XIX Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Resoconto stenografico



Seduta n. 19 di Lunedì 6 novembre 2023

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3 

Seguito dell'audizione di Salvatore Borsellino e del suo legale, Fabio Repici:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3 
Borsellino Salvatore  ... 3 
Colosimo Chiara , Presidente ... 4 
Repici Fabio  ... 4 
Colosimo Chiara , Presidente ... 23 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 23 
Colosimo Chiara , Presidente ... 23 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 23 
Colosimo Chiara , Presidente ... 23 
Verini Walter  ... 23 
Colosimo Chiara , Presidente ... 23 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 23 
Colosimo Chiara , Presidente ... 23 
Cafiero De Raho Federico (M5S)  ... 23 
Colosimo Chiara , Presidente ... 23 
Provenzano Giuseppe (PD-IDP)  ... 23 
Colosimo Chiara , Presidente ... 23 
Provenzano Giuseppe (PD-IDP)  ... 24 
Colosimo Chiara , Presidente ... 24 
Verini Walter  ... 24 
Colosimo Chiara , Presidente ... 24 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 24 
Colosimo Chiara , Presidente ... 24 
Cantalamessa Gianluca  ... 24 
Colosimo Chiara , Presidente ... 24 
Russo Raoul  ... 24 
Colosimo Chiara , Presidente ... 24

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CHIARA COLOSIMO

  La seduta comincia alle 14.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che se non vi sono obiezioni la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite impianto audiovisivo a circuito chiuso nonché via streaming sulla web-tv della Camera.

Seguito dell'audizione di Salvatore Borsellino e del suo legale, Fabio Repici.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'audizione del dottor Salvatore Borsellino, collegato da remoto, e del suo legale, avvocato Fabio Repici, in presenza, che saluto e ringrazio ancora per la loro disponibilità.
  Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell'audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta, a richiesta dell'audito o dei colleghi. In tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
  In apertura, darò la parola al dottor Borsellino e poi al suo legale.

  SALVATORE BORSELLINO. Buongiorno, prendo brevemente la parola per fare una correzione in relazione a una mia dichiarazione fatta nel corso della precedente audizione del 18 ottobre. In quell'occasione, affermai che il generale Borghini, che ci risultava presente in via D'Amelio subito dopo la strage del 19 luglio, non fosse mai stato ascoltato dall'autorità giudiziaria in merito al furto dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. In realtà, ho potuto appurare che è stato ascoltato in due occasioni. La prima, l'8 settembre del 2005, presso la DIA di Caltanissetta come persona informata dei fatti. In quell'occasione, dichiarò di poter escludere che qualcuno, in particolare il capitale Arcangioli, gli avesse mai mostrato o parlato della borsa di cuoio appartenuta al dottor Borsellino. Nel 2020, invece, nel corso del processo a Mario Bo e altri, alla domanda dell'avvocato Fabio Repici se avesse notato se il capitano Arcangioli avesse qualcosa in mano quando l'aveva incrociato in via D'Amelio, rispose: «No, questo non me lo ricordo», e, alla domanda se con lo stesso capitano Arcangioli si fosse in quell'occasione fermato o avessero avuto qualche tipo di interlocuzione, rispose: «No, assolutamente no, io non ho parlato con nessuno del personale operante». Orbene, nel video e nelle foto che noi abbiamo esaminato, invece, i due vengono più volte ritratti insieme, anche nelle vicinanze della macchina di Paolo Borsellino, e non risulta quindi verosimile che possano non essersi parlati, tenendo presente che all'epoca della strage Borghini prestava servizio a Palermo nel grado di tenente colonnello con l'incarico di comandante del gruppo Carabinieri Palermo. Questa è la realtà.
  Con l'occasione, ribadisco che una vera verità e una vera giustizia sulle stragi che hanno insanguinato la storia del nostro Paese non può prescindere dal fatto che vengano messi in luce quali apparati hanno sottratto l'agenda rossa di Paolo Borsellino, abbiano cancellato il contenuto dei dischi dal database di Giovanni Falcone e abbiano sottratto i documenti contenuti nella cassafortePag. 4 di Carlo Alberto Dalla Chiesa. A mio avviso è da questi fatti che bisogna partire se davvero si vuole una vera verità e una vera giustizia e non una verità di comodo, confezionata per nascondere all'opinione pubblica altre terribile verità che macchiano la storia del nostro Paese o per le esigenze di ripulire la storia del nostro Paese a vantaggio dell'una o dall'altra parte politica. Ecco, io mi auguro che questa Commissione voglia procedere in questo senso. Partire da questi fatti e appurare queste verità. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie a lei dottor Borsellino. Faremo del nostro meglio perché non ci siano più coni d'ombra.
  Do la parola all'avvocato Repici.

