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Resoconto dell'Assemblea

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XIX LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 275 di lunedì 8 aprile 2024

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE FABIO RAMPELLI

La seduta comincia alle 15.

PRESIDENTE. La seduta è aperta.

Invito la deputata Segretaria a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

GILDA SPORTIELLO, Segretaria, legge il processo verbale della seduta dell'11 marzo 2024.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati in missione a decorrere dalla seduta odierna sono complessivamente 83, come risulta dall'elenco consultabile presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta odierna (Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna).

Discussione delle mozioni Casasco, Caramanna, Andreuzza ed altri n. 1-00253 e Sergio Costa ed altri n. 1-00266 in materia di revisione dei meccanismi di tassazione delle emissioni di carbonio (CBAM) per le importazioni a tutela della competitività delle aziende europee.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Casasco, Caramanna, Andreuzza ed altri n. 1-00253 e Sergio Costa ed altri n. 1-00266 in materia di revisione dei meccanismi di tassazione delle emissioni di carbonio (CBAM) per le importazioni a tutela della competitività delle aziende europee (Vedi l'allegato A).

La ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicata nel vigente calendario dei lavori (Vedi calendario).

Avverto che è stata presentata una nuova formulazione della mozione Casasco, Caramanna, Andreuzza ed altri n. 1-00253, che è stata sottoscritta, tra gli altri, anche dalla deputata Cavo che, con il consenso degli altri sottoscrittori, ne diventa la quarta firmataria. Il relativo testo è in distribuzione (Vedi l'allegato A).

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

È iscritto a parlare il deputato Paolo Emilio Russo, che illustrerà la mozione n. 1-00253 (Nuova formulazione), di cui è cofirmatario.

PAOLO EMILIO RUSSO (FI-PPE). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, quello di tutelare il mondo intorno a noi è un dovere etico. Lo diciamo senza sovraccarico ideologico, da liberali e da cristiani. Abbiamo il dovere di salvaguardare l'ambiente, perché è un bene prezioso che non ci appartiene. Lo dobbiamo a noi stessi, ad ogni essere umano e, soprattutto, alle generazioni future. Qualche giorno fa, un sondaggio che ha sorpreso soltanto chi non frequenta le ragazze e i ragazzi, chi vive chiuso dentro i Palazzi, ha rivelato che la prima preoccupazione degli italiani sono proprio i cambiamenti climatici, non più solo la sicurezza e il lavoro, insomma le classifiche a cui siamo stati abituati in questi decenni. I cambiamenti climatici in atto sono fatti oggettivi e abbiamo il dovere di fare quanto è in nostro potere per limitarli. La scienza e la tecnologia, ma anche l'impresa, devono essere mobilitate in questa battaglia per il nostro futuro. L'adeguamento a criteri di sostenibilità ambientale nei processi e nei prodotti è inevitabile e rappresenta, allo stesso tempo, un'occasione straordinaria di innovazione, di ricerca e di investimenti. Non permetteremo mai, però, che questo processo si tramuti in una mannaia sul nostro sistema economico produttivo e che - questa sì! - una nuova ideologia green distrugga posti di lavoro, competitività, o, peggio, favorisca Paesi che praticano la concorrenza sleale.

La nostra posizione - che condividiamo insieme alle altre forze che hanno sottoscritto la mozione - è per una terza via all'ambientalismo, una visione finalmente pragmatica. Disegniamo una politica ambientale che garantisca l'economia reale: lo abbiamo scritto nero su bianco nella mozione REPowerEU del 9 maggio 2023. Con quel testo, abbiamo impegnato il Governo a sostenere, nella transizione energetica ed ecologica, un modello di sviluppo che sia in grado di garantire la salvaguardia dell'ambiente, dell'individuo e dell'economia, e a prevedere - leggo testualmente - step compatibili con il sistema economico, sociale e nazionale.

La mozione che discutiamo oggi è la naturale conseguenza e tocca un tema particolarmente rilevante dal punto di vista economico e del mercato. A metà aprile del 2023 è stata approvata, infatti, la riforma del mercato europeo di scambio delle quote di CO2, chiamato ETS, nato per incentivare sistemi produttivi meno inquinanti. L'obiettivo è quello di ridurre le emissioni del 62 per cento entro il 2030, implementando i costi del carbonio emesso e ampliando tale regolazione anche ai settori che oggi ne sono esclusi, quali ad esempio il settore dei trasporti. Il gettito previsto da questa riforma è di 700 miliardi di euro che, evidentemente, andranno a gravare sulle imprese soggette e, a cascata, su tutto il sistema economico.

Voglio dare qualche numero: l'applicazione, al momento solo parziale, dal 1° gennaio 2024, dell'ETS al trasporto marittimo ha già prodotto un aumento dei costi del 4 per cento. Il mercato dell'ETS coinvolge oltre 10.000 aziende energivore. Il prezzo dei permessi di emissione si è mosso attorno agli 80 euro nel 2023, molto superiore ai 15 dollari alla tonnellata dei permessi di emissione americani, e si prevede un trend crescente: 93 euro nel 2024 e 150 euro nel 2030. Già il Vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, aveva stimato che il mercato della CO2 fosse responsabile per circa un quinto dei rincari dei mercati di gas ed elettricità. La riforma dell'ETS è giudicata dalla generalità delle imprese troppo pesante, perché incide sulla competitività delle imprese. I produttori di acciaio riuniti nell'Eurofer criticano il dazio ambientale e la riforma dell'ETS.

Per bilanciare la perdita di competitività generata dall'ETS, il 1° ottobre 2023 è stato approvato un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere, detto CBAM. Si configura come un tributo ambientale gravante sulle importazioni di alcune materie prime strategiche ad alta intensità di carbonio, acciaio e altri prodotti siderurgici: alluminio, cemento, fertilizzanti, per citarne alcuni. Lo scopo è quello di assicurare che gli sforzi di riduzione delle emissioni in ambito UE non siano vanificati da un contestuale aumento delle emissioni al di fuori dei suoi confini, per le merci prodotte nei Paesi extra UE che vengono poi importate nell'Unione europea. Il meccanismo prevede l'applicazione di un sovrapprezzo paragonabile a quello sostenuto dai produttori europei nell'ambito del vigente sistema di scambio delle quote di emissione per le emissioni incorporate nei prodotti extra UE di alcune tipologie di industria.

È prevista una fase transitoria, che terminerà il 31 dicembre 2025, nel corso della quale il tributo non sarà applicato alle merci importate, ma saranno solo acquisite informazioni sulla quantità dei prodotti in entrata e sarà avviata l'attività di autorizzazione dei soggetti obbligati da parte delle autorità competenti nazionali.

A partire dal 2026, però, il meccanismo entrerà in funzione in maniera definitiva. Nel primo periodo, il tributo si applicherà a un numero ristretto di merci, la cui produzione è caratterizzata da un'alta intensità di carbonio, poi sarà via via ampliato ad altre materie prime.

