TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 582 di Martedì 26 ottobre 2021

 
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INTERPELLANZA E INTERROGAZIONE

A) Interpellanza

   Il sottoscritto chiede di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro per le politiche giovanili, per sapere – premesso che:

   l'articolo 1, comma 15, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 9 ottobre 1990 (testo unico sulle tossicodipendenze) così recita: «Ogni tre anni, il Presidente del Consiglio dei ministri, nella sua qualità di Presidente del Comitato nazionale di coordinamento per l'azione antidroga, convoca una conferenza nazionale sui problemi connessi con la diffusione delle sostanze stupefacenti e psicotrope alla quale invita soggetti pubblici e privati che esplicano la loro attività nel campo della prevenzione e della cura della tossicodipendenza. Le conclusioni di tali conferenze sono comunicate al Parlamento anche al fine di individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga dettate dall'esperienza applicativa»;

   l'ultima Conferenza nazionale sulle politiche sulle tossicodipendenze si è tenuta a Trieste nel marzo 2009 (Governo Berlusconi); a partire dal 1990, le cinque precedenti Conferenze nazionali avevano rispettato i termini temporali fissati dal decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990;

   in risposta all'interrogazione a risposta scritta n. 4-00563, l'allora Ministro per la famiglia e le disabilità Lorenzo Fontana, cui erano affidate le deleghe in materia di droghe, affermava: «per la prossima Conferenza sono già state messe in atto le prime attività necessarie all'organizzazione dell'evento, come le consultazioni preliminari dei cosiddetti stakeholder, ai fini della definizione del programma che dovrà tenere conto anche delle novità intervenute sia nelle prassi giurisprudenziali che nel quadro normativo»; nella stessa risposta riferiva altresì: «è quanto mai urgente organizzare entro breve la Conferenza che dovrà essere l'occasione per un confronto privo di contrapposizioni ideologiche volto ad individuare strumenti e soluzioni ad un problema, quello della diffusione di sostanze stupefacenti e psicotrope, per troppi anni assente nell'agenda del Governo e che ha assunto oggi nuove vesti e dimensioni»;

   purtroppo la Conferenza non è stata convocata;

   il bilancio di previsione per l'anno 2021 e per il triennio 2021-2023 della Presidenza del Consiglio dei ministri contiene una succinta relazione sulle attività del centro di responsabilità «Politiche antidroga» e i relativi stanziamenti; le somme complessivamente assegnate alle «Politiche antidroga» sono pari ad euro 7.524.330,00 e sono destinate per euro 36.754,00 al funzionamento ed euro 7.487.576,00 agli interventi; 446.161 euro (quasi un decimo del totale) sono destinate annualmente alla «spesa per la Conferenza triennale sui problemi connessi alla tossicodipendenza, ivi compresi gli eventi preparatori»;

   l'articolo 131 del testo unico di cui al sopra citato decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 prevede la presentazione entro il 30 giugno di ciascun anno di una relazione al Parlamento «sui dati relativi allo stato delle tossicodipendenze in Italia, sulle strategie e sugli obiettivi raggiunti, sugli indirizzi che saranno seguiti nonché sull'attività relativa all'erogazione dei contributi finalizzati al sostegno delle attività di prevenzione, riabilitazione, reinserimento e recupero dei tossicodipendenti»;

   i precedenti Governi hanno provveduto con grave ritardo al suddetto adempimento e lo hanno fatto a giudizio dell'interpellante in modo burocratico, anche perché non c'è stato dibattito parlamentare né politico;

   come affermato nell'undicesimo libro bianco sulle droghe, tali relazioni mostrano peraltro la fotografia di un sistema «statico», che ancora si regge sulle due gambe «SerD/comunità», secondo il modello degli anni '90, e la povertà dei dati in esse contenuti non permette di rilevare gli interventi innovativi che già esistono. Inoltre, la riduzione del danno, che in Europa è un «pilastro» delle politiche in materia di droghe, è la grande assente nei dati ufficiali;

   l'impianto repressivo e sanzionatorio che ispira il testo unico sulle sostanze stupefacenti continua ad essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri. Sugli oltre 60.000 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2019, ben 14.475 (quasi il 24 per cento) lo erano a causa del solo articolo 73 del testo unico (sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio). Resta ai livelli più alti degli ultimi 15 anni la presenza di detenuti definiti «tossicodipendenti»: sono 16.934, quasi il 28 per cento del totale;

   a parere dell'interpellante, solo il confronto fra tutti i soggetti interessati (Governo, regioni, amministrazioni locali, privato sociale, servizi pubblici per le dipendenze) può consentire l'avvio e l'implementazione di nuove politiche in materia, che siano all'altezza dei problemi delle persone e non si limitino a sterili proclami –:

   se non si ritenga e in quali tempi di assumere le iniziative di competenza per assegnare la delega alle tossicodipendenze;

   se si intenda rispettare quanto previsto dall'articolo 1, comma 15, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, convocando, a distanza di dieci anni dalla precedente, la VII Conferenza nazionale sui problemi connessi alla diffusione delle sostanze stupefacenti e psicotrope.
(2-01155) «Magi».

(26 marzo 2021)

B) Interrogazione

   ANNA LISA BARONI, SANDRA SAVINO, NEVI, BOND, CAON e PAOLO RUSSO. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:

   le produzioni italiane di Dop e Igp sono oggetto di imitazioni illegali, l'italian sounding, in violazioni delle norme giuridiche;

   dopo i recenti fatti che hanno riguardato il Prosecco, fortunatamente non ancora definitivi e recuperabili, anche l'aceto balsamico rischia ciò che agli interroganti appare come una forma surrettizia di concorrenza sleale compiuta dalla Slovenia;

   infatti, il Paese aderente all'Unione europea ha comunicato alla Commissione europea l'emanazione di una novella normativa nazionale che disciplina la produzione e commercializzazione degli aceti balsamici, fatto che appare agli interroganti nettamente contrastante con gli standard comunitari e con il principio di armonizzazione del diritto dei Paesi membri in materia di disciplinari agroalimentari;

   la richiesta, ad avviso degli interroganti, è manifestamente strumentale, fatta per consentire il declassamento dell'aceto balsamico a un mero standard di prodotto, in questo modo aggirando il sistema dei marchi di tutela Dop e Igp attualmente vigenti, quindi incompatibile col diritto comune perché non si considera la tutela già ottenuta dai nostri prodotti;

   in sede unionale, il Governo deve tutelare al meglio i diritti dei produttori agricoli italiani, opponendosi alla comunicazione della Slovenia. Si devono garantire tutti i produttori italiani, i quali, nelle rispettive zone d'origine, hanno creato un patrimonio di qualità e tradizione, frutto di antichi saperi e di costante dedizione, rischiosi investimenti e moltissimo lavoro;

   stante la competenza dell'Unione europea, il Governo italiano deve opporsi in quella sede al fine di non snaturare le regole comuni che dovrebbero garantire la qualità dei prodotti tutelati dall'Unione europea e chiedere che l'interpretazione chiarissima, fatta per dirimere analoghi casi dalla Corte di giustizia europea, come per la tutela dello champagne, sia confermata dalla Commissione. In caso contrario, subirebbero un danno non solo i produttori di aceto balsamico di Modena, perché pericolosi precedenti potrebbero aprire la strada a un sistematico attacco ai prodotti italiani mediante imitazioni con denominazioni assonanti dei prodotti Dop e Igp italiani;

   l'iniziativa slovena potrebbe ingrossare il mercato internazionale dei prodotti imitativi, che illegalmente fattura già oltre 100 miliardi di euro, utilizzando impropriamente parole, colori, località, immagini, denominazioni e ricette che si richiamano all'Italia per prodotti falsificati che non hanno nulla a che fare con la realtà nazionale. Si è costruito nel tempo un patrimonio enorme di credibilità, alimentato ancora oggi da migliaia di aziende, lavoratrici e lavoratori che devono essere sostenuti per fatti concludenti, conseguendo risultati giusti e necessari –:

   quali iniziative di competenza il Governo intenda adottare, in sede europea, al fine di contestare la legittimità della normativa nazionale slovena comunicata alla Commissione europea, difendere il marchio di tutela «aceto balsamico» e contrastare quelle che appaiono come forme surrettizie di concorrenza sleale.
(3-02563)

(25 ottobre 2021)
(ex 5-06733 del 23 settembre 2021)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI LAVORO AGILE NELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

   La Camera,

   premesso che:

    dal quadro generale fornito dalle «Linee guida sul piano organizzativo del lavoro agile (Pola) e indicatori di performance» (ex articolo 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall'articolo 263, comma 4-bis, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77), si evince un chiaro e preciso insieme di elementi funzionali per la definizione di un impianto normativo per la regolamentazione del lavoro agile nella pubblica amministrazione, non più rinviabile;

    l'emergenza sanitaria (ancora in corso) ha reso necessario il ricorso, anche nel pubblico impiego, a modalità di svolgimento della prestazione lavorativa non in presenza, genericamente ricondotte al lavoro agile, finora oggetto di limitate sperimentazioni e timidi tentativi di attuazione;

    le diverse realtà pubbliche hanno fatto ricorso nella fase emergenziale a modelli organizzativi di lavoro disciplinati già da tempo nel nostro ordinamento, scoprendone tuttavia punti di forza e di debolezza che sono stati messi al centro di un ampio e diffuso dibattito tuttora in corso;

    le amministrazioni hanno utilizzato tale modalità nella fase emergenziale, in forma semplificata, anche in deroga alla disciplina normativa (ad esempio, l'accordo individuale, l'adozione di atti organizzativi interni che definiscono le regole per lo svolgimento della prestazione in modalità agile e altro) prescindendo, quindi, da una previa revisione dei modelli organizzativi che dovranno tener conto, oltre che di linee guida generali e nazionali, anche di precise caratteristiche personali e comportamentali del personale coinvolto (affidabilità, capacità di lavorare in autonomia e responsabilmente, capacità di utilizzare in modo autonomo la strumentazione mobile e le applicazioni standard, capacità di problem solving);

    il lavoro da casa durante la fase emergenziale ha fornito un'esperienza a livello nazionale che non può e non deve essere ignorata, perché ha consentito di accendere un «focus» sugli elementi imprescindibili per una futura ed impellente revisione normativa del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, tema peraltro ribadito durante il question time dell'8 settembre 2021 dallo stesso Ministro per la pubblica amministrazione;

    è emerso infatti che focalizzando l'attenzione sul piano organizzativo del lavoro agile (Pola) e sugli indicatori di performance, funzionali a un'adeguata attuazione e a un progressivo sviluppo del lavoro agile, si può ottenere un'applicazione graduale della programmazione del lavoro agile attraverso un'elaborazione del programma di sviluppo nell'arco temporale di un triennio;

    l'attuale organizzazione del pubblico impiego, ripensata per favorire il lavoro agile, impone un diverso approccio organizzativo e richiederebbe anche un ripensamento complessivo della disciplina del lavoro pubblico; infatti, l'attuale disciplina normativa e contrattuale del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche riflette modelli organizzativi basati sulla presenza fisica in ufficio, con la conseguenza che numerosi istituti relativi al trattamento giuridico ed economico non sempre sono compatibili con il cambiamento in atto (si pensi, a titolo di esempio, alla disciplina dei permessi, a quella del lavoro straordinario e altro) richiedendo un'azione di revisione complessiva da porre in essere con il coinvolgimento imprescindibile delle organizzazioni sindacali;

    l'attuale normativa, inoltre, mal si concilia con un'organizzazione che deve essere in grado di adattarsi velocemente ai cambiamenti e non permette di lavorare in una logica incrementale, rispettando e rispondendo alle esigenze dell'utenza, e di valorizzare il ruolo dei team caratterizzati dall'intercambiabilità e dalla flessibilità operativa dei componenti;

    tra i fattori imprescindibili per una nuova visione del modello regolatorio del lavoro agile rivestono un ruolo strategico la «cultura organizzativa» e le «tecnologie digitali» in una logica di «cambio di gestione», ovvero di gestione del cambiamento organizzativo per valorizzare al meglio le opportunità rese disponibili dalle nuove tecnologie;

    le tecnologie digitali sono fondamentali per rendere possibili nuovi modi di lavorare, sono da considerarsi, quindi, un fattore indispensabile del lavoro agile. Il livello di digitalizzazione permette di creare spazi di lavoro digitali virtuali, nei quali la comunicazione, la collaborazione e la socializzazione non dipendono da orari e luoghi di lavoro;

    parallelamente dovrà prevedersi anche il diritto alla disconnessione; la pubblica amministrazione dovrà riconosce al lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile i corretti tempi di riposo per garantire il recupero delle energie psico-fisiche, la conduzione della propria vita personale e la libera cura delle proprie relazioni affettive e sociali;

    per rendere tutto ciò più efficace, occorre far leva sullo sviluppo di competenze digitali trasversali ai diversi profili professionali. Tuttavia, la vera chiave di volta, per raggiungere esperienze di successo, è l'affermazione di una cultura organizzativa basata sui risultati, capace di generare autonomia e responsabilità nelle persone, di apprezzare risultati e merito di ciascuno;

    quindi, il tema della misurazione e valutazione della performance assume un ruolo strategico nell'implementazione del lavoro agile, ruolo che emerge anche dalla disposizione normativa che per prima lo ha introdotto nel nostro ordinamento;

    sarà quindi necessario ridefinire i valori sui quali costruire l'auspicato e rinnovato impianto normativo di regolamentazione del lavoro agile nella pubblica amministrazione che tenga conto di una serie di indicatori necessari che dovranno essere adottati per uniformare il pubblico impiego alle mutate esigenze introdotte dalla pandemia: miglioramento dei servizi, aumento della produttività, maggiore benessere organizzativo e diminuzione dei costi della pubblica amministrazione; ciò anche nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 263, comma 4-bis, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative per dare piena attuazione, nel più breve tempo possibile, a un riordino della normativa vigente per la disciplina del lavoro agile nella pubblica amministrazione, che preveda:

   a) la definizione e le modalità di prestazione del lavoro agile alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, contemperando il conseguimento di specifici obiettivi in un arco temporale predeterminato con modalità di organizzazione del lavoro senza vincolo di orario e di luogo di lavoro, prescindendo quindi da obblighi di presenza presso gli uffici, al fine di promuovere l'incremento della produttività e l'efficienza nonché il miglioramento della qualità dei servizi erogati;

   b) la possibilità, per i dipendenti pubblici richiedenti e comunque nella percentuale prevista dai piani organizzativi del lavoro agile individuati dalle diverse pubbliche amministrazioni in misura non inferiore al 30 per cento, di avvalersi delle nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa con la garanzia di non subire penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera;

   c) il potenziamento delle misure di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro favorendo il benessere organizzativo e individuale;

   d) l'incremento dell'utilizzo delle tecnologie digitali a sostegno della prestazione lavorativa, mediante strumenti di lavoro messi a disposizione dalla pubblica amministrazione o comunque attraverso l'utilizzo di software interoperabili ed idonei a garantire la salute e la sicurezza del personale ai sensi e per gli effetti del decreto legislativo n. 81 del 2008 e dei dati dell'amministrazione;

   e) la regolamentazione del diritto alla disconnessione;

   f) il rispetto delle norme contenute nella legge n. 300 del 1970, dei principi espressi dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (2000/C 364/01), dal Regolamento generale sulla protezione dei dati personali (2016/679);

   g) la previsione di apposite disposizioni a sostegno della parità di genere, con particolare attenzione alla tutela di lavoratori e lavoratrici in relazione agli eventi di maternità e paternità;

   h) la creazione di condizioni effettive per una maggiore autonomia e responsabilità dei lavoratori nella gestione dei tempi di lavoro e nel raggiungimento di risultati obiettivamente misurabili, anche nell'ottica di promuovere la mobilità sostenibile tramite la riduzione degli spostamenti casa-lavoro e viceversa;

   i) il progressivo e costante monitoraggio della valutazione dei risultati conseguiti;

   l) un programma triennale per la valorizzazione degli immobili in uso da realizzarsi prioritariamente attraverso la creazione di spazi di coworking;

   m) l'eventuale riduzione delle locazioni passive, oltreché la cessione degli immobili di proprietà non più necessari;

   n) l'utilizzo degli immobili che meglio soddisfano le esigenze di efficientamento energetico, dell'accessibilità dell'utenza e della mobilità del personale;

   o) la destinazione di una quota parte degli eventuali risparmi conseguiti, non inferiore al sessanta per cento, all'incremento della dotazione tecnologica e digitale ai pubblici dipendenti preposti allo svolgimento di prestazioni lavorative in modalità agile, prevedendo altresì che l'eventuale restante quota sia destinata al miglioramento dei saldi di finanza pubblica.
(1-00520) «Baldino, Alaimo, Azzolina, Brescia, Maurizio Cattoi, Corneli, De Carlo, Dieni, Giordano, Francesco Silvestri, Elisa Tripodi».

(24 settembre 2021)

   La Camera,

   premesso che:

    con il decreto-legge 21 settembre 2021, n. 127, il Governo ha esteso a tutto il personale delle pubbliche amministrazioni l'obbligo di possedere e di esibire, dal 15 ottobre 2021, per l'accesso al luogo di lavoro, la certificazione verde Covid-19 (cosiddetto green pass), escludendo da tale obbligo i soli soggetti esentati dalla campagna vaccinale per motivi sanitari;

    estendendo l'obbligo della certificazione verde Covid-19 anche ai lavoratori del settore pubblico, il Governo incrementa l'efficacia delle misure di contrasto al fenomeno epidemiologico e consente, tramite il rientro in presenza dei pubblici dipendenti, di incrementare l'efficienza delle pubbliche amministrazioni. Si tratta di un passaggio indispensabile per sostenere le esigenze dei cittadini e delle imprese, in particolar modo di quelle impegnate nelle attività connesse all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza;

    ci sono dunque le premesse per superare l'utilizzo del lavoro agile quale strumento di contrasto al fenomeno epidemiologico e ripristinare, ai sensi dell'articolo 87, comma 1, del decreto-legge n. 34 del 2020, la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni che è quella svolta in presenza, al fine di supportare cittadini ed imprese nell'affrontare le importanti sfide della ripresa economica e dell'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr);

    l'Aran e le organizzazioni sindacali, nel solco del patto sociale Governo-sindacati del 10 marzo 2021, stanno disciplinando, nell'ambito della contrattazione collettiva nazionale in corso, per la prima volta, il lavoro agile,

impegna il Governo:

1) nelle more della definizione della disciplina del lavoro agile da parte della contrattazione collettiva, ad adottare le iniziative di competenza, anche normative, per:

   a) realizzare, dal 15 ottobre 2021, per le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, il superamento dell'utilizzo del lavoro agile emergenziale, nel rispetto delle vigenti misure di contrasto al fenomeno epidemiologico adottate dalle competenti autorità, prevedendo:

   1) un'organizzazione delle attività degli uffici che assicuri, da subito, la presenza in servizio del personale preposto alle attività di sportello e di ricevimento degli utenti (front office) e del back office;

   2) l'individuazione, anche in relazione alle condizioni dei trasporti pubblici, di fasce temporali di flessibilità oraria in entrata e in uscita ulteriori rispetto a quelle adottate, allo scopo di evitare di concentrare l'accesso al luogo di lavoro dei lavoratori in presenza nella stessa fascia oraria e di ingolfare il trasporto pubblico locale;

   b) consentire l'accesso al lavoro agile nel rispetto della disciplina previgente alla pandemia e in ottemperanza degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81;

   c) prevedere che le amministrazioni assicurino che lo svolgimento della prestazione di lavoro in modalità agile non pregiudichi o riduca la fruizione dei servizi resi a favore degli utenti;

   d) prevedere che le amministrazioni forniscano al dipendente strumenti tecnologici idonei a garantire la più assoluta riservatezza dei dati e delle informazioni che vengono trattate dal lavoratore nello svolgimento della prestazione in modalità agile;

   e) tutelare i lavoratori fragili – in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita – o quelli che sono stati esentati, a qualsiasi titolo, dalla somministrazione vaccinale contro il Covid-19, e adottare ogni soluzione utile ad assicurare lo svolgimento di attività in modalità agile.
(1-00521) «Valentini, Calabria, Zangrillo, Milanato, Paolo Russo, Sarro, Tartaglione, Polverini, Cannatelli, Fatuzzo, Musella, Rotondi».