  FABIO REPICI. Grazie al presidente e a tutti i commissari. La volta scorsa ho cercato di esporre quanto ritenevo e ritengo utile ai lavori della Commissione e avevo interrotto appena prima di parlare del depistaggio delle indagini e poi dei processi sulla strage di via D'Amelio.
  In realtà devo segnalare due cose in premessa. La prima è scaturita anche a seguito di una informale sollecitazione che mi è venuta dall'onorevole Orlando, che ho riconosciuto terminata l'audizione in quanto è stato ministro della Giustizia, e quindi a me volto noto, e che ho scoperto essere attuale componente della Commissione antimafia. Egli mi ha chiesto se avessi i documenti relativi alla vicenda riguardante le indagini delegate dalla Procura di Marsala al dottor Rino Germanà e che purtroppo hanno avuto come esito, come ritengo, l'attentato a suo danno, commesso il 14 settembre 1992. Ho fatto una verifica e sono riuscito a recuperare tutta la documentazione e tutti gli accertamenti agli atti degli uffici giudiziari sulla relazione di servizio, redatta il 13 febbraio del 1992, dal presidente della Corte di assise di appello di Palermo, dottor Salvatore Scaduti, nella quale si segnalava l'allarmante visita, ricevuta dallo stesso dottor Scaduti appena prima della sentenza sull'omicidio del capitano Basile, del notaio Pietro Ferraro a lui indirizzato da un lato per il tramite del dottor Signorino, al quale si era rivolto per avere il contatto con il dottor Scaduti, e dall'altro su induzione di un politico indicato come esponente della corrente dell'allora ministro Calogero Mannino e a nome Enzo.
  Ho recuperato tutti gli atti che ho provveduto a portare con me, insieme a ulteriore documentazione anche su altri temi di cui ritengo sia doveroso la Commissione antimafia entri in possesso, in modo che possa ulteriormente approfondire i propri lavori.
  Riportandomi a quanto ho già detto, segnalo però alcuni dati che emergono proprio dai documenti che consegno. Faccio rinvio in particolare a una relazione che sul punto fu redatta dal dottor Massimo Russo, che era il giovane sostituto procuratore della procura di Marsala il quale, insieme alla dottoressa Camassa, si era occupato di quelle indagini, una relazione nella quale egli mette insieme i dati di propria esperienza, anche personale, in riferimento a ciò che avvenne durante quelle indagini, così che oggi possiamo attestare come certo che il dottor Paolo Borsellino fu personalmente portato a conoscenza di quell'attività di indagine delegata al dottor Germanà. Fu personalmente portato a conoscenza sia dai due magistrati della procura di Marsala, Camassa e Russo, sia dallo stesso dottor Germanà, a inizio giugno 1992. Oltre a questo, possiamo definitivamente attestare che, nell'indagine conseguita alla relazione del dottor Scaduti presso la procura di Palermo, della quale fu titolare l'allora procuratore aggiunto dottor Aliquò, furono accertati mediante intercettazione telefonica i contatti fra il notaio Pietro Ferraro e l'allora non ancora senatore Vincenzo Inzerillo, dato che le indagini furono a cavallo delle elezioni del 5-6 aprile 1992. Al riguardo di Vincenzo Inzerillo, va ricordato che si tratta di soggetto pregiudicato per concorso esterno in associazione mafiosa, quale – così è stato ritenuto dalla sentenza irrevocabile – esponente politico nelle mani della famiglia Graviano, in relazione, in particolare, con Pag. 5Giuseppe Graviano. È superfluo ricordare che Giuseppe Graviano è il coordinatore principale dell'attività di esecuzione della strage di via D'Amelio. Quelle intercettazioni che coinvolgevano il senatore Inzerillo intervengono addirittura prima della strage di Capaci.
  Il dottor Russo fa notare – e dalla documentazione che ho portato c'è la prova documentale di questo – come il fascicolo che conteneva le intercettazioni fatte sulle utenze del notaio Ferraro e comprovanti i rapporti con il senatore Inzerillo, furono trasmesse dalla procura di Palermo alla procura di Caltanissetta, per un verso, e alla procura di Marsala, per un altro. In particolar modo è significativo come l'allora sostituto procuratore di Caltanissetta, dottor Polino, che ricevette la documentazione trasmessa da Palermo, già a fine marzo 1992, segnalava il probabile errore in cui era in corso il dottor Aliquò nell'identificare in Culicchia il Vincenzo indicato nella relazione del dottor Scaduti, che invece era da individuare nel senatore Vincenzo Inzerillo. Il dato è doppiamente significativo perché, per la parte di quella indagine rimasta a Palermo, essa fu chiusa – c'è una richiesta di archiviazione del dottor Aliquò del 20 maggio 1992 – esattamente in contemporanea con la convocazione, ad opera del vice capo della polizia, prefetto Rossi, del dottor Germanà, avvenuta in modo particolarmente irruento al momento del deposito della informativa del dottor Aliquò presso la procura di Marsala.
  Dalla relazione del dottor Russo, ma anche da tutti gli atti che vi produco, vedrete che c'è una stretta connessione fra quell'indagine, riguardante la relazione di servizio del dottor Scaduti, e altre indagini che aveva la procura di Marsala sull'onorevole Gunnella, in relazione alla posizione del dottor Domenico Signorino, il cui nome sostanzialmente veniva fuori sia in relazione ai contatti tentati dal dottor Ferraro per «addomesticare» la sentenza sull'omicidio del capitano Basile sia in relazione ai contatti del dottor Signorino con l'onorevole Gunnella. Il dottor Signorino venne audito a sommarie informazioni dai due magistrati della procura di Marsala il 12 giugno 1992. Quelle due indagini erano strettamente intrecciate, erano assegnate alle stesse due persone, e cioè ai dottori Camassa e Russo, ed entrambe le vicende procedimentali furono portate dai due giovani magistrati all'attenzione di Paolo Borsellino. Perché segnalo il grossissimo rilievo che secondo me ha quella vicenda? I rapporti fra Vincenzo Inzerillo e Giuseppe Graviano non si interruppero prima della strage di Capaci, ma proseguirono fino a tutto il 1993 e possiamo dire fino a poco prima dell'arresto di Giuseppe e Filippo Graviano, avvenuto a Milano il 27 gennaio 1994. Il senatore Inzerillo, così come risulta dalla documentazione che produco, seguì le attività di Giuseppe Graviano sotto il versante delle ambizioni politiche di alcuni appartenenti a Cosa nostra, in primis Giuseppe Graviano, insieme a Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro, di fondare una formazione politica che venne denominata «Sicilia Libera», sostanzialmente – nella idea degli artefici – la proiezione politica che doveva consentire a Cosa nostra di passare impunemente dagli equilibri della prima Repubblica a quelli della seconda. Sappiamo che poi, per decisione degli stessi boss di Cosa nostra, il progetto «Sicilia Libera» alla fine del 1993 fu sostanzialmente abortito con altra scelta – anche di ciò c'è traccia negli approfondimenti giudiziari che sono stati fatti, e ricordo le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, – che seguì i rapporti intercorsi fra Giuseppe Graviano e l'onorevole Marcello Dell'Utri al momento della nascita del nuovo partito politico con cui si sarebbe inaugurata la seconda Repubblica.
  Il punto è che, dalle molteplici dichiarazioni di collaboratori di giustizia e dalle risultanze investigative, i tre artefici di «Sicilia Libera» furono appunto Giuseppe Graviano Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro. Non mancherà a voi di rilevare il dato particolarmente allarmante che si tratta dei tre esecutori del tentato omicidio Germanà. Quindi c'è la coincidenza non solo nei soggetti passivi, Pag. 6vittime o delle attenzioni o addirittura del fuoco di Cosa nostra, ma anche dei soggetti attivi, cioè di coloro che dentro Cosa nostra operavano, da un lato, in via direttamente criminale con le stragi e gli attentati e, dall'altro, anche elaborando progetti politici che ebbero concreti iniziali sviluppi e che ebbero anche contatti di notevole rilievo. Per questo motivo, proprio nel momento in cui scoppiò in lacrime davanti ai dottori Camassa e Russo, parlando di un amico da cui si sarebbe sentito tradito, trovo molto importante il dato che possiamo ritenere accertato che il dottor Borsellino fosse stato, da un lato, il terminale dei due giovani magistrati e, dall'altro, il terminale del dottor Germanà, cioè l'investigatore che se ne era occupato. Il dottor Germanà, sentito quale testimone dell'autorità giudiziaria, ha riferito anche che il dottor Borsellino aveva cognizione precisa degli ambienti che erano stati oggetto dei suoi accertamenti investigativi, in quanto lo stesso dottor Borsellino insieme al dottor Germanà si era occupato in passato proprio di un esponente particolarmente rilevante della massoneria nella storia d'Italia. Si tratta di uno dei soggetti che, a metà degli anni '70, si occupò del progetto di riunificazione complessiva delle diverse obbedienze massoniche esistenti in Italia nonché dell'ingresso dei principali esponenti di Cosa nostra dentro le obbedienze massoniche, e cioè il dottor Luigi Savona, che è lo stesso che venne indicato da Luigi Ilardo quale personaggio al centro di quello scenario a più partecipazioni, e cioè mafia, massoneria, politica ed eversione neofascista, che secondo lo stesso Luigi Ilardo aveva replicato il proprio protagonismo con le stragi del 1992-1993.
  Questo è il motivo per cui ritengo particolarmente rilevante quella documentazione, segnalando che dalla procura di Caltanissetta nel corso degli anni sono stati effettivamente fatti sforzi per cercare di approfondire questo tema. Ritengo però che in realtà l'impegno sui diversi ambiti di quella vicenda abbia sofferto di una certa parcellizzazione e di trattazione separata che forse non hanno consentito di cogliere appieno l'unicità del dato. Tanto più che, come emerse anche dalle attività svolte per il processo sulle stragi del 1993 dal dottor Gabriele Chelazzi, oggi sappiamo che il senatore Inzerillo partecipò addirittura a riunioni con esponenti di vertice di Cosa nostra nelle quali si parlò proprio delle stragi nel momento in cui l'attività stragista di Cosa nostra stava spostandosi dalla Sicilia al continente.
  Per passare a un'altra questione di cui ho parlato, ma su cui ho reperito altra documentazione che è utile portare alla conoscenza della Commissione, avevo riferito della collaborazione avviata il primo luglio 1992 da Gaspare Mutolo proprio con il dottor Borsellino, collaborazione che aveva dovuto superare impacci di vario tipo, anche strettamente burocratici, da parte della procura di Palermo. Segnalo un dato, proprio per assoluta chiarezza e perché non ci sia il rischio di scivolare in misunderstanding che portino ricostruzioni per via logica a contrastare con i dati documentali. Il 5 novembre 1992, l'autorità giudiziaria di Caltanissetta, nella persona del pubblico ministero dottor Fausto Cardella, fece un'attività formale con la quale fu repertato il contenuto della borsa del dottor Borsellino, scomparsa dalla sua auto il 19 luglio 1992 e rinvenuta, non si capisce bene come, proprio nei giorni precedenti nell'ufficio del dottor Arnaldo La Barbera. Dico questo e consegno anche il verbale redatto dal dottor La Barbera, per riferire che, naturalmente, nella borsa di Paolo Borsellino non venne rinvenuta l'agenda rossa, come noto, ma il dato in questo momento principale che mi permetto di segnalare è che è assolutamente un dato fuori dalla realtà, anzi contrario ai dati di realtà, il fatto che nella borsa di Paolo Borsellino ci fosse un fascicolo relativo a Gaspare Mutolo. Questo è un dato assolutamente contrario alla realtà ed erroneamente, non so per quale motivo, riferito oralmente dal dottor Vittorio Aliquò in una qualche occasione. Il contenuto della borsa del dottor Borsellino è quello che è stato repertato, nei reperti che sono stati lasciati dentro quella borsa e, per quello Pag. 7che sappiamo da fonti più che autorevoli, cioè dalla moglie e dai figli di Paolo Borsellino, l'unico elemento mancante era la agenda rossa. Questo è un dato pacifico sul quale ritengo sia rischioso fare valutazioni o ricostruzioni su base non documentale, a distanza di oltre 31 anni.
  Passiamo al depistaggio sulla strage di via D'Amelio. La sentenza della Corte di assise di Caltanissetta del 20 aprile 2017 sul processo Borsellino-quater, è assolutamente chiara e, a mio modo di vedere, apprezzabile sul punto. Quindi rimando a quella sentenza quanto alla evoluzione delle indagini, alla partecipazione abusiva alle indagini di esponenti del SISDE, con il coinvolgimento fin da subito del dottor Bruno Contrada da parte del procuratore Tinebra, e quanto all'ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti di Vincenzo Scarantino ed eseguita il 26 settembre del 1992 e agli sviluppi, sotto forma di attività davvero persecutoria, in danno di Vincenzo Scarantino per convincerlo ad accettare il ruolo di falso collaboratore di giustizia sulla strage di via D'Amelio. Questi sono dati pacifici e rinvio alla sentenza del Borsellino-quater. Mi permetto di segnalare un dato che riguarda Vincenzo Scarantino, il principale protagonista del depistaggio, cioè il dottor Arnaldo La Barbera, e un altro gravissimo delitto. Come la Commissione sa, il 5 agosto 1989, a Villagrazia di Carini fu ucciso il poliziotto Antonino Agostino, insieme alla moglie, Ida Castelluccio. Le indagini furono indirizzate dal dottor La Barbera, in modo veramente imperdonabile, direi infame, su una incredibile pista passionale. Non entro nel merito, perché sarebbe veramente una caduta di dignità rispetto alle investigazioni e alla giurisdizione parlare della pista passionale sul duplice omicidio Agostino-Castelluccio. Il dato però assolutamente rilevante e, a mio modo di vedere, enorme è che il 9 agosto 1990 fu sentito a sommarie informazioni il papà del poliziotto Agostino, il signor Vincenzo Agostino, perché potesse individuare con riconoscimento fotografico un personaggio particolarmente importante che, qualche settimana prima del delitto, si era presentato insieme ad altro uomo a Villagrazia di Carini per, ritengo, fare un sostanziale servizio di osservazione e verifica dei luoghi nei quali poi fu effettivamente commesso il delitto, soggetto che poi a febbraio 2016 il signor Vincenzo Agostino riconobbe nell'ex poliziotto Giovanni Aiello, convenzionalmente divenuto più famoso con la locuzione «Faccia da mostro». Il 9 agosto 1990 per fare il riconoscimento di quell'uomo, poi individuato in «Faccia da mostro», presso la squadra mobile di Palermo furono sottoposte al signor Agostino alcune fotografie e fra queste, del tutto incredibilmente, vi era quella di Vincenzo Scarantino. Tenete conto che siamo a due anni prima della strage di via D'Amelio, allorché Vincenzo Scarantino era un piccolo criminale di borgata che sicuramente nulla poteva avere a che fare con il duplice omicidio Agostino-Castelluccio. Eppure la squadra mobile di Palermo aveva già il jolly pronto per coprire, con una figura il cui profilo era strettamente criminale, in realtà pure di bassa lega, la posizione di soggetti che invece avevano una particolare caratteristica, quella di non essere uomini di Cosa nostra. Nell'agosto del 1990 si tenta di indurre in errore il signor Agostino, facendogli abbinare la figura di «Faccia da mostro» al piccolo criminale Vincenzo Scarantino, poi sappiamo che nel 1992 sulla strage di via D'Amelio viene riesumato il jolly – non andato a buon fine nel 1990, grazie alla mancata caduta nel tranello da parte del signor Agostino. Nel 1992, invece, il depistaggio lo si deve fare per forza, perché su una strage di quelle dimensioni non si può lasciare la investigazione senza alcun risultato, e quindi si decide di procedere contro Vincenzo Scarantino.