Il CBAM, nato per ridurre il rischio di delocalizzazione delle produzioni che richiedono elevate emissioni verso Paesi con politiche ambientali meno rigorose, mostra, però, diverse e palesi criticità. La prima è che la mole di informazioni da raccogliere per la quantificazione delle emissioni è molto significativa. Per ogni merce importata, le imprese devono fornire dati sul sito dove la merce è stata prodotta, il tipo di processo produttivo, le fonti emissive e le emissioni dirette e indirette di ciascun processo produttivo. Si è già verificato il blocco della piattaforma. Seconda, non è stato specificato un metodo di calcolo univocamente valido per gestire la contabilità delle emissioni. La quasi totalità di questi dati deve essere fornita dai produttori delle merci importate che sono dislocate nei Paesi terzi di importazione, che sono spesso poco edotti sul meccanismo o semplicemente poco inclini a collaborare. Le imprese europee importatrici sono così esposte a costi di transazione e a potenziali rischi di sanzione. Terza criticità: in un contesto di forte frammentazione economica e di tensioni geopolitiche internazionali l'applicazione dello strumento rischia di sortire un effetto opposto a quello creato. Dal 2000 al 2023 le importazioni UE di alluminio dalla Russia sono passate da 840.000 tonnellate a 567.000 tonnellate. Questo gap è stato colmato dall'India, ma l'alluminio russo è prodotto con l'energia da idroelettrico, quello indiano da fonti fossili. Quando il meccanismo sarà attivo, il prezzo dell'alluminio indiano importato salirà del 50 per cento rispetto all'attuale prezzo di Borsa.

Il risultato di tutti questi fattori è evidente. Se si applica una tassa ambientale sulle materie prime e si lascia libero l'ingresso nel mercato comunitario di prodotti finiti extra UE realizzati con le stesse materie prime grezze che, se importati in UE, sono soggetti alla nuova tassa, si produce un danno al settore della trasformazione e, più in generale, a tutto il settore manifatturiero europeo e si accelerano, invece di rallentare, i processi di deindustrializzazione in corso.

L'Italia è un Paese di trasformazione, in quanto importa materie prime grezze ed esporta prodotti finiti. Così il meccanismo nato con l'obiettivo di tutelare l'industria e l'occupazione europee, lo sviluppo, la produzione, la sovranità economica del nostro sistema, così come concepito oggi, rischia di aggiungere nel breve periodo un onere regolatorio e una destrutturazione di catene del valore consolidate per le aziende UE che da anni si muovono tra incertezze macroeconomiche.

La mozione che oggi discutiamo prontamente ha proprio lo scopo di correggere questi effetti distorsivi che si genereranno con la piena entrata in vigore il 1° gennaio 2026 del nuovo meccanismo.

Chiediamo, dunque, al Governo di avviare opportune interlocuzioni con le istituzioni comunitarie al fine di mitigare gli effetti distorsivi del mercato e del meccanismo, estendendo la sua applicazione anche all'impronta carbonica dei prodotti finiti realizzati e importati nell'Unione; semplificare le future procedure di autorizzazione e dare così certezza agli operatori sia in termini di regole tecniche per le comunicazioni, sia mediante metodi di calcolo; coordinare meglio il meccanismo con la riforma dell'ETS allo scopo di non danneggiare la competitività delle imprese dell'Unione europea a livello globale; e poi tener conto delle distorsioni del mercato derivanti dall'instabilità del contesto geopolitico internazionale; infine, prevedere meccanismi di supporto finanziati a livello UE, al fine di dotare i cosiddetti settori hard to abate di soluzioni di decarbonizzazione, preservandone la competitività.

In un Paese come il nostro (è la seconda manifattura d'Europa) non si può non considerare l'importanza dell'industria, che deve essere accompagnata verso una transizione ecologica e non gravata da ulteriori lentezze da burocrazia e da dazi che danneggiano gravemente le imprese, creando vantaggio alle economie extra UE e addirittura con il rischio che le nostre imprese finiscano fuori mercato. Non è un caso che il presidente designato di Confindustria, Emanuele Orsini, a cui auguriamo un buon lavoro, abbia inserito la riforma di questo sistema tra le linee programmatiche, che ha presentato proprio l'altro ieri, e abbia denunciato i danni di una patologia ipertrofica regolatoria green dell'Unione europea. Ringrazio, dunque, l'onorevole Maurizio Casasco per aver circoscritto e sollevato il tema, ma anche per aver saputo coinvolgere il gruppo e larga parte di questo Parlamento in questa battaglia sacrosanta, che non è più di parte, ma diventa del Paese: da oggi, siamo più forti.

Un ringraziamento va anche al dottor Gianluca De Filio, capo dell'Ufficio legislativo del gruppo di Forza Italia, per il suo lavoro preciso e competente e per il suo apporto proattivo e costante al lavoro dei deputati. Il ringraziamento è esteso per suo tramite a tutti i colleghi dell'ufficio.

Concludo, il tema dell'ambiente va sottratto ad ogni polemica di parte. Troppo spesso, invece, è stato trattato in maniera ideologica. Deve trasformarsi in una responsabilità comune di tutti i Governi e di tutte le forze politiche perché è in gioco l'interesse comune dell'umanità.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Carmina, che illustrerà la mozione n. 1-00266, che ha sottoscritto in data odierna.

IDA CARMINA (M5S). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, la crisi climatica è sempre più preoccupante e minaccia la stabilità delle nostre economie e delle nostre società. E certamente è responsabilità ma anche interesse di tutti i Paesi agire immediatamente con misure radicali per poter ottenere risultati efficaci. L'Unione europea si è mossa sviluppando iniziative politiche importanti in linea con l'accordo di Parigi, prima fra tutte, il pacchetto legislativo fit for 55, che rispecchia l'ambizione europea di raggiungere una riduzione dell'emissione di gas serra almeno del 55 per cento entro il 2030 e di poter arrivare a una UE climaticamente neutra entro il 2050. Per questo il Movimento 5 Stelle indica nel suo simbolo la data 2050 per la neutralità climatica, una sfida necessaria che si concretizza attraverso una serie di interventi normativi, fra cui il CBAM. Infatti, con il regolamento UE 2023/956 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 10 maggio 2023, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale UE il 16 maggio 2023, è stato introdotto il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere.

Questo meccanismo ha due obiettivi. Il primo è proteggere le imprese europee dalla concorrenza sleale di produttori extraeuropei non soggetti a vincoli climatici, un po' quello che rivendicano anche gli agricoltori in questo periodo, cioè la concorrenza sleale di prodotti provenienti da Stati non europei che però non devono rispettare i vincoli. Questo meccanismo, infatti, mira a garantire che determinate merci, considerate particolarmente inquinanti da un punto di vista climatico, importate da Paesi extra europei che utilizzano impianti tecnologici, caratterizzati da un livello di sostenibilità insufficiente, scontino un prezzo per le emissioni di carbonio paragonabile a quello che grava sui prodotti nazionali che rientrano invece nel sistema europeo di scambio delle quote di emissione ETS.

Il secondo obiettivo è indurre questi Paesi a migliorare la sostenibilità delle loro produzioni, questo per allinearsi alle ambizioni climatiche europee. Pertanto, il cosiddetto tributo ambientale applicato alle frontiere europee è finalizzato a garantire che i nostri sforzi di riduzione dell'emissione di gas serra non siano contrastati da un contestuale aumento delle emissioni al di fuori dell'Europa, per le merci prodotte nei Paesi extra Unione europea e che vengono importati nell'Unione europea.

Per raggiungere questi obiettivi, il meccanismo CBAM comporta l'applicazione di un prezzo per le emissioni incorporate nei prodotti di alcune tipologie di industrie, paragonabile a quello sostenuto dai produttori dell'Unione europea nell'ambito del vigente sistema di scambio delle quote di emissione CO2.