(24 settembre 2021)

   La Camera,

   premesso che:

    l'emergenza pandemica Covid-19 ha determinato una rivoluzione nell'ambito lavorativo attraverso il ricorso massivo al lavoro agile o cosiddetto smart working, sia nel settore pubblico che privato; riconoscere la possibilità di lavorare da remoto anche a coloro che svolgono lavoro subordinato – il cui luogo di lavoro è generalmente nei locali del datore con orario fisso – è stata individuata come una valida misura per diminuire gli spostamenti delle persone e, di conseguenza, contrastare la diffusione dei contagi;

    prima che diventasse funzionale alla gestione dell'emergenza, questo innovativo modello di lavoro faticava a decollare a causa di una mentalità retrograda e ancorata ad una rigida concezione dell'organizzazione di lavoro subordinato; ciò ha ostacolato uno sviluppo che non solo consente di adeguare le modalità di svolgimento delle prestazioni di lavoro dipendente alla rivoluzione tecnologica che c'è stata negli ultimi decenni, ma che responsabilizza anche il lavoratore rispetto agli obiettivi da raggiungere;

    si tratta, tra l'altro, di un modello che reca in sé benefici innanzitutto in termini di welfare, posto che mette in equilibrio i tempi di lavoro e di vita del lavoratore, e, in secondo luogo, in termini di sostenibilità ambientale, considerando che provoca una diminuzione degli spostamenti, e, dunque, del traffico urbano consentendo di abbattere le emissioni inquinanti, vantaggio notevole in un Paese come l'Italia che ha un alto numero di pendolari;

    è doveroso però evidenziare che la modalità di lavoro applicata in via emergenziale non è stata propriamente quella del lavoro agile, ma si è trattato di un mero lavoro dal proprio domicilio o comunque da remoto avviato, tempestivamente, con il ricorso ad una serie di deroghe alla legge istitutiva del lavoro agile, che ha di fatto snaturato questo modello di lavoro poiché sono venuti meno elementi essenziali che sono propri dello stesso, tra i quali: la formalizzazione di un contratto, la definizione degli obiettivi, l'individuazione dei dispositivi tecnologici di lavoro, le condizioni di sicurezza sul lavoro, le modalità di esercizio del potere di controllo e disciplinare;

    dunque, il lavoro agile applicato in questi mesi è stato «emergenziale» e ha rappresentato una forma di lavoro a distanza, che è solo una delle peculiarità del più articolato ed innovativo modello di lavoro agile che il legislatore ha istituito con la legge 22 maggio 2017, n. 81;

    ciò non toglie che questa misura, con i limiti anzidetti, anche nella pubblica amministrazione è stata una valida soluzione per il contrasto alla pandemia e ha consentito ai lavoratori di continuare a svolgere il proprio lavoro in sicurezza, seppure in assenza di tutti gli strumenti e le condizioni necessarie;

    al riguardo, un rinnovamento della disciplina sul lavoro agile è intervenuto con l'adozione da parte delle amministrazioni pubbliche del «Piano organizzativo del lavoro agile» (Pola) con il quale le amministrazioni devono regolare le modalità attuative dello smart working per le attività che possono essere svolte da remoto, e individuare gli strumenti per la verifica dei risultati conseguiti per migliorare l'efficacia e l'efficienza dell'azione amministrativa;

    a decorrere dal 2021 gli enti pubblici, entro il 31 gennaio di ciascun anno, devono redigere, sentite le organizzazioni sindacali, il Pola, quale sezione del Piano della performance, in conformità all'articolo 263 del decreto-legge n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020; tale strumento ha dunque un ruolo primario per proseguire un percorso di sviluppo e definizione del lavoro agile nel pubblico impiego;

    l'ultimo intervento che ha interessato lo smart working nella pubblica amministrazione è stato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 settembre 2021, con il quale è stato stabilito che dal 15 ottobre 2021 la modalità ordinaria di lavoro nella pubblica amministrazione torna a essere quella svolta in presenza;

    il Ministro per la pubblica amministrazione, Renato Brunetta, ha infatti evidenziato che il lavoro da remoto attuato nel pieno dell'emergenza nel settore del pubblico impiego, in mancanza degli strumenti digitali e dell'organizzazione necessaria, non ha sempre garantito adeguati servizi pubblici ai cittadini; pertanto, ritenendo che nell'attuale fase la pandemia sia sotto controllo, è stato disposto il ritorno in presenza;

    sul punto, si ritiene che laddove il lavoro da remoto non abbia funzionato dipende, oltre che dalla mancanza di mezzi e condizioni organizzative, anche da un evidente errore di valutazione che è stato compiuto nell'ambito della pubblica amministrazione, nel riconoscere talvolta lo smart working anche per mansioni non compatibili con questa modalità di svolgimento della prestazione di lavoro;

    per garantire i servizi pubblici, appare ragionevole un ritorno in presenza dei lavoratori, poiché mancano ancora i presupposti necessari per svolgere il lavoro agile in modo proficuo; tuttavia, non bisogna rinunciare ad una sua implementazione e a uno suo sviluppo, attraverso gli strumenti e un impianto regolatorio che ne consentano un ricorso appropriato, nella consapevolezza che si rivolge ai dipendenti che svolgono mansioni eseguibili a distanza e con flessibilità di orario, senza che vengano compromesse le loro performance lavorative;

    su questo presupposto, può essere ragionevole favorire il lavoro agile, ad esempio, con formule miste (un giorno o più alla settimana), dando precedenza a specifiche categorie che hanno più bisogno di flessibilità (ad esempio famiglie con figli minori o disabili);

    il Ministro per la pubblica amministrazione ha dichiarato che il dicastero che guida ha come obiettivo quello di disciplinare il lavoro agile nella pubblica amministrazione entro il 2021, e a tale scopo si stanno svolgendo delle trattative tra l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) e i sindacati, per pervenire ad un accordo di regolamentazione nell'ambito della contrattazione collettiva,

impegna il Governo,:

1) ad assumere iniziative, anche normative, per consentire un appropriato ricorso al lavoro agile nella pubblica amministrazione, affinché siano valorizzati gli aspetti vantaggiosi di tale modello di lavoro nel pubblico impiego, alla condizione di migliorare e garantire i servizi pubblici erogati alla collettività, in particolare prevedendo:

   a) compatibilmente con la situazione epidemiologica, e fatta salva la necessità di iniziative specifiche a tutela dei lavoratori fragili e dei genitori di figli minori, un graduale superamento della modalità di lavoro da remoto emergenziale poiché non conforme alle condizioni richieste per svolgere il lavoro agile come prevede la normativa in materia;

   b) ogni iniziativa utile affinché l'accesso a forme di lavoro a distanza, come lo smart working e il telelavoro, avvenga nel rispetto di un'idonea organizzazione del lavoro e fornendo le necessarie tecnologie digitali;

   c) un'adeguata definizione degli elementi essenziali dell'accordo di lavoro agile tra i quali: durata dell'accordo; conformità delle prestazioni oggetto del contratto di lavoro; individuazione degli specifici obiettivi e risultati che deve conseguire il lavoratore; luogo di lavoro scelto dal lavoratore e requisiti minimi di idoneità dei locali; fascia oraria entro la quale la prestazione lavorativa deve svolgersi nel rispetto del numero di ore di lavoro previste nel contratto di lavoro; modalità di esercizio del potere disciplinare; modalità di verifica periodica degli obiettivi e risultati da raggiungere; individuazione della strumentazione tecnologica fornita al lavoratore e informativa sull'utilizzo; principio di riservatezza dei dati e delle informazioni in possesso del lavoratore; informativa rispetto alle condizioni di sicurezza sul lavoro;

   d) specifiche misure che garantiscano l'adempimento di ogni obbligo a tutela della salute e sicurezza dei dipendenti che svolgono la prestazione in locali esterni, anche per quanto concerne l'obbligo di cooperazione in capo al lavoratore rispetto all'attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro, come quelle riguardanti l'uso corretto degli strumenti tecnologici e la scelta del luogo in cui svolgere l'attività in modalità agile, secondo l'osservanza di criteri di ragionevolezza;

   e) la disciplina del cosiddetto diritto alla disconnessione, per tutelare il lavoratore affinché non sia messo nelle condizioni di essere costantemente reperibile senza limiti di orario;

   f) laddove compatibile con le mansioni svolte, l'incentivazione strutturale dell'accesso al lavoro agile a specifiche categorie di lavoratori e lavoratrici che hanno più bisogno di flessibilità rispetto all'orario e al luogo di lavoro, come persone fragili con malattie invalidanti o con disabilità, componenti di nuclei familiari con figli minori e/o persone disabili da assistere;

   g) l'adozione di ogni provvedimento necessario per proteggere i dati, in particolare quelli sensibili, di cui dispone la pubblica amministrazione rispetto allo svolgimento della modalità di lavoro agile;

   h) misure che garantiscano al lavoratore l'accesso da remoto a dati, informazioni, documenti della pubblica amministrazione, la cui visione è necessaria per adempiere la prestazione di lavoro, mediante canali sicuri e protetti;

   i) l'adozione di misure che rendano effettiva la parità di trattamento – economico e normativo – tra i lavoratori che svolgono la prestazione in modalità agile e i loro colleghi che eseguono la prestazione con modalità ordinaria, anche rispetto al riconoscimento dei buoni pasto laddove siano previsti.
(1-00522) «Rizzetto, Ferro, Bucalo, Zucconi, Galantino, Lucaselli».

(6 ottobre 2021)

   La Camera,

   premesso che:

    l'emergenza pandemica da Sars-CoV-2 ha richiesto alle amministrazioni pubbliche un tempestivo adeguamento dell'organizzazione del lavoro e dei servizi tale da assicurare, al contempo, la continuità dell'azione amministrativa e la riduzione al minimo dei fattori di rischio sanitario. In tale contesto il processo di sperimentazione prima e diffusione poi del cosiddetto smart-working, pur nella diversificata valutazione degli effettivi impatti organizzativi e sociali, ha dato significativa evidenza all'urgenza di accompagnare e portare avanti anche nella vasta e complessa galassia delle pubbliche amministrazioni una compiuta transizione digitale ed ecologica. Transizione, questa appena indicata ed auspicata, che non può certo risolversi nella mera trasformazione tecnologica dei mezzi e delle modalità di produzione dei beni e servizi amministrativi, ma richiede invece l'adozione di più radicali strategie di adattamento sul piano dell'organizzazione del lavoro, delle modalità di erogazione dei servizi alla collettività e della stessa percezione culturale del ruolo costituzionale delle pubbliche amministrazioni e, in esse, del lavoro pubblico, in società complesse ed interconnesse ormai profondamente segnate da una accelerata innovazione digitale;

    per queste ragioni, appare oltremodo necessario superare l'approccio emergenziale – che fino ad ora ha configurato le condizioni d'uso del cosiddetto smart-working come strumento di contenimento emergenziale dei rischi pandemici – a favore di una diversa prospettiva che sia capace di innervare il lavoro smart in una organizzazione egualmente smart, emarginando così suggestioni radicali a beneficio di una più realistica considerazione dell'impatto delle innovazione digitale sul lavoro, le sue forme ormai ibride e le sue regole, almeno per quanto riguarda tempi, spazi e luoghi di erogazione della prestazione dovuta, esercizio dei poteri e delle prerogative manageriali, protezione della salute e della sicurezza sul lavoro (e in questo caso, anche del lavoro svolto), senza dimenticare infine il necessario adattamento delle stesse forme di esercizio dell'attività sindacale che una lunga storia ha fin qui configurato come presenza attiva nel luogo di lavoro;

    la sperimentazione e diffusione emergenziale del cosiddetto smart-working in epoca pandemica è stata formalmente correlata e in qualche misura anche resa possibile dal rinvio, per quanto non sempre coerente e sistematicamente corretto, alla legge 25 maggio 2017, n. 81, il cui Capo II è interamente dedicato alla disciplina del «lavoro agile» considerato funzionale ad «incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro» e formalmente qualificato quale «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato» nel cui ambito «la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno». L'incertezza nella riconduzione della risposta emergenziale ad una precisa fattispecie astratta di rapporto di lavoro, sia sul piano strutturale che su quello funzionale o degli obiettivi perseguiti, ha trovato un evidente riflesso in una sorta di sinonimia terminologica tra lavoro agile, smart working, lavoro da remoto, lavoro da casa, che pure ha determinato, non poche volte, anche fraintendimenti concettuali e distorte valutazioni critiche, alcune delle quali frutto di evidente pregiudizio;

    tuttavia, occorre ricordare che prima ancora della citata legge n. 81 del 2017 ed in attuazione delle previsioni dei commi 1 e 2 dell'articolo 14 della legge 7 agosto 2015, n. 124, la Presidenza del Consiglio dei ministri ha adottato la direttiva n. 3/2017 recante «indirizzi per l'attuazione dei commi 1 e 2 dell'articolo 14 della legge 7 agosto 2015 n. 124 e linee guida contenenti regole inerenti all'organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti», così avviando la sperimentazione del «lavoro agile» nelle amministrazioni pubbliche nell'ambito della prevista introduzione di più funzionali misure di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti e di più adeguate modalità di organizzazione del lavoro, basate sull'utilizzo della flessibilità, sulla valutazione per obiettivi, sulla rilevazione dei bisogni del personale dipendente. Si tratta, come appare evidente, di un approccio organizzativo, prima che regolativo, basato sulla flessibilità, l'autonomia, la responsabilizzazione e l'orientamento ai risultati e rappresenta, in quanto tale, un'innovazione radicale rispetto al modello rigidamente burocratico-formale (taylorismo da scrivania, così fu definito) di organizzazione del lavoro e di conseguente valutazione meramente quantitativa delle prestazioni all'interno delle pubbliche amministrazioni;

    proprio per queste stesse ragioni, il «lavoro agile» disegnato dalla direttiva del 2017 appare non riconducibile al modello del lavoro a distanza o telelavoro sancito dall'articolo 4, comma 1, della legge 16 giugno 1998, n. 191 e destinato a «razionalizzare l'organizzazione del lavoro e realizzare economie di gestione attraverso l'impiego flessibile delle risorse umane». A tal fine, la legge del 1998 consentiva alle amministrazioni di installare, nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio, apparecchiature informatiche e collegamenti telefonici e telematici necessari e di autorizzare i propri dipendenti ad effettuare, a parità di salario, la prestazione lavorativa in luogo diverso dalla sede di lavoro, previa determinazione delle modalità per la verifica dell'adempimento della prestazione lavorativa. Tali previsioni, espresse con un linguaggio tecnico che oggi potrebbe sembrare quasi arcaico, hanno poi trovato puntuale attuazione con il decreto del Presidente della Repubblica n. 70 del 1999 recante «Regolamento recante disciplina del telelavoro nelle pubbliche amministrazioni, a norma dell'articolo 4, comma 3, della legge 16 giugno 1998, n. 191». Deve però dirsi che tale forma di lavoro a distanza, originata più dalla coeva attenzione comunitaria per la riduzione dei costi diretti e indiretti connessi a fenomeni di accentuato pendolarismo piuttosto che dalle esigenze di riorganizzazione tecnologica dell'attività amministrativa, pur ancora recentemente richiamata dall'articolo 14 della legge n. 124 del 2015 non ha avuto grande fortuna;

    a ben vedere, invece, l'impostazione della citata direttiva presidenziale del 2017 ha trovato sistematica conferma nelle previsioni dell'articolo 18, commi 1 e 3, della legge 25 maggio 2017, n. 81, in materia di disciplina del lavoro agile. Di per sé tale disciplina, implementata nel sistema organizzativo delle pubbliche amministrazioni, può rappresentare aspetti di profonda innovazione quali: la valorizzazione e la responsabilizzazione delle risorse umane, potendosi concentrare la loro valutazione sulla base dei risultati piuttosto che su aspetti formali e quantitativi; la razionalizzazione nell'uso delle risorse e aumento della produttività, con risparmi in termini di costi e miglioramento dei servizi offerti; la promozione dell'uso delle tecnologie digitali più innovative e utilizzo dello smart working come leva per la trasformazione digitale e per lo sviluppo delle conoscenze digitali; l'abbattimento delle differenze di genere; la riduzione delle forme di «assenteismo fisiologico»; la valorizzazione del patrimonio immobiliare della pubblica amministrazione, grazie alla riprogettazione degli spazi;

    deve rilevarsi, tuttavia, che prima della fase di emergenza pandemica e della conseguente riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni che ha originato il ricorso allo smart working semplificato quanto alle procedure e illimitato quanto alla platea dei beneficiari, solo 1,7 per cento dei dipendenti pubblici risultava impegnato con tale tipologia di prestazione lavorativa, connessa d'altronde più agli obiettivi da raggiungere e meno alla necessaria e cautelativa assenza dall'ufficio. Deve egualmente rilevarsi che solo in una fase successiva l'esecuzione a distanza della prestazione lavorativa, inizialmente pensata come strumento di contrasto alla diffusione epidemica, è stata ricondotta in una logica più ampia e di sistema disponendosi l'obbligo, in capo alle amministrazioni di elaborare un annuale Piano organizzativo per il lavoro agile (Pola), successivamente sostituito e integrato nel Piano integrato di attività e organizzazione (Piao) configurato in guisa tale da riportare in una cornice unitaria anche i diversi piani relativi alla performance, alla promozione della parità di genere e all'implementazione della disciplina di contrasto alla corruzione. In relazione al lavoro agile a tale strumento risulta ora affidato il compito di pianificare le misure organizzative, i requisiti tecnologici, i percorsi formativi del personale, anche dirigenziale, e gli strumenti di rilevazione e di verifica periodica dei risultati conseguiti, anche in termini di miglioramento dell'efficacia e dell'efficienza dell'azione amministrativa, della digitalizzazione dei processi, nonché della qualità dei servizi erogati, anche coinvolgendo i cittadini, sia individualmente, sia nelle loro forme associative. Tuttavia, sulla base di quanto risultante da una prima verifica sull'attuazione delle suddette previsioni organizzative emerge che solo 54 delle 162 amministrazioni statali monitorate hanno pubblicato i relativi Pola entro la scadenza del 31 gennaio 2021;

    l'obiettivo di meglio correlare lavoro e organizzazione tramite le nuove tecnologie digitali, nella prospettiva del miglioramento dei servizi resi ai cittadini, chiama in causa la Missione n. 1 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che propone, in linea con le raccomandazioni della Commissione europea, un programma di innovazione strategica della pubblica amministrazione nel cui ambito una specifica linea progettuale persegue l'obiettivo della digitalizzazione e della modernizzazione della pubblica amministrazione, con interventi specifici anche per rafforzare l'organizzazione e incrementare la dotazione di capitale umano, secondo una stretta complementarietà e un'articolata strategia di riforma, che, secondo quanto previsto nella proposta, potrà contare su ingenti risorse finalizzate agli investimenti nel capitale umano, nel quadro di un investimento complessivo nella digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella pubblica amministrazione pari a 9,75 miliardi di euro;

    come rilevato dallo stesso Pnrr, nell'ultimo decennio l'evoluzione della spesa pubblica per la parte relativa al personale, con il blocco del turn over, ha generato una significativa riduzione del numero dei dipendenti pubblici nel nostro Paese, con un'incidenza sull'occupazione totale largamente inferiore rispetto alla media dei Paesi Ocse e con un'età media di 50 anni e con solo il 4,2 per cento di età inferiore ai 30 anni. Un fattore questo che ha «contribuito a determinare un crescente disallineamento tra l'insieme delle competenze disponibili e quelle richieste dal nuovo modello economico e produttivo disegnato per le nuove generazioni», evidenziando inoltre come la carenza delle competenze sia stata determinata «dal taglio delle spese di istruzione e formazione per i dipendenti pubblici. In dieci anni, gli investimenti in formazione si sono quasi dimezzati, passando da 262 milioni di euro nel 2008 a 164 milioni nel 2019: una media di 48 euro per dipendente»;

    fra gli obiettivi perseguiti con le linee di investimento del Pnrr vi è quello di rafforzare la conoscenza e le competenze del personale, dirigenziale e non dirigenziale, della pubblica amministrazione mediante azioni specifiche: introduzione di meccanismi di rafforzamento del ruolo, delle competenze e delle motivazioni dei civil servant, attraverso percorsi di valorizzazione della professionalità acquisita e dei risultati raggiunti, anche tramite la previsione di progressioni di carriera basate su percorsi non automatici ma selettivi di sviluppo e crescita; introduzione di un nuovo modello di lavoro pubblico, anche attraverso strumenti normativi e contrattuali, con valutazione e remunerazione basate sul risultato e valorizzazione economica delle risorse umane aventi caratteristiche di eccellenze professionali; introduzione di meccanismi di rafforzamento del ruolo e delle competenze dei dirigenti pubblici, riservando particolare attenzione al tema dell'accesso delle donne a posizioni dirigenziali; riforma del sistema di formazione; lavoro agile e nuove forme di organizzazione del lavoro pubblico;