  Sappiamo della collaborazione di Vincenzo Scarantino. In anni recenti, e cioè dalla fase immediatamente successiva alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che hanno per fortuna disinnescato ex post quel depistaggio, abbiamo appreso varie versioni sulla partecipazione di magistrati alla attività di ricerca e di ottenimento di risultati sulla scorta delle false dichiarazioniPag. 8 di Vincenzo Scarantino. Nel processo Borsellino-quater, e se ne dà conto anche nella sentenza, io mi adoperai per far entrare nel fascicolo del dibattimento la registrazione di una conferenza stampa. I primi arresti avvenuti con le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, iniziate nel carcere di Pianosa il 24 giugno 1994, furono eseguiti il 18 luglio 1994. Nel secondo anniversario della strage di via D'Amelio, il 19 luglio, nel palazzo del Viminale, cioè proprio nella sede sociale del depistaggio, fu svolta una conferenza stampa alla quale parteciparono anche i magistrati della procura di Caltanissetta. L'audio è ancora reperibile sul mai abbastanza ringraziato archivio di Radio Radicale. Chiunque possa ascoltare quella conferenza stampa sentirà che a parlare, a elogiare i risultati ottenuti con le false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, furono solo due magistrati: il Procuratore della Repubblica del tempo, dottor Giovanni Tinebra, e la sostituta applicata a Caltanissetta dottoressa Ilda Boccassini. Sono questi i soggetti che rivendicarono i risultati ottenuti con le false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino.
  Ciò detto, ci sono ulteriori questioni riguardanti il depistaggio.
  A mio modo di vedere, la principale è quella relativa proprio alla sparizione, o meglio, più che alla sparizione, alla sottrazione dell'agenda rossa del dottor Borsellino. Come avete sentito da Salvatore Borsellino, questa è stata la principale spinta all'impegno di Salvatore Borsellino e di chi ha collaborato con lui nel tentativo di sottrarre elementi importanti al buio delle investigazioni. Sulla agenda rossa io posso dire, avendo partecipato come difensore di parte civile al processo Borsellino-quater, che si tratta della frazione degli accertamenti sulla strage maggiormente vittima di trascuratezza e omissione da parte degli uffici giudiziari. Si è arrivati al punto che tutto quello che sappiamo sulla sparizione dell'agenda rossa per puro paradosso, lo sappiamo per iniziativa di privati cittadini. Il primo fu un giornalista, Lorenzo Baldo, della testata «Antimafia 2000», che nel 2005 ricevette una comunicazione anonima con la quale gli veniva segnalata l'esistenza di una o più immagini di un ufficiale dei carabinieri che si allontanava dal teatro della strage avendo in pugno la borsa del dottor Borsellino. Egli riferì all'autorità giudiziaria e furono rinvenute le fotografie e poi alcuni video raffiguranti il capitano Giovanni Arcangioli il quale, senza avere mai lasciato alcuna traccia, alcuna relazione di servizio, alcuna annotazione, cioè furtivamente – perché è l'unico modo in cui si può descrivere quella azione – mentre c'erano le fiamme in via D'Amelio, mentre c'erano ancora i feriti da soccorrere, ebbe quale sua prima e forse esclusiva pulsione quella di impossessarsi della borsa di Paolo Borsellino e allontanarsi dal teatro della strage per l'esattezza in direzione di via dell'Autonomia siciliana. Su quella condotta del capitano Arcangioli è stato impossibile avere un accertamento processuale, nel senso di una verifica dibattimentale, perché egli fu prosciolto in udienza preliminare sull'imputazione di furto dell'agenda rossa. Quella sentenza fu confermata dalla Corte di cassazione a cui aveva fatto ricorso la procura di Caltanissetta. C'è però da dire che nel processo Borsellino-quater ci si è nuovamente occupati di quella vicenda e in particolar modo è stato proprio mio impegno, in ossequio al fedele patrocinio della posizione di Salvatore Borsellino, quello di fare luce il più possibile sulla sottrazione della agenda rossa. Anche grazie al nostro impegno la Corte di assise di Caltanissetta segnalò alla procura, trasmettendo integralmente gli atti del processo Borsellino-quater, che andavano ulteriormente sviluppati gli accertamenti sulla sottrazione dell'agenda rossa. Mi ero permesso anche di segnalare un dato che ritenevo significativo: il capitano Arcangioli, che era stato sottoposto a processo solo a partire dal 2005, poiché il delitto di furto era nel frattempo coperto dalla prescrizione, nella sua sede processuale aveva rinunciato alla prescrizione, cosa che a mio modo di vedere consentiva ulteriori attività che potevano essere svolte anche dopo la sentenza del Borsellino-Pag. 9quater. Non abbiamo avuto notizia in nessun modo di alcuna attività utile sulla sottrazione dell'agenda rossa. In riferimento alla supplenza che privati cittadini hanno dovuto prestare alle omissioni istituzionali, di cui parlavo prima, il miglior accertamento fatto sulla sparizione dell'agenda rossa o meglio sull'impossessamento da parte del capitano Arcangioli della borsa del dottor Borsellino, la migliore attività è stata svolta dalla associazione fondata da Salvatore Borsellino, chiamata proprio per questo «Agende rosse» e in particolar modo da un bravissimo operatore informatico che si chiama Angelo Garavaglia. Ho prodotto alla Corte d'Assise un video realizzato da Angelo Garavaglia nel quale egli è riuscito a fare tutti gli accertamenti possibili, anche con la individuazione del momento esatto e del minuto esatto dell'apprensione della borsa, grazie alla parziale raccolta di documentazione video da parte degli operatori televisivi che ne avevano il possesso e dai quali riuscì a ottenere alcuni video. Mi consta, e questo lo affermo con grado di certezza, che in realtà l'attività svolta privatamente da Angelo Garavaglia non ha avuto analogo sviluppo in sede istituzionale e quindi il paradosso oggi è che, a distanza di trentun anni dalla strage di via D'Amelio, non è stata effettuata una integrale acquisizione presso tutti gli operatori televisivi del Paese, come doveroso, a mio modo di vedere, di tutta la documentazione in archivio relativa a video raffiguranti i minuti e le ore successive alla strage di via D'Amelio. Se perdonate questa attività di sollecitazione da parte mia, mi permetto di segnalare questo come un fattore particolarmente rilevante che dovrebbe accendere la vostra attenzione, cioè proprio potreste essere voi forse la prima istituzione del Paese a riuscire a raccogliere in modo integrale tutta la documentazione video su via D'Amelio, cosa che non è ancora avvenuta. Questo lo dico con cognizione di causa perché Angelo Garavaglia, del quale produssi nel processo Borsellino-quater quel preziosissimo lavoro fu addirittura convocato lui dall'autorità giudiziaria perché riferisse dei documenti video sui quali aveva impostato il suo lavoro. Quindi la sollecitazione è duplice. Da un lato appunto l'attività di raccolta di quel materiale video e dall'altro l'audizione del signor Angelo Garavaglia che molto meglio di me sul punto può aiutare i vostri lavori.
  Il processo Borsellino-quater ha avuto un seguito, come a tutti noto, perché, all'esito di quella sentenza del 20 aprile 2017, la cui motivazione fu depositata il 30 giugno 2018, la procura di Caltanissetta ha attivato un procedimento che poi si è tradotto in un processo tuttora pendente presso la Corte d'appello di Caltanissetta, a carico di tre esponenti della polizia di Stato, Bo, Mattei e Ribaudo. Poiché il dovere di rispetto del principio di realtà, nel senso della parresia di cui vi dissi l'altra volta, ritengo sia cogente anche in questo momento, devo segnalare che la sentenza di primo grado emessa dal tribunale di Caltanissetta nei confronti di Bo e degli altri due poliziotti, come voi sapete, ha avuto quale conclusione la sentenza di assoluzione per l'imputato Ribaudo e di proscioglimento per prescrizione per gli imputati Mattei e Bo. Vi segnalo un dato rilevante. L'imputazione a carico dei tre poliziotti era in concorso con Vincenzo Scarantino. Vincenzo Scarantino per quelle ipotesi di reato era stato imputato nel processo Borsellino-quater, perché era stato chiamato a rispondere di calunnia aggravata. Come voi sapete, la sentenza di primo grado riconobbe a Vincenzo Scarantino la prescrizione, solo perché gli fu riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'articolo 114 del codice penale, di essere stato determinato a compiere quelle condotte dai soggetti che ne avevano la gestione, e cioè gli uomini della polizia di Stato del gruppo diretto dal dottor La Barbera. Questo lo dico perché se a Scarantino non fosse stata riconosciuta alcuna attenuante egli, nella ricostruzione della Corte d'assise di Caltanissetta, avrebbe ricevuto una sanzione, sarebbe stato anch'egli condannato. Perché vi dico questo? Perché nel processo Borsellino-quater, come voi sapete, non furono imputati poliziotti. I Pag. 10poliziotti furono imputati nel processo che ha trovato definizione solo nell'anno 2022, con la sentenza di prescrizione che vi ho detto. Poiché spesso nella narrazione pubblica delle vicende giudiziarie l'effetto di propaganda prevale sul rispetto della realtà, mi permetto di segnalare una circostanza e cioè che alla prescrizione per i poliziotti imputati delle calunnie esecutivamente commesse da Vincenzo Scarantino, si è arrivati solo per il tempo perso dalla procura di Caltanissetta non nel 1992 – per intenderci quella guidata dal dottor Tinebra – ma quella che ha trattato anche il processo Borsellino-quater. Di questo negli atti che vi produco vi do prova documentale, perché, parallelamente al processo Borsellino-quater, era stato aperto un fascicolo dalla procura di Caltanissetta nei confronti dei poliziotti, in particolar modo del dottor Mario Bo, oltre che di due altri funzionari. Quel procedimento fu definito con provvedimento di archiviazione su richiesta della procura di Caltanissetta. Questo avvenne in costanza del dibattimento a carico di Scarantino per le stesse calunnie. Il punto è che a quella definizione si era arrivati nel 2015 con il provvedimento di archiviazione del GIP, su richiesta della procura di Caltanissetta, ma tale procura aveva segnalato che la richiesta non era dovuta alla scadenza dei termini delle indagini preliminari, che erano già cessati credo nel 2011, ma perché non aveva potuto fare uso di atti successivamente acquisiti. Senonché questo avvenne solo nel 2015. In questo senso bisogna prendere atto di come alle volte l'intervento dei soggetti politici può avere effetti positivi anche in relazione alla giurisdizione, perché era avvenuto che nell'estate del 2015 era stata rilasciata dall'allora procuratore di Caltanissetta un'intervista con la quale egli aveva riferito che il fascicolo a carico dei poliziotti sarebbe rimasto in fase di sospensione, in attesa della sentenza del processo Borsellino-quater. Avvenne poi che, anche in conseguenza di quelle dichiarazioni del procuratore Lari, venne formulata un'interrogazione parlamentare da una deputata del tempo, l'onorevole Giulia Sarti, al ministro della Giustizia. Non è un caso che, immediatamente dopo quella interrogazione parlamentare che lamentava i ritardi nella definizione di quel procedimento e la irragionevolezza di aspettare e di sospendere gli accertamenti in attesa di altri processi, la procura di Caltanissetta arrivò a concludere l'indagine con la richiesta di archiviazione. Lo fece, ottenne l'archiviazione, ma dimenticò di chiedere l'autorizzazione alla riapertura delle indagini, visto che c'erano stati degli elementi che la stessa procura aveva dichiarato nella sua richiesta di archiviazione di non poter utilizzare perché acquisiti solo dopo la scadenza dei termini delle indagini preliminari. Quel tempo perso fra il 2015 e il 2018, è il motivo per cui il processo Bo più due si è concluso con una sentenza di prescrizione, il che naturalmente non vuol dire nulla sul merito, nel senso che uno dei tre imputati sappiamo essere stato assolto nel merito. Certo è che però la impossibilità di pronunciare sentenza prima dell'estinzione del reato per prescrizione è derivata dalle ragioni che vi ho segnalato. Come ho detto, il processo a carico dei tre poliziotti è ancora in corso. C'è stata udienza il 31 ottobre scorso, cioè la settimana scorsa, proseguirà a fine mese e quindi sul punto nulla posso dire di valutazioni conclusive su quella vicenda.
  Ritengo invece doveroso approfondire un tema che nel corso degli anni, a partire all'incirca dal 1998, è stato tirato fuori o sottolineato da più parti come una delle possibili ragioni che portarono alla strage di via D'Amelio. Mi riferisco alla vicenda diventata famigerata con la locuzione «mafia-appalti», cioè all'attività di indagine che i carabinieri del gruppo 1 di Palermo nel 1989 e poi i carabinieri del ROS svolsero sostanzialmente su delega della procura della Repubblica di Palermo. Mi permetto di segnalarvi il mio convincimento a conclusione dell'analisi di una mole di documenti significativa che ho portato alla vostra attenzione e che oggi mi consente serenamente di dire che la causale mafia-appalti ipotizzata per la strage di via D'Amelio la possiamo definirePag. 11 come una sorta di pista palestinese su via D'Amelio, se vogliamo richiamare il tentativo di depistaggio avvenuto per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Sappiamo poi che sulla strage di Bologna in realtà la attività di elaborazione di piste assolutamente mistificatorie continua a progredire con una velocità che non consente di stare dietro agli artefici, perché, proprio nei giorni scorsi, mi è capitato di leggere che addirittura alla pista palestinese ora è sopravvenuta una pista ancora più psichedelica che mi viene da definire israelo-palestinese, in relazione a elaborazioni e produzioni letterarie che ho visto trovano sponda o sostegno sempre negli stessi ambienti della eversione neofascista e, in particolar modo, nel caso ultimo che vi citavo, anche da parte di esponenti di Ordine Nuovo. Perché dico che la causale mafia-appalti è un po' la pista palestinese su via D'Amelio? Circa le indagini su mafia e appalti – nel senso delle indagini condotte dai carabinieri perché naturalmente sulle ingerenze delle mafie negli appalti in Italia ritengo ci siano state indagini in ogni distretto giudiziario del Paese – per limitare la nostra valutazione a quelle più famose, le indagini iniziarono nel 1989. Sappiamo che ebbero un primo esito con il deposito di un rapporto giudiziario al dottor Giovanni Falcone il 13 febbraio 1991. Si dice: ma c'è stata una doppia refertazione sulle risultanze di quelle indagini? Alcuni arrivano a sostenere che ciò non sia avvenuto, muovendo guerra ai dati documentali. Noi sappiamo che quel rapporto giudiziario del 13 febbraio 1991 fu oggetto di procedimento penale trattato dalla procura di Palermo. Sappiamo che per una parte quel procedimento arrivò a misura cautelare già nell'estate del 1991 con imputazioni, in quel momento provvisorie, ma che poi portarono a un dibattimento e quindi diventarono formalmente imputazioni, che prevedevano anche la contestazione di associazione mafiosa nei confronti di alcuni imputati, tra gli altri Angelo Siino. Sappiamo un altro dato, e cioè che il 3 settembre 1992 fu redatto un ulteriore rapporto da parte del ROS, avente lo stesso identico oggetto. Due rapporti, con lo stesso oggetto, aventi uno la data del 13 febbraio 1991 e uno la data del 3 settembre 1992, Se non è doppia refertazione questa, io non so cosa sia la doppia refertazione. Il punto è che nel documento depositato alla procura di Palermo il 5 settembre del 1992 erano inserite intercettazioni e riferimenti ad attività investigativa riguardanti esponenti politici primari della Sicilia e del Paese, che erano stati raccolti dal ROS nel 1990 e 1991, in epoca precedente al rapporto 13 febbraio 1991. Quindi, per precisa scelta di coloro che si occuparono della redazione di quel documento, le risultanze del 1990 furono tenute fuori da quel rapporto e inserite solo nel settembre 1992. Il dato significativo non è solo questo, perché si è potuto apprendere dalle dichiarazioni non processuali – quasi mai – ma soprattutto pubbliche da parte dei due ufficiali del