Il regolamento prevede due fasi di implementazione. La fase transitoria, che è iniziata con l'entrata in vigore del regolamento, terminerà il 31 dicembre 2025, in cui il tributo non sarà applicato alle merci, ma saranno solo acquisite informazioni sulle quantità dei prodotti in entrata soggetti al tributo ambientale, compresa la valutazione delle emissioni incorporate. In questa fase inizierà l'attività di autorizzazione dei soggetti obbligati da parte del MASE.

La seconda fase è quella definitiva e parte dal 1° gennaio 2026, quando il meccanismo entrerà in funzione e, in base a quanto previsto dal regolamento, la prima dichiarazione relativa alle merci importate nell'anno civile 2026, dovrebbe essere presentata al 31 maggio 2027. In quanto strumento per prevenire la rilocalizzazione delle emissioni di carbonio e ridurre le emissioni di gas a effetto serra, il meccanismo dovrebbe garantire che i prodotti importati siano soggetti a un sistema normativo che applica costi del carbonio equivalenti a quelli sostenuti nell'ambito dell'EU ETS, con il risultato di pervenire a un prezzo del carbonio equivalente, per i prodotti importati, a quelli nazionali, garantendo, nel contempo, la compatibilità con la legislazione dell'Organizzazione mondiale del commercio. Tuttavia, la concreta applicazione del meccanismo presenta alcune criticità, che potrebbero vanificare il raggiungimento dell'obiettivo generale. Veniamo al dunque.

I problemi legati all'applicazione del meccanismo si presentano in modo differente per i diversi settori obbligati. In particolare, nei settori dell'acciaio e dell'alluminio, questa applicazione comporta un rischio di riduzione della produzione interna a causa dell'incremento del prezzo delle importazioni di materie prime e di uno spostamento nei Paesi extraeuropei della produzione di manufatti intermedi, sui quali non si applica il CBAM. Questo problema, invece, non riguarda il settore dei fertilizzanti, dell'energia elettrica, dell'idrogeno e del cemento.

Relativamente ai settori dell'acciaio e dell'alluminio, sarebbe opportuno introdurre modifiche per scongiurare il rischio di delocalizzazione della produzione dei prodotti finali o intermedi, delocalizzazione che non solo produrrebbe un danno economico e strategico al sistema industriale italiano ed europeo, ma comporterebbe, allo stesso tempo, un aumento dell'intensità di emissione per unità di prodotto, quindi, vanificando l'intento del regolamento.

Secondo l'attuale versione del regolamento, infatti, i prodotti finiti extra Unione europea potranno liberamente essere importati senza tassazione, anche se prodotti con materie prime ad alta intensità emissiva. Questo vuol dire che l'acciaio prodotto, ad esempio, in Cina sarebbe soggetto a tassazione, mentre l'acciaio contenuto in un'automobile o in un elettrodomestico sempre prodotto in Cina sarebbe esente. Ciò, evidentemente, produrrebbe un effetto diametralmente opposto allo scopo immaginato dal meccanismo del tributo ambientale.

Esiste anche un'altra importante criticità, che riguarda l'applicazione dello stesso criterio per gruppi di Paesi completamente disomogenei. Mentre competitor globali, come India e Cina, possono essere sfidati sul campo della transizione climatica e della competitività industriale, alzando l'asticella dell'ambizione, ci sono Paesi poveri, esportatori di materie prime, molto esposti a questo meccanismo. A causa del regolamento, il CBAM dovrebbe essere attuato attraverso la creazione di incentivi per la riduzione delle emissioni da parte degli operatori nei Paesi terzi, tuttavia molti partner commerciali, in particolar modo quelli più fragili ed economicamente esposti alle esportazioni verso l'Unione europea, come taluni Paesi africani, rilevano che la politica commerciale verde dell'Unione europea non è sufficientemente attenta alle dimensioni della cooperazione allo sviluppo. In sostanza, c'è una forte preoccupazione per le implicazioni economiche degli strumenti commerciali verdi dell'Unione europea nei Paesi africani ed economicamente fragili.

Questi strumenti condizionano l'accesso al mercato dell'Unione europea al rispetto di rigorosi requisiti ambientali, creando barriere all'accesso per i partner commerciali dell'Unione europea, in particolare i Paesi in via di sviluppo e i Paesi meno sviluppati, che potrebbero non essere in grado di soddisfare questi requisiti. L'impatto delle regolamentazioni della UE non sarà uniforme, quindi, per tutti i Paesi, con alcune Nazioni che subiranno, inevitabilmente, conseguenze economiche più severe.

Per queste ragioni, per raggiungere realmente gli obiettivi del Green Deal, abbiamo bisogno di modificare alcuni aspetti del regolamento e, in alcuni casi, correggere l'approccio politico alle relazioni con il Paesi del Sud globale. Come prima cosa, dobbiamo privilegiare l'adozione di un approccio diplomatico con i Paesi con i quali l'Europa ha i più significativi rapporti commerciali sui prodotti oggetto del regolamento, al fine di promuovere nei Paesi extraeuropei un'ambizione climatica paragonabile a quella europea, anche mobilitando le leve della finanza internazionale e degli accordi commerciali bilaterali, basati su standard legati all'impronta carbonica dei prodotti intermedi e finali. Per fare ciò, bisogna adottare un approccio diplomatico diversificato rispetto alle caratteristiche specifiche dei Paesi partner terzi, in grado di distinguere fra Paesi vulnerabili e avanzati, nostri competitor.

Dobbiamo essere in grado di rispondere alle preoccupazioni economiche dei Paesi più vulnerabili, anche attraverso l'istituzione di partnership commerciali verdi, per supportare lo sviluppo di capacità istituzionali e produttive e soddisfare gli standard ambientali dell'Unione europea. Tali partnership commerciali verdi potrebbero essere supportate con i ricavi dello stesso tributo ambientale, al fine di sostenere la transizione verde nei Paesi più vulnerabili, anche all'interno della cornice dal cosiddetto Piano Mattei per l'Africa. Questo sì che darebbe concretezza all'auspicio di una cooperazione paritaria con l'Africa, non certo quello che si sta profilando con il solito sistema di relazioni basate sull'estrazione di risorse naturali, in particolare fonti fossili, che sappiamo come, storicamente, non abbia mai prodotto sviluppo, ma, anzi, abbia generato povertà, corruzione, conflitti e migrazioni forzate, il solito atteggiamento colonialista.

Per quanto riguarda gli aspetti più strettamente legati alla competitività delle nostre imprese, occorre mitigare gli effetti distorsivi del meccanismo attraverso opportune modifiche, secondo modalità che estendano la sua applicazione anche all'impronta carbonica dei prodotti intermedi e finiti, almeno per una lista di prodotti significativi per l'industria o strategici per la sicurezza, contenenti acciaio e alluminio (come, ad esempio, automobili, elettrodomestici, macchine industriali, eccetera), realizzati con le materie prime grezze oggetto di tributo ambientale, importati nell'Unione europea.

Sarebbe opportuno introdurre, altresì, meccanismi di incentivazione selettiva della domanda - come incentivi per il settore automotive, per gli elettrodomestici, per i prodotti da costruzione - basati su una certificazione d'impronta emissiva in grado, questa sì, di soddisfare determinati standard fissati a livello europeo.

Ormai è chiaro che, in un contesto di progressiva crescita della domanda di beni climaticamente più sostenibili, la difesa strategica della nostra produzione - ad esempio, quella siderurgica - dipende, in massima parte, dagli investimenti per la decarbonizzazione. Ma è chiaro che tali investimenti, in un contesto globale, possono essere sostenuti solo attraverso una sempre maggiore integrazione dell'Unione europea.