    l'efficace evoluzione delle misure di contrasto della pandemia messe in campo dal marzo 2020, che ha visto una svolta con l'avvio di una massiccia campagna di vaccinazione della popolazione e, da ultimo, con le misure che hanno esteso l'obbligo della certificazione verde Covid-19 consentono un progressivo e controllato ritorno alla normalità sociale e lavorativa, tanto che il 23 settembre 2021 è stato adottato un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri con il quale si sancisce, che a decorrere dal 15 ottobre, la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa presso le amministrazioni pubbliche è quella in presenza. Alla luce di tale ultima deliberazione, cessando dunque il regime straordinario del lavoro agile o cosiddetto smart-work, si rende necessario ripristinare la condizione ordinaria di disciplina delle relazioni di lavoro e quindi dare corso alla regolamentazione prevista dall'articolo Modella citata legge n. 124 del 2015, che sulla base della recente novella dispone quanto segue: «Il Pola individua le modalità attuative del lavoro agile prevedendo, per le attività che possono essere svolte in modalità agile, che almeno il 15 per cento dei dipendenti possa avvalersene, garantendo che gli stessi non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera, e definisce, altresì, le misure organizzative, i requisiti tecnologici, i percorsi formativi del personale, anche dirigenziale, e gli strumenti di rilevazione e di verifica periodica dei risultati conseguiti, anche in termini di miglioramento dell'efficacia e dell'efficienza dell'azione amministrativa, della digitalizzazione dei processi, nonché della qualità dei servizi erogati». Giova al riguardo precisare almeno che l'articolo 14 testé citato impone di differenziare il telelavoro dal lavoro agile, suggerendo di fatto che, mentre il primo – il solo originariamente previsto dalla legge n. 124 – ha riguardo soltanto alle modalità estrinseche di esecuzione del lavoro da remoto, il secondo – aggiunto invece dalle novelle ultime – attiene invece alla stessa configurazione intrinseca della prestazione di lavoro conformata da obiettivi di lavoro e dalla responsabilità per il conseguente raggiungimento. Proprio per queste ragioni deve escludersi che la finalità prima del lavoro agile sia da individuare nella sola promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, come recita la rubrica originario dell'articolo 14 citato, dovendosi viceversa tenere debito conto di più stringenti finalità di miglioramento organizzativo e di riqualificazione dell'offerta ai cittadini di beni e servizi amministrativi. In questa prospettiva, è ragionevole ritenere il lavoro agile alla stregua di modalità ordinaria di svolgimento della prestazione, secondo le esigenze definite dall'assetto organizzativo dell'amministrazione interessata e, com'è ovvio, soltanto per le attività che possono essere svolte in modalità agile. Resta comunque ferma l'esigenza di assicurare sempre la massima cautela possibile dal punto di vista sanitaria atteso che la condizione epidemica non è del tutto risolta. Ciò in concreto significa che devono ritenersi essenziali per lo svolgimento delle prestazioni lavorative in condizioni di sicurezza sanitaria le indicazioni e le prescrizioni stabilite con i protocolli per la sicurezza Covid-19;

    coerentemente con il patto sociale Governo-sindacati del 10 marzo 2021, la disciplina del rapporto di lavoro in modalità agile presso le pubbliche amministrazioni è oggetto del confronto tra l'Aran e le organizzazioni sindacali e dovrà contemplare la possibilità di stipulare accordi individuali nel rispetto di un quadro di riferimento unitario di garanzie definite dalla contrattazione collettiva. Tuttavia, è necessario tenere conto che il sistema delle pubbliche amministrazioni non consente una reductio ad unum dei modelli organizzativi e pertanto ogni disciplina di carattere generale non può che operare come regolazione di cornice, soprattutto per quanto riguarda la tutela dei diritti fondamentali, valorizzando poi la contrattazione integrativa per la disciplina delle diverse modalità di esecuzione del rapporto di lavoro agile, con e senza vincoli di tempo, anche assicurando la previsione di adeguate forme partecipative e di confronto sulle scelte organizzative connesse alle attività e ai servizi che le pubbliche amministrazioni sono chiamate a realizzare, per favorire il consenso e coinvolgimento dei lavoratori per accompagnare i cambiamenti dell'organizzazione del lavoro e dei servizi;

    in ogni caso, l'introduzione di ordinarie forme di lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni deve tenere in considerazione anche gli effetti sociali esterni derivanti da tale modalità di erogazione della prestazione lavorativa, quali ad esempio: l'incidenza sui sistemi economici locali, la rivitalizzazione di comuni periferici, la riduzione dei costi (diretti e indiretti) di trasporto, la razionalizzazione degli spazi utilizzati e altri potrebbero dirsi. Esempi, questi, che evidenziano come il lavoro agile si ponga al centro di un complesso sistema di relazioni, organizzative, economiche e sociali, che operano dentro e fuori dal contesto amministrativo e che devono tutte essere ricondotte ad unità armonica nella prospettiva prioritaria del miglioramento quali-quantitativo dei servizi ai cittadini. D'altronde, già durante la fase emergenziale e del ricorso illimitato allo smart working, sono state comunque adottate buone pratiche che, seppure per mere esigenze sanitarie, hanno consentito all'utenza di fruire da remoto dei servizi richiesti grazie alle tecnologie telematiche. Una innovativa soluzione che non può essere dispersa con il ritorno al lavoro prevalentemente in presenza, fermo restando la differenza concettuale e operativa tra l'erogazione da remoto di servizi al cittadino e l'organizzazione del lavoro da remoto per i dipendenti;

    conseguentemente, una moderna organizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, incentrata sull'autonomia, sulla responsabilizzazione e l'orientamento ai risultati al posto del modello rigidamente burocratico-formale dovrà comportare un parallelo e radicale cambiamento della cultura, della visione e del ruolo della dirigenza pubblica, in linea con le esperienze più avanzate che si stanno consolidando nelle realtà produttive più dinamiche. Al riguardo, l'Osservatorio smart working del Politecnico di Milano ricorda come tale modalità organizzativa e lavorativa comporti «una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati». Addirittura, secondo il World Economic Forum, il ricorso massiccio allo smart-working ha portato negli Usa ad un incremento della produttività del lavoro pari al 4,6 per cento, mentre un recente studio di Pwc stima che, se tutte le mansioni potenzialmente eseguibili da remoto venissero effettivamente svolte in modalità agile, questo darebbe al nostro prodotto interno lordo una spinta dell'1,2 per cento. Come indicato dalla Commissione europea, gli Stati membri dovrebbero concentrarsi sulle riforme e sugli investimenti che migliorano la connettività, promuovendo e agevolando la diffusione su vasta scala di reti ad altissima capacità, in tutte le aree geografiche, zone urbane e rurali, assicurando ai cittadini, alle imprese e alle amministrazioni locali la connessione a tali reti in maniera efficiente e stabile,

impegna il Governo:

1) ad adottare, nel rispetto del ruolo delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e tenuto conto anche delle opinioni delle organizzazioni di rappresentanza degli utenti, ogni iniziativa utile per migliorare, modernizzare e riqualificare, nella prospettiva della transizione digitale ed ecologica, l'attività e l'organizzazione delle pubbliche amministrazioni, in guisa tale da rendere possibile una effettiva ed utile implementazione del lavoro agile, operando al contempo per superare logiche procedurali di tipo formale a beneficio di modalità organizzative orientate agli obiettivi di lavoro da conseguire e favorendo l'autonomia responsabile degli addetti, anche attraverso la promozione di micro-team professionali capaci di operare su piattaforme condivise, al fine principale di migliorare in modo oggettivamente significativo i servizi ai cittadini;

2) a dare immediato avvio ai programmi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) in materia di digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella pubblica amministrazione, con particolare riguardo agli investimenti sul capitale umano per l'adeguamento all'innovazione e alla digitalizzazione;

3) a favorire, per quanto di competenza, che, nella definizione del confronto tra l'Aran e le organizzazioni sindacali per la disciplina del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, vengano individuate soluzioni che inseriscano gli accordi individuali in un quadro di regole certe e di garanzia individuate dalla contrattazione collettiva, a cominciare dai diritti alla formazione, alla non discriminazione, alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, dalle esigenze dei lavoratori con disabilità o che assistono congiunti con patologie, dai diritti alla sicurezza e alla parità di genere, dai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici in relazione alla nascita dei figli, dal rispetto della protezione dei dati personali e dalla regolamentazione del diritto alla disconnessione, assicurando anche un adeguato spazio alla contrattazione integrativa, al fine di consentire il migliore adattamento delle esperienze di lavoro agile ai diversi contesti organizzativi di riferimento, sulla base di un'adeguata e coerente valutazione dei dirigenti responsabili, tenendo in debito conto che il lavoro agile non può determinare conseguenze negative ed anzi deve generare conseguenze positive sull'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa nell'interesse prioritario degli utenti, e più in generale dei cittadini;

4) ad adottare le opportune iniziative di competenza per definire indirizzi affinché, anche con il superamento della fase emergenziale e il ritorno in presenza quale modalità ordinaria di prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni, siano proseguite e, anzi, incrementate le positive esperienze che hanno consentito l'assolvimento degli obblighi burocratici in capo a cittadini e imprese con modalità telematiche ma siano anche assicurate adeguate modalità per consentire lo svolgimento in presenza delle attività per tutti quei cittadini che non possono agevolmente fruire, per condizioni soggettive od oggettive, dei servizi da remoto;

5) ad adottare iniziative di competenza volte a promuovere e a supportare le pubbliche amministrazioni affinché ognuna di esse adotti il «piano organizzativo per il lavoro agile» (Pola), nei termini previsti dalla legge;

6) a monitorare ed analizzare, anche con esperti indipendenti, gli effetti del ricorso al lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni ai fini di un più razionale utilizzo degli spazi lavorativi, che porti all'eventuale riduzione delle locazioni passive o a dismissioni di immobili pubblici non più indispensabili, coerenti con la programmazione urbanistica definita dalle amministrazioni comunali;

7) a dare la più rapida attuazione ai progetti previsti dal Pnrr volti ad assicurare che tutte le amministrazioni pubbliche, così come, i cittadini e le imprese delle aree interne, delle aree montane e delle piccole isole possano essere connessi tramite reti telematiche efficienti e sicure.
(1-00523) «Viscomi, Mura, Carla Cantone, Gribaudo, Lacarra, Lepri, Madia, Bruno Bossio, Fiano, Berlinghieri».

(11 ottobre 2021)

   La Camera,

   premesso che:

    l'emergenza pandemica Covid-19 ha comportato il ricorso massivo al lavoro agile o cosiddetto smart working, sia nel settore pubblico sia privato, determinando una rivoluzione nell'ambito lavorativo la cui diffusione generalizzata ha evidenziato la necessità di portarlo a regime con regole adeguate per il dopo crisi;

    secondo una ricerca congiunta dell'università di Pittsburgh e la Bocconi italiana, il lavoro da remoto e flessibile avrebbe un influsso positivo sulla pianificazione delle politiche familiari poiché consente di organizzare le esigenze della vita privata con quella lavorativa in modo più duttile, con un alto grado di collaborazione tra uomini e donne, specie per le lavoratrici di alta formazione;

    lo smart working, pertanto, potrebbe ribaltare l'assioma del XX secolo: la proporzionalità inversa tra grado di istruzione e fertilità;

    occorre quindi considerare che, attraverso la diffusione dello smart working, si sta imponendo il digital divide della fertilità in aggiunta ad altre variabili economiche e sociali, come la formazione e la remunerazione, che influiscono in modo decisivo sulla decisione di avere figli;

    secondo una recentissima analisi della Banca d'Italia, nella prima parte del 2020, i dipendenti privati in smart working sono arrivati al 14 per cento, contro l'1,5 per cento di fine 2019, mentre i pubblici sono passati dal 2,4 per cento al 33 per cento;

    svolgere la propria prestazione lavorativa da remoto si è rivelata essere una efficace alternativa al recarsi nelle sedi classiche lavorative con orario fisso – per diminuire gli spostamenti delle persone e, di conseguenza, contrastare la diffusione dei contagi;

    si tratta, tra l'altro, di un modello che reca in sé benefici innanzitutto sia in termini di welfare – poiché consente di conciliare i tempi di vita e lavoro del lavoratore – sia in termini di sostenibilità ambientale, in quanto comporta una sensibile diminuzione degli spostamenti nel traffico urbano, consentendo pertanto di abbattere le emissioni inquinanti; si tratta di un vantaggio notevole specie nelle grandi città del nord alle prese con grossi problemi di smog;

    un'implementazione e uno sviluppo dello smart working, per le mansioni che sia possibile svolgere a distanza e con flessibilità di orario, può migliorare le performance lavorative specie ricorrendo a formule miste, riconoscendo la priorità nel ricorso a specifiche categorie;

    il tema della misurazione e valutazione della performance assume così un ruolo strategico nell'implementazione del lavoro agile anche nella pubblica amministrazione, tale da rendere necessario pianificare le mansioni da svolgere e gli obiettivi da conseguire, nonché il monte ore da dedicare a ciascuna attività, secondo programmi periodici definiti in sede di accordo tra le parti,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative urgenti, anche normative, affinché sia esteso e rafforzato il modello del lavoro agile, in particolare prevedendo di:

   a) escludere dall'obbligo di possedere e di esibire, dal 15 ottobre 2021, per l'accesso al luogo di lavoro, la certificazione verde Covid-19 (cosiddetto green pass), prevista dal decreto-legge 21 settembre 2021, n. 127, il personale delle pubbliche amministrazioni in lavoro agile;

   b) promuovere il riordino della normativa in materia di lavoro agile nella pubblica amministrazione, che permetta di adeguare il pubblico impiego alle mutate esigenze dettate dalla pandemia quali: aumento della produttività, maggiore benessere organizzativo, diminuzione dei costi della pubblica amministrazione, prevedendo che lo smart working sia riconosciuto per ogni mansione adatta ad essere svolta nella sua interezza a distanza e con flessibilità di orario, non pregiudicando la qualità dei relativi servizi resi a favore degli utenti;

   c) adottare ogni soluzione utile ad assicurare lo svolgimento di attività in modalità agile in via prioritaria a: lavoratori fragili – in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita, alle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità e ai genitori con figli con disabilità grave (ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992, ai lavoratori che svolgono funzioni di caregiver familiare; ai lavoratori dipendenti che assistono persona con handicap in situazione di gravità);

   d) attuare tutte le misure formative che garantiscano lo sviluppo di competenze digitali trasversali ai diversi profili professionali necessari nel pubblico impiego volte ad abbattere il digital divide e a favorire, con l'adozione delle dovute misure necessarie, la diffusione nella pubblica amministrazione di una cultura organizzativa che concili sia i risultati, sia l'autonomia e la responsabilità delle persone, in un'ottica meritocratica;

   e) garantire la fornitura sia della dotazione tecnologica, digitale e di attrezzatura ergonomica, sia di tutti gli strumenti tecnologici idonei a garantire la più assoluta riservatezza dei dati e delle informazioni che vengono trattate dal lavoratore del settore pubblico nello svolgimento della prestazione in modalità agile e/o un'integrazione salariale per l'uso della strumentazione tecnologica già in possesso del lavoratore, nonché di un'ulteriore integrazione per la copertura dei costi delle utenze dell'energia elettrica, della telefonia fissa e mobile e della connessione alla rete internet;

   f) garantire, anche nel settore pubblico, il diritto alla disconnessione, per tutelare il lavoratore affinché non sia messo nelle condizioni di essere costantemente reperibile senza limiti di orario;

   g) garantire l'alternanza tra lavoro agile e lavoro in presenza (forma mista) nelle pubbliche amministrazioni, prevedendo che quest'ultima abbia una durata non inferiore al 40 per cento del monte ore mensile;

   h) pianificare regolarmente un piano organizzativo del lavoro agile, che venga adottato dalle amministrazioni pubbliche e dalle società pubbliche o comunque partecipate dalle amministrazioni pubbliche;

   i) stabilire la presentazione, da parte dell'Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche, istituito dal cosiddetto «decreto Rilancio» (articolo 263, comma 3-bis, del decreto-legge n. 34 del 2020), di periodiche relazioni informative alle commissioni parlamentari competenti sull'andamento dello stesso.
(1-00527) «Costanzo, Colletti, Forciniti, Cabras, Corda, Paolo Nicolò Romano, Trano, Maniero, Testamento, Leda Volpi, Spessotto, Giuliodori, Vallascas, Sapia, Massimo Enrico Baroni».

(11 ottobre 2021)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE NELL'AMBITO DELLA RICERCA, DELLA CURA, DELL'ASSISTENZA E DELLA RIABILITAZIONE A FAVORE DELLE PERSONE CON ESITI DI GRAVE CEREBROLESIONE

   La Camera,

   premesso che:

    l'attuale situazione epidemiologica da epidemia di COVID-19 ha ulteriormente accentuato la drammaticità della situazione delle persone che, in seguito ad un grave danno cerebrale acquisito, presentano una grave disabilità cognitivo-motoria o permangono in uno stato vegetativo o di minima coscienza. Questa drammaticità colpisce, in parallelo, le famiglie di queste persone, aggravando ulteriormente il carico assistenziale necessario per la gestione di questa complessa condizione clinica;

    seppur eterogenea, questa situazione è presente su tutto il territorio nazionale ed è difficile per diversi aspetti come, ad esempio, in termini di sostegno economico e psicologico alle famiglie, di accesso alle cure di alta specialità, possibilità per i familiari di visitare i loro congiunti in reparti di riabilitazione o, di lungodegenza, appropriatezza e continuità dell'assistenza medica e riabilitativa domiciliare nel caso di ritorno a casa, possibilità di avere sostegni sociali o sanitari a casa, possibilità di frequentare centri diurni se in condizione di grave disabilità, possibilità di ricevere cure appropriate se infettati da Coronavirus. La pandemia per queste persone e le loro famiglie ha, di fatto, aggravato una situazione che già presentava delle criticità che ora sono diventate drammatiche e richiedono azioni urgenti;

    dopo una grave cerebrolesione acquisita (Gca) il recupero della funzionalità motoria e cognitiva può essere molto eterogeneo, in un continuum che si estende dal buon recupero funzionale, con un reintegro nella società, a condizioni di disabilità severa con necessità di assistenza in tutte le attività della vita quotidiana, aggravata per una percentuale di pazienti dall'incapacità di recuperare la coscienza (la capacità di essere consapevoli di sé e dell'ambiente circostante) o da un recupero solo minimale della stessa. Si tratta delle persone che dopo grave cerebrolesione acquisita presentano una condizione definita come disordine persistente della coscienza (che include le diagnosi di stato vegetativo – Sv – e stato di minima coscienza – Smc –). Oltre ad avere una compromissione gravissima della coscienza, queste persone hanno delle serie menomazioni nella capacità di motilità e nella capacità di masticazione e deglutizione (con conseguente impossibilità di una ripresa dell'alimentazione per bocca) e necessitano di ricorrere all'alimentazione tramite gastrostomia, attraverso quindi un «tubo nello stomaco» (Peg), e talora con alterazione della funzione respiratoria e con necessità di ventilazione meccanica;

    le stime epidemiologiche, purtroppo non aggiornate, sui tassi di incidenza delle gravi cerebrolesioni acquisite e del sottogruppo dei disordini di coscienza appaiono tutt'oggi imprecise e molto diverse non solo nel nostro Paese ma anche da nazione a nazione a causa della estrema difficoltà nel processo di codifica delle Gca. In merito ai pazienti con grave cerebrolesione acquisita a eziologia neuro-traumatica, si stima un tasso di incidenza di 235 soggetti ogni 100.000 abitanti per anno, di cui il 9 per cento circa di livello severo, mentre per quanto concerne le eziologie non traumatiche si stima un range di incidenza pari a 114-350/100.000 abitanti per anno in Europa (Tagliaferri et al. 2006, Cuthbert JP et al. 2011, Zhang Y et al. 2012);

    per quanto concerne le stime dei tassi di incidenza e prevalenza dei pazienti con disordine della coscienza, in Italia i dati indicano le stesse rispettivamente pari a 1,8-1,9/100.000 e a 2,0-2,1/100.000 abitanti solo per quanto concerne la diagnosi di stato vegetativo, con evidenti differenze regionali (per esempio, in regione Lombardia si stima una incidenza pari a 5,3-5,6/100.000 per anno e una prevalenza pari a 6,1/100.000 abitanti). Per quanto concerne la condizione di minima coscienza a oggi non sono disponibili stime epidemiologiche ponderate sui dati italiani, sebbene sia condivisa l'idea nel mondo scientifico che i valori numerici potrebbero essere maggiori rispetto alla popolazione con diagnosi di stato vegetativo;