ROS che principalmente si occuparono, uno come coordinatore e l'altro come diretto investigatore di quelle indagini, e cioè Mario Mori e Giuseppe De Donno, si è potuto apprendere il loro convincimento che quell'attività sia stata sostanzialmente la causa principale della strage di via D'Amelio, ma lo si è potuto apprendere solo per via di dichiarazioni del dibattito pubblico e non in sede processuale. Ciò per un motivo, perché in realtà il generale Mori e il colonnello De Donno nelle occasioni in cui si sono trovati imputati nel processo denominato trattativa, De Donno in quel processo, e in altri due processi il generale Mori, chiamati a rendere esame davanti ai giudici si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere, com'era loro legittima facoltà. Certo è che questo è il crisma dei soggetti che dobbiamo tenere in considerazione per valutare le loro dichiarazioni. Questo lo dico perché se davvero quei due ufficiali il 20 luglio 1992 pensarono che la strage appena avvenuta in via D'Amelio fosse stata causata dall'interessamento del dottor Paolo Borsellino alle loro attività di indagine, noi siamo davanti a una omissione in atti d'ufficio perpetrata dal 1992 fino almeno al 1997-1998, perché ci sono Pag. 12due ufficiali di polizia giudiziaria che, pur convinti di quello, avevano tenuto nascosta quella circostanza, che solo a loro nella loro versione risultava, rifiutando di mettere a conoscenza l'autorità giudiziaria che procedeva sulla strage di via D'Amelio, cioè la procura di Caltanissetta, con la quale pure quei due ufficiali, durante la guida del dottor Tinebra, ebbero eccellenti rapporti. Allora come si fa a spiegare questa continuata omissione? La si spiega con un solo motivo, che è quello banale: è una menzogna che da quella vicenda fosse derivata la strage di via D'Amelio. Qui mi permetto perfino, con l'affetto che egli mi conosce, di dissentire dal mio assistito, Salvatore Borsellino, il quale, nella precedente audizione, secondo me più per spirito di bonomia e per evitare di tenere posizioni spigolose, ha detto che al più la vicenda mafia-appalti può essere stata una delle concause. Mi permetto di dissentire da lui con cognizione di causa, dicendo che non è stata neanche una concausa e questo lo dico per una ragione, cioè che non è solo il tempo della omissione della narrazione di Mori e De Donno per sei anni che è una cosa impensabile: pensare che un generale e un tenente colonnello dei Carabinieri si siano tenuti questo segreto fino al 1998 è davvero una cosa inenarrabile. Il punto è un altro, cioè quando per la prima volta Mario Mori e Giuseppe De Donno tirarono fuori il discorso delle indagini mafia-appalti, lo fecero spontaneamente o lo fecero per interessi difensivi? Questa è la domanda. E la risposta a questa domanda è una e una soltanto: lo fecero per interessi difensivi propri, legittimi, ma interessi difensivi. Dico questo perché il 13 ottobre 1997, in un momento in cui ancora, mai nessuno – mai nessuno – aveva riferito nulla all'autorità giudiziaria a proposito di questa questione, il 13 ottobre 1997 vennero convocati come testimoni dalla procura di Palermo il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno. Il colonnello Giuseppe De Donno – vi produco il documento – venne sentito a sommarie informazioni dal procuratore Caselli e dai sostituti procuratori Prestipino e De Lucia. Gli vennero poste domande proprio sulla gestione di quei rapporti giudiziari e del contenuto di quelle indagini. Gli vennero poste domande non nel senso degli sviluppi che avevano avuto quelle indagini, ma delle possibilità che, anche per iniziativa di personaggi a loro vicini, quelle investigazioni fossero state conosciute da esponenti di Cosa nostra. Era avvenuto che nel luglio, a memoria direi il 5, ma non ci metto la mano sul fuoco, luglio del 1997, su iniziativa della procura di Palermo, era stato per l'ennesima volta arrestato Angelo Siino. Angelo Siino, raggiunto dal provvedimento di custodia cautelare, decide di collaborare con la giustizia e comincia a parlare dei suoi rapporti con esponenti del ROS. Da un lato di rapporti che difficilmente si possono ritenere legittimi in relazione ad alcuni sottufficiali, grazie all'operato dei quali nel racconto di Angelo Siino Cosa nostra aveva conosciuto il contenuto di quelle investigazioni, ma anche i rapporti che lo stesso Angelo Siino aveva avuto quale confidente fino a prima della sua collaborazione proprio con gli ufficiali del ROS che quelle indagini avevano curato. Il 13 ottobre 1997 – rimando al verbale, fatto da persone che non sono mai state qualificate come magistrati spinti da pulsioni politiche – il dottor Prestipino e il dottor De Lucia cioè l'attuale procuratore aggiunto di Roma e l'attuale procuratore della Repubblica di Palermo a brutto muso contestano al colonnello De Donno le circostanze a loro riferite dal collaboratore di giustizia Angelo Siino. Siamo a 5 anni e 2 mesi circa dopo la strage di via D'Amelio. Non mi si dirà che è un caso che la settimana dopo, il 20 ottobre del 1997, il colonnello Giuseppe De Donno scrive una nota al procuratore Tinebra, con la quale segnala che ha circostanze da mettere a conoscenza di quella procura per competenza motivata ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale, cioè in relazione a condotte asseritamente illecite di magistrati della procura di Palermo. Poiché quelle circostanze erano note al colonnello De Donno Pag. 13nel 1992 e negli anni successivi e poiché c'è un articolo del codice penale che punisce il pubblico ufficiale che, avendone avuto notizia, omette o ritarda di denunciare un fatto di reato – e direi che cinque anni è, più che un ritardo, una omissione – quella condotta del colonnello De Donno è la confessione del reato di cui all'articolo 361 del codice penale, se fosse vero ciò che egli riferì. Effettivamente – vi ho prodotto anche il documento – il 29 ottobre 1997 il colonnello De Donno fu sentito a sommarie informazioni dalla procura di Caltanissetta nella persona del PM, dottor Leopardi, cioè del magistrato in quel momento più vicino in senso assoluto al procuratore Tinebra, come è noto anche da vicende giudiziarie che coinvolsero direttamente il dottor Leopardi e indirettamente anche il dottor Tinebra in relazione al cosiddetto «Protocollo farfalla», un processo che si è celebrato innanzi all'autorità giudiziaria di Roma. Questo è il quadro oggettivo dei fatti. Ci si sveglia dopo oltre cinque anni e dopo essere stati messi quasi in stato d'accusa in quel verbale del 13 ottobre 1997, ci si ricorda che ci sono asserite condotte indebite di magistrati della procura di Palermo da segnalare a Caltanissetta. Mente chi avesse il coraggio di dire che non c'è una diretta correlazione fra la convocazione di De Donno dalla procura di Palermo e la sua segnalazione alla procura di Caltanissetta.
  Quelle che vi riferisco sono le mie valutazioni. Io però vi ho prodotto tutti i documenti. La documentazione è veramente notevole. Ho avuto davvero difficoltà in ordine di tempo da dedicarvi, insieme agli impegni professionali e anche a quelle minime porzioni di vita privata che uno dovrebbe sempre mantenere. Spero di essere riuscito a produrvi tutto e se dovessi accorgermi di qualcosa di mancante, vi molesterò con ulteriori documentazioni. Il punto è che c'è stata una sede giudiziaria sulla quale è stato fatto un accertamento rispetto alle tesi propugnate dal generale Mori e dal colonnello De Donno. Vi segnalo subito che quella sede giudiziaria non è il procedimento dell'autorità giudiziaria di Caltanissetta definito con un'ordinanza di archiviazione che in quanto tale non è un provvedimento suscettibile di assumere autorità di cosa giudicata. In realtà quell'accertamento è stato effettuato dalla Corte di assise di appello di Palermo, nel processo cosiddetto «trattativa», nel quale la Corte, assumendo una posizione difforme da quella dei giudici di primo grado, ammise le difese dei generali Subranni e Mori e del colonnello De Donno di poter provare a loro difesa la veridicità di quelle tesi che essi propugnavano, proprio in relazione a quello che sostenevano e cioè che le loro funeste esperienze da imputati presso l'autorità giudiziaria di Palermo fossero conseguenza dei conflitti che avevano avuto, in ragione delle indagini di mafia-appalti, con la stessa procura di Palermo. La Corte di assise di appello di Palermo li ammessi a tentare di dare prova di ciò che asserivano e alla fine, valutate tutte le prove offerte, tutta la documentazione offerta – è la stessa documentazione che vi consegno – la Corte di assise di appello arriva una conclusione assolutamente tranciante che posso elencarvi andando con l'accetta. Ci fu una doppia refertazione, furono tenute nascoste risultanze di indagine del 1990 e furono tirate fuori solo nel 1992. Falsi furono gli addebiti a taluni magistrati della procura di Palermo di avere insabbiato quelle indagini, anzi, l'intreccio o il parallelismo che si creò per iniziativa dello stesso ROS fra un'attività di indagine della procura di Palermo e un'attività di indagine della procura di Catania, non era stata motivata dal fatto che alla procura di Palermo non ci fosse volontà di procedere su quella vicenda, a differenza della procura di Catania. Questo lo dico perché la Corte di assise di appello di Palermo tiene in considerazione anche la vicenda della collaborazione con la giustizia di quel geometra, Giuseppe Li Pera, che era un dipendente di una grossa società, la società Rizzani De Eccher, coinvolta in quelle indagini. Il punto è che, nella tesi propugnata da Mori e De Donno, la collaborazione del geometra Li Pera con l'autorità giudiziaria Pag. 14nella persona del sostituto procuratore di Catania, dottor Felice Lima, addirittura ho sentito dire essere stata quasi la causa, il detonatore per la strage di via D'Amelio. Devo fare una premessa, per non essere sospetto di occultare ragioni che potrebbero portarmi a valutazioni soggettive. Ho grandissima ammirazione e sono onorato della conoscenza del dottor Felice Lima, che uno dei magistrati più ragguardevoli che oggi sono presenti nell'ordine giudiziario, quindi il punto non è il dottor Felice Lima, il punto è ciò che fecero gli ufficiali del ROS in quella vicenda anche andando a condurre il dottor Lima in una situazione oggettiva di conflitto procedimentale con parallela attività che era presso il tribunale di Palermo che nel frattempo aveva già fissato l'udienza dell'avvio del dibattimento del processo a carico di Angelo Siino più altri. Nella versione propugnata da Mori e De Donno e dai loro epigoni, c'è che la collaborazione del geometra Li Pera è decisiva, viene rivolta alla procura di Catania nella persona del dottor Lima per il rifiuto, anzi il contrario interesse della procura di Palermo. Se uno va a leggere i verbali non di interrogatorio, ma di assunzione di sommarie informazioni che il geometra Li Pera rese alla procura di Catania nella persona del dottor Lima e li legge come li ha letti la Corte di assise d'appello di Palermo si accorge di una cosa che colpisce quasi traumaticamente l'osservatore. Cioè il geometra Li Pera al procuratore di Catania nasconde la presenza di Cosa nostra nella gestione degli appalti, cioè la realtà è l'esatto contrario della narrazione che da anni ci tempesta, perché l'idea che è stata lanciata con grossi mezzi di propaganda è che la collaborazione di Li Pera consentiva di asseverare definitivamente il protagonismo di Cosa nostra nella gestione degli appalti. Voi considerate che in un momento in cui lo stesso geometra Li Pera era imputato di associazione mafiosa davanti al tribunale di Palermo, insieme ad Angelo Siino, anch'egli imputato di associazione mafiosa, il geometra Li Pera di sé disse che era estraneo a ogni collegamento con ambienti mafiosi, ma lo disse addirittura di Angelo Siino, che poi è passato alla storia come il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra. Quindi la versione offerta da Li Pera alla procura di Catania fu che la mafia nel sistema mafia-appalti non esisteva e parlò del protagonismo di tre entità che indicò specificamente: politici, imprenditori e burocrati della burocrazia regionale. Questo è il quadro offerto da Li Pera che, secondo la vulgata degli ufficiali del ROS, avrebbe scatenato la strage di via D'Amelio. Sul punto ritengo che sia superfluo aggiungere altro, se non segnalarvi che il geometra Li Pera, proprio per effetto delle condotte degli ufficiali del ROS che tennero aperte due partite diverse, una presso la procura di Palermo e una presso la procura di Catania, il geometra Li Pera, che a Palermo era imputato a dibattimento di associazione mafiosa, sui fatti per i quali era imputato di associazione mafiosa alla procura di Catania, collaborata dall'allora capitano De Donno, venne sentito come persona informata sui fatti. Qui fra voi ci sono giuristi, ma anche coloro che non lo sono hanno ben chiaro come sia una circostanza che la dice tutta. La Corte di assise d'appello di Palermo conclude che è falsa la prospettazione fatta legittimamente dagli imputati Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, tesa a sostenere che la causale mafia-appalti fosse la vera ragione che aveva portato Cosa nostra e altri a decidere e a eseguire la uccisione di Paolo Borsellino e dei cinque poliziotti che quel 19 luglio lo accompagnavano. La vicenda mafia-appalti ebbe poi un ordinario seguito presso l'autorità giudiziaria di Palermo nel senso che, già prima della strage di via D'Amelio, fu avviata dalla procura di Palermo attività finalizzata alla confisca dei beni di Antonino Buscemi. Furono avviate altre attività. Nel prosieguo furono emesse altre ordinanze di custodia cautelare, furono celebrati altri processi, in una prosecuzione che cronologicamente è assolutamente priva di ogni rallentamento o possibilità di sospetto. Alla vicenda mafia-appalti è legato come una sorta di totem che non ci si può permettere di contraddire,Pag. 15 l'incontro del 25 giugno del 1992 avuto dal dottor Paolo Borsellino con il generale Mario Mori, allora colonnello, con l'allora capitano Giuseppe De Donno, per il tramite dell'allora maresciallo Carmelo Canale. Anche su quello ci sono dati oggettivi che non consentono di cadere nella suggestione tentata dai fautori di quella tesi. Il primo è che nell'agenda grigia del dottor Paolo Borsellino quell'incontro non trova alcuna annotazione alla pagina del 25 giugno 1992. C'è l'annotazione relativa al convegno organizzato dalla rivista MicroMega, nella serata del 25 giugno 1992, l'occasione in cui io vi dissi che andai ad ascoltarlo, ma non c'è traccia di quell'incontro. Io do per scontato che quell'incontro c'è stato perché è stato testimoniato anche dall'allora maresciallo Carmelo Canale. Quanto però al rilievo di quell'incontro, oltre che alla durata, se ci fermiamo alle indicazioni testimoniali di Carmelo Canale nell'epoca in cui le fece – perché poi nel processo trattativa, essendo indagato in procedimento ritenuto connesso si avvalse della facoltà di non rispondere – fermandoci appunto alle prospettazioni dell'allora maresciallo Carmelo Canale abbiamo appreso un'altra circostanza. Cioè è vero che quell'incontro ci fu, è vero che era stato Paolo Borsellino ad attivare quell'incontro, ma la motivazione che aveva spinto Paolo Borsellino ad attivare quell'incontro non era il dossier mafia-appalti, ma era un documento molto più inquinante del dossier mafia-appalti, ovvero l'anonimo che circolò nel giugno 1992, convenzionalmente ridenominato «Corvo-bis», del quale più fonti sostenevano che possibile redattore fosse l'allora capitano De Donno. Vi segnalo peraltro che Paolo Borsellino, insieme agli altri procedimenti dei quali era assegnatario, fu assegnatario pure del fascicolo relativo al documento anonimo del «Corvo-bis». Cosicché non è proprio un fuor d'opera ciò che dice il maresciallo Canale perché era proprio ciò di cui, tra le tante altre cose, il dottor Borsellino si stava occupando. D'altronde ci furono i