Il Governo italiano, invece di attardarsi su posizioni di retroguardia folcloristiche rispetto alle questioni industriali, ambientali e climatiche, faccia un passo in avanti e insista per l'introduzione di appositi meccanismi di supporto, come l'istituzione di un fondo sovrano europeo per la transizione climatica - non solo di un fondo per le armi -, in grado di superare le differenze di esposizione al debito pubblico nei diversi Paesi europei rispetto alla possibilità di finanziare la transizione. Tali meccanismi, finanziati dall'emissione di debito comune sul modello del Next Generation EU, dovrebbe dotare rapidamente i settori di produzione ad alta emissione di soluzioni di decarbonizzazione, preservandone, in tal modo, la competitività e aumentando l'integrazione e la sicurezza strategica europea. Perché è ormai chiaro che la competitività delle nostre imprese, la creazione di lavoro, il contrasto alla crisi climatica sono aspetti della stessa battaglia, che può essere combattuta e vinta solo attraverso una sempre maggiore integrazione europea (Applausi della deputata Cherchi).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Ferrari. Ne ha facoltà.

SARA FERRARI (PD-IDP). Grazie, Presidente. Il Partito Democratico, nel sottolineare l'importanza e l'opportunità di intervenire oggi in quest'Aula su temi che troppo spesso il Governo ha cercato di eludere o, in qualche maniera, di affrontare con un approccio che gridava al lupo rispetto all'ideologia green, si trova di fronte a un'iniziativa parlamentare alla quale volentieri ci associamo, anche nell'auspicio che si possa trovare quella trasversalità e quella condivisione nell'impegno verso gli obiettivi europei di cui prima lo stesso relatore parlava. Da parte nostra questa disponibilità è ampia, ed è per questo che abbiamo, a nostra volta, proposto una mozione con precisi punti e iniziative che proponiamo al Governo, che, a nostro avviso, possono, con la dovuta disponibilità, trovare un'ampia condivisione.

Premesso, dunque, che il Green Deal europeo, lanciato nel 2019 dall'attuale Commissione, è stato concepito per arrivare al traguardo della trasformazione dell'Unione europea nel primo continente neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050, implementando tale visione con una road map legislativa, crediamo che questa strategia di decarbonizzazione - che è al contempo un nuovo paradigma industriale e un'iniziativa di rilancio del progetto di integrazione europea - sia il modo attraverso il quale gli obiettivi, trasversalmente condivisi, siano stati rafforzati in questi anni, in realtà, nel contesto delle due grandi crisi che hanno interessato l'Europa negli ultimi anni, la pandemia e l'aggressione russa in Ucraina, come attestano, infatti, le risorse che hanno continuato a essere investite nel processo di decarbonizzazione e la revisione al rialzo dei target climatici a livello europeo.

La misura chiave del Green Deal è la legge climatica europea adottata nel 2016, che ha introdotto per la prima volta un obiettivo vincolante di riduzione delle emissioni di lungo periodo. La legge climatica ha, inoltre, allineato l'obiettivo di riduzione delle emissioni al 2030 con quello di lungo termine, portandolo dal 40 al 55 per cento.

Per il raggiungimento di tale obiettivo la Commissione ha presentato, nel luglio 2021, il pacchetto legislativo Fit for 55, inclusivo di misure di adeguamento della legislazione precedente e di nuove iniziative. Fra le prime figurano la riforma dell'ETS, cioè quella dello scambio di quote di emissioni, allo stato attuale quello che è il principale strumento di finanziamento economico comunitario, insieme al mainstreaming del clima nel quadro finanziario pluriennale, entrambi destinati al raggiungimento degli obiettivi climatici. Vi sono anche interventi regolatori, come la riforma delle direttive Rinnovabili, quella sull'efficienza energetica, quella sulla performance energetica degli edifici e dei regolamenti sugli standard emissivi per auto e furgoni, sui settori non soggetti all'ETS e sull'uso e sulle modifiche all'uso del territorio e delle foreste.

Per quanto attiene al sistema per lo scambio di quote di emissione nell'Unione europea, riferimento essenziale della politica dell'Unione in materia di clima, di cui costituisce finora, dicevamo, lo strumento fondamentale per ridurre le emissioni di gas a effetto serra in modo efficace anche sotto il profilo dei costi, c'è da rilevare che l'obbligo di aderire a questo sistema per le aziende europee di alcuni settori, soprattutto quelli energivori della manifattura, le lascia esposte alla concorrenza delle aziende straniere che non sono soggette a tariffe e norme ambientali altrettanto stringenti nei Paesi in cui producono.

Fra le nuove misure proposte le più significative riguardano l'estensione del prezzamento delle emissioni ai settori dei trasporti e degli edifici, al momento fuori dall'ETS e responsabili, però, di circa un terzo delle emissioni europee, e la regolamentazione delle emissioni di metano nel settore energetico.

Particolarmente rilevante e impattante sul tessuto produttivo comunitario è poi l'introduzione del meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere, CBAM, un dazio sul contenuto carbonico nelle importazioni di acciaio, alluminio, fertilizzanti, cemento, elettricità e idrogeno. Il CBAM è ispirato dalla doppia ambizione: uno, di proteggere le industrie manifatturiere europee nei settori energivori dalla concorrenza estera nel processo di introduzione di tecnologie non emissive, che ne aumenteranno i costi di produzione, riducendone la competitività nel breve e medio periodo; due, di incentivare esportatori extraeuropei a ridurre l'intensità carbonica delle loro produzioni, per aiutare a proteggere l'industria europea dalla concorrenza sleale. Un meccanismo che stabilisce un prezzo del carbonio sulle importazioni di determinati prodotti, nel tentativo di sostenere le industrie nazionali dei Paesi membri che saranno colpite da prezzi del carbonio più elevati rispetto alla concorrenza estera, quindi con la prospettiva di garantire uno sforzo corale per far sì che le riduzioni delle emissioni europee contribuiscano anche a un calo delle emissioni globali, invece di spostare semplicemente la produzione ad alta intensità di carbonio al di fuori dell'Europa.

È previsto che il CBAM venga applicato inizialmente a un ristretto numero di prodotti importati - dicevamo cemento, ferro e acciaio, alluminio, fertilizzanti, elettricità e idrogeno - classificati secondo la nomenclatura combinata, comprendendo sia le merci che sono utilizzate nella loro produzione sia, per evitare possibili pratiche elusive, determinate lavorazioni dei prodotti definite con differenti codici NC. È previsto, inoltre, che in una prima fase o fase di transizione, che va dal 1° ottobre 2023 al 31 dicembre 2025, la misura non sia applicata interamente ai prodotti importati, ma che siano solo acquisite informazioni sulle quantità dei prodotti in entrata, compresa la valutazione delle emissioni incorporate, e che, contestualmente, inizi l'attività di autorizzazione dei soggetti obbligati.

In una seconda fase, con avvio dal 1° gennaio 2026, è previsto che il meccanismo entri in funzione in maniera definitiva, sebbene attraverso un regime transitorio, con la coesistenza con l'ETS che durerà appunto fino al 31 dicembre 2033. Il CBAM è concepito, quindi, per creare condizioni di parità per i produttori dell'Unione europea che già da tempo pagano i permessi per l'inquinamento da carbonio nell'ambito del sistema di scambio di quote di emissione dell'Unione.