    la cura può essere definita come il tentativo di rispondere alla vulnerabilità, alla costitutiva dipendenza che caratterizza la condizione umana in quanto tale, al fine di promuovere la dignità della persona umana, a partire dalle differenti condizioni di salute in cui si trova, in modo da evitare che una particolare condizione di salute possa costituire un criterio di esclusione dalla tutela dei diritti umani fondamentali;

    una persona affetta da grave cerebrolesione acquisita necessita di ricovero ospedaliero per trattamenti rianimatori o neurochirurgici di durata variabile da alcuni giorni ad alcune settimane (fase acuta). A partire già da questa fase sono necessari interventi medico-riabilitativi di tipo intensivo (definita riabilitazione precoce o early rehabilitation), anch'essi da effettuare in regime di ricovero ospedaliero. Questi interventi possono durare da alcune settimane ad alcuni mesi (fase post-acuta o riabilitativa). Nella maggior parte dei casi, dopo la fase di ospedalizzazione, permangono sequele che rendono necessari interventi di carattere sanitario e sociale a lungo termine, volti ad affrontare menomazioni, disabilità persistenti e difficoltà di reinserimento familiare, sociale, scolastico e lavorativo (fase del reinserimento o degli esiti);

    gli esiti disabilitanti delle gravi cerebrolesioni, soprattutto di quelle classificate come severe o molto severe, costituiscono un problema di particolare rilevanza sanitaria, economica e sociale nel nostro Paese. Infatti, dopo una grave cerebrolesione acquisita generalmente permangono diversi problemi che rendono davvero complessa, se non impossibile, una vita autonoma delle persone. In tale quadro, assume un ruolo fondamentale il «Sistema di cura & care» che si muove intorno al paziente composto dai professionisti sanitari e dai familiari. Tale Sistema risulta fondamentale per limitare la disabilità della persona con esiti di una grave cerebrolesione;

    la premessa, alla lettera e), della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall'Italia con legge 3 marzo 2009, n. 18, riconosce che «la disabilità è il risultato dell'interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione della società su base di uguaglianza con gli altri». Inoltre, la disabilità viene definita dalla Organizzazione mondiale della sanità come «la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e ambientali che rappresentano le circostanze in cui l'individuo vive»;

    tenendo in considerazione tale definizione alla base della Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (Icf), si può affermare che le persone con esiti di una grave cerebrolesione acquisita, ed ancor più se con disordini di coscienza, possono essere definiti come un paradigma di «estrema disabilità», cioè sono persone che presentano un bassissimo funzionamento e che richiedono un alto e continuo intervento di facilitatori ambientali. In Italia questo sistema di cura e presa in carico è disomogeneo e molto variabile;

    l'impatto della malattia è quindi estremamente gravoso e limitante anche nei riguardi di coloro che assistono e si prendono cura di un loro congiunto malato, i cosiddetti caregiver, che di fatto svolgono spesso un vero e proprio lavoro di cura, che in quanto tale necessita di tutele, formazione e assistenza specifiche;

    sul piano normativo dal 2009, con la legge n. 18 del 3 marzo 2009 (Gazzetta Ufficiale 14 marzo 2009, n. 61) che ha ratificato la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità da parte dell'Italia e dopo la morte di Eluana Englaro (un caso che è diventato simbolico e divisivo ma che ha risvegliato interesse nazionale sulla questione della grave cerebrolesione acquisita e dei disordini di coscienza), vi è stato un progressivo impegno del Ministero della salute, delle società scientifiche e delle associazioni di familiari per migliorare i percorsi di cura per le persone con una grave cerebrolesione acquisita e con disordine di coscienza in particolare;

    tale lavoro ha portato alla pubblicazione di diversi documenti di indirizzo come, citandone alcuni, il report del gruppo di lavoro ministeriale «Stato vegetativo e di minima coscienza» (4 dicembre 2009 – gruppo di lavoro istituito con decreto ministeriale 15 ottobre 2008), le linee di indirizzo per l'assistenza alle persone in stato vegetativo e stato di minima coscienza (5 maggio 2011 – commissione «Di Virgilio») e le raccomandazioni finali delle tre Consensus Conference sulle gravi cerebrolesioni acquisite (2000, 2005 e 2010) sulle «modalità di trattamento del paziente traumatizzato cranio-encefalico in fase acuta», sulla «riabilitazione ospedaliera» e sui «bisogni riabilitativi ed assistenziali nella fase post-ospedaliera», ponendo l'accento sui percorsi organizzativi nelle varie fasi dopo uno stato di coma;

    le associazioni nazionali di familiari delle persone con esiti di grave cerebrolesione acquisita sono e sono state parte attiva in diversi gruppi di lavoro con le società scientifiche e con il Ministero della salute, con il quale hanno istituito per un lungo periodo un seminario permanente che è pervenuto alla pubblicazione del «Libro bianco sugli stati vegetativi e di minima coscienza – Il punto di vista delle associazioni che rappresentano i familiari» (4 ottobre 2010 – Gruppo di lavoro ministeriale e associazioni di settore) e alla Carta di San Pellegrino, un decalogo di raccomandazioni per la tutela della dignità, della libertà e dei diritti delle persone con disordine di coscienza;

    le associazioni di familiari hanno inoltre proposto un «Osservatorio nazionale per definire gli standard di qualità dei percorsi di cura» nel 2012 in collaborazione con il Ministero della salute ed hanno poi realizzato due Consensus Conference con l'intento di dare risposte ai bisogni dei familiari ed alle domande che derivavano dal loro ruolo, mettendo al centro indicatori di qualità condivisi tra il mondo sanitario e l'associazionismo. Le raccomandazioni derivate dai documenti conclusivi delle due conferenze di consenso sono state diffuse e condivise con le istituzioni. I lavori della seconda «Conferenza di consenso» sono attualmente in corso e i risultati intermedi sono stati discussi il 6 febbraio 2021 e presentati il 9 febbraio 2021 in occasione della decima «Giornata nazionale degli stati vegetativi» istituita su proposta delle associazioni (con direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 novembre 2010);

    sono state anche svolte diverse ricerche, come il Progetto nazionale stati vegetativi, il Progetto Ccm «Incarico», sulle differenze di presa in carico interregionali, il registro «Giscar» e il registro «Gracer» per la regione Emilia-Romagna. Tuttavia, gli sforzi per trasformare i risultati di ricerca in azioni concrete non hanno ancora ottenuto i risultati sperati;

    le associazioni firmatarie nel 2011 hanno inoltre chiesto, e ancora non ottenuto, il riconoscimento di due manifestazioni altamente rappresentative in Italia che si svolgono da oltre 22 anni: la «Giornata nazionale del trauma cranico» e la «Giornata nazionale dei risvegli per la ricerca sul coma» anche «Giornata europea dei risvegli» (sotto l'Alto patronato del Presidente della Repubblica e l'Alto patrocinio del Parlamento europeo) per porre ulteriore attenzione al problema dei pazienti e dei familiari;

    la recente emanazione del documento del Ministero della salute (17 dicembre 2020) contenente le indicazioni nazionali per le prestazioni in telemedicina è un passaggio fondamentale per rafforzare l'assistenza al domicilio anche in caso di grave cerebrolesione acquisita, stato vegetativo e stato di minima coscienza, che faciliterà l'introduzione di questo strumento nel percorso di presa in carico globale del paziente;

    sul piano economico, il fondo per la non autosufficienza e quello per il sostegno del ruolo di cura del caregiver familiare risultano insufficienti a garantire un livello di tutele adeguato per i rispettivi beneficiari e, di conseguenza, necessitano di essere garantiti e incrementati per gli anni a venire, proprio ed anche in considerazione di esiti disabilitanti gravi e gravissimi e di specifici bisogni nel lungo termine;

    nonostante tutti questi sforzi, oggi è evidente come vi siano ancora delle macro lacune sulla implementazione di percorsi di cura e presa in carico per le persone con esiti di una grave cerebrolesione acquisita, gravi disabili, stato vegetativo e di minima coscienza, con una estrema eterogeneità nazionale e soprattutto regionale in termini di legislazione vigente e servizi offerti ai pazienti ed alle loro famiglie dai diversi sistemi di welfare. La pandemia da COVID-19 ha ulteriormente drammatizzato questa situazione che peraltro si scontra con la farraginosità di alcune procedure amministrative fondamentali per la presa in carico precoce come, per esempio, la nomina di un amministratore di sostegno per le persone no-competent;

    è importante che tutte le gravi cerebrolesioni trovino risposte adeguate nella propria regione di residenza e, omogeneamente, in tutte le regioni italiane,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative multiple per sostenere la ricerca sulle gravi cerebrolesioni acquisite e sui disordini di coscienza (stato vegetativo e di minima coscienza), assicurando adeguate forme di finanziamento e di collaborazione tra pubblico e privato per la creazione di reti e per lo sviluppo di progetti di ricerca, finalizzata e non, sul tema;

2) ad adottare iniziative per garantire un adeguato finanziamento a favore del fondo nazionale per la non autosufficienza e del fondo per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare, in modo da assicurare una risposta effettiva alle esigenze dei pazienti colpiti da una disabilità grave o gravissima, tra cui appunto le persone con sequele date da una grave cerebrolesione e i familiari che prestano assistenza in loro favore in tutte le regioni italiane;

3) a promuovere percorsi virtuosi di cura e presa in carico dei soggetti con esiti di grave cerebrolesione e del familiare fino alla fase degli esiti per un progetto di vita ed una acquisizione di autonomia, facendo sì che l'implementazione di questi percorsi avvenga in maniera tempestiva e omogenea su tutto il territorio nazionale, sulla base di un approccio multi-disciplinare e multi-professionale che preveda la collaborazione di specialisti ospedalieri e territoriali e delle associazioni di familiari, figure integrate e unite tra loro dall'obiettivo comune di migliorare il benessere psicofisico del paziente, anche con l'obiettivo di creare le migliori condizioni orientate, ove possibile, all'inclusione sociale e all'inserimento/reinserimento scolastico e lavorativo;

4) ad adottare le iniziative di competenza per sostenere e migliorare la presa in carico domiciliare da parte dei servizi assistenziali e riabilitativi e per garantire percorsi di formazione per il caregiver non come aspetto accessorio, ma come elemento cardine della qualità di cura delle persone con disabilità, nonché per promuovere e garantire su tutto il territorio nazionale la realizzazione, l'attivazione e l'implementazione di centri extra ospedalieri-centri diurni, specializzati per la presa in carico e per il proseguimento di una riabilitazione estensiva, facilitando il reinserimento sociale, scolastico e lavorativo;

5) ad adottare le iniziative di competenza per promuovere la creazione di percorsi certi e appropriati di cura e di assistenza ampliando le disponibilità di posti letto e del personale sanitario dedicato in tutte regioni italiane, perché il paziente, ovvero i familiari o le persone di fiducia del paziente, se quest'ultimo così ha richiesto o si trova in condizioni di non poter esprimere la propria volontà, possa avere una risposta appropriata alla sua libera scelta del luogo di cura, compatibilmente alle condizioni di stabilità del paziente e di vicinanza dei reparti coinvolti nel processo di cura con i reparti per acuti (terapia intensiva, neurochirurgia, stroke unit, Utic e altro) di provenienza;

6) ad adottare iniziative per garantire con strumenti e fondi adeguati la giusta e puntuale informazione sulla ricerca scientifica, sull'uso dei farmaci e delle terapie adeguate;

7) ad adottare iniziative per garantire, per quanto di competenza, a livello nazionale e in tutte le regioni, l'accesso permanente delle associazioni dei pazienti più rappresentative ai tavoli istituzionali di riferimento e ai comitati che svolgono attività di indirizzo, per supportare il paziente, ovvero i familiari o le persone di fiducia del paziente, se quest'ultimo così ha richiesto o si trova in condizioni di non poter esprimere la propria volontà, nella scelta del luogo di cura e nel percorso che vuole avviare;

8) a promuovere iniziative atte a garantire l'operatività e la celerità della procedura di urgenza per la nomina di un amministratore di sostegno nei pazienti che non hanno la capacità di decidere e devono essere tutelati e protetti;

9) a promuovere iniziative per sostenere le soluzioni tecnologiche, che possono implementare i benefici dati dal sostegno e dai trattamenti tradizionali; dalla telemedicina, alla teleriabilitazione e a tutti i dispositivi innovativi che possono migliorare la qualità di vita delle persone con Gca e delle loro famiglie;

10) a istituire un registro nazionale per le persone con grave cerebrolesione acquisita, garantendo alle regioni risorse e strumenti adeguati allo svolgimento delle correlate attività che esso comporta, allo scopo di avere anche dati epidemiologici di incidenza e prevalenza della condizione per migliorare la programmazione e l'allocazione delle risorse;

11) ad adottare iniziative per incrementare le risorse o istituire un fondo nazionale dedicato allo sviluppo di servizi sanitari e sociali per le persone con grave cerebrolesione acquisita e le loro famiglie, anche con i finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza;

12) ad adottare iniziative per istituire una Giornata nazionale del trauma cranico e una Giornata nazionale dei risvegli per la ricerca sul coma.
(1-00426) (Nuova formulazione) «Bologna, Boldi, Noja, Marin, Mugnai, Rospi, Silli, Baldini, Della Frera, Gagliardi, Napoli, Ruffino, Pedrazzini, Sorte, Benigni».

(3 marzo 2021)

   La Camera,

   premesso che:

    per grave cerebrolesione acquisita si intende un danno cerebrale tale da determinare, a seguito di fatti traumatici o di altra natura, uno stato comatoso grave, ovvero menomazioni sensorimotorie, cognitive e comportamentali, che possono causare disabilità significativa e permanente;

    tra le maggiori cause che provocano la grave cerebrolesione acquisita vi è il trauma cranio-encefalico, che può verificarsi a seguito di cadute accidentali, incidenti domestici o incidenti stradali, oppure accadimenti non traumatici, come l'emorragia cerebrale seguita da un danno post anossico;

    un paziente affetto da grave cerebrolesione acquisita necessita di un ricovero ospedaliero atto a fornire trattamenti rianimatori o neurochirurgici di durata variabile da alcuni giorni ad alcune settimane: in quest'ultimo caso si parla di fase acuta. A seguito di questa fase, invece, subentra la necessità di interventi medico-riabilitativi di tipo intensivi, generalmente da effettuare in regime di ospedalizzazione, anch'essi dalle tempistiche variabili. Infine, dopo questi ultimi interventi, segue la fase di assistenza domiciliare, laddove risulti necessario affrontare menomazioni, disabilità persistenti e talvolta permanenti, difficoltà di reinserimento familiare e sociale, altresì in ambiti formativi o professionali;

    le conseguenze delle cerebrolesioni, in particolare di quelle derivanti da fatti traumatici, costituiscono ad oggi un problema di particolare rilevanza per il sistema sanitario nazionale e per il welfare del nostro Paese: il trattamento dei pazienti, infatti, così come la presa in carico delle loro famiglie e del caregiver principale che si occupa della fase di assistenza domiciliare, costituiscono un impegno estremamente complesso, sia sul piano clinico quanto su quello organizzativo, ma anche dal punto di vista economico, psicologico e di accesso alle cure;

    l'attuale fase pandemica, che ha costretto il nostro Paese – come il resto della comunità internazionale – ad attuare pesanti restrizioni per fronteggiare la diffusione del COVID-19, non ha fatto altro che accentuare la problematica citata per tutte quelle persone che, in seguito a gravi danni cerebrali acquisiti, mostrano condizioni cliniche di persistente e grave disabilità, sia dal punto di vista cognitivo che dal punto di vista motorio, come altresì nei casi in cui si verifichi l'esistenza di uno stato vegetativo o di minima coscienza. In alcuni casi, inoltre, si verificano menomazioni legate alla capacità di motilità, masticazione e deglutizione, che causa l'impossibilità di una ripresa dell'alimentazione attraverso il cavo orale, giustificando dunque un immediato ricorso all'alimentazione tramite gastrostomia endoscopica percutanea (peg), e alterazioni della fase di respirazione, con conseguente necessità di ventilazione meccanica;

    un ulteriore problema è rappresentato dalla mancanza di aggiornamenti sulle stime di incidenza della grave cerebrolesione acquisita e del relativo sottogruppo dei disordini della coscienza (tra cui stato vegetativo e stato di minima coscienza), che, oltre a dare una rappresentazione diversificata da regione a regione all'interno del nostro Paese, denota l'estrema difficoltà con la quale ancora si procede al riconoscimento delle diverse gravi cerebrolesioni acquisite;

    stando ai dati ad oggi in possesso, con riferimento ai pazienti con lesioni cerebrali ad eziologica neuro-traumatica, viene stimato – a livello europeo – un tasso di incidenza pari a 235 soggetti per 100 mila abitanti ogni anno: il 9 per cento di questi raggiunge un livello di entità considerato severo; per le eziologie definite invece non traumatiche, i dati vengono stimati nell'ordine di 114-350 pazienti ogni 100 mila abitanti;

    in Italia, dai dati aggiornati al 2017 (Pisa, 17° Congresso nazionale della Società italiana di riabilitazione neurologica), vengono stimati 10/15 casi di grave cerebrolesione acquisita ogni 100 mila abitanti, laddove ogni anno l'incidenza appare aumentare con particolare riferimento ai casi in cui manchi apporto di ossigeno al cervello (casi di origine vascolare e anossica). In circa il 40 per cento dei casi questa condizione è di natura traumatica, nel 20 per cento di natura vascolare, nel restante 40 per cento la causa è un difetto di apporto di ossigeno al cervello (ad esempio, arresto cardiaco);

    per i pazienti caratterizzati da disordini della coscienza l'incidenza, invece, sarebbe pari a 1,9 ogni 100 mila abitanti: per quelli in stato vegetativo, invece, l'incidenza è pari a circa 2,1 ogni 100 mila abitanti. Non esistono, invece, stime indicative sulla condizione di minima coscienza, anche se la maggior parte degli esperti del mondo scientifico presuppone che proprio questi ultimi casi incidano in misura maggiore rispetto agli altri sottogruppi patologici;

    per quanto riguarda l'età anagrafica, invece, un dato che desta particolare attenzione è quello relativo alla fascia di bambini compresa tra 0 e 15 anni: essi rappresentano un terzo del totale, in Italia, tra le persone che vengono colpite dal coma; basti pensare che il 3 per cento dei bambini rimane in coma oltre un mese. Solo nel 2017, nel nostro Paese, si stimava la presenza di circa 700 bambini in stato vegetativo. Un dato che appare allarmante, soprattutto alla luce del mutato contesto storico e sociale, anche e soprattutto a seguito della pandemia da Coronavirus;

    la valutazione della persona con grave cerebrolesione acquisita, ai fini della presa in carico riabilitativa, rappresenta elemento fondamentale ed indispensabile nel percorso terapeutico-riabilitativo della persona in ogni sua fase e richiede un approccio multidimensionale ed interprofessionale, che tenga conto dell'insieme delle problematiche che influiscono sulla sua condizione di salute, compresi i fattori ambientali;

    le cure ad oggi indicate per questo tipo di patologia, oltre a cercare di limitare le conseguenze che subiscono i pazienti affetti da grave cerebrolesione acquisita, mirano a evitare che questa particolare condizione di salute possa in qualche modo rappresentare un fattore di esclusione dalla tutela dei diritti umani fondamentali e dal contesto sociale in cui il medesimo soggetto vive;

    nonostante in Italia siano stati compiuti importanti passi per la tutela della persone affette da disabilità estreme, come appunto le grave cerebrolesione acquisita in fase acuta, e per i loro caregiver – ad esempio la legge 3 marzo 2009, n. 18, che ha ratificato la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, il report del gruppo di lavoro ministeriale «Stato vegetativo e di minima coscienza» del 4 dicembre 2009, le linee di indirizzo per l'assistenza alle persone in stato vegetativo e di minima coscienza del 5 maggio 2011, le raccomandazioni finali delle tre Consensus Conference sulle gravi cerebrolesioni acquisite (2000, 2005 e 2010) sulle «modalità di trattamento del paziente traumatizzato cranio-encefalico in fase acuta», sulla «riabilitazione ospedaliera» e sui «bisogni riabilitativi ed assistenziali nella fase post-ospedaliera», ponendo l'accento sui percorsi organizzativi nelle varie fasi dopo uno stato di coma, il riconoscimento della figura del caregiver con la legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio per i 2018) – tutto ciò non basta, ad oggi, per garantire il massimo supporto sanitario, organizzativo, economico, psicologico e sociale sia ai pazienti affetti da queste gravi disabilità, sia ai familiari che li assistono nella fase di cura ospedaliera e domiciliare;

    già nel 2012 le associazioni dei familiari che in Italia si occupano di tutelare i pazienti affetti da disabilità estreme e le loro famiglie, hanno proposto l'istituzione di un «Osservatorio nazionale per definire gli standard di qualità nei percorsi di cura» in collaborazione con il Ministero della salute, realizzando poi ben due edizioni del Consensus Conference, in cui sono state prodotte raccomandazioni incluse nei documenti conclusivi dei due incontri. Queste associazioni negli anni, grazie al loro costante impegno, hanno ottenuto molti risultati per i pazienti interessati da grave cerebrolesione acquisita e a sostegno delle loro famiglie;

    la drammatizzazione delle situazioni riportate si sono acutizzate con l'avvento della pandemia tuttora in corso ed il relativo stato d'emergenza che nel nostro Paese risulta prorogato sino al 31 dicembre 2021, mettendo ancor più in evidenza le lacune presenti all'interno del sistema sanitario nazionale – e in particolare dalla diversificazione data dai sistemi sanitari regionali – soprattutto per quel che riguarda i percorsi di cura e di accesso alle stesse, la presa in carico dei pazienti affetti da grave cerebrolesione acquisita, ovvero la frammentarietà dei percorsi terapeutico-amministrativi per la presa in carico precoce,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative per reperire risorse economiche, con l'istituzione di un fondo dedicato a sostegno dei servizi sanitari e sociali in favore delle persone affette da grave cerebrolesione acquisita e dei loro caregiver, implementando altresì l'assistenza domiciliare integrata;