silenzi avuti con il dottor Borsellino in quell'occasione dagli ufficiali del ROS: considerate che in quell'occasione al dottor Borsellino gli ufficiali del ROS nascosero l'avvio dei contatti con Vito Ciancimino e considerate che già il 28 giugno 1992, cioè tre giorni dopo, Paolo Borsellino seppe dalla dottoressa Liliana Ferraro all'aeroporto di Fiumicino che ella era stata informata dal capitano De Donno che egli aveva avviato, in accordo con il colonnello Mori, contatti con Vito Ciancimino per attività che nelle loro parole poi fu indicata come quella di tentare in qualche modo una mediazione con i vertici di Cosa nostra. «Che cos'è questo muro contro muro?», sono le parole riferite da due ufficiali del ROS. Bene, se questo è il tenore dei rapporti e della sincerità dei rapporti fra gli ufficiali del ROS e il dottor Borsellino, è evidente che non si può che dare credito alla testimonianza del maresciallo Canale. Considerate un'altra cosa. L'anonimo del «Corvo-bis» cita testualmente l'indagine mafia-appalti e anche quello fu uno dei motivi per i quali il capitano De Donno fu sospettato di esserne il manuale estensore. Quell'anonimo faceva riferimento a contatti fra il capo di Cosa nostra e un personaggio politico che in quel momento era ministro, e cioè il ministro Calogero Mannino, e faceva riferimento a vicende di assoluta gravità. Per questo motivo è una riduzione minimalista parlare di mafia-appalti in relazione a quell'incontro. Quell'incontro riguardava qualcosa di molto più grave, attraverso l'anonimo del «Corvo-bis», ovvero gli equilibri che stavano trovando o si stava cercando di trovare fra Cosa nostra e nuove entità che avrebbero preso il posto con posizioni predominanti nella prima Repubblica. Dato che in quel momento nel 1992 il comandante del ROS era il generale Antonio Subranni, la vulgata Mori-De Donno ha dovuto pure affrontare un problema serio e cioè le parole di Agnese Borsellino, sulle quali, mi sia perdonata la nettezza, a nessuno – proprio a nessuno – è consentito di fare mistificazioni. Vi ho prodotto nei documenti che vi consegno non solo il verbale riassuntivo delle dichiarazioni di Agnese Borsellino alla procura di Caltanissetta, Pag. 16ma la trascrizione integrale della registrazione della sua audizione, quindi quelle sono le parole di Agnese Borsellino. Agnese Borsellino, nel riferire la confidenza fattale dal marito circa il fatto che egli aveva appreso da fonte non indicata alla moglie che il generale Subranni era sostanzialmente un mafioso, Paolo Borsellino su questa circostanza era certo, l'aveva assunto come un dato certo e di tale gravità proprio da indurlo, come riferì la vedova, a conati di vomito. Il primo punto è che le parole di Agnese Borsellino sono quelle e non è possibile interpretarle diversamente. Poiché vi ho riferito la grande ammirazione che ho per la Corte di assise di Caltanissetta che ha emesso la sentenza del processo Borsellino-quater, non è un caso che nella sentenza del 20 aprile 2017, il presidente Balsamo ha inserito non le parole del verbale riassuntivo ma ha inserito le parole di Agnese Borsellino prese dalla registrazione. C'è un'altra questione che veramente riguarda un fatto così tragico che impedisce qualunque altra reazione, ma nel racconto che viene fatto, viene fatta scadere sostanzialmente a una gag. Perché? Agnese Borsellino venne sentita nel 2009 e nel 2010. Le dichiarazioni erano coperte dal segreto investigativo. Trovarono pubblica notorietà con la esecuzione della misura cautelare del procedimento Borsellino-quater, a inizio marzo 2012, misura cautelare emessa nei confronti di Salvatore Madonia e altri. Ci fu quindi conoscenza di quelle gravissime dichiarazioni di Agnese Borsellino sul generale Subranni, sul Castello Utveggio, sulla trattativa in corso fra Cosa nostra e parti infedeli dello Stato, sull'aria di morte respirata al Viminale e ciò che sapete e che comunque risulta dalla sentenza. Non ci si vuole fidare delle parole di Agnese Borsellino? Io vi dico fidatevi della interpretazione autentica, dal suo punto di vista, del generale Antonio Subranni. Il 10 marzo 2012, divenute ufficiali le dichiarazioni di Agnese Borsellino su di lui, il generale Subranni rese un'intervista, pubblicata dal Corriere della Sera, in cui ebbe l'ardire, non trovo altra parola, di riferire che bisognava prestare poca credibilità alle dichiarazioni di Agnese Borsellino perché si sapeva che era malata di Alzheimer, così disse. La reazione fu un lancio dell'Ansa, che vi ho prodotto, reperito in una testata, dello stesso 10 marzo 2012. Agnese Borsellino disse pubblicamente, con quello spirito di parresia che ebbe, che le parole del generale Subranni non meritavano commento. Guardate che non è un caso che proprio in quel momento, per effetto di quelle parole riprovevoli del generale Subranni, offensive per la vedova di Paolo Borsellino, sui social network – che io non frequento oggi e tanto meno frequentavo a quei tempi, perché sono un po' passatista – nacque un gruppo Facebook «Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino». Uno dei fondatori di quel gruppo era uno dei magistrati che aveva audito Agnese Borsellino, il dottor Domenico Gozzo. Capite bene quindi che chi dice che Agnese Borsellino è stata travisata, le sue parole sono state misinterpretate, dice il falso. Ad affermarlo è lo stesso generale Subranni. Vi ho già detto che i figli di Paolo Borsellino non erano mai stati sentiti come testimoni dall'autorità giudiziaria. Lo fecero solo su mia iniziativa nel processo Borsellino-quater e quando vennero sentiti – vi produco la trascrizione delle loro deposizioni – Lucia Borsellino, in particolare, riferì due cose significative. La prima era lo scoramento, il dissenso morale se non il disprezzo per quelle dichiarazioni del generale Subranni e la seconda è ancora più significativa, perché Lucia Borsellino, come anche il fratello, riferirono che per tutti i primi anni successivi alla strage di via D'Amelio la mamma aveva avuto quale principale impegno della propria vita quello di proteggere la vita dei suoi figli e che solo una volta preso atto che essi erano cresciuti e avevano assunto le loro determinazioni e posizioni di vita ormai fuori dalla necessità della protezione da parte della mamma, in quel momento, la signora Agnese Borsellino decise di riferire all'autorità giudiziaria tutto ciò che aveva ricevuto quali confidenze negli ultimi giorni di vita dal marito. Questa cosa è riferita in quella deposizionePag. 17 da Lucia Borsellino che aggiunge, commentando le parole del generale Subranni, «No, il generale Subranni si sbagliava proprio, perché la persona più lucida nella nostra famiglia, figli compresi, in tutti questi anni è sempre stata nostra madre». Aggiunse un'altra cosa, perché purtroppo il sonno, se non della ragione, della memoria, rischia alle volte di far perdere pezzi nella ricostruzione della storia. Poco dopo la morte della signora Borsellino, che avvenne nel maggio 2013, venne pubblicato un libro da parte di un noto giornalista, di nome Salvo Palazzolo. Questo libro pubblicò le conversazioni avute con Agnese Borsellino negli ultimi mesi di vita della signora, e anche in quel libro vennero riportate le parole sul generale Subranni. E anche su quelle feci espressa domanda a Lucia e Manfredi Borsellino, i quali mi confermarono l'autenticità del contenuto di quel libro che addirittura aveva anche una introduzione, credo, di Manfredi Borsellino e che era stato conosciuto da Lucia Borsellino in relazione ai rapporti che la madre aveva avuto con il giornalista Salvo Palazzolo. Dico questo perché la personalità di Subranni è ovviamente una pietra d'inciampo nella proposizione di quella che vi ho denominato la pista palestinese perché come si fa a sostenere che Paolo Borsellino avesse quale ultima pulsione professionale della sua vita quella di indagare sul rapporto mafia-appalti, che era stato redatto dai subordinati dell'uomo che egli riteneva mafioso? È un non senso assoluto. Questo è il motivo per cui si è dovuto cercare, da parte di Mori e De Donno, di trovare quell'altra soluzione che però si scontra con i dati di realtà. Vi ho anche prodotto la deposizione al processo Borsellino-quater del generale Mori e del colonnello De Donno i quali, fra una e l'altra delle occasioni in cui si avvalevano della facoltà di non rispondere alle specifiche domande, in realtà hanno dovuto riferire alcune circostanze che hanno un rilievo in relazione all'anonimo del «Corvo-bis» e ai sospetti di Paolo Borsellino a proposito di chi fosse il redattore. Concludo sul punto segnalando una questione. La storia non può essere calpestata e ciascuno di noi, io per primo, ha i meriti e i demeriti di tutto ciò che ha fatto o non fatto nella propria esistenza, ma ciascuno di noi ha un percorso, così come ciascuno di quegli ufficiali del ROS, così come quella stessa struttura investigativa. Bene. Voi sapete che, legato a quella struttura investigativa e anche a certi riverberi dell'indagine mafia-appalti, era il maresciallo Guazzelli, ucciso ad Agrigento il 4 aprile 1992. A partire dall'epoca in cui collaborò con la giustizia Giovanni Brusca, si apprese che l'omicidio Guazzelli era stato voluto ed eseguito da Cosa nostra. Le indagini fatte dal ROS nell'immediatezza, cioè dagli uomini che erano stati a stretto contatto con Guazzelli, avevano indirizzato l'autorità giudiziaria su un'altra causale e cioè che l'omicidio era stato voluto e commesso da esponenti della Stidda, antagonisti di Cosa nostra. È una circostanza che a me ha indotto riflessioni perché sembra un replay di altre attività. Omicidio del colonnello Russo, 19 agosto 1977. Furono svolte dai suoi uomini, dai suoi subordinati, fra cui l'allora maggiore Subranni. Incredibilmente per l'omicidio del colonnello Russo e del professore Costa, per vent'anni marcirono in galera tre innocenti, individuati dai collaboratori del colonnello Russo come i responsabili dell'assassinio di quell'ufficiale. Quei tre pastori furono scarcerati solo nel 1996, a seguito della collaborazione con la giustizia di Giovanni Brusca. Solo in quel momento fu aperto un processo di revisione e solo in quel momento fu individuato, anche dall'autorità giudiziaria, il killer di Russo nella persona di Leoluca Bagarella. C'è un qualche motivo per sospettare che ci fosse stata una copertura a Leoluca Bagarella e ai suoi correi in quell'occasione? No, io non credo che sia questo, io credo che si dovesse occultare la ragione di quel delitto, esattamente come avvenne per l'omicidio del maresciallo Guazzelli ed esattamente come avvenne per la strage cosiddetta di Alcamo Marina, il duplice omicidio nel gennaio 1976 di due carabinieri nella casermetta di Alcamo Marina, indagini svolte Pag. 18dal colonnello Russo e dai suoi collaboratori, fra i quali noti soggetti che diventarono la spina dorsale del ROS nei decenni successivi, e che portarono all'arresto di altre persone che dopo vent'anni di carcerazione o di latitanza, solo a partire dagli anni 2000, se non 2010, ottennero sentenze di revisione. Una, la principale, fu emessa dalla Corte di appello di Reggio Calabria – e io vi invito a leggerla, sebbene non si trovi nella mole di documenti che ho portato. In quella sentenza si fa cenno ai rapporti, perfino societari, economici, fra alcuni degli esponenti di quel gruppo dei Carabinieri e i cugini Salvo. È scritto in una sentenza passata in giudicato e questo in fondo non fa altro che confermare le plurime dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Vi ho allegato quelle del collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, che parlarono dei rapporti fra il generale Subranni e i cugini Salvo. È superfluo ricordarlo alla Commissione antimafia, perché codesto organismo ha avuto il grande merito nel dicembre 2000 di stilare e approvare una relazione sul depistaggio sull'omicidio Impastato, che è uno dei migliori documenti della storia della Commissione antimafia. In quella relazione erano documentati i depistaggi fatti dai Carabinieri, guidati dall'allora maggiore Antonio Subranni, sull'omicidio Impastato. La vittima di quell'omicidio era stata fatta passare per un terrorista, che si era causato la morte da sé. Allora tirando insieme tutti i fili, i protagonisti della vicenda mafia-appalti nell'Arma dei carabinieri erano i soggetti che avevano quella storia e a questo punto io aggiungo un solo ultimo dato e qui ve lo riferisco per come l'ho conosciuto io. Ebbi contezza pubblica della figura dell'allora colonnello Mario Mori presumo nel 1992 o sicuramente nel 1993, il giorno dell'arresto di Salvatore Riina, 15 gennaio 1993. Fu ritenuto il grande colpo contro Cosa nostra e in tutte le televisioni e su tutti i giornali vedemmo l'immagine del colonnello Mario Mori. Naturalmente nelle cronache di quegli anni quotidianamente la figura del colonnello Mario Mori ricorreva e ricorreva quale vice comandante del ROS e capo di quel gruppo di investigatori che aveva portato a quei risultati. Non credo di essere stato un lettore distratto, però fra il 1992 e il 1993 io non ho mai letto sui giornali un dato della carriera del generale Mario Mori che, da giovane capitano dei Carabinieri, fu in servizio al SID, guidato dal generale piduista Miceli, e vice diretto dal generale piduista Maletti. Questa circostanza con la scolorina era stata occultata nel racconto pubblico in diretta del 1992-1993. Perfino io, sprovveduto studente di giurisprudenza, lettore dei giornali, mi sarei un po' allarmato nel sapere che uno degli uomini di punta del ROS fosse un collaboratore del generale Miceli e del colonnello Marzollo. Rimando alle sentenze sulle stragi della strategia della tensione per valutare chi sono i soggetti dei quali sto parlando. Per completare: la propaganda mistificatoria della realtà nell'anno 2023, nell'anno 2022 e in quelli precedenti su mafia-appalti è la stessa che nel 1992-1993 nascondeva la completa informazione sui curricula di quegli uomini. Come vedete vado a chiudere quasi in modo circolare. Qual è la cosa che mi ha lasciato veramente impressionato? Sarà una suggestione, però vi confesso che per me è stato davvero quasi traumatico. Nel 2018 o nel 2019, appresi che un noto geometra, credo della provincia di Caltanissetta, tale Giuseppe Li Pera, il quale, dopo la collaborazione con la giustizia era tornato a svolgere attività imprenditoriali, era stato destinatario di un sequestro di beni arrivato a provvedimento conclusivo di confisca credo nel 2022 o forse addirittura nel 2023 – dalle rassegne stampa lo si trova, dunque in epoca recentissima. La cosa che mi ha impressionato è che in quegli anni appresi la notizia, forse proprio nel 2018 al momento del sequestro, che il geometra Li Pera aveva avviato collaborazione, non so a che titolo, con un'altra società, fondata dall'ex colonnello Giuseppe De Donno, che ha avuto quale principale collaboratore l'ex generale Mario Mori. Sono davvero rimasto traumatizzato nel vedere come percorsi che in origine avevano avuto un indirizzo, mutati Pag. 19i propri ruoli e mutata perfino l'Italia, trovavano una nuova connessione a decenni di distanza. È un po' la stessa cosa che ho avvertito quando ho scoperto della collaborazione, con quegli stessi soggetti e con quella stessa entità imprenditoriale, dell'ex brigatista Valerio Morucci. Bisogna fare attenzione a non trascurare i fatti della storia, anche quelli che appaiono minimi, hanno sempre una ragione le sottrazioni e soprattutto producono degli insani effetti.