La prima fase del meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere dell'Unione europea ha preso il via il 1° ottobre dello scorso anno, obbligando gli esportatori di sei settori industriali ad alta intensità energetica a comunicare le proprie emissioni di carbonio alle autorità dell'Unione. L'idea, almeno sulla carta, è che con questo sistema i produttori stranieri dovranno pagare lo stesso prezzo delle emissioni di carbonio pagato dai produttori dell'Unione. L'obiettivo, oltre a ripristinare condizioni di maggiore parità nella concorrenza, è quello di incoraggiare una produzione più pulita anche all'estero e di impedire la delocalizzazione delle industrie europee.

L'avvio del meccanismo del CBAM sta aprendo fronti di tensione con economie emergenti e Paesi in via di sviluppo. L'ipotesi di una futura estensione di questo sistema alla totalità dell'import dell'Unione appare particolarmente penalizzante sia per economie emergenti, come Russia, Sudafrica, India e Cina, sia per Paesi del vicinato, come Algeria, Turchia e Ucraina, sia per i Paesi in via di sviluppo nell'Africa subsahariana o nel Sud-Est asiatico. Soprattutto per le economie meno avanzate l'adattamento appare particolarmente difficile a causa di popolazione in espansione, mancanza di risorse finanziarie e amministrative per l'adattamento alla normativa e i lunghi tempi richiesti dalla decarbonizzazione industriale.

Le prime tensioni si starebbero già trasferendo, almeno per il momento, a livello di Organizzazione mondiale del commercio, visto che la Cina ha chiesto all'Unione europea di giustificare questo sistema presso, appunto, l'Organizzazione mondiale del commercio, suggerendo che potrebbe iniziare un'azione presso la Corte di Ginevra, e che segnali di possibili ricorsi sono giunti anche dall'India, grande esportatore di acciaio, ferro e alluminio.

Anche per quanto attiene il contesto europeo e italiano, il nuovo sistema rischia di rivelarsi un onere amministrativo considerevole, non solo per gli esportatori e i produttori extra UE, ma anche per le autorità degli stessi Paesi dell'Unione, stante il fatto che l'attuazione del sistema varierà probabilmente da Paese a Paese, come nel caso del sistema di scambio delle quote di emissione, visto che gli approcci delle autorità nazionali competenti tendono ad essere diversi, con diversi tempi di sdoganamento, di capacità di verifica delle emissioni tra gli Stati membri, che potrebbero portare a colli di bottiglia nel processo, di potenziali complicazioni derivanti dall'obbligo di importatori e produttori di condividere con le autorità nazionali informazioni dettagliate, alcune delle quali potrebbero poi essere anche riservate.

È necessario, inoltre, stabilire una connessione fra gli obiettivi climatici e l'attuale dibattito sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, che può rappresentare un'importante opportunità per riflettere sull'adeguatezza degli strumenti finanziari a disposizione per gli ambiziosi traguardi di rimpatrio di capacità industriale stabiliti dal regolamento sull'industria a zero emissioni nette e da quello sulle materie prime critiche, anche alla luce del fatto che il CBAM potrebbe portare tra i 5 e i 14 miliardi di euro di entrate all'anno e che va deciso anche in che modo utilizzare tali risorse.

Per tutti questi motivi, quindi, il Partito Democratico, rilevando spesso, come dicevo prima, un atteggiamento del Governo non troppo convinto e incisivo rispetto all'ineludibile percorso verso la neutralità climatica, si augura che ci possa essere, come diceva il relatore prima, una larga e ampia condivisione trasversale da parte del Parlamento nell'impegno verso questi obiettivi di decarbonizzazione, auspicando che si possa giungere a tale costruttiva collaborazione, anche in un testo magari condiviso.

Il PD, quindi, avanza proposte precise, che esprimono con chiarezza il nostro posizionamento su questi temi e, pertanto, propone queste iniziative eventualmente da condividere: l'impegno al Governo ad avviare le opportune interlocuzioni con le istituzioni euro-unitarie, al fine di monitorare ed eventualmente modificare il meccanismo stesso e la sua attuazione, al fine, non solo, di verificarne l'impatto sulle imprese e sui consumatori, ma di valutarne, altresì, l'effettiva efficacia, anche per la futura applicazione ad altri settori, valutando gli impatti effettivi su tutta la catena del valore dei prodotti, prevedendo la cessazione delle compensazioni dei costi indiretti di CO2 per le imprese esposte al carbon leakage, solo in seguito alla completa decarbonizzazione del sistema elettrico, nonché la riduzione al minimo della differenza tra emissioni dirette e costi indiretti e la piena valutazione degli impatti sulle imprese a valle nella catena di approvvigionamento.

In ragione della progressiva applicazione del CBAM, accompagnata a una graduale riduzione delle assegnazioni gratuite, sarebbe opportuno anche assicurare una corrispondenza tra i due sistemi con riguardo al calcolo delle emissioni incorporate nei prodotti, semplificando le modalità autorizzative, le relative comunicazioni e la contabilità delle emissioni. Chiediamo inoltre: di estenderne l'applicazione anche all'impronta carbonica dei prodotti a valle del ciclo produttivo delle merci incluse nel sistema; di valutare, nel rispetto delle norme dell'Organizzazione mondiale del commercio, misure che possano salvaguardare la competitività delle imprese europee in relazione alle esportazioni e verificare attentamente l'impatto del meccanismo nei settori in cui le importazioni si rendono necessarie, a causa di un'insufficiente offerta all'interno dell'Unione europea, al fine di valutare la possibilità di adottare specifiche misure per le imprese operanti in tali settori, anche prevedendo misure di supporto finanziate a livello europeo; infine, di rafforzare le misure anti elusione, tenendo conto anche del rischio di rilocalizzazione delle emissioni di CO2 da parte di Paesi terzi, che potrebbero ridistribuire i flussi di esportazioni, inviando i prodotti a basse emissioni di carbonio verso l'Europa e quelli ad alta impronta di carbonio verso Paesi extra Unione europea (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Gianluca Caramanna. Ne ha facoltà.

GIANLUCA CARAMANNA (FDI). Presidente, membri del Governo, onorevoli colleghi, oggi, con questa mozione, portiamo all'attenzione dell'Aula un tema molto delicato, parliamo del percorso europeo di decarbonizzazione, il cosiddetto Green Deal, che ha, come obiettivo, quello di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Questo obiettivo si raggiunge solo attraverso la regolamentazione delle produzioni ad alte emissioni, in particolare, guardando al sistema ETS, (Emission trading system) del 2005 e al recente regolamento (UE) 2023/956 (Carbon Border Adjustment Mechanism - CBAM).

È importante ridurre progressivamente, con l'intento di arrivare a zero nel 2035, le emissioni di CO2 e, parallelamente, difendere questo percorso, aumentando la tassazione, a partire dal 1° gennaio 2026, per le importazioni di alcune materie prime strategiche, quali acciaio ed altri prodotti siderurgici, alluminio, fertilizzanti, cemento, idrogeno ed energia elettrica.