2) a promuovere iniziative volte a omogeneizzare la normativa a tutela dei pazienti affetti da grave cerebrolesione acquisita e dei loro familiari, in tutte le regioni italiane, affinché gli stessi possano trovare risposte adeguate nella propria regione di residenza, senza dover subire l'ulteriore trauma del trasferimento in altra regione d'Italia o, in alcuni casi, in altri Stati;

3) ad adottare tutte le iniziative possibili per sostenere la ricerca sulle gravi cerebrolesioni acquisite e sui disordini della coscienza, come lo stato vegetativo e lo stato di minima coscienza, prevedendo finanziamenti e l'istituzione di collaborazioni volte a creare progetti di indagine e ricerca, anche a livello europeo;

4) a sostenere la realizzazione di percorsi di cura virtuosi per la presa in carico precoce dei pazienti affetti da grave cerebrolesione acquisita, in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale, anche sulla base di accordi tra i maggiori istituti di cura – pubblici e privati – presenti nelle varie regioni d'Italia, interessando gli specialisti del settore;

5) a sostenere, nella fase post-ospedaliera, i percorsi di reinserimento sociale del paziente, nella vita familiare, formativa ovvero professionale, prevedendo anche seminari o percorsi di formazione patrocinati dal Ministero della salute e rivolti ai dipendenti della pubblica amministrazione (come scuole, università e altro), alle associazioni, ai familiari, ai caregiver e a tutti coloro che possano ritrovarsi, in qualche modo, quotidianamente a contatto con persone affette da grave cerebrolesione acquisita;

6) ad adottare iniziative volte a garantire la massima pubblicizzazione, anche attraverso i canali istituzionali del Governo e del Ministero della salute, per porre i cittadini a conoscenza dei risultati della ricerca scientifica, dell'utilizzo dei farmaci innovativi e della possibilità di accesso a cure e terapie all'avanguardia ovvero sperimentali;

7) ad adottare le iniziative di competenza per prevedere la creazione di un registro nazionale per le persone affette da grave cerebrolesione acquisita, allo scopo di meglio monitorare l'incidenza epidemiologica in tutto il Paese, utile a migliorare la programmazione ed il trasferimento di risorse economiche dedicate a tale scopo;

8) ad adottare le iniziative di competenza per facilitare i processi burocratici per la nomina d'urgenza di eventuali amministratori di sostegno per quei pazienti che perdano la capacità di intendere e volere in maniera temporanea ovvero permanente;

9) ad adottare tutte le iniziative di competenza volte a istituire una Giornata nazionale del trauma cranico e una Giornata nazionale dei risvegli per la ricerca sul coma, come più volte chiesto dalle associazioni impegnate in questa importante opera di sensibilizzazione.
(1-00530) «Lapia, Cardinale, Ermellino, Sangregorio, Termini, Sarli, Trizzino, Siragusa, Acunzo, Tondo».

(19 ottobre 2021)

   La Camera,

   premesso che:

    per grave cerebrolesione acquisita si intende un danno cerebrale, dovuto a trauma cranioencefalico o da altre cause (anossia cerebrale, emorragia e altro), tale da determinare una condizione di coma, più o meno protratto, e menomazioni senso-motorie, cognitive o comportamentali, che comportano disabilità grave;

    oggi si stima che le gravi cerebrolesioni acquisite sono per il 40 per cento dovute a cause traumatiche, quelle vascolari per circa il 50 per cento e quelle anossiche si collocano in un range tra il 10 e 15 per cento. Stime epidemiologiche, purtroppo non aggiornate, sui tassi di incidenza delle gravi cerebrolesioni acquisite e del sottogruppo dei disordini di coscienza appaiono tutt'oggi imprecise e molto diverse non solo nel nostro Paese, ma anche da nazione a nazione a causa dell'estrema difficoltà nel processo di codifica delle gravi cerebrolesioni acquisite. In merito ai pazienti con grave cerebrolesione acquisita a eziologia neuro-traumatica, si stima un tasso di incidenza di 235 soggetti ogni 100.000 abitanti per anno, di cui il 9 per cento circa di livello severo, mentre per quanto concerne le eziologie non traumatiche si stima un range di incidenza pari a 114-350 ogni 100.000 abitanti per anno in Europa (Tagliaferri et al. 2006, Cuthbert JP et al. 2011, Zhang Y et al. 2012);

    la pandemia da COVID-19, che ha colpito il nostro Paese in questi ultimi 18 mesi, ha aggravato la situazione delle persone con danno cerebrale acquisito e delle loro famiglie, soprattutto per coloro che permangono in stato vegetativo o di minima coscienza. La dimissione ospedaliera o dalle strutture di riabilitazione e lungodegenza verso il domicilio necessita di adeguati, qualificati e appropriati supporti medico-infermieristici-assistenziali, riabilitativi e di dispositivi medici o ausili e la garanzia di continuità assistenziale in tutti gli ambiti della sfera personale e familiare, compresi i sostegni sociali oltre che a quelli economici e formativi o di sollievo ai caregiver. Criticità erano già presenti prima della pandemia, sia riguardo alla disponibilità di posti letto nelle strutture riabilitative di II e III livello (unità di alta specialità riabilitativa per le gravi cerebrolesioni – codice 75) o di lungodegenza post acuta, sia come adeguata presa in carico al domicilio del paziente;

    come deve esserci continuità e tempestività nell'organizzazione e nella cogestione della fase acuta e post acuta precoce, altrettanta attenzione e tempestività deve esserci nel passaggio alle fasi successive quando diventa indispensabile l'integrazione tra riabilitazione medica e riabilitazione sociale;

    una persona affetta da grave cerebrolesione acquisita necessita di ricovero ospedaliero per trattamenti rianimatori o neurochirurgici di durata variabile da alcuni giorni ad alcune settimane (fase acuta). Dopo questa fase, sono in genere necessari interventi medico-riabilitativi di tipo intensivo, anch'essi da effettuare in regime di ricovero ospedaliero, che possono durare da alcune settimane ad alcuni mesi (fase post-acuta o riabilitativa). Nella maggior parte dei casi, dopo la fase di ospedalizzazione, permangono sequele che rendono necessari interventi di carattere sanitario e sociale a lungo termine, volti ad affrontare menomazioni, disabilità persistenti e difficoltà di reinserimento familiare, sociale, scolastico e lavorativo (fase del reinserimento o degli esiti);

    dopo una grave cerebrolesione acquisita il recupero della funzionalità motoria e cognitiva può essere molto eterogeneo, in un continuum che si estende dal buon recupero funzionale, con un reintegro nella società, a condizioni di disabilità severa con necessità di assistenza in tutte le attività della vita quotidiana, aggravata per una percentuale di pazienti dall'incapacità di recuperare la coscienza (la capacità di essere consapevoli di sé e dell'ambiente circostante) o che hanno un recupero solo minimale della stessa. Si tratta delle persone che dopo grave cerebrolesione acquisita presentano una condizione definita come disordine persistente della coscienza (che include le diagnosi di stato vegetativo e stato di minima coscienza). Oltre ad avere una compromissione gravissima della coscienza, queste persone hanno serie menomazioni nella capacità di motilità, nella capacità di masticazione e deglutizione (con conseguente impossibilità ad una ripresa dell'alimentazione per bocca) e necessitano di ricorrere all'alimentazione tramite gastrostomia, attraverso un «tubo posizionato nello stomaco» (peg), e talora con alterazione della funzione respiratoria, con necessità di ventilazione meccanica;

    per la medicina riabilitativa, il trattamento dei pazienti affetti da queste patologie e la presa in carico delle loro famiglie costituiscono un compito impegnativo ed estremamente complesso, non solo sul piano clinico, ma anche su quello organizzativo e la valutazione della persona con grave cerebrolesione acquisita ai fini della presa in carico riabilitativa richiede un approccio multidimensionale ed interprofessionale, che tenga conto dell'insieme delle problematiche che influiscono sulla sua condizione di salute, compresi i fattori ambientali e familiari;

    all'emergere dello stato di coscienza, quando il paziente è in grado di rispondere e interagire con l'ambiente circostante, si osservano con maggiore evidenza le disabilità residue di tipo neuromotorio, cognitivo e comportamentale (Bell & Sandell, 1998), e le fasce di età più colpite sono molto spesso quelle dei giovani adulti, in particolare per le lesioni da trauma cranico encefalico (Cattelani, 2006);

    in molti pazienti, inoltre, la disabilità residua non è costituita in maniera esclusiva da danni di tipo motorio o sensoriale, ma prevalentemente da deficit della sfera cognitiva ed emotivo-comportamentale. Infatti, c'è evidenza che i disturbi conseguenti a grave cerebrolesione acquisita più spesso riportati dai pazienti e dai loro familiari sono di tipo psicologico e neuropsicologico e che tali disturbi sono rilevabili anche a distanza di diversi anni dopo l'evento lesivo (Dikmen et al., 2009; Finnanger et al., 2015; Hoofien, Gilboa, Vakil, & Donovick, 2001; Hurford, Stringer, & Jann, 1998; Millis et al., 2001; Olver, Ponsford, & Curran, 1996; Ponsford, Draper, & Schònberger, 2008);

    si possono osservare disturbi del linguaggio, della memoria, dell'attenzione e delle funzioni esecutive. Il paziente può mostrare difficoltà a comunicare e a comprendere i messaggi verbali, difficoltà ad apprendere nuove informazioni; può non ricordare impegni o appuntamenti da svolgere nell'immediato futuro, ha disturbi delle abilità di concentrazione, di progettazione e di ragionamento. Inoltre, possono presentarsi alterazioni importanti dal punto di vista comportamentale, quali, ad esempio, aggressività, disinibizione, inerzia, apatia, disturbi del tono dell'umore (Hart et al., 2012). Ne derivano esiti di notevole impatto sociale per le conseguenti compromissioni del ruolo familiare, sociale e lavorativo (Draper, Ponsford, & Schonberger, 2007; Engberg & Teasdale, 2004);

    per quanto riguarda i bisogni di riabilitazione neuropsicologica successivi alla fase intensiva e alla dimissione ospedaliera, si osserva che sul territorio, peraltro in questi anni depauperato delle figure sanitarie necessarie per la prosecuzione delle cure di queste persone, raramente è possibile proseguire il percorso intrapreso, in quanto le strutture che consentono l'erogazione dell'assistenza a lungo termine sono oggettivamente carenti. Come raccomandato dalla giuria nella Conferenza di consenso della riabilitazione neuropsicologica (2010) e nella Conferenza di consenso riabilitativa (Modena 2011), l'intervento nell'ambito neuropsicologico deve proseguire con un monitoraggio e un accompagnamento graduale sulla base delle competenze di volta in volta acquisite con la riabilitazione;

    è necessario, inoltre, che la conoscenza inerente ai deficit cognitivi-comportamentali e il rientro al domicilio, il reinserimento in ambito scolastico/lavorativo siano maggiormente condivisi tra tutti gli operatori sanitari dato l'impatto sul programma riabilitativo;

    gli esiti disabilitanti, dunque, delle gravi cerebrolesioni, in particolare di quelle traumatiche, costituiscono un problema di particolare rilevanza sanitaria e sociale nel nostro Paese, come nella maggior parte delle nazioni industrializzate;

    la disabilità viene definita dalla Organizzazione mondiale della sanità come «la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e ambientali che rappresentano le circostanze in cui l'individuo vive»;

    tenendo in considerazione tale definizione alla base della Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (Icf), si può affermare che le persone con esiti di una grave cerebrolesione acquisita, ed ancor più se con disordini della coscienza, possono essere definite come un paradigma di «estrema disabilità», cioè sono persone che presentano un bassissimo funzionamento e che richiedono un alto e continuo intervento per eliminazione/riduzione delle barriere ambientali rispetto alle attività e alla partecipazione ed all'implemento dei facilitatori;

    l'impatto della malattia è, quindi, estremamente gravoso e limitante anche nei riguardi di coloro che assistono e si prendono cura di un loro congiunto malato, i cosiddetti caregiver, che di fatto svolgono spesso un vero e proprio lavoro di cura, che, in quanto tale, necessita di tutele, formazione e assistenza specifiche;

    non tutte le realtà regionali hanno un piano sanitario che regola la cura della grave cerebrolesione acquisita e le regioni che lo hanno fatto, lo hanno fatto in maniera disomogenea, trattando il tema nei piani sanitari ma, spesso, senza identificare una strategia coerente e organica del sistema riabilitativo;

    anche il piano di indirizzo risulta disomogeneo e le stesse prestazioni hanno una molteplicità di denominazioni, con la difficoltà di riportare a sistema gli interventi e di offrire correttezza e appropriatezza nelle risposte ai bisogni espressi dai cittadini;

    il nuovo decreto, il cui iter è iniziato nel 2017, recante «Criteri di appropriatezza dell'accesso ai ricoveri di riabilitazione ospedaliera» e le «Linee di indirizzo per l'individuazione di percorsi appropriati nella rete di riabilitazione», dopo essere stati partecipati alle società scientifiche ed alle principali associazioni di erogatori e dei pazienti e dopo aver ricevuto il parere del Consiglio superiore di sanità, sono stati approvati in Conferenza Stato-regioni il 4 agosto 2021;

    in particolare, le linee di indirizzo diventano il supporto, pur mancando qualsiasi riferimento alle problematiche dell'età evolutiva, della programmazione, della riorganizzazione e del potenziamento dei modelli assistenziali e dei servizi sanitari e socio-sanitari a livello regionale o locale, nonché dei criteri generali per lo sviluppo dei percorsi riabilitativi, in una prospettiva di continuità, dalla fase acuta di insorgenza della condizione disabilitante alla fase ospedaliera, a quella territoriale/domiciliare, con fondamentali riferimenti alla logica di una rete integrata di servizi e con l'esplicito richiamo al piano di indirizzo 2011. Il decreto riguarda specificamente l'assistenza riabilitativa nel ricovero ospedaliero, delineando criteri omogenei per valutare l'adeguatezza dell'accesso alle unità codificate 56, 28 e 75, sia per le ammissioni immediatamente successive ai ricoveri in strutture di assistenza acuta sia per coloro che non sono in continuità con gli eventi acuti;

    nonostante tutti questi sforzi, oggi è evidente come vi siano ancora delle macro lacune sull'implementazione di percorsi di cura e presa in carico per le persone con esiti di una grave cerebrolesione acquisita, gravi disabilità, stato vegetativo e di minima coscienza, con un'estrema eterogeneità nazionale e soprattutto regionale in termini di legislazione vigente e servizi offerti ai pazienti e alle loro famiglie dai diversi sistemi di welfare che la pandemia ha ulteriormente aggravato;

    è necessario arrivare ad una presa incarico omogenea su tutto il territorio nazionale della persona con grave cerebrolesione e della sua famiglia,

impegna il Governo:

1) a rendere operativi su tutto il territorio nazionale, in seguito alla loro entrata in vigore, sia il decreto recante «Criteri di appropriatezza dell'accesso ai ricoveri di riabilitazione ospedaliera» sia le «Linee di indirizzo per l'individuazione di percorsi appropriati nella rete di riabilitazione» approvati il 4 agosto 2021 in Conferenza Stato-regioni;

2) a predisporre, fin dal prossimo disegno di legge di bilancio, adeguate misure finanziarie ed economiche volte a sostenere la ricerca sulle gravi cerebrolesioni acquisite;

3) a predisporre, fin dal prossimo disegno di legge di bilancio, risorse economiche e finanziare volte a garantire un adeguato finanziamento dei fondi sociali, in particolare del fondo per la non autosufficienza, del fondo per il caregiver familiare e il fondo per il «dopo di noi»;

4) ad adottare iniziative per sostenere e migliorare la presa in carico domiciliare da parte dei servizi assistenziali, riabilitativi e sociali della persona con esiti da grave cerebrolesione acquisita e della sua famiglia, anche attraverso il budget di salute, promuovendo e incrementando, per quanto di competenza, su tutto il territorio nazionale la realizzazione e l'attivazione di servizi territoriali adeguati e capillari, affinché ogni persona possa trovare assistenza all'interno della propria regione, nonché sostegni economici, psicologici e di sollievo alle famiglie;

5) ad adottare iniziative per garantire che su tutto il territorio nazionale siano presenti in modo omogeneo interventi e offerta di servizi, affinché si possa realmente avere un'integrazione tra riabilitazione sanitaria e sociale;

6) ad adottare iniziative per incrementare la disponibilità di posti letto e di personale sanitario dedicato, affinché le famiglie non debbano affrontare, già nella difficoltà in cui si trovano, spostamenti da una regione all'altra per accedere a tutte le fasi della presa in carico;

7) a valutare l'opportunità di adottare iniziative per introdurre e normare il fisioterapista di comunità, considerato figura atta a garantire la presa in carico e lo svolgimento del programma riabilitativo domiciliare o attività territoriale;

8) a garantire, per quanto di competenza, l'accesso permanente delle associazioni dei pazienti ai tavoli istituzionali di riferimento e coordinamento e ai comitati che svolgono attività di indirizzo per supportare il paziente e la sua famiglia nella scelta del luogo di cura e nel percorso da avviare, in particolare coinvolgendo le associazioni dopo il periodo di sperimentazione di un anno delle disposizioni previste dal nuovo decreto;

9) a promuovere progetti specifici volti alla realizzazione di percorsi di vita autonoma ed indipendente delle persone con esiti da grave cerebrolesione acquisita in un'ottica di continuità assistenziale dopo la fase riabilitativa;

10) a promuovere l'istituzione di servizi sanitari territoriali che prevedano la presenza di un'équipe multiprofessionale specialistica al fine di una presa in carico integrata degli esiti cognitivo-comportamentali e motori (neuropsicologo, psicologo, psichiatra, neurologi e fisiatra);

11) ad attivare tavoli di lavoro interdisciplinari che coinvolgano i rappresentanti delle società scientifiche dell'équipe riabilitativa (fisiatri, neurologi, psicologi di area neuropsicologica, fisioterapisti, terapisti occupazionali, logopedisti) per condividere competenze in modo coordinato e finalizzato;

12) a dare piena attuazione al l'aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza e del nomenclatore tariffario, tenendo conto delle osservazioni della Commissione affari sociali della Camera dei deputati del dicembre 2016, con l'emanazione del decreto «tariffe».
(1-00532) «Carnevali, Sportiello, Noja, Stumpo, Siani, De Filippo, Rizzo Nervo, Pini, Lepri, Fiano, Berlinghieri».