  Nella precedente audizione avevo riferito di una vicenda che, a mio modo di vedere, è un depistaggio dell'attualità, che dimostra interessi ancora in circolo per occultare la verità sulla strage di via D'Amelio, e avevo fatto riferimento alle dichiarazioni rese, a partire dal 2020, da Maurizio Avola all'autorità giudiziaria di Caltanissetta. Nelle more fra quella e questa audizione, ho avuto accesso al fascicolo presso l'autorità giudiziaria di Caltanissetta. Nel frattempo, doverosamente, vi segnalo che la richiesta di archiviazione, della quale avevo parlato, formulata dalla procura di Caltanissetta nei confronti di Maurizio Avola più tre, per le stragi di Capaci e di via D'Amelio, ha trovato il rigetto, con ordinanza emessa dal GIP di Caltanissetta un paio di settimane fa. Come produssi la richiesta di archiviazione produco anche la ordinanza di rigetto di quella archiviazione. Ho però avuto accesso a quegli atti e ne ho tratto la convinzione che la vicenda sia particolarmente grave. La vicenda ha degli aspetti che possono essere trattati in forma pubblica. Io ne scrissi e ne dissi pubblicamente, per una parte, e da questa comincio.
  Si apprese dagli organi di informazione, io come tanti cittadini, che più o meno a partire dal 2017 il collaboratore di giustizia Maurizio Avola, che aveva avviato la sua collaborazione il 9 marzo 1994, quindi in un'altra epoca, aveva iniziato a rendere nuove dichiarazioni all'autorità giudiziaria. Tra le altre cose, aveva riferito circostanze assolutamente inedite in relazione a gravi delitti. Vedo qui l'oggi deputato Cafiero De Raho, che ho conosciuto come Procuratore nazionale antimafia e, prima, come procuratore distrettuale di Reggio Calabria, e che naturalmente ha conosciuto, per ragioni del suo ufficio, la vicenda dell'omicidio del dottor Scopelliti, ucciso il 9 agosto 1991, quando era stato designato come rappresentante dell'accusa al maxiprocesso a Cosa nostra in Cassazione, ucciso in provincia di Reggio Calabria. Si apprese pubblicamente, perché trovarono pubblica notorietà in ragione, credo, di attività di perquisizione – spero di non sbagliarmi, ma è certo che comunque ci fu un deposito di atti che consentì ai giornali di scriverne – si apprese dunque che Maurizio Avola aveva, con qualche decennio di ritardo, confessato di avere partecipato proprio alla esecuzione del delitto, di aver avuto un ruolo e anche di avere, a distanza di decenni, indicato all'autorità giudiziaria il fucile con il quale erano stati sparati i colpi che avevano ucciso il magistrato Scopelliti. Fucile che – questa circostanza mi parve un po' strana – fu ritrovato credo in provincia di Catania, cosicché bisognava pensare che i killer di Scopelliti, dopo l'omicidio, avessero preso il traghetto fra Villa San Giovanni e Messina, portando con loro l'arma del delitto, salvo pensare quegli stessi killer essere saliti a bordo di una imbarcazione che li avesse portati riservatamente in Sicilia. Il punto è che quelle dichiarazioni lasciarono grosse perplessità a me, che conoscevo il collaboratore di giustizia Avola per varie ragioni e tra queste per il fatto di essere il difensore dei familiari del giornalista Beppe Alfano, delitto sul quale Avola in passato aveva reso dichiarazioni. Per questo mi erano note più o meno tutte le dichiarazioni che Maurizio Avola aveva reso in ordine ai rapporti fra la famiglia catanese di Cosa nostra e ambienti esterni a Cosa nostra. In particolare, aveva riferito, anche in sede di pubblici dibattimenti, e quindi non c'è nessuna segretezza, in relazione alle stragi di Capaci e via D'Amelio e in relazione a un presunto progetto di attentato ai danni del dottor Di Pietro che aveva trovato elaborazione in una riunione tenutasi presso Pag. 20l'Hotel Excelsior di Roma nel settembre del 1992 alla quale avrebbero partecipato esponenti del clan Santapaola, uomini a mezza via fra Cosa nostra e apparati di polizia, e perfino esponenti politici e imprenditori. Uno dei soggetti sui quali Maurizio Avola aveva riferito circostanze particolarmente gravi è un mafioso importantissimo della provincia di Messina, Barcellona Pozzo di Gotto, Rosario Pio Cattafi. Questo personaggio ha avuto sentenza di condanna definitiva per mafia incredibilmente solo nel maggio del 2023, cioè pochi mesi fa, nonostante i fatti che gli sono stati contestati risalissero all'inizio degli anni '70 fino agli anni 2000. Maurizio Avola aveva riferito circostanze molto gravi su Rosario Cattafi.
  Avuto conoscenza delle dichiarazioni che Maurizio Avola aveva cominciato a rendere nel 2017 mi accorsi di una curiosa fenomenologia, cioè che insieme alla aggiunta di fatti e di nomi per decenni tenuti nascosti all'autorità giudiziaria – in particolar modo Avola riferiva della partecipazione di Matteo Messina Denaro a gravissimi delitti di molto tempo fa, addirittura accusandolo pure dell'omicidio del magistrato Giacomo Ciaccio Montalto, avvenuta a gennaio 1983 in provincia di Trapani – mi accorsi che, insieme all'innesto di nuovi nomi e nuovi fatti, nel racconto di Avola c'era una sottrazione. La sottrazione riguardava proprio il nome di Rosario Pio Cattafi. Poiché di quel personaggio mi ero occupato e mi occupo anche in relazione all'omicidio del giornalista Beppe Alfano, la cosa mi colpì particolarmente. La cosa mi colpì particolarmente anche per un altro motivo, perché nel racconto di Avola, al riguardo delle sue conoscenze su Cattafi, che egli aveva definito come uomo di collegamento fra la famiglia Santapaola e apparati deviati dello Stato, servizi di sicurezza, nella versione negazionista di quelle conoscenze, da ultimo Avola riferì che egli in realtà aveva saputo di un personaggio di cui aveva conosciuto solo il nome «Saro» ma che il cognome gli era stato sprovvedutamente indicato da un pubblico ministero che lo aveva interrogato, un pubblico ministero della procura di Messina, così riferì. In realtà, ho cercato documentalmente tutti i verbali di interrogatorio di Avola alla procura di Messina e la circostanza riferita da Maurizio Avola non esiste, semplicemente, è un fatto fuori dal mondo reale. Quindi non c'era stata alcuna occasione in cui alcun pubblico ministero di Messina potesse avere, in modo davvero ingenuo – gravissimamente ingenuo, però – suggerito ad Avola che quel Saro, trait d'union fra Santapaola e i servizi segreti fosse Saro Cattafi. Avola si attestò su quella posizione. Egli nulla aveva mai saputo di Rosario Cattafi e non poteva dire che fosse Rosario Cattafi il personaggio del quale lui stesso aveva parlato. La circostanza mi allarmò e mi condusse a fare delle verifiche. Dal 1994 il difensore di Maurizio Avola era stato lo stesso fino a oggi, fino al momento della terza vita da collaboratore di giustizia assunta da Maurizio Avola. Mi sono adoperato a trovare dei documenti, non di natura giudiziaria in questo caso, ma ancor più significativi, proprio perché non di natura giudiziaria, che dimostrano la falsità di quella giustificazione data da Avola su Cattafi, sulle ragioni per cui aveva fatto venire meno il nome di Cattafi nelle sue rivelazioni. Perché ho trovato dei documenti che sono più interessanti degli atti giudiziari? Ho trovato e vi ho prodotto una intervista pubblicata dal settimanale del Corriere della Sera «Sette» nel giugno 1998 dove Avola, in quel momento detenuto, rese intervista a due giornalisti, Pietro Suber e Roberto Gugliotta. Quest'ultimo giornalista, Gugliotta, a me era noto per essere il migliore amico del difensore di Avola, cosicché è assolutamente impensabile che quella pubblicazione possa essere in qualche modo stato un tranello ai danni di Avola. D'altronde quei giornalisti avevano intervistato un detenuto e quindi non solo avevano dovuto ricevere l'autorizzazione del DAP, ma avevano dovuto sicuramente ricevere il consenso dell'intervistato. Vi ho prodotto quella intervista perché in essa Avola, senza alcuna possibilità di dubbio, parla di Rosario Cattafi. Parla di Rosario CattafiPag. 21 quale importante esponente, anzi testualmente disse: «Per noi era più importante dei normali mafiosi perché in realtà per noi rappresentava in qualche modo lo Stato, rappresentava i servizi segreti e quindi era un uomo, per il gruppo Santapaola, decisivo». Con questo peraltro andandosi le dichiarazioni di Avola a fondersi alla perfezione con dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia sia provenienti dalla famiglia Santapaola sia di altra provenienza criminale.
  Nell'aprile del 2019, Avola fu sentito a dibattimento dalla Corte di assise di Caltanissetta che procedeva nei confronti di Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e di via D'Amelio. Anche in quell'occasione Avola occultò nel racconto il nome di Cattafi. Senonché ho avuto modo di vedere – e la circostanza ha avuto pubblico rilievo in epoca più recente – che il revisionismo nella narrazione di Avola ha riguardato anche la strage di Capaci con un fatto particolarmente impressionante, perché insieme alla novità nella ricostruzione dei fatti con l'indicazione di un esponente di Cosa nostra americana, uomo del clan Gotti, in realtà la nuova versione di Maurizio Avola sulla strage di Capaci contrasta con le sentenze irrevocabili sulla strage stessa. Se c'è un dato pacifico negli accertamenti giudiziari su Capaci è quello relativo al cosiddetto artificiere. Tutti coloro che si sono in qualche modo accostati alla vicenda di Capaci sanno che l'artificiere della strage di Capaci ha un nome e un cognome ben preciso e peraltro ben significativo: si tratta del mafioso Pietro Rampulla, esponente di Cosa nostra della provincia di Messina, Mistretta in particolare, con legami stretti però con la mafia catanese, il clan Santapaola e anche con il gruppo di Caltagirone, guidato da tale La Rocca. È un dato accertato giudizialmente che Pietro Rampulla fu l'esperto di Cosa nostra che si occupò di minare, per così dire, di imbottire di esplosivo, il canale sotto l'autostrada in territorio di Capaci. Dalle nuove dichiarazioni di Avola emerge che nella sua nuova versione non è stato Pietro Rampulla l'artificiere della strage di Capaci, aggiungendo una circostanza, che Pietro Rampulla in realtà non aveva le competenze tecniche per poter provvedere a quella attività, così smentendo la sentenza irrevocabile. A chi non conosca bene i personaggi può non essere chiaro, senonché anche Pietro Rampulla ha un suo curriculum. Il curriculum di Pietro Rampulla è quello di uomo d'onore di Cosa nostra, con pregressa militanza neofascista all'Università di Messina. C'è una sentenza della Corte di appello di Messina che, per un episodio avvenuto a dicembre del 1971, condannò alcuni fascisti e mafiosi, siciliani e calabresi, per l'aggressione ad alcuni studenti nella facoltà del Magistero. Fra i due condannati in concorso ci furono Rosario Cattafi e Pietro Rampulla. Pietro Rampulla fu anche indicato da Luigi Ilardo come l'artificiere per Capaci in epoca in cui non era ancora stato raggiunto alcun accertamento dall'autorità giudiziaria. Luigi Ilardo, nelle sue rivelazioni all'Arma dei carabinieri, aveva riferito di come aveva conosciuto Pietro Rampulla, proprio anche all'epoca della sua frequentazione quale studente dell'Università di Messina. Luigi Ilardo aveva fatto al colonnello Riccio, insieme al nome di Pietro Rampulla, anche quello di Rosario Cattafi. Questo lo riferisco per dire che c'è una coerenza nella sottrazione del protagonismo, nel periodo stragista, di Pietro Rampulla e di Rosario Cattafi. C'è quindi un chiaro indirizzo evidentemente assunto in questa direzione da Maurizio Avola. Il punto è che se si vanno a rileggere le pregresse dichiarazioni di Maurizio Avola a proposito di Pietro Rampulla, si può vedere come egli aveva qualificato testualmente quest'ultimo come «terrorista», grande esperto di esplosivi e personaggio pericoloso proprio per questa sua caratteristica. La circostanza in realtà non era un inedito per l'autorità giudiziaria.
  Voi sapete che nel 1987 decise di collaborare con la giustizia un importante uomo d'onore di Cosa nostra catanese, Antonino Calderone, fratello del capo di Cosa nostra catanese del tempo e uno dei leader della cabina di regia di Cosa nostra Pag. 22negli anni '70, Giuseppe Calderone. Antonino Calderone collaborò con la giustizia nella persona di un magistrato che poi divenne suo malgrado ancora più famoso di quanto lo fosse stato in vita, cioè Giovanni Falcone, e cominciò a rendere dichiarazioni a Falcone mentre si trovava ancora in Francia, dove era stato arrestato nel territorio di Nizza. Antonino Calderone riferì a Giovanni Falcone, fra gli uomini d'onore da lui conosciuti, anche il nome di Pietro Rampulla – siamo nel 1987 – e indicò a Falcone una particolare caratteristica di Rampulla, quella di essere un esperto in materia esplosivistica, come lui stesso aveva potuto verificare in occasione di un attentato che aveva visto vittima predestinata proprio il fratello, Giuseppe Calderone. Nell'occasione, in un verbale di interrogatorio del quale vi faccio produzione, Antonino Calderone riferì al dottor Falcone che Pietro Rampulla aveva ricevuto gli insegnamenti in materia esplosivistica durante la sua militanza neofascista e aggiunse una frase che immagino fece un po' sobbalzare il dottor Falcone, perché nel verbale si legge: «e con questo non credo di dover aggiungere altro a chi mi interroga». Quindi il Maurizio Avola degli anni 2020, non solo smentisce il Maurizio Avola dei decenni precedenti, ma smentisce perfino assodate acquisizioni che risalgono agli anni '80 e risalgono all'operato di magistrati che non hanno avuto eguali nell'attività di indagine su Cosa nostra. Allora mi sono dovuto chiedere quale potesse essere la ragione di quella ritrattazione pubblica e allarmante da parte di Maurizio Avola sui nomi di Rosario Cattafi e Pietro Rampulla. Vi ricordo soltanto che nella sentenza passata in giudicato sulla strage di Capaci, che riporta anche le dichiarazioni di Giovanni Brusca – uno degli esecutori – e di Santino Di Matteo – un altro degli esecutori – abbiamo appreso che il telecomando adoperato da Giovanni Brusca il 23 maggio 1992 gli era stato ho fornito dalla famiglia mafiosa barcellonese, cioè proprio quella di Rosario Cattafi, e gli era stato spedito da uno dei capi di quell'organizzazione mafiosa, cioè Giuseppe Gullotti, capomafia condannato con sentenza irrevocabile quale organizzatore dell'omicidio del giornalista Beppe Alfano. Considerate che su Capaci numerosi esponenti del gruppo che si occupò dell'esecuzione hanno collaborato con la giustizia: Giovanni Brusca, Santino di Matteo e anche Gioacchino La Barbera. Il dato pacificamente riferito da tutti e pacificamente accertato, è che l'uomo decisivo di Cosa nostra per la strage di Capaci, una strage che non ha uguali nella storia d'Italia per la difficoltà della sua esecuzione, l'uomo decisivo, dicevo, era Pietro Rampulla. Tanto che molti dubbi e molte perplessità sollevò la stessa dichiarazione di Giovanni Brusca – tra l'altro riferita in vari dibattimenti – a proposito del fatto che egli il 23 maggio 1992 per la prima volta si era trovato a utilizzare quel telecomando per fare la strage del secolo nonostante in tutti gli esperimenti precedenti alla esecuzione della strage di Capaci, in tutte le prove che erano state fatte, ad adoperare il telecomando fosse stato Pietro Rampulla. Nel chiedergli come mai Pietro Rampulla il 23 maggio 1992 non si trovasse insieme a lui e a Nino Gioè, sulla collinetta sopra Capaci, Brusca riferì che Pietro Rampulla non aveva potuto presenziare adducendo motivi di famiglia. Chi conosce la storia di Cosa nostra ha difficoltà a credere a una giustificazione che forse può essere utile per uno studente a scuola. Solitamente la mancata partecipazione a evenienze così delicate viene fatta pagare con la morte. Noi invece sappiamo che nei giorni successivi alla strage di Capaci, al brindisi alla presenza di Salvatore Riina, fra coloro che sbattevano il calice contro quelli dei sodali, c'era Pietro Rampulla. Quindi in tanti ci interrogammo su quale fosse stata la ragione di quella assenza o se quella fosse solo una apparente assenza e che non significasse invece la presenza di Rampulla non sulla collinetta, ma magari in altro ruolo impegnato. Il protagonismo di Pietro Rampulla per Capaci era però pacifico, era pacifico fino a questa novità derivante dalla nuova vita di pentito di Maurizio Avola. Sul punto ho potuto fare Pag. 23delle ulteriori verifiche, però si tratta di circostanze che non mi è possibile riferire in pubblica seduta.