Occorre premettere cosa si intenda sia per ETS, sia per CBAM. Il sistema per lo scambio delle quote di emissione dell'Unione europea, ETS, è il principale strumento utilizzato dall'Unione per contrastare i cambiamenti climatici e ridurre in maniera economicamente efficiente le emissioni di gas a effetto serra. Destinatarie di questo servizio sono le aziende produttrici di gas climalteranti, come la CO2, gli ossidi di azoto e i fluorocarburi. Attivo in tutti i Paesi dell'Unione europea, più l'Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia, coinvolge tutte le aziende nello sforzo comune di ridurre gli effetti delle attività che influiscono sui cambiamenti climatici. Questo sistema consente di limitare le emissioni prodotte da oltre 10.000 impianti nel settore dell'energia elettrica e nell'industria manifatturiera, nonché dalle compagnie aeree che operano tra i Paesi che lo adottano. Interessa oltre il 40 per cento delle emissioni di gas a effetto serra dell'Unione europea. Per le aziende soggette ad obblighi, si applica un tetto alle emissioni, cui corrisponde l'assegnazione di un pari numero di quote di emissioni che dovranno essere gestite e scambiate secondo precisi protocolli comunitari.

Come anticipavo in premessa, l'obiettivo prefissato è ridurre del 43 per cento, rispetto ai livelli del 2025, le emissioni di gas climalteranti, da parte dei settori disciplinati dal sistema. I gas e i settori interessati sono: anidride carbonica, derivante da produzione di energia elettrica e di calore; settori industriali ad alta intensità energetica, comprese raffinerie di petrolio, acciaierie e produzione di metalli, alluminio, cemento, calce, vetro, ceramica, pasta di legno, carta, cartone, acidi e prodotti chimici organici su larga scala; aviazione civile, ossido di azoto derivante dalla produzione di acido nitrico, adipico, gliossilico e gliossale, perfluorocarburi derivanti dalla produzione di alluminio.

L'ultimo provvedimento adottato dal nostro Paese sul tema è del 2020, ai sensi del quale nessun impianto può esercitare le attività che comportino, nel loro svolgimento, emissioni di gas ad effetto serra, a meno che il relativo gestore non sia munito dell'autorizzazione. Le autorizzazioni rilasciate con provvedimenti antecedenti all'entrata in vigore del decreto-legge n. 47 del 2020, ove non già revocate, rimangono valide, ai sensi dell'articolo 16, comma 3, del decreto. L'ETS opera secondo il principio del “cap and trade”, cioè viene fissato un tetto che stabilisce la quantità massima di gas climalteranti che può essere emessa dagli impianti obbligati. Entro questo limite, le imprese possono acquistare o vendere quote in base alle loro esigenze. Le quote rappresentano la valuta centrale del sistema. Una quota dà al suo titolare il diritto di emettere una tonnellata di CO2 o l'ammontare equivalente di un altro gas climalterante. Una volta l'anno, tutte le imprese che partecipano al sistema devono restituire una quota di emissione per ogni tonnellata di CO2 equivalente emessa. Le imprese che non ricevono quote di emissione a titolo gratuito o in cui le quote ricevute non sono sufficienti a coprire le emissioni prodotte devono acquistare le quote di emissione all'asta o da altre imprese. Chi ha quote di emissioni in eccesso rispetto alle emissioni prodotte può venderle.

Se una società non adempie agli obblighi di conformità, vengono applicate sanzioni pesanti. L'assoggettamento al sistema comporta l'obbligo di monitoraggio e rendicontazione delle emissioni di CO2 entro il 31 marzo di ogni anno per l'anno precedente, nonché l'obbligo di monitoraggio e comunicazione del livello di attività per ogni sottoimpianto, secondo il regolamento di esecuzione, entro il 31 marzo di ogni anno per l'anno precedente.

Inoltre, con il regolamento (UE) 2023/956, pubblicato il 16 maggio, è stata introdotta una nuova entrata fiscale destinate al bilancio dell'Unione europea, basata sul cosiddetto meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere, denominato CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism). Tale regolamento rappresenta un elemento essenziale nel Green Deal europeo, in cui si colloca l'insieme delle proposte Fit for 55, che mirano a ridurre, entro il 2030, le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento rispetto ai livelli del 1990 e a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

Il nuovo tributo ambientale è finalizzato a garantire che gli sforzi di riduzione delle emissioni di gas serra in ambito UE non siano contrastati da un contestuale aumento delle emissioni al di fuori dei suoi confini per le merci prodotte nei Paesi extraeuropei importate nell'Unione europea. Il meccanismo comporta l'applicazione di un prezzo per le emissioni incorporate nei prodotti di alcune tipologie di industrie paragonabili a quello sostenuto dai produttori unionali nell'ambito del vigente sistema di scambio delle quote di emissione.

Il regolamento prevede due fasi di implementazione: la fase transitoria, che ha inizio con la data di entrata in vigore del regolamento (1° ottobre 2023) e che terminerà il 31 dicembre 2025. Durante questa fase il tributo non sarà applicato alle merci importate, ma saranno solo acquisite informazioni sulla quantità dei prodotti in entrata soggetti a CBAM, compresa la valutazione delle emissioni incorporate. Inizierà, dunque, l'attività di autorizzazione dei soggetti obbligati da parte delle autorità competenti nazionali, che in Italia ha sede presso il Ministero dell'Ambiente e della sicurezza energetica. La fase definitiva si avrà, poi, a partire dal 1° gennaio 2026, quando il meccanismo entrerà in funzione in maniera definitiva. In base a quanto previsto dal regolamento, la prima dichiarazione relativa alle merci importate nell'anno civile 2026 dovrebbe essere presentata entro il 31 maggio 2027. Nel periodo iniziale tali previsioni si applicheranno a un numero ristretto di merci la cui produzione è caratterizzata da un'alta densità di carbonio (cemento, prodotti siderurgici, alluminio, fertilizzanti, energia elettrica e idrogeno). Durante la fase transitoria gli operatori saranno tenuti a raccogliere i dati su base trimestrale e a trasmetterli alla Commissione. Successivamente, dal 1° gennaio 2026 tali soggetti dovranno, una volta autorizzati, dichiarare ogni anno la quantità di merci soggette a CBAM e i dati delle emissioni di anidride carbonica incorporate. Quindi, dovranno restituire un numero di certificati corrispondente a quanto dichiarato, il cui prezzo sarà calcolato in base al prezzo medio delle quote ETS espresso in euro/tonnellata.

È evidente che questa misura impatterà notevolmente sulla competitività delle imprese continentali che esportano extra UE. Per ogni merce importata le imprese dovranno fornire dati sul sito in cui la merce è stata prodotta, descrivere il tipo di processo produttivo impiegato, le fonti emissive e le emissioni dirette e indirette di ciascuno di questi.

Un recente studio di Goldman Sachs sostiene che il CBAM comporterà un aumento del costo dell'acciaio del 15-30 per cento e dell'alluminio del 7-20 per cento, provenienti dalla zona Asia-Pacifico. Questa impostazione potrebbe influenzare il modo in cui i produttori europei pensano agli investimenti. Senza metodologie che bilancino vantaggi e svantaggi, le aziende potrebbero decidere che l'incertezza è eccessiva e spostare la produzione ad alta intensità di carbonio fuori dall'Unione europea, in Paesi senza carbon tax o in Paesi con sussidi più vantaggiosi. Ciò è ancora più rilevante per l'Italia, che è un Paese di trasformazione in quanto importa materie prime grezze ed esporta prodotti finiti.