(19 ottobre 2021)

   La Camera,

   premesso che:

    la cerebrolesione è un danno cerebrale esteso (con distruzione delle cellule neuronali) che può verificarsi a qualsiasi età. Quando una lesione di origine traumatica, o anche di altra natura, determina una condizione di coma più o meno protratto, oltre che menomazioni sensoriali, motorie, cognitive o comportamentali che danno luogo a disabilità, si parla di grave cerebrolesione acquisita, nota con la sigla Gca;

    ogni anno nel nostro Paese tra le 40 e le 100 persone su 100 mila vengono colpite da una grave cerebrolesione acquisita non traumatica, ossia non da incidente ma per cause intrinseche alla persona. A questi numeri vanno aggiunti quelli, numerosi, collegati ai traumi cranici da incidente stradale, infortuni domestici e altro;

    le gravi cerebrolesioni acquisite rappresentano una delle principali cause di morte e disabilità non solo in Italia, ma anche in Europa e i pazienti che sopravvivono ad una grave cerebrolesione acquisita sono molto spesso delle persone che necessitano di un percorso riabilitativo a 360 gradi;

    le gravi cerebrolesioni acquisite rappresentano un problema sanitario e sociale rilevante per l'elevata incidenza e prevalenza di questa grave patologia, per il suo pesante impatto sul sistema familiare, per le conseguenze sociali in termini di difficoltà di reinserimento scolastico o lavorativo, per il numero e la complessità delle sue conseguenze disabilitanti di tipo sensomotorio, comportamentale, cognitivo. Conseguenze che di solito rendono purtroppo difficile e a volte impossibile una vita autonoma;

    una persona affetta da grave cerebrolesione acquisita necessita di ricovero ospedaliero per trattamenti rianimatori o neurochirurgici di tipo intensivo, che possono prolungarsi nel tempo. Nella gran parte dei casi, dopo la fase di ospedalizzazione, permangono sequele che rendono necessari interventi di carattere sanitario e riabilitativo a lungo termine, per poter affrontare disabilità persistenti e difficoltà di reinserimento familiare, sociale, lavorativo e scolastico;

    il trattamento dei pazienti affetti da queste patologie e la presa in carico delle loro famiglie costituiscono, dunque, un compito impegnativo ed estremamente complesso, non solo sul piano clinico, ma anche su quello organizzativo e psichico, che impone un processo di «riorganizzazione» di tutti gli aspetti della vita di queste persone e delle loro famiglie;

    quando un paziente si risveglia dal coma conseguente a una grave cerebrolesione gli esiti generalmente sono molto importanti; spesso si tratta di disabilità multiple e complesse: da gravi menomazioni fisiche a disturbi senso-motori, di comportamento, di attenzione, di linguaggio, di attenzione;

    quello delle gravi cerebrolesioni è, infatti, uno dei campi più complessi della riabilitazione, proprio perché si tratta di patologie multidimensionali e come tali richiedono di essere affrontate da un team multiprofessionale;

    oltre alla terapia farmacologica, il principale trattamento per questi pazienti è la riabilitazione. Nel caso delle gravi cerebrolesioni acquisite i programmi riabilitativi spaziano dal raggiungimento e mantenimento della stabilità internistica (condizione essenziale per iniziare la riabilitazione) al recupero delle abilità tipiche della vita quotidiana, dalla gestione del dolore alla rieducazione delle menomazioni respiratorie, senso-motorie e cognitivo-comportamentali. A ciò si aggiunga il determinante ruolo che viene svolto dagli altri specialisti: il neurologo, il neuropsicologo, il fisiatra, il logopedista e altri;

    le persone con grave cerebrolesione acquisita necessitano, quindi, di una presa in carico integrata che assicuri loro un percorso continuativo dal momento d'esordio dell'evento patologico fino al ritorno, laddove possibile, alla vita sociale;

    gli esiti disabilitanti delle cerebrolesioni gravi costituiscono un problema di particolare rilevanza sanitaria e sociale nel nostro Paese, come nella maggior parte delle nazioni industrializzate;

    i servizi sanitari regionali devono assicurare l'assistenza a un rilevante numero di persone gravemente disabili in seguito a un danno cerebrale. La complessità dei bisogni, l'elevato impegno assistenziale, l'elevato peso psicologico dei pazienti e dei familiari, le difficoltà di inquadramento diagnostico delle persone in stato di ridotta coscienza, nonché la complessità del percorso di cura rendono quanto mai necessaria un'efficiente rete integrata di servizi dedicati, una volta che il paziente viene dimesso dall'ospedale;

    alla fine della fase di cura e riabilitazione ospedaliera, è compito delle strutture riabilitative assicurare la continuità con le strutture territoriali che svolgono la funzione di gestione dei percorsi di deospedalizzazione, reinserimento, assistenza e riabilitazione a domicilio delle persone con grave cerebrolesione acquisita. E questo è ancora più importante per quelle persone che permangono cronicamente in stato vegetativo o di minima coscienza o di gravissima disabilità, per le quali va agevolata la possibilità del rientro al proprio domicilio o, nel caso questo sia impossibile, va assicurata un'assistenza appropriata in strutture di accoglienza protratta;

    in questo ambito va evidenziato il lavoro decisivo svolto dalle tantissime onlus presenti su tutto il territorio nazionale a supporto e a volte, purtroppo, in sostanziale sostituzione dei servizi socio-sanitari territoriali e che grazie al loro lavoro garantiscono quotidianamente servizi e sostegno alle tante persone non autosufficienti e alle famiglie colpite da un caso di grave cerebrolesione acquisita una volta conclusa l'ospedalizzazione;

    determinanti saranno le risorse stanziate dal Piano nazionale di ripresa e resilienza per investire in servizi di welfare, potenziare i servizi socio-sanitari territoriali, migliorare la rete sanitaria territoriale e l'assistenza domiciliare anche a sostegno delle persone con grave cerebrolesione acquisita e, più in generale, delle persone non autosufficienti,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative per incrementare, già dal prossimo disegno di legge di bilancio per il 2022, le risorse del fondo per le non autosufficienze e degli altri fondi destinati alla non autosufficienza, individuando una quota per gli interventi riabilitativi e assistenziali delle persone con grave cerebrolesione acquisita;

2) ad adottare iniziative per rifinanziare il fondo per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare, di cui all'articolo 1, comma 254, della legge n. 205 del 2017, e incrementare la dotazione finanziaria del fondo di cui all'articolo 1, comma 334, della legge n. 178 del 2020, per gli interventi legislativi di valorizzazione dell'attività di cura non professionale del caregiver, fondo diretto, quindi, alla copertura finanziaria di interventi legislativi finalizzati al riconoscimento del valore sociale ed economico delle attività di cura a carattere non professionale del caregiver familiare;

3) ad adottare iniziative per prevedere un rafforzamento dei centri specializzati e una loro maggiore e più efficiente integrazione con le attività territoriali, al fine di realizzare un vero sistema a rete che garantisca al paziente con grave cerebrolesione acquisita la massima continuità assistenziale riabilitativa e sanitaria, dal momento dell'emergenza/acuzie al momento del reinserimento nella vita familiare, sociale e lavorativa;

4) ad adottare tutte le iniziative normative, di concerto con gli enti territoriali, per una sempre maggiore presa in carico e gestione delle persone colpite da grave cerebrolesione acquisita e con gravi e gravissime disabilità e delle loro famiglie, al fine di garantire interventi di carattere sanitario e sociale a lungo termine diversificati in funzione del bisogno specifico o del progetto di vita della persona, volti ad affrontare le disabilità persistenti;

5) ad adottare iniziative di competenza per prevedere, di concerto con le regioni, l'istituzione del registro regionale delle gravi cerebrolesioni con i dati su tutte le persone affette da grave cerebrolesione acquisita che vengono ricoverate presso strutture sanitarie di ciascuna regione, al fine di disporre di dati precisi sull'incidenza delle gravi cerebrolesioni acquisite a livello regionale, sul fabbisogno riabilitativo e assistenziale delle persone affette, sui percorsi di cura e sugli esiti, a supporto di una migliore programmazione regionale nell'ambito dei servizi riabilitativi e assistenziali per le persone con grave cerebrolesione acquisita;

6) ad adottare le opportune iniziative di competenza, anche a sostegno delle famiglie interessate, volte a migliorare la rete integrata di assistenza socio-sanitaria nella presa in carico domiciliare dei pazienti con grave cerebrolesione acquisita, riducendo i forti squilibri territoriali tuttora esistenti in questo ambito in termini di equità nelle condizioni di accesso e di qualità dell'offerta;

7) ad avviare tutte le iniziative di competenza volte a sostenere maggiormente le tante associazioni e onlus presenti su tutto il territorio nazionale che quotidianamente operano in supporto e a volte, purtroppo, in sostanziale sostituzione dei servizi socio-sanitari territoriali a sostegno delle tante persone non autosufficienti e delle famiglie colpite da un caso di grave cerebrolesione acquisita, prevedendo, tra l'altro, un loro costante coinvolgimento nei tavoli istituzionali nazionali e regionali volti all'individuazione e alla programmazione dei migliori percorsi di cura e assistenza dei pazienti con grave cerebrolesione acquisita e dei loro familiari.
(1-00533) «Versace, Bagnasco, Novelli, Bond, Brambilla, D'Attis, Marrocco».

(19 ottobre 2021)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER POTENZIARE GLI STRUMENTI PER LA DIAGNOSI E LA CURA DELLA DEPRESSIONE

   La Camera,

   premesso che:

    la depressione maggiore è un disturbo psichiatrico ampiamente diffuso del quale si registra un continuo, vertiginoso, aumento dei casi, pari ad oltre il 18 per cento se si prendono a riferimento gli anni tra il 2005 e il 2015;

    secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, in particolare, la depressione rappresenta oggi la principale causa di malattie e disabilità a livello globale. In Europa, i cittadini affetti da questa problematica di salute mentale sono più di 35 milioni. In Italia, la situazione è analoga e riflette il medesimo trend. Soffre di depressione il 5,5 per cento della popolazione, ovvero circa 3,5 milioni di italiani, e si tratta di una cifra destinata ad aumentare anche a causa della pandemia da COVID-19 i cui effetti si prolungheranno a lungo termine;

    la depressione si manifesta tipicamente nella seconda e terza decade di vita con un picco nella decade successiva e, dunque, nel periodo più florido e produttivo della vita di una persona;

    le donne sono particolarmente esposte alla depressione sia direttamente sia come caregiver. L'incidenza della patologia si pone in un rapporto donna-uomo di 2:1;

    i sintomi associati alla depressione possono afferire alla sfera cognitiva, comportamentale, somatica e affettiva dell'individuo. La patologia ha, quindi, un impatto inevitabile sul «funzionamento» sociale e lavorativo del paziente e, di conseguenza, incide in maniera drammatica sulla qualità della vita dello stesso e dei suoi familiari;

    anche l'impatto socio-economico della depressione risulta pesantissimo. Si registrano costi diretti, immediatamente riconducibili al trattamento sanitario della patologia e, segnatamente, all'acquisto di farmaci, interventi psicoterapici e visite specialistiche, ma anche e soprattutto costi indiretti, ancor più rilevanti in termini di spesa rispetto ai primi, correlati in particolare alle assenze dal lavoro e alla scarsa produttività;

    sulla depressione, così come sulla malattia mentale in generale, grava ancora oggi una pesantissima stigmatizzazione fondata su stereotipi e luoghi comuni;

    solo il 50 per cento dei soggetti affetti da depressione ricevono adeguata diagnosi e cura in tempi peraltro ancora troppo lunghi (circa due anni);

    la depressione presenta spesso nel suo decorso naturale episodi di ricaduta sintomatologica che peggiorano l'esito prognostico a lungo termine della malattia;

    nel mese di gennaio 2019 è stato istituito un tavolo tecnico sulla salute mentale presso il Ministero della salute;

    nel mese di aprile 2019 è stato presentato alla Camera dei deputati, a cura di Fondazione Onda, un Manifesto dal titolo «Uscire dall'ombra della depressione» patrocinato dalla Società italiana di psichiatria e dalla società italiana di neuropsicofarmacologia, da Progetto Itaca e Cittadinanza attiva alla presenza di parlamentari di Camera e Senato appartenenti a tutti gli schieramenti;

    nel 2020 a cura di Fondazione Onda hanno avuto luogo 11 incontri reginali con l'obiettivo di declinare i punti del Manifesto a livello locale sensibilizzando le autorità regionali,

impegna il Governo:

1) a promuovere campagne di sensibilizzazione della popolazione, attribuendo particolare rilievo al concetto di depressione come patologia curabile, al fine di combatterne lo stigma e aumentare il livello di consapevolezza e di corretta informazione della collettività in materia;

2) ad adottare iniziative per potenziare la ricerca scientifica, in modo da individuare le cure e le combinazioni terapeutiche più efficaci e innovative per il trattamento della patologia in esame, anche in un'ottica di medicina di genere;

3) ad attivare campagne di prevenzione e screening di comprovata validità scientifica, in modo da ridurre sensibilmente i tempi di attesa mediamente necessari per arrivare alla diagnosi di depressione;

4) ad adottare le iniziative di competenza per potenziare la rete dei servizi sanitari dedicati alla salute mentale, territoriali, della medicina generale e specialistica, con un'attenzione ai servizi da attivare per la salute mentale dell'infanzia e dell'adolescenza;

5) ad adottare iniziative per facilitare l'accesso alle cure, anche innovative, su tutto il territorio nazionale;

6) a promuovere le iniziative necessarie per attivare un piano nazionale di lotta alla depressione che evidenzi i bisogni e gli strumenti, con il coinvolgimento di tutti gli interlocutori, specialisti, psichiatri, neuropsichiatri, psicologi, medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, e anche insegnanti e famiglie nonché associazioni di pazienti.
(1-00236) (Ulteriore nuova formulazione) «Boldi, Bologna, Panizzut, De Martini, Foscolo, Lazzarini, Sutto, Tiramani, Ziello».

(1° agosto 2019)

   La Camera,

   premesso che:

    la depressione è una patologia che riguarda oltre tre milioni di italiani, di cui circa un milione soffre della forma più grave, la depressione maggiore. Si manifesta in genere tra la seconda e la terza decade di vita me colpisce in misura decisamente maggiore le donne rispetto agli uomini;

    si stima che nel nostro Paese meno della metà delle persone con depressione maggiore ricevano un'adeguata diagnosi e trattamento e che circa 130 mila persone, con questa forma più grave di depressione, risultino resistenti ai trattamenti e, conseguentemente, necessiterebbero di un intervento clinico e sociale più urgente;

    la forma più severa di questa patologia, se non trattata correttamente, è associata ad un'elevata mortalità, stimata intorno al 15 per cento. Nei pazienti con disturbi dell'umore, uno su tre arriva a cercare di togliersi la vita almeno una volta nella vita. E a volte i farmaci neanche bastano. Basti pensare che, del milione di pazienti con depressione maggiore, circa un terzo non risponde alle terapie tradizionali, pur somministrate in dosi e tempi adeguati;

    la depressione è ancora troppo sottovalutata, anche perché chi ne è afflitto prova a nascondere la sua condizione di sofferenza prima a stesso e poi agli altri. Il rischio troppo frequente è, quindi, quello di tardare la diagnosi e le cure appropriate per affrontare quella che è una vera e propria malattia;

    solo un terzo dei pazienti affetti da questa patologia risulta in terapia. Lo stigma verso la malattia, i pregiudizi rispetto alle possibilità di cura, il timore degli effetti collaterali sono tra i principali ostacoli all'accessibilità ai percorsi terapeutici;

    la depressione è riconosciuta dall'Organizzazione mondiale della sanità come prima causa di disabilità a livello mondiale e, secondo le stime della stessa Organizzazione mondiale della sanità, questa patologia riduce l'aspettativa di vita di oltre 20 anni e oltre il 60 per cento dei suicidi che si verificano annualmente a livello globale possono essere ad essa ricondotti;

    si prevede che a livello internazionale nel 2030 sarà la prima malattia più invalidante per diffusione, con altissimi costi sociali e un forte impatto economico;

    la depressione ha notevoli effetti sia sulla qualità che sulla quantità di vita, con un aumento della mortalità non solo per il maggiore rischio di suicidi, ma anche per l'adozione di stili di vita negativi e lo sviluppo di altre malattie, come quelle cardiologiche, metaboliche e oncologiche. Sono sempre più numerose le evidenze scientifiche che documentano infatti come la stessa depressione aumenti il rischio di malattie croniche – cardiovascolari, metaboliche, oncologiche, pneumologiche e neurologiche – poiché, connotandosi per una scarsa propensione alla cura di sé, predispone a comportamenti scorretti e ad abitudini quotidiane non sane (alimentazione sbilanciata, fumo, abuso alcol, deprivazione di sonno e altro);

    peraltro, questa patologia ha un pesante impatto non solo sulla qualità della vita delle persone, ma incide fortemente anche sui costi sanitari e sociali che risultano molto elevati. Costi sia diretti, che costi indiretti (sociali e previdenziali). Prendere in carico il paziente nella prima fase della malattia consente non solo un miglioramento della sua qualità di vita, ma anche una riduzione dell'impatto dei costi per il sistema sanitario e sociale;

    complessivamente, secondo i dati Cerismas 2019, i costi indiretti rappresentano ben il 70 per cento dei costi totali. È evidente, quindi, che diagnosi tempestiva e diffusione dei trattamenti sono fondamentali per ridurre questo impatto economico, considerato che le complicanze della malattia e la loro gestione comportano un dispendio nettamente superiore ai soli costi della cura;

    in Italia il costo sociale della depressione, in termini di ore lavorative perse, è di circa 4 miliardi di euro l'anno; a questo si aggiungono i dati relativi all'impatto sociale sulla popolazione, tenendo conto che, per ogni paziente, sono coinvolti almeno due-tre familiari. Per quanto riguarda invece i costi diretti a carico del servizio sanitario nazionale, la spesa media per il trattamento di un paziente depresso ammonta a circa di 5 mila euro. Costi che tendono ad aumentare con il cronicizzarsi della malattia;

    si ricorda che nell'aprile 2019 la Fondazione Onda ha presentato alla Camera dei deputati un documento istituzionale di inquadramento e un Manifesto in 10 punti per promuovere efficaci azioni di prevenzione mirata, nonché un tempestivo e facilitato accesso ai percorsi di diagnosi e cura della depressione. Successivamente, coinvolgendo un gruppo di clinici e i massimi esperti di patologie psichiche, ha quindi pubblicato un libro bianco sulla salute mentale in Italia;

    la drammatica pandemia da Sars-Cov-2, con tutto quello che questo ha comportato, ha acuito enormemente i fenomeni di disagio mentale nelle sue diverse forme: depressione, ansia, solitudine. Fortissimo è stato l'impatto del lockdown sulla salute fisica e sul benessere psicologico degli individui e, in particolare, dei più giovani, che più di altri hanno subito pesantemente il distanziamento sociale, le limitazioni alla mobilità e la chiusura delle scuole imposte dalla pandemia;

    alla chiusura generale imposta per motivi di salute pubblica si è aggiunta in maniera preoccupante anche la drastica riduzione o sospensione delle terapie socio-sanitarie. Molte persone psicologicamente più fragili hanno avuto ancora più difficoltà, quindi, ad accedere alle cure;

    la pandemia ha prodotto una pressione senza precedenti sul servizio sanitario nazionale e sui servizi di psichiatria in particolare, con un aumento enorme delle richieste di prestazioni volte a fronteggiare le conseguenze psichiatriche del COVID-19. È stato stimato un aumento di almeno il 30 per cento delle persone con disturbi psichici e psichiatrici rispetto al periodo pre-pandemia, in particolare i sintomi depressivi nella popolazione sono quintuplicati;

    il nostro Paese si è trovato a far fronte a questa vera e propria emergenza con un servizio sanitario e, in particolare, con il settore della salute mentale, in grande difficoltà. Si ricorda che nei dipartimenti di salute mentale mancano il 20 per cento degli psichiatri (nel 2018 erano circa 5 mila), così come 1.500 psicologi, altrettanti terapisti della riabilitazione psichiatrica e assistenti sociali, 5 mila infermieri;

    con riguardo al settore della salute mentale, il paradosso è che in Italia, a fronte di una domanda crescente di intervento e di bisogni, si assiste da anni ad una riduzione lenta delle capacità di risposta da parte del servizio sanitario nazionale;

    a livello internazionale, è proprio di questi giorni il rapporto Unicef nel quale emerge drammaticamente che in Europa 9 milioni di adolescenti (tra i 10 e i 19 anni) convivono con un disturbo legato alla salute mentale e il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani con 3 ragazzi al giorno che si tolgono la vita. La perdita annuale di capitale umano, che deriva dalle condizioni generali di salute mentale in Europa tra i bambini e i giovani tra 0 e 19 anni, è valutato in 50 miliardi di euro. L'Unicef identifica alcuni interventi prioritari per le istituzioni europee e i Governi nazionali, fra i quali servizi per la salute mentale e migliori infrastrutture regionali,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative per prevedere un potenziamento della formazione dei medici di medicina generale e degli specialisti coinvolti nella diagnosi e nella cura della depressione, in un'ottica di sempre maggiore integrazione multidisciplinare;

2) ad adottare tutte le iniziative finalizzate a rafforzare le indispensabili attività di prevenzione e di diagnosi precoce della depressione, anche favorendo sempre di più modelli di cura in équipe, nonché innovativi e utili strumenti, quali il teleconsulto e la telemedicina;

3) ad adottare iniziative per potenziare i modelli di presa in carico globale del paziente e i percorsi diagnostico-terapeutici più adeguati per migliorare la gestione della depressione;

4) ad adottare iniziative per incrementare le risorse del servizio sanitario nazionale destinate ai servizi di psichiatria e al settore di salute mentale, da troppi anni sottofinanziati e con carenza di personale medico e sanitario, in grado di garantire un equo e adeguato accesso alle strutture e rispondere ad una domanda crescente di intervento e di supporto socio-sanitario;

5) a garantire che una quota delle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza venga effettivamente destinata al rafforzamento dei servizi sociosanitari, all'assistenza distrettuale e alla riduzione degli squilibri territoriali, con particolare riguardo ai servizi per la gestione e la cura delle persone con disagio mentale, al fine di rimettere la psichiatria nelle condizioni di fronteggiare un sommerso di oltre 4 milioni di italiani con disturbi non ancora intercettati dal sistema sanitario.
(1-00528) «Bagnasco, Novelli, Bond, Versace, Brambilla, D'Attis, Marrocco».