  PRESIDENTE. Avvocato le chiedo un chiarimento sui tempi. Possiamo passare anche adesso in seduta segreta, ma ciò significherebbe scollegare tutti i commissari che seguono i lavori da remoto e ricollegarli successivamente per porre eventuali domande sarebbe complicato. Quindi le chiedo quale sia la sua tempistica in modo da poter organizzare i lavori in modo ottimale.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. La vicenda Avola è l'ultima grossa vicenda sulla quale devo riferire tranne un accenno ad altro, che riguarda sia l'aspetto che ho preannunciato sia anche via D'Amelio.

  PRESIDENTE. Le chiedevo di quanto tempo avesse ancora bisogno.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Se fosse stato solo quello che ho preannunciato, allora sarebbe bastata una decina di minuti ma poiché bisogna parlare, ed è questa la sede precipua per farlo, della strage di via D'Amelio, posso dire che avrò bisogno di almeno mezz'ora, quaranta minuti.

  PRESIDENTE. A questo punto, farei due proposte. O rinviamo subito l'audizione ad altra seduta, in cui svolgere sia la parte segreta sia il momento delle domande dei colleghi, oppure procediamo ora con la parte segreta, rinviando il prosieguo su via D'Amelio e le domande dei commissari a un'altra seduta. Essendo già le 16.30, i commissari hanno seguito l'avvocato da due ore e mezza e non credo che riusciremo a terminare tutto in giornata.