Nella scorsa primavera questo ramo del Parlamento ha già approvato una mozione che impegnava il Governo a sostenere nella transizione energetica ed ecologica un modello di sviluppo in grado di garantire la salvaguardia dell'ambiente, dell'individuo e dell'economia, nonché di perseguire la neutralità climatica assicurando il principio della neutralità tecnologica nei settori elettrico, termico e dei trasporti. Per questi motivi riteniamo opportuno, con questa mozione, avviare tutte le interlocuzioni necessarie con le istituzioni euro-unitarie al fine di mitigare gli effetti distorsivi del regolamento (UE) 2023/956, Carbon Border Adjustment Mechanism, anche attraverso modifiche secondo modalità che: estendano la sua applicazione anche all'impronta carbonica dei prodotti finiti, realizzati con le materie prime grezze oggetto d'imposta ambientale, importati nell'Unione; semplifichino le future procedure di autorizzazione e diano certezza agli operatori, sia in termini di regole tecniche per le comunicazioni sia mediante l'introduzione di metodi di calcolo inequivocabili per gestire la contabilità delle emissioni; tengano conto delle distorsioni del mercato derivanti dall'instabilità del contesto geopolitico internazionale e dal mutamento del sistema delle alleanze e degli accordi internazionali; coordinino le misure del CBAM con la riforma del mercato europeo di scambio delle quote di emissione di CO2 secondo un modello che tenga conto delle necessità di non impattare sulla competitività delle imprese europee, in particolare nei settori hard to abate (difficili da abbattere) e, più in generale, su tutto il manifatturiero e di non attivare fenomeni di delocalizzazione.

Intendiamo sicuramente garantire, nel recepimento della direttiva (UE) 2023/959 dell'Unione europea, l'istituzione di un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nell'Unione e la sterilizzazione di impatti negativi sui settori inclusi al fine di non alterare la competitività delle imprese dell'Unione europea a livello globale e, da ultimo, prevedere appositi meccanismi di supporto, finanziati a livello unionale, funzionali a dotare rapidamente i settori cosiddetti difficili da abbattere di soluzioni di decarbonizzazione, preservandone la competitività (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Zanella. Ne ha facoltà.

LUANA ZANELLA (AVS). Grazie, Presidente. Questo è un confronto molto importante, direi, e necessario e mi auguro che raggiungeremo il massimo della convergenza possibile nel corso della discussione in Aula, a partire dalle rispettive mozioni.

L'ultima relazione speciale del gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico, concernente gli effetti dell'aumento globale delle temperature di 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali e relative traiettorie delle emissioni di gas a effetto serra a livello mondiale, costituisce la base scientifica per affrontare i cambiamenti climatici e conferma l'assoluta necessità di intensificare l'azione per il clima al fine di contenere l'aumento di temperatura globale al di sotto di 1,5 gradi.

È certamente responsabilità di tutti i Paesi, come riconosciuto durante la COP28, agire immediatamente con misure severe per ottenere risultati concreti ed efficaci. L'Unione europea si è mossa sviluppando iniziative riguardanti il clima e l'ambiente in linea con l'Accordo di Parigi, e primo tra tutti c'è il pacchetto legislativo, noto come Fit for 55, che rispecchia l'ambizione europea di raggiungere la riduzione delle emissioni di gas serra almeno del 55 per cento entro il 2030 e di poter arrivare a un'Unione europea climaticamente neutra entro il 2050.

Si tratta di una sfida onerosa ma indispensabile, che si concretizza attraverso una serie di interventi normativi tra cui il regolamento (UE) 2023/956, del 16 maggio dell'anno scorso, che istituisce un meccanismo di politica ambientale di adeguamento del carbonio alle frontiere che si applicherà alle importazioni di determinate merci (cemento, ferro, acciaio, alluminio, fertilizzanti, elettricità e idrogeno) la cui produzione, come è noto, è ad alta intensità di carbonio e presenta un alto rischio di rilocalizzazione delle stesse emissioni di carbonio.

L'obiettivo principale dell'adeguamento del carbonio alle frontiere è una misura largamente ispirata dal principio “chi inquina paga”, che consiste nel contrastare i processi di rilocalizzazione della produzione in Paesi la cui normativa prevede - quando li prevede - vincoli in materia di emissioni di gas a effetto serra molto meno incisivi rispetto a quelli dell'Unione europea.

L'azione dell'Unione europea, quindi, in materia di lotta al cambiamento climatico, rischierebbe di essere largamente inefficace quando le produzioni più aggressive in termini di emissioni di gas a effetto serra fossero trasferite in tali Paesi. Al contempo, la misura vuole incoraggiare i produttori dei Paesi terzi a rendere più green le loro catene di approvvigionamento. Per le merci prodotte in Europa, peraltro, è già vigente un meccanismo di compensazione delle emissioni, il sistema di scambio di quote di emissioni dell'Unione.

Il nuovo meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere si integra nel sistema attraverso un meccanismo di certificati a pagamento che verranno spesi al momento dell'immissione in libera pratica delle merci. I certificati, infatti, dovranno essere disponibili al momento della presentazione delle dichiarazioni alla dogana per importazione delle merci interessate.

Il Parlamento e il Consiglio europeo hanno deciso di introdurre l'adeguamento del carbonio alle frontiere gradualmente sia per consentire agli operatori economici di entrare poco alla volta nel complesso meccanismo previsto dal regolamento di base, sia per calibrare i futuri interventi e aggiornamenti del meccanismo.

L'adeguamento del carbonio alle frontiere costituisce uno strumento necessario per esercitare una pressione politica e commerciale volta a persuadere i Paesi extra Unione europea ad adottare meccanismi di tutela ambientale simili a quelli adottati in Europa, in modo tale da ricalibrare il carbon pricing a livello mondiale. La realizzazione di prodotti più green passa necessariamente attraverso l'utilizzo di strumenti di produzione che garantiscano il recupero e il riutilizzo delle emissioni di CO2. Per questo si rende necessario estendere il meccanismo anche ai prodotti finiti extraeuropei, per scongiurare il rischio di delocalizzazione delle produzioni di prodotti finali o intermedi da parte delle imprese dell'Unione, delocalizzazione che produrrebbe un danno economico e strategico al sistema industriale con ulteriori effetti drammatici non solo sull'occupazione ma anche sull'ambiente stesso.

È piuttosto usuale - concludo, Presidente - che il sistema delle imprese lamenti l'imposizione di nuove regole e paventi catastrofi con la loro applicazione. Il periodo transitorio per l'entrata in vigore del meccanismo serve proprio a correggere eventuali criticità. L'introduzione di un premio di carbonio alla frontiera dell'Unione europea dal 2026 servirà da questo punto di vista per uniformare maggiormente le condizioni di concorrenza sul mercato globale (Applausi del deputato Mari).

PRESIDENTE. Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

Il Governo intende intervenire o si riserva di farlo successivamente?

CLAUDIO BARBARO, Sottosegretario di Stato per l'Ambiente e la sicurezza energetica. Il Governo si riserva di intervenire successivamente.

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Discussione della mozione Scotto ed altri n. 1-00265 in materia di politiche del lavoro, con particolare riguardo alle iniziative volte alla lotta al precariato.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Scotto ed altri n. 1-00265 in materia di politiche del lavoro, con particolare riguardo alle iniziative volte alla lotta al precariato (Vedi l'allegato A).

La ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicata nel vigente calendario dei lavori (Vedi calendario).

Avverto che è stata presentata una nuova formulazione della mozione Scotto ed altri n. 1-00265 che è stata sottoscritta, tra gli altri, anche dai deputati Barzotti e Mari che, con il consenso degli altri sottoscrittori, ne diventano rispettivamente il secondo e il terzo firmatario (Vedi l'allegato A). Il relativo testo è in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

È iscritta a parlare la deputata Maria Cecilia Guerra, che illustrerà la mozione n. 1-00265 (Nuova formulazione), di cui è cofirmataria.