(19 ottobre 2021)

   La Camera,

   premesso che:

    il disturbo depressivo è un disturbo psichico, nello specifico del tono dell'umore, una funzione psichica importante per l'adattamento, caratterizzato da sintomi come profonda tristezza, calo della spinta vitale, perdita di interesse verso le normali attività, pensieri negativi e pessimistici. Chi ne soffre non presenta la funzionale flessibilità dell'umore, bensì esso è costantemente flesso verso il basso, indipendentemente dalle situazioni esterne, oltre a mostrare intensi stati di insoddisfazione e tristezza, tendendo a non provare piacere nella vita quotidiana. La malattia porta l'individuo a isolarsi, a sentirsi inadeguato e senza valore, a considerare il mondo esterno ostile, compromette le relazioni interpersonali che diventano motivo di ansia, di conflitti e difficili da gestire;

    in Italia il costo sociale della depressione, inteso come ore lavorative perse, è pari a 4 miliardi di euro l'anno e per l'intera economia europea di circa 92 miliardi di euro, di cui 54 (pari al 59 per cento), correlati a costi indiretti per assenza lavorativa;

    secondo il rapporto OsMed («Uso dei farmaci in Italia») 2013, presentato dall'Agenzia italiana del farmaco, la depressione colpisce il 12,5 per cento della popolazione assistibile, con solo il 34,3 per cento dei pazienti che assume farmaci antidepressivi;

    a questo si aggiungono i dati relativi all'impatto sociale sulla popolazione. Infatti, considerando che per ogni paziente, sono coinvolti almeno due-tre familiari, in Italia almeno 4-5 milioni di persone sono coinvolte indirettamente dal disturbo depressivo;

    l'impatto economico di questa malattia deve essere valutato in termini di costi diretti e indiretti. I primi sono da ricondurre alla diagnosi, al trattamento – farmacologico e psico-terapeutico –, alla riabilitazione, assistenza e prevenzione delle ricadute nel lungo termine, mentre i secondi si riferiscono alla perdita di produttività del paziente (non solo in fase acuta) e delle persone impegnate nella sua assistenza e alla morte prematura, considerato il rischio di suicidio; per quanto riguarda i costi diretti a carico del servizio sanitario nazionale, nel nostro Paese i costi medi annuali (ricoveri ospedalieri, specialistica ambulatoriale, farmaci antidepressivi e altro) per il trattamento di un paziente depresso ammontano a 4.062,40 euro;

    l'Organizzazione mondiale della Sanità valuta la depressione maggiore come uno dei disturbi più invalidanti al mondo, con un costo sociale elevatissimo, e nel 2015 stimava che nel mondo ne fossero colpite oltre 350 milioni di persone, senza distinzioni di sesso, età e stato sociale. In Italia sarebbero circa 3 milioni i malati di depressione, di cui 2 milioni donne;

    se, fino a qualche tempo fa, la depressione veniva percepita come un disturbo legato esclusivamente alla mente, ora si sa con certezza che l'organismo umano è interconnesso: le persone che soffrono di depressione hanno più probabilità di andare incontro anche ad altri problemi fisici, come diabete, malattie cardiovascolari, osteoporosi, demenza e a un maggiore rischio di mortalità;

    secondo l'Organizzazione mondiale della sanità a livello globale il 90 per cento dei malati non riceve un trattamento adeguato e tempestivo e il 50 per cento non lo riceve affatto. La depressione, se non correttamente curata, è associata ad un'elevata mortalità stimata intorno al 15 per cento, sia per un aumentato rischio suicidario, sia dovuta allo sviluppo di patologie sistemiche di compromissione di organi vitali o per abuso e dipendenza da alcol e sostanze;

    i disturbi psichiatrici in età adulta, come ansia e depressione, nel 75 per cento dei casi hanno un esordio nell'età evolutiva. Per questo motivo è importante agire prontamente per evitare il progredire della malattia e non sottovalutare i segnali di disagio, che nei casi più estremi possono portare al suicidio, che rappresenta la seconda causa di morte nei giovani tra i 10 e i 25 anni. La pandemia ha peggiorato la situazione e per far fronte alle conseguenze che inevitabilmente ricadranno sui giovani è indispensabile incrementare le risorse assistenziali e intensificare i servizi territoriali già carenti prima del COVID-19;

    secondo una recente indagine pubblicata sulla rivista Jama Network Open, più della metà dei guariti dal COVID-19, 236 milioni di persone in tutto, sviluppa sintomi a lungo termine, che persistono anche fino a sei mesi dalla guarigione. La previsione è che ci possa essere un'ondata long COVID per i sistemi sanitari che dovranno gestire pazienti con sintomi fisici e anche psicologici;

    sono stati esaminati i dati di decine di studi realizzati in tutto il mondo, riguardanti un totale di 250.351 tra adulti e bambini non vaccinati che hanno contratto il COVID-19 tra dicembre 2019 e marzo 2021. Il 79 per cento del campione è stato ricoverato in ospedale e la maggior parte dei pazienti, età media 54 anni, vive in Paesi ricchi;

    è emerso, inoltre, che oltre la metà dei guariti manifesta o ha manifestato i sintomi tipici del long COVID. Per la metà di loro si tratta di sintomi fisici (sintomi respiratori, perdita di peso, affaticamento, dolori, riduzione della motilità); ma uno su quattro ha difficoltà a concentrarsi, uno su tre sviluppa un disturbo d'ansia;

    sta quindi emergendo, con una rilevanza sempre più evidente, che la malattia non si esaurisce con la risoluzione dell'infezione;

    niente di tutto questo nasce all'improvviso, naturalmente. Che il disagio mentale dei più giovani covasse da prima del COVID-19 lo si nota da vari segnali. In Italia le prescrizioni di metilfenidato, un farmaco contro i disordini di attenzione prescritto solo da specialisti e nel quadro di una terapia, sono esplosi: non solo 8 per cento di dosi in più a dicembre 2020 rispetto a un anno prima, secondo la società di analisi Iqvia; anche nel 2019, prima del COVID-19, l'aumento annuo dei consumi era stato del 21 per cento;

    la prevenzione del suicidio, specie nei giovani, è uno dei temi più rilevanti e complessi di chi si occupa di salute mentale, ma in Italia non ci sono dati aggiornati su questo tema. Dal 2017 a oggi, nonostante il lungo periodo di emergenza pandemica e le sue conseguenze sulle persone fragili, non ci sono studi ufficiali sul fenomeno del suicidio;

    a questo proposito si fa presente che il 10 settembre 2019, in occasione della Giornata mondiale della prevenzione del suicidio, l'Istituto superiore di sanità aveva annunciato la nascita dell'Osservatorio epidemiologico sui suicidi e sui tentativi di suicidio (Oestes);

    da uno studio pubblicato nel primo semestre 2021, sulla rivista «Translational psychiatry», emerge il dato evidente secondo il quale chi soffre di depressione va incontro anche a un invecchiamento precoce a livello cellulare, quantificato in almeno due anni. I risultati della ricerca confermano la necessità di ripensare la depressione come un disturbo che è parte dello stato generale di salute di un individuo;

    dai dati recentemente pubblicati dall'European Data Journalism Network (EDJNet) emerge che depressione e ansia sono le patologie legate alla salute mentale più comuni riscontrate nell'Unione europea e che sono in crescente aumento i farmaci per il loro trattamento. A quattro persone su cento è stata diagnosticata la depressione, a cinque su cento l'ansia: se tali patologie non sono curate, in tempo e in maniera adeguata, rischiano di generare una disabilità più significativa;

    nell'arco della vita le donne si ammalano di depressione con una percentuale maggiore rispetto agli uomini (14,9 per cento contro il 7,2 per cento), presentandosi prevalentemente nelle fasi in cui si manifestano grandi cambiamenti ormonali, quali pubertà, gravidanza e puerperio, climaterio e menopausa;

    il risultato di uno studio sulle differenze di genere nella depressione, pubblicato dal Journal of youth and adolescence, che descrive le traiettorie dei sintomi depressivi nei maschi e nelle femmine dalla tarda infanzia fino alla giovane età adulta, ha dimostrato che durante l'adolescenza le giovani donne hanno quasi il doppio delle probabilità di essere depresse rispetto ai giovani uomini. Di depressione post partum, che si manifesta generalmente nei primi mesi successivi al parto, si stima siano afflitte oltre il 10 per cento delle madri, con conseguenze, oltre che sulla loro salute, anche sullo sviluppo psicofisico del bambino. In età fertile, il 10 per cento delle donne possono sviluppare disturbi disforici premestruali che compaiono nei 7-10 giorni prima e permangono fino alla fine del ciclo mestruale. Recenti studi hanno evidenziato che il rischio di depressione nelle donne in menopausa aumenta da 2 a 5 volte, soprattutto durante la fase di transizione (peri-menopausa), ma anche in caso di menopausa precoce e nel post-menopausa. In questi casi, se la donna riceve cure efficaci, la depressione si risolve in un periodo che va dai 2 ai 4 anni dopo la completa scomparsa del ciclo;

    a maggiore probabilità di sviluppare forme di depressione è anche la fascia di persone al di sopra dei 65 anni, dovuta a fattori di rischio quali il pensionamento, il possibile decadimento cognitivo, la stretta associazione tra la sintomatologia depressiva, le multiple comorbidità, ed è più frequente negli ospiti di case di riposo o in istituti di lungodegenza. In Italia, la depressione nelle persone over 65 oscilla tra lo 0,9 per cento e il 9,4 per cento, ma sintomi depressivi sono stati rilevati nel 49 per cento della popolazione anziana, con serie conseguenze di carattere patologico e di impatto sociosanitario;

    la salute mentale e molti disturbi mentali sono plasmati in larga misura dal contesto sociale, economico e fisico in cui le persone vivono;

    forti evidenze mostrano che molte condizioni di salute fisica e mentale, fino alla depressione, si manifestano in fasi di vita avanzate ma hanno origine da fasi di vita precoci;

    i Governi dovrebbero adottare un approccio bilanciato nella redazione delle politiche nazionali di salute mentale, che abbia ripercussioni in termini di promozione e prevenzione, e allo stesso tempo tenga in considerazione le disuguaglianze in salute mentale ed i vari determinanti sociali di salute;

    la tendenza a trattare prevalentemente le diverse forme di depressione con cure farmacologiche, al posto di terapie alternative, preoccupa per la dipendenza che possono provocare e mette in evidenza gli scarsi investimenti in terapie innovative e psicologiche nell'Unione europea;

    già nel 2019 l'Agenzia italiana del farmaco, nel suo rapporto sull'uso dei farmaci, segnalava anche in Italia l'incremento eccessivo del consumo di antidepressivi e ansiolitici e che era necessario «ottimizzare e migliorare l'approccio terapeutico, soprattutto valutando il sotto-dosaggio nell'utilizzo di alcune terapie, nonché il trattamento precoce della condizione depressiva e l'uso incongruo di alcune classi di farmaci». L'Agenzia italiana del farmaco, tra l'altro, riportava sintomi depressivi nel 6 per cento degli adulti tra i 18 e i 69 anni, con una percentuale maggiore di donne, che fanno maggiormente ricorso a farmaci ansiolitici, ipnotici e sedativi, soprattutto con l'aumentare dell'età, quando invece sarebbe necessario ridurne il dosaggio;

    nell'Unione europea, la preferenza a curare i disturbi legati a depressione e ansia attraverso trattamenti farmacologici potrebbe essere in parte collegata alla difficoltà, aumentata durante la pandemia, di accedere a trattamenti psicologici messi a disposizione dalla sanità pubblica. La maggior parte dei Paesi membri ha un numero esiguo di psicologi, meno di 20 ogni 100 mila, come anche di psichiatri. Secondo l'European Data Journalism Network, la sanità pubblica italiana, ad esempio, dispone di circa 17 psichiatri ogni 100 mila persone, un numero insufficiente a garantire la necessaria copertura sanitaria;

    questo comporta che solo un numero molto limitato di persone con problemi di salute mentale possa accedere alle cure prestate dal servizio sanitario nazionale e, poiché per molti non è possibile rivolgersi a professionisti privati, i disturbi legati a depressione e ansia rimangono irrisolti e persistono nel tempo nelle persone, si cronicizzano andando spesso a incidere sull'insorgere di altre patologie, aggravando i costi dell'assistenza sanitaria nazionale;

    l'Organizzazione mondiale della sanità, già nell'edizione 2012 del World mental health day, prevedeva che entro il 2020 la depressione sarebbe stata la seconda malattia più diffusa nel mondo e, nel 2017, sostenne che nel 2030 sarebbe diventata la prima causa di disabilità e la principale voce di spesa sanitaria con una perdita per l'economia globale di un trilione di dollari ogni anno; da uno studio pubblicato a giugno 2021 e condotto da un consorzio di ricercatori da Istituto superiore di sanità, Università di Genova e Pavia e Istituto Mario Negri, su un campione rappresentativo della popolazione adulta italiana, emerge un peggioramento dei sintomi ansiosi e depressivi durante il lockdown nazionale per l'emergenza da COVID-19 del 2020, con una riduzione della qualità di vita in più del 69 per cento dei soggetti e ripercussioni sul ritmo sonno-veglia in più del 30 per cento delle persone coinvolte nella ricerca. L'utilizzo di psicofarmaci, prevalentemente ansiolitici, è aumentato del 20 per cento rispetto al periodo pre-lockdown e tutti gli indicatori di salute mentale sono peggiorati, soprattutto nelle donne (32 per cento e 63 per cento maggiore rispetto agli uomini). Lo studio sottolinea la necessità di intervenire con azioni mirate di prevenzione primaria;

    una buona salute mentale è parte integrante della salute e del benessere. La salute mentale e molti disturbi mentali sono plasmati dai vari contesti sociale, ambientale, economico e fisico che operano lungo tutto l'arco di vita. I fattori di rischio per la maggior parte dei disturbi mentali sono profondamente correlati alle disuguaglianze sociali, per cui maggiore è la disuguaglianza più alta l'ineguale esposizione al rischio;

    è di importanza cruciale intraprendere azioni per migliorare le condizioni di vita quotidiana, a partire dal momento della nascita, proseguendo durante la prima infanzia, l'adolescenza, la fase di creazione della famiglia, l'età lavorativa, fino alla vecchiaia,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative per fronteggiare l'aumento dei casi di disagio psicologico e di depressione nei giovani, incrementando le risorse socio-assistenziali e intensificando i servizi sui territori realizzando una rete territoriale sociosanitaria;

2) a rendere pienamente operativo l'Osservatorio epidemiologico sui suicidi e sui tentativi di suicidio, attivandosi affinché siano condotti in tempi brevi studi ufficiali riguardanti il fenomeno del suicidio, in particolare nei giovani;

3) a garantire la piena attuazione dell'articolo 3 della legge n. 3 del 2018, sull'applicazione e sulla diffusione della medicina di genere nel servizio sanitario nazionale, al fine di rendere operativo il relativo piano e adottare su tutto il territorio nazionale cure più appropriate per le donne, anche relative alle malattie legate ad ansia e depressione, con un approccio interdisciplinare, di ricerca, di formazione e aggiornamento professionale e di informazione;

4) a considerare ogni possibile soluzione per incrementare la presenza di professionisti della salute mentale nel servizio sanitario nazionale, per permettere l'accesso alle cure ad un numero maggiore di cittadini e, in questo modo, far sì che in futuro non vengano aggravati i costi dell'assistenza sanitaria nazionale da patologie conseguenti alla rinuncia alle cure per disturbi depressivi, da parte delle persone meno abbienti;

5) ad adottare iniziative per prevedere interventi mirati per intensificare la prevenzione primaria legata ai disturbi di depressione e ansia, come auspicato dall'Agenzia italiana del farmaco, nel suo rapporto sull'uso dei farmaci del 2019;

6) ad adottare iniziative per definire soluzioni adeguate a favore della popolazione anziana, prevedendo attività di diagnosi precoci e per prevenire le conseguenze emotive e fisiche della depressione;

7) ad adottare iniziative per ridurre le disparità di accesso legate a condizioni economico-sociali ai percorsi di psicoterapia fondamentali nel trattamento del disturbo depressivo;

8) ad adottare iniziative per potenziare la formazione dei medici di medicina generale al fine di prevenire il disagio psicologico, oltre a intervenire attraverso una presa in carico tempestiva, multidisciplinare e integrata;

9) ad adottare iniziative per prevedere la formazione di docenti di scuole di ogni ordine e grado in modo che possano cogliere preventivamente i segnali della presenza di disagio psicologico;

10) ad avviare una campagna di informazione e sensibilizzazione sulle malattie legate alla salute mentale.
(1-00529) «Ianaro, Carnevali, Noja, Stumpo, D'Arrando, Siani, Sportiello, Federico, Lorefice, Mammì, Misiti, Nappi, Provenza, Ruggiero, Villani, De Filippo, Lepri, Pini, Rizzo Nervo, Schirò, Penna».