  WALTER VERINI. Quanto durerebbe la parte segreta?

  PRESIDENTE. Una mezz'ora, senatore Verini.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Se mi consentite questo intervento sull'ordine dei lavori, io vi consegnerei già tutta la documentazione, in modo che possa essere esaminata.

  PRESIDENTE. Avvocato, intervenire sull'ordine dei lavori spetta ai commissari, però senz'altro la documentazione ci sarà utile. Do la parola al vicepresidente Cafiero De Raho.

  FEDERICO CAFIERO DE RAHO. L'audito sta riferendo di cose di cui evidentemente non ha mai parlato. Poiché parliamo di temi delicatissimi, proporrei che possa riferirne nella prossima mezz'ora per poi rinviare il seguito ad un'altra seduta, perché ogni volta che si deve acquisire qualche cosa di particolare sopraggiunge qualche problema.

  PRESIDENTE. Guardi onorevole, non è questo il motivo. Il senso è che, come vede, i commissari sono quasi tutti collegati da remoto. Se dovessimo passare ora in seduta segreta priverei i commissari della possibilità di seguirla. Invece, sospendendo ora, i colleghi potrebbero partecipare in presenza nella prossima seduta e ascoltare anche questa parte. È solo questo il motivo.
  La parola all'onorevole Provenzano.

  GIUSEPPE PROVENZANO. Sempre sull'ordine dei lavori, a beneficio anche degli altri commissari, presidente. Diversi auditi hanno annunciato il deposito di una copiosa documentazione sui temi di queste audizioni, e immagino che ne sia pervenuta altra da parte di terzi che si sono sentiti chiamati in causa nel corso delle stesse. Ci dobbiamo rivolgere direttamente a lei per avere accesso a questa documentazione?

  PRESIDENTE. Tutti i commissari hanno accesso all'archivio. I documenti liberi sono liberamente consultabili, senza il mio consenso. Per quelli che sono formalmente segretati o riservati, autorizzo i commissari a visionarli ovvero, qualora consentito, a trarne copia.

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  GIUSEPPE PROVENZANO. La domanda è questa. Abbiamo già acquisito una documentazione da parte degli auditi o di terzi?

  PRESIDENTE. Sì. Come più volte detto nelle audizioni precedenti, l'avvocato Trizzino e la dottoressa Borsellino hanno depositato della documentazione e, come riferito in Ufficio di presidenza, è pervenuta da parte di terzi una nota, che è stata acquisita agli atti.
  La parola al senatore Verini.

  WALTER VERINI. L'aggiornamento, che a questo punto mi sembra inevitabile anche per i motivi illustrati, potrebbe essere auspicabilmente ravvicinato?

  PRESIDENTE. Verificheremo le disponibilità di ciascuno, perché immagino che anche Salvatore Borsellino intenda essere presente. Nell'Ufficio di presidenza di domani provvederò a proporvi un calendario dei lavori concordato.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Chiedo scusa, presidente. Io posso già dare una mia disponibilità per la prossima settimana. Naturalmente sarà la Commissione a valutare.

  PRESIDENTE. Grazie avvocato. Ha chiesto la parola il senatore Cantalamessa, collegato da remoto.

  GIANLUCA CANTALAMESSA. Grazie presidente, grazie avvocato. Visti e considerati l'importanza degli argomenti e il fatto che l'avvocato abbia chiesto anche una parte segretata, poiché gran parte di noi il lunedì ha impegni sul territorio, chiederei di rinviare il seguito dei lavori ad altra seduta, per dare la possibilità di una più ampia partecipazione.

  PRESIDENTE. La parola al senatore Russo.

  RAOUL RUSSO. Mi associo alla richiesta del collega Cantalamessa perché, essendo la parte segretata particolarmente delicata, ritengo si debba garantire la presenza del maggior numero di commissari, anche per definire meglio le domande da porre dopo questa lunga audizione.

  PRESIDENTE. Ringrazio l'avvocato Repici e il dottor Borsellino, collegato da remoto.
  La data del seguito dell'audizione verrà stabilita dall'Ufficio di presidenza di domani, tenuto conto delle disponibilità degli auditi.

  La seduta termina alle 16.35.