarda la parità di genere nel mondo del lavoro, con un punteggio di 63,2 (la media europea è di 71,76) e un livello di partecipazione femminile al lavoro tra i più bassi (68,1 contro 81,3);

    secondo quanto riportato dallo stesso report, il tasso di occupazione femminile dal 2020 è sceso al 49 per cento, mentre il divario rispetto agli uomini è salito di 18,2 punti percentuali (rispetto ai 17,9 del 2019). Tra le lavoratrici, quasi 1,9 milioni di donne sono costrette al part-time involontario se vogliono lavorare, contro 849 mila uomini nelle stesse condizioni; l'occupazione femminile è particolarmente bassa nel Mezzogiorno (32,2 per cento) e nelle isole (33,2 per cento): un dato significativo, perché tra le cinque regioni europee con i valori più bassi di occupazione femminile, quattro sono proprio nel Sud Italia;

    a corroborare queste evidenze contribuisce anche il Gender Policies Report 2022, la pubblicazione dell'Inapp (Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche) che ogni anno monitora le differenze di genere nel mondo del lavoro. Le statistiche evidenziano che il divario uomo-donna resta immutato nel tempo e sempre sbilanciato sulla componente maschile, perché la partecipazione femminile è ancora oggi ostaggio di criticità strutturali: occupazione ridotta, prevalentemente precaria, part-time e in settori a bassa remuneratività o poco strategici dunque, la situazione femminile, pur migliorata in termini assoluti, peggiora in termini relativi;

    a peggiorare una situazione già critica, anche i dati sulla conciliazione vita-lavoro che mostrano un mercato del lavoro italiano più rigido della media europea: le donne godono infatti di minore flessibilità rispetto agli uomini, in particolare le lavoratrici laureate. Queste disuguaglianze sono in larga parte il riflesso della «specializzazione» di genere tra lavoro retribuito e non retribuito, in virtù del quale le donne più frequentemente accettano retribuzioni inferiori a fronte di vantaggi in termini di flessibilità e orari;

    è facilmente intuibile come la delineata discriminazione di genere nel mondo del lavoro abbia importanti conseguenze nel settore previdenziale: il divario di genere a livello occupazionale e retributivo, che si accumula nell'arco di una vita, conduce infatti a un divario pensionistico ancor più accentuato e, di conseguenza, comporta per le donne in età avanzata un maggior rischio di povertà rispetto agli uomini;

    inoltre, le carriere delle donne sono più brevi, principalmente a causa del loro ruolo e degli impegni familiari: la maternità e la cura dei minori, dei familiari anziani, malati o disabili e di altre persone a carico, rappresentano un lavoro supplementare o talvolta a tempo pieno, gratuito, quasi esclusivamente delle donne, e ciò ha un impatto enorme sulla loro capacità di accumulare una pensione completa;

    i dati 2022 dell'osservatorio Inps evidenziano come le pensioni delle donne valgano circa il 30 per cento in meno rispetto a quelle degli uomini: per questi ultimi l'assegno medio è di 1.381 euro, per le donne la media è di 976 euro;

    in generale, gli uomini percepiscono pensioni mediamente più elevate rispetto alle donne, arrivando ad essere quasi il doppio (+81,5 per cento) nel settentrione per la categoria vecchiaia;

    nel tentativo di ovviare alle problematiche citate, l'articolo 1, comma 9, della legge 23 agosto 2004, n. 243, ha introdotto una misura denominata «opzione donna» che consentiva alle donne di accedere all'assegno pensionistico con requisiti anagrafici più favorevoli rispetto a quelli in vigore, optando per il sistema di calcolo contributivo dell'intero trattamento pensionistico, senza ulteriori penalizzazioni;

    la misura, rivelatasi del tutto insufficiente negli anni e non risolutiva del problema del divario previdenziale di genere, di recente è stata ulteriormente ridimensionata attraverso l'ultima legge di bilancio (articolo 1, comma 292, della legge 29 dicembre 2022, n. 197) che ha imposto condizioni aggiuntive fra le quali, in particolare, per la prima volta l'età della pensione è stata collegata alla presenza o meno di figli introducendo quindi un requisito discutibile, che rischia di divenire discriminatorio e comunque non risolutivo;

    nel dettaglio il citato articolo 1, comma 292 della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (legge di bilancio 2023), modificando l'articolo 16 del decreto-legge n. 4 del 2019, ha esteso la possibilità di accedere al trattamento pensionistico anticipato «opzione donna» a favore delle lavoratrici che abbiano maturato entro il 31 dicembre 2022 un'anzianità contributiva pari almeno a 35 anni, un'età anagrafica di almeno 60 anni (ridotta di un anno per ogni figlio e nel limite massimo di 2 anni). Nel caso di lavoratrici licenziate o dipendenti da imprese per le quali è attivo un tavolo di confronto per la gestione della crisi aziendale, il requisito anagrafico è ridotto a cinquantotto anni; ai fini del beneficio del suddetto trattamento pensionistico anticipato, le lavoratrici devono essere in possesso, alternativamente, di uno dei seguenti requisiti:

     a) assistano da almeno sei mesi il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap grave, ovvero un parente o un affine di secondo grado convivente qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto 70 anni oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti;

     b) abbiano una riduzione della capacità lavorativa uguale o superiore al 74 per cento (accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell'invalidità civile);

     c) siano lavoratrici licenziate o dipendenti da imprese per le quali è attivo un tavolo di confronto per la gestione della crisi aziendale presso la struttura per la crisi d'impresa di cui all'articolo 1, comma 852, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. In questo caso, la riduzione di due anni del requisito anagrafico di 60 anni trova applicazione a prescindere dal numero di figli;

    è evidente come le dette modifiche restringano significativamente la platea delle beneficiarie e complessivamente risultino peggiorative e più penalizzanti per le donne rispetto alla normativa previgente,

impegna il Governo

1) a prevedere le opportune iniziative legislative finalizzate a ridurre il divario pensionistico di genere attraverso l'introduzione di nuovi e più efficaci strumenti o meccanismi previdenziali e, ferma restando la copertura ivi prevista, ad abrogare le novità introdotte con l'articolo 1, comma 292 della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (legge di bilancio 2023).
(1-00133) «Ghirra, Zanella, Piccolotti, Bonelli, Borrelli, Dori, Evi, Fratoianni, Grimaldi, Mari, Zaratti».

(5 maggio 2023)