(19 ottobre 2021)

   La Camera,

   premesso che:

    l'Organizzazione mondiale della sanità dichiarava già dieci anni fa che nel 2020 la depressione sarebbe diventata la più diffusa al mondo tra le malattie mentali e, in generale, la seconda malattia più diffusa dopo le patologie cardiovascolari;

    i dati che si registravano già nel primo decennio degli anni duemila erano alquanto significativi: più della metà delle patologie mentali era avvertita all'età di 14 anni e la metà delle nazioni mondiali avevano un solo psichiatra infantile per ogni 2 milioni circa di abitanti; i suicidi erano circa 800.000 all'anno, la maggior parte avvenivano nei Paesi più poveri e l'età era compresa tra i 14 e i 45 anni. La depressione è più diffusa nei Paesi economicamente poco sviluppati e, nei Paesi ricchi, sono le persone povere a soffrirne maggiormente;

    la prima ondata di COVID-19 ha avuto un impatto violento sulla salute mentale delle persone, il 93 per cento dei Paesi monitorati dall'Organizzazione mondiale della sanità (report, «The impact of COVID-19 on mental, neurological and substance use services: results of a rapid assessment») hanno sofferto di paralisi in uno o più servizi dedicati a pazienti con problemi mentali, neurologici o di abuso di sostanze stupefacenti. Quasi il 40 per cento dei Paesi europei partecipanti allo studio hanno riferito situazioni addirittura peggiori: tre servizi di igiene mentale su quattro sono stati sospesi; più è stato rigido il confinamento, più grave è stato il suo impatto;

    nei casi più gravi chi è stato ricoverato in ospedale ha avuto esperienze di gran lunga più traumatiche, come coloro che soffrono di patologie psichiche gravi in genere perché sono più isolati e vulnerabili e, di conseguenza, nel loro caso il confinamento e l'isolamento sociale hanno inciso con un impatto particolarmente negativo, come confermato da molti psichiatri;

    la pandemia ha inoltre rivoluzionato l'assistenza sanitaria, compresa quella per la salute mentale: in Italia il numero degli appuntamenti è stato considerevolmente ridotto già da giugno del 2020, a ciò si aggiungono i tagli ai servizi di igiene mentale per le persone con problemi psichici; è anche calata drasticamente la richiesta di assistenza;

    con il termine generico «depressione» si intendono tutte le varie forme di malessere psichico, non necessariamente di interesse psichiatrico, caratterizzate da una sofferenza depressiva, più o meno correlata con gli eventi di vita o con la personalità del soggetto. Il genere femminile è correlato a un rischio doppio di incorrere in un disturbo depressivo rispetto al genere maschile;

    i disturbi mentali sono la principale causa di morte, disabilità e impatto economico al mondo. Le patologie che colpiscono il sistema nervoso centrale e, in particolare la «depressione maggiore» sono molto più frequenti di quanto si possa pensare e dovrebbero essere considerate la principale sfida per la salute globale del XXI secolo. Basti pensare che circa un terzo dei pazienti affetti da depressione maggiore non ottiene una risoluzione dei propri sintomi di malattia, andando incontro a cronicizzazione del disturbo. La persistenza e l'aggravamento di sintomi, quali apatia, anedonia, insonnia, pensieri di colpa e ideazione suicidaria, generano una frattura sempre più marcata tra la persona e la sua vita precedente all'episodio depressivo;

    la «depressione maggiore», anche chiamata disturbo unipolare e più correttamente definita come «disturbo depressivo maggiore», è caratterizzata da molti sintomi presenti in modo duraturo e quotidiano per diverse settimane o mesi consecutivamente. Oltre all'umore depresso, si presentano anedonia, abulia, apatia, insonnia, inappetenza, profonda sofferenza interiore, sensi di colpa e inadeguatezza, fino a pensieri di morte e gesti di suicidio;

    all'interno del disturbo «depressivo maggiore», gli episodi di malessere possono essere codificati in base alla gravità o in base alla risposta alle cure proposte. In particolare, quando un paziente non migliora dai propri sintomi di depressione, nonostante almeno due trattamenti adeguati, si parla di depressione resistente al trattamento, forma estremamente grave di sofferenza;

    la «depressione maggiore», se non correttamente trattata, è associata a una mortalità stimata intorno al 15 per cento. Secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità, avviene un suicidio ogni 40 secondi. Nei pazienti affetti da disturbi dell'umore, la messa in atto di almeno un tentativo suicidario nel corso della vita arriva a coinvolgere un individuo ogni tre;

    la depressione è stata riconosciuta dall'Organizzazione mondiale della sanità come la prima causa di disabilità a livello mondiale (fino a venti anni fa si trovava al quarto posto) ed è destinata a diventare la prima causa di spesa sanitaria entro il 2030. Nonostante questo, solamente 1 paziente su 2 riceve un trattamento corretto e tempestivo;

    nel solo decennio 2005-2015 si è assistito a un aumento dei casi di circa il 20 per cento e, ad oggi, la depressione coinvolge nel mondo oltre 300 milioni di persone;

    in Italia, oltre tre milioni di persone soffrono di depressione, considerando tutte le sue forme. Tra queste, più di 2 milioni sono donne. La «depressione maggiore» colpisce circa il 2 per cento della popolazione italiana (più di un milione di persone), anche in questo caso con una netta prevalenza femminile. Si stima che soltanto una persona su due con «depressione maggiore» abbia ottenuto diagnosi e trattamento;

    circa il 30 per cento dei pazienti con «depressione maggiore», ossia circa 130.000 pazienti, non risponde ai trattamenti tradizionali, nonostante una corretta aderenza alle terapie somministrate a dosi e per tempi adeguati. Questo comporta una mancata risoluzione dei propri sintomi di malattia, andando incontro a cronicizzazione del disturbo;

    l'Italia è al ventesimo posto in Europa per i servizi di salute mentale, ossia il 3,5 per cento della spesa sanitaria totale rispetto all'8-15 per cento degli altri Paesi del G7;

    i risultati di una nuova indagine, che ha coinvolto più di 300 pazienti italiani con «depressione maggiore» resistente al trattamento, dicono che il costo medio sanitario relativo ai costi diretti della depressione maggiore è di 2.612 euro per ogni paziente ed ancor più impressionante è il dato relativo ai costi indiretti ovvero legati alla perdita di produttività;

    le giornate di lavoro perse ogni anno sono mediamente 42, circa 1 giorno a settimana. In media, i costi indiretti possono essere stimati a 7.140 euro (media nazionale), pari a circa il 70 per cento del costo totale della patologia;

    si stima che in Italia il costo sociale della depressione, in termini di ore lavorative perse, sia complessivamente pari a 4 miliardi di euro l'anno. A questi costi si aggiungono i costi legati ai caregiver, tenendo presente che per ogni paziente sono coinvolti almeno 2-3 familiari;

    con riferimento alla spesa out of pocket, ovvero la spesa sanitaria sostenuta direttamente dal privato cittadino, invece si stima un valore medio nazionale pari a 615 euro a paziente;

    depressione e ansia sono le patologie legate alla salute mentale più comuni diagnosticate nell'Unione europea. A quattro persone su cento è stata diagnosticata depressione, a cinque su cento ansia, queste patologie vengono spesso sottovalutate dalle politiche sanitarie dei Governi e delle istituzioni territoriali che hanno il dovere costituzionale di evitare che ciò avvenga;

    non è più rinviabile la «call to action» che coinvolga gli attori istituzionali con l'obiettivo di arrivare ad avere anche in Italia un «piano nazionale per la gestione della malattia», con l'obiettivo di potenziare gli investimenti in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale fino a giungere ad un «piano nazionale di lotta alla depressione»;

    il Coronavirus ha demolito il mito dell'eccellenza lombarda nel campo sanitario. La mancanza della medicina territoriale ha cristallizzato l'assenza nel e per il territorio. È importante ripensare gli approcci e le metodologie di prossimità, perché l'assenza di questa presenza ingombrante del vuoto territoriale ha creato una geografia della sanità fatta a «macchia di leopardo». Le regioni non spendono i fondi in maniera uniforme, si procede in ordine sparso e in alcune regioni del Sud, come anche in alcune sacche del Nord, vi è un'assenza che spaventa perché non si conosce lo stato di salute mentale di chi ci vive e quali sono stati gli effetti prodotti dal lockdown. Vi è un'anomia del curare la mente e il corpo. Non tutte le persone che hanno bisogno di un trattamento per l'ansia o la depressione lo ricevono o ricevono una diagnosi; si ha idea che l'incidenza sia bassa. Si potrebbero ricevere le cure appropriate per tempo e non nel tempo;

    un numero elevato di persone con sintomi depressivi non cerca un trattamento, perché crede che questo non funzionerà, che non ci sia soluzione o che i sintomi siano normali dopo un evento di vita traumatico;

    il dottor Francesco Saverio Mennini, docente di economia sanitaria all'Università Tor Vergata, spiega che: «(...) la valutazione dei costi diretti legati ad una patologia è legata all'analisi di tutta una serie di voci di spesa: ospedalizzazioni, visite, spese farmaceutiche, accessi al pronto soccorso. Ma i costi diretti non sono l'unico tassello da tenere in considerazione: abbiamo visto che i costi indiretti possono gravare in maniera importante, basti pensare ai costi previdenziali legati all'elevato numero di giorni di assenza dal lavoro causato da una patologia come la depressione maggiore (nel periodo considerato nell'analisi, 2009-2015, 650 milioni di euro per assegni ordinari di invalidità e pensioni di inabilità, con un incremento dei costi di circa il 40 per cento). Questi dati testimoniano che stiamo parlando di una malattia fortemente invalidante, che impatta in maniera significativa sulla vita dei pazienti e della società, da molteplici punti di vista (...)»;

    la Società italiana di psichiatria, in occasione del quarantennale della «legge Basaglia», ha ribadito le gravi difficoltà dei servizi di salute mentale italiani. Per rendere efficiente la rete dei servizi di un dipartimento di salute mentale è necessario introdurre l'innovazione organizzativa, tecnologica e farmacologica, in modo da poter utilizzare al meglio le competenze delle équipe multidisciplinari. Maggiori investimenti culturali ed economici dovranno, quindi, concretizzarsi in migliori e più tempestivi percorsi di prevenzione, cura e riabilitazione nell'ambito della salute mentale, in particolar modo per le persone che soffrono di «depressione maggiore», resistente ai trattamenti e a rischio di suicidio, nei confronti delle quali il giusto investimento in risorse organizzative, tecnologiche e farmacologiche è cruciale; in definitiva non c'è salute se non c'è salute mentale;

    il primo «Libro bianco sulla salute mentale» in Italia (2019), presentato in occasione dell'evento «Depressione sfida del secolo, verso un piano nazionale per la gestione della malattia» organizzato a Milano da Janssen e da Onda, Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere, si pone l'obiettivo di accendere i riflettori sulla «depressione maggiore», una patologia grave ma molto spesso dimenticata e sottovalutata nonostante i dati allarmanti e preoccupanti dell'Organizzazione mondiale della sanità. Lo scopo del documento è quello di testimoniare l'impegno condiviso e concreto volto a combattere gli stereotipi, a facilitare l'accesso alle cure anche innovative e a migliorare la qualità della vita di chi soffre di depressione, contribuendo al tempo stesso a ridurre l'alto impatto di risorse socio-economiche legato a questa patologia;

    un'analisi del 2016 («Access to mental health care in Europe») mostra come l'accesso alle cure di salute mentale può essere insoddisfacente anche nei Paesi ad alto reddito con copertura sanitaria universale e sistemi di assistenza ben sviluppati. Tuttavia, nessuno di questi numeri riporta il totale delle persone che soffrono di disturbi mentali non diagnosticati. E mentre la maggior parte dei sistemi sanitari pubblici dei Paesi europei sostiene di fornire accesso alle cure, nella pratica molti non riescono a raggiungere gli utenti. Il 6,4 per cento della popolazione europea potrebbe soffrire di depressione, secondo uno studio pubblicato su The Lancet public health;

    secondo un rapporto del 2017 finanziato dalla Commissione europea («Joint action on mental health and well-being – depression, suicide prevention and e-health – situation analysis and recommendations for action»), è emerso che spesso si consulta un medico per sintomi fisici come l'insonnia o la stanchezza e si assumono farmaci per questi disturbi, ma non segue un trattamento psicologico sufficiente per individuare l'origine del problema;

    fattori demografici, culturali e socio-politici, come l'accesso ai servizi sanitari, la precarietà del lavoro (la depressione è due volte più frequente nei disoccupati) o l'aumento del costo della vita (l'impatto economico ostacola la crescita economica e l'inclusione sociale), la solitudine possono essere fattori determinanti. Le persone più colpite dalla depressione sono i disabili, i malati oncologici, le persone anziane, quelle che vivono in aree densamente popolate, gli individui con malattie croniche e che svolgono poca attività fisica, le persone con livelli di istruzione e reddito inferiori. A ciò si è aggiunto che la durata all'esposizione al lockdown ha amplificato e rappresentato un fattore predittivo significativo del rischio di presentare peggiori sintomi ansioso-depressivi;

    in tutti i Paesi le conoscenze sull'impatto della pandemia sulla salute mentale sono ancora limitate e perlopiù derivate da esperienze solo parzialmente assimilabili all'attuale epidemia, come quelle che si riferiscono alle epidemie di Sars o Ebola: è verosimile che la domanda di interventi psicosociali aumenterà notevolmente nei prossimi mesi e anni;

    l'investimento nei servizi e in programmi di salute mentale a livello nazionale hanno sofferto per anni di limitati finanziamenti. Non ci si può limitare ad un approccio farmacologico. È importante più che mai raccogliere le sfide che negli ultimi mesi la pandemia ha lanciato, perché la sottrazione della dignità sociale e umana spinge la società a conformarsi alla ripetizione degli eventi senza vedere un futuro differente. Il tema sociale della depressione va inquadrato anche per coloro che hanno dovuto fronteggiare, con armi spuntate, la virulenza e la velocità della propagazione del virus. Degli operatori sanitari e dei medici s'è parlato più come un evento di trincea e non anche come l'operare in una realtà sanitaria malata e depressa;

    il gruppo di lavoro «Salute mentale ed emergenza COVID-19», istituito con decreto del presidente dell'Istituto superiore di sanità ad aprile 2020, ha promosso un programma di intervento per gestire l'impatto dell'epidemia di COVID-19 sulla salute mentale e un programma di intervento per la gestione dell'ansia e della depressione perinatale nell'emergenza e post-emergenza COVID-19. Entrambi i programmi erano mirati a garantire la presa in carico delle persone con disturbi psichiatrici o a elevato rischio di disturbi d'ansia e depressione. In particolare, per quanto riguarda il programma di salute mentale perinatale (che comprende uno screening e un intervento precoce di dimostrata efficacia) si è proposto di adattarlo per agevolarne l'integrazione, nell'attuale situazione di emergenza, nell'ambito dei diversi programmi di intervento a livello regionale. Il «Centro di riferimento per le scienze comportamentali e la salute mentale» dell'Istituto superiore di sanità è stato attivo sin dalle prime fasi della pandemia, sia attraverso la partecipazione e la conduzione di studi, sia attraverso indagini valutative dello stato dei servizi disponibili per la popolazione; il Centro, inoltre, ha fornito indicazioni per la gestione dei bisogni dei familiari di pazienti ricoverati in reparti ospedalieri COVID-19;

    per quanto riguarda la presa in carico della cittadinanza in generale e la gestione dell'ansia e dello stress derivanti dall'isolamento e dalla paura delle conseguenze della pandemia, il Centro ha fatto una valutazione sullo stato dei servizi telefonici di primo e secondo livello, stilando due rapporti che raccolgono raccomandazioni e criticità in materia importanti per la gestione di successive ondate pandemiche o per altre situazioni emergenziali;

    il Centro è attualmente impegnato con il Ministero della salute e le principali società scientifiche nel campo della psichiatria in un'indagine conoscitiva sul funzionamento dei servizi di salute mentale dall'inizio dell'epidemia, per verificare se ai pazienti sia stata offerta la continuità delle cure e con quale modalità. La rilevazione, che sarà rivolta a tutti i dipartimenti di salute mentale sul territorio nazionale, sarà importante per riorganizzare la presa in carico e l'assistenza alla luce del permanere delle condizioni emergenziali;

    il 4 agosto 2021 la Conferenza Stato-regioni (intesa 153/CSR) ha sancito il riparto del fondo sanitario nazionale per il 2021 e, in base all'articolo 1, comma 403, della legge n. 178 del 2020, è stato determinato il fabbisogno standard nazionale. Con successivi provvedimenti e in base alla legge richiamata sono state stanziate quote aggiuntive;

    sono 28 i milioni di euro destinati al potenziamento dei servizi territoriali e ospedalieri di neuropsichiatria infantile e adolescenziale (articolo 33 del decreto-legge n. 73 del 2021);

    fra gli obiettivi del piano sanitario nazionale per il 2021 sono stati stanziati 60 milioni di euro per il rafforzamento dei dipartimenti di salute mentale;

    in data 15 ottobre 2021 è stato presentato il rapporto Unicef dal titolo «La condizione dell'infanzia del mondo: nella mia mente». Dal rapporto emerge che in Europa 9 milioni di adolescenti, tra i 10 e i 19 anni, convivono con un disturbo legato alla salute mentale e il suicidio rappresenta la seconda causa di morte (la prima sono gli incidenti stradali) tra i giovani, con 3 ragazzi al giorno che si suicidano;

    nel 2019 nel nostro Paese si stima che il 16,6 per cento dei ragazzi e delle ragazze, tra i 10 e i 19 anni, soffrono di problemi di salute mentale. In totale è una platea di circa 956.000 soggetti. Si registra una percentuale più alta tra le ragazze, che è del 17,2 per cento pari a 478.554, rispetto ai ragazzi, che è del 16,1 per cento pari a 477.518;

    nel 2019 la percentuale di suicidio fra i ragazzi è stimata di gran lunga superiore rispetto alle ragazze, rispettivamente il 69 per cento e il 31 per cento, e la fascia di età più colpita è quella tra i 15 e i 19 anni (1.037 contro i 161 fra i 10 e i 14 anni);

    il rapporto si sofferma anche sulla qualità della vita scolastica, sociale (si intenda anche il bullismo), relazionale e famigliare, cristallizzando lo stress quale componente scatenante del malessere mentale;

    il rapporto dà una fotografia impietosa dello stato del benessere mentale, evidenziando come le politiche di welfare fin qui adottate dai Governi sono state pressappochiste, entropiche e di scarsissima conoscenza del tessuto sociale italiano, ossia di questa strage silenziosa che inesorabilmente continua a mietere vittime;

    sono diversi gli stati di allerta lanciati dai Garanti per l'infanzia e l'adolescenza regionali che evidenziano lo stato di carenza di servizi di neuropsichiatria infantile sui territori, determinando la migrazione sanitaria in altre regioni dove o si è assistiti privatamente oppure si determinano congestioni prestazionali che creano un aggravio di spese, senza con ciò produrre alcun beneficio di sorta per i piccoli pazienti;

    più del 50 per cento dei disturbi neuropsichici dell'adulto hanno inizio in età evolutiva, spesso non intercettati e presi in carico all'esordio, quando, tra l'altro, il margine di intervento e di remissione è maggiore. I disturbi depressivi rendono conto del 40 per cento del carico (burden) di sofferenza e disabilità legato ai disturbi mentali in età evolutiva;

    le risorse previste, nell'ambito di riparto del fondo sanitario nazionale per il 2021, dimostrano quanto il Governo non dia né preminenza al tema e né, tantomeno, il supporto necessario affinché la salute mentale venga affrontata in modo strutturale e non con spot economici e politici, visto che l'Organizzazione mondiale della sanità denuncia che la salute mentale rappresenta la principale sfida per la salute globale del XXI secolo;

    in occasione della Giornata mondiale della salute mentale 2021 è importante addivenire alla strutturazione di un programma d'azione che non sia un puro esercizio di stile (si veda il recente documento sulla salute mentale approvato al G20), ma dia realmente seguito, con azioni concrete, al potenziamento dei servizi e a politiche di intervento che coinvolgano e integrino diversi sistemi e settori che vanno da quello della sanità all'istruzione, dalla ricerca al welfare e al mercato del lavoro,

impegna il Governo:

1) ad avviare in sede governativa un'indagine conoscitiva che certifichi lo stato di salute mentale della popolazione italiana e un conseguente piano d'azione nazionale sulla depressione che affronti gli effetti depressivi prodotti dalle politiche di lockdown legati alla pandemia e non solo;

2) ad avviare urgenti e mirate politiche sanitarie pubbliche, come il potenziamento della qualità e dei servizi di salute mentale sul territorio nazionale, in special modo nelle aree densamente popolate;

3) ad adottare iniziative per inserire, nei percorsi scolastici di ogni ordine e grado e nei luoghi di lavoro, programmi di promozione e sensibilizzazione sul tema della salute mentale;

4) a porre in essere tutte le iniziative di competenza necessarie, e non più rinviabili, per il superamento delle diseguaglianze dei servizi offerti dalle singole regioni, adoperandosi con spirito collaborativo in seno alla Conferenza Stato-regioni;

5) ad adottare iniziative concrete di politiche di intervento che siano integrative e d'insieme dei diversi sistemi e settori, come la ricerca, il welfare e il mercato del lavoro;

6) ad adottare iniziative per costituire un fondo per la cura della depressione che funga da supporto economico per quelle situazioni di salute mentale depressiva certificate nel mondo del lavoro, e non solo, affinché si elimini la spesa out of pocket, si dia la possibilità di curarsi per tempo e non si perda la dignità sociale e la vita;

7) in sede della Conferenza Stato-regioni, a promuovere iniziative urgenti che consentano le necessarie assunzioni per far fronte alla carenza di personale specializzato, di difficile reclutamento, per permettere il turn over e garantire la continuità dei servizi territoriali;

8) a destinare, nel prossimo disegno di legge di bilancio, le necessarie risorse finanziarie con cui portare l'Italia dal ventesimo posto in Europa per i servizi di salute mentale, con una spesa sanitaria del 3,5 per cento, ad una spesa che riduca drasticamente la forbice esistente, in rapporto agli altri Paesi del G7, che oscilla tra l'8 e il 15 per cento;

9) ad adottare iniziative per finanziare, nel disegno di legge di bilancio, lo stanziamento sufficiente a potenziare i servizi territoriali di neuropsichiatria infantile per portarli a una unità complessa ogni 150 mila–250 mila abitanti, necessità questa già indicata dalla Società italiana di neuropsichiatria infantile, dalle associazioni rappresentative e dalla risoluzione n. 8-00115 approvata all'unanimità dalla Commissione affari sociali della Camera dei deputati il 6 maggio 2021;

10) ad avviare, nelle scuole di ogni ordine e grado e sui luoghi di lavoro, questionari anonimizzati al fine di avere dati statistici reali, che certifichino il tasso di pervasività del malessere mentale tra la popolazione italiana, e, conseguentemente, ad adottare iniziative per prevedere risorse finanziarie adeguate con cui potenziare i servizi offerti dai dipartimenti di salute mentale nell'ottica di una vera prossimità di medicina territoriale.
(1-00531) «Leda Volpi, Sapia, Colletti, Forciniti, Cabras, Corda, Paolo Nicolò Romano, Trano, Maniero, Testamento, Spessotto, Giuliodori, Vallascas, Costanzo».

(19 ottobre 2021)