MARIA CECILIA GUERRA (PD-IDP). Grazie, Presidente. Come lei ha appena ricordato, siamo di fronte a una mozione unitaria di larga parte dell'opposizione. È una mozione che abbiamo composto insieme proprio in vista del 1° maggio perché vogliamo parlare di lavoro, delle politiche del lavoro. In particolare, questo ci porterà a sottolineare la necessità di mettere a punto un insieme di azioni per contrastare la precarietà, lo sfruttamento, la povertà e, in particolare, la povertà lavorativa. Qual è lo spettro che si aggira dietro a tutti questi elementi? La questione salariale. Noi lo sappiamo ma è sempre bene ripetere questo dato che dovrebbe non farci dormire la notte, come politici, cioè il fatto che, nei trent'anni che vanno dal 1990 al 2020, mentre nella media dei Paesi OCSE i salari reali crescevano - in Germania, ad esempio, del 33 per cento e in Francia del 31 per cento - in Italia il salario reale diminuiva di quasi il 3 per cento. Questo triste primato si conferma con ancora più forza nel periodo successivo, nel periodo inflazionistico. Da ultimo, l'Istat ci dice che, nonostante la decisa decelerazione dell'inflazione, nel corso del 2023 la distanza tra la dinamica dei prezzi rappresentata dall'indicatore IPCA e le retribuzioni contrattuali è rimasta di 3 punti percentuali. Quindi, i salari reali sono ancora in diminuzione. Questo si riflette complessivamente, a livello macroeconomico, nel fatto che noi vediamo un aumento della quota dei profitti, della fetta di torta che va ai profitti, e una diminuzione della fetta di torta che invece va ai salari, con effetti devastanti, che stiamo cominciando a registrare, sulla domanda interna. Il carrello della spesa cresce, infatti, in termini nominali ma cala in termini reali perché la gente non si può permettere di mantenere lo stesso tenore di vita. È una povertà assoluta che - ci dice sempre l'Istat - interessa sempre di più, in modo crescente, anche le famiglie con persona di riferimento lavoratore dipendente, passando dall'8,3 per cento nel 2022 al 9,15 per cento nel 2023. Il 9,15 per cento delle famiglie con persona di riferimento lavoratore dipendente sono in povertà assoluta.

Da che cosa dipende e, quindi, cosa possiamo fare per contrastare questa questione salariale? Un primo elemento quasi banale è che in Italia i livelli salariali sono troppo bassi. Abbiamo 3 milioni e mezzo di persone che lavorano con un minimo contrattuale inferiore a 9 euro. L'introduzione di un salario minimo legale - che non è una bestemmia, ce l'hanno praticamente tutti i Paesi dell'OCSE e tutti i Paesi europei, fuorché 4 - è stata irrisa e bocciata da questa maggioranza e da questo Governo e, invece, avrebbe avuto un effetto importante, come ha avuto negli altri Paesi, nel difendere i salari dall'inflazione e anche, devo dire, nel ridurre quell'altra piaga del nostro sistema, cioè il gap di genere, per il quale le donne ricevono salari più bassi rispetto agli uomini. In più, noi avremmo rafforzato, attraverso quello strumento, la contrattazione, quella che la maggioranza dice di voler rafforzare ma che invece calpesta negando il punto essenziale. Una contrattazione è efficace e le relazioni industriali sono efficaci, infatti, se si riconosce e si rafforza il principio di rappresentanza e rappresentatività e non ci si affida alle sigle di comodo più improbabili e a quelle che siglano i contratti pirata, come invece fa questa maggioranza che ripetutamente, in più provvedimenti di legge, cancella il principio sacrosanto del riferimento ai contratti siglati dalle associazioni datoriali e dei lavoratori comparativamente più rappresentative per fare riferimento a un criterio che tutti, proprio tutti hanno detto essere evanescente e poco applicabile e, cioè, il criterio dei contratti più diffusi, vale a dire contratti che il datore di lavoro va a scegliere fior da fiore per pagare meno i lavoratori e per dare loro meno tutele.

Bisogna rafforzare la contrattazione se vogliamo affrontare i temi di cui stiamo parlando perché, a fine dicembre dell'anno scorso, era scoperta da contratto, cioè lavorava con un contratto scaduto, più della metà dei dipendenti del nostro Paese. Più della metà dei lavoratori aveva un contratto scaduto e il tempo medio di attesa per il rinnovo è passato da 20,5 mesi nel gennaio dello scorso anno, che erano già moltissimi, a 32,2 mesi nel dicembre di quest'anno. Come si possono difendere i salari se non si difende la contrattazione? Quindi, noi vorremmo vedere e speriamo di vedere una resipiscenza. Lo hanno detto tutti a questa maggioranza, tutte le associazioni datoriali e tutte le associazioni rappresentative dei lavoratori le hanno spiegato che il concetto di rappresentatività è una cosa seria.

L'altro elemento che concorre a questo quadro che stiamo dipingendo è quello della catena degli appalti e subappalti messa in piedi, anche con una difesa normativa, da questo Governo, alla ricerca di contratti meno onerosi non solo dal punto di vista del costo del lavoro ma anche per la parte normativa, quella relativa alle tutele e all'organizzazione del lavoro che, se viene abbandonata, espone drammaticamente a rischi più elevati, con una concentrazione degli incidenti sul lavoro che, come sappiamo, si verifica proprio non solo nei contratti precari ma nella catena degli appalti e dei subappalti. Noi chiediamo con forza proprio adesso, nel decreto PNRR in cui impropriamente si parla anche di sicurezza, che nella catena degli appalti venga rispettata l'applicazione dei contratti collettivi comparativamente più rappresentativi non solo dal punto di vista economico ma anche dal punto di vista normativo. Invece, la proposta del Governo ancora una volta è quella di fare riferimento a questi fantomatici contratti più diffusi. Quindi, si dice di voler affrontare il problema della sicurezza, si dice di avere sensibilità rispetto ai salari bassi ma si agisce in modo assolutamente opposto. Noi chiediamo anche con forza che vengano eliminati gli appalti finti, gli appalti di mera intermediazione di manodopera in cui l'impresa appaltante è semplicemente un soggetto che si preoccupa di organizzare il lavoro senza mezzi propri nel luogo di lavoro del committente, mettendo in piedi quelle forme di caporalato che conoscevamo ahimè da tempo nell'agricoltura ma che ormai sono diffusissime nell'edilizia, nei servizi e nell'industria.

Noi, in questa mozione, contrastiamo e proponiamo con forza di superare queste forme assurde di appalti finti e pretestuosi, ma non vediamo per ora alcuna risposta, alcuna sensibilità, alcuna attenzione da parte della maggioranza.

E poi, c'è il grande capitolo della precarietà, quello cui prevalentemente è dedicata la nostra mozione, perché questa precarietà è ottenuta utilizzando in modo distorto degli istituti che potevano e che potrebbero avere un loro senso e anche, direi, addirittura, una necessità, ma che vengono, invece, applicati in modo distorto per - ancora una volta - cercare di ottenere sempre una compressione del costo del lavoro e dei diritti dei lavoratori. Da qui, la terribile questione salariale e dell'insicurezza sul lavoro, in cui il nostro Paese si dibatte. Parlo del lavoro a termine, che doveva esistere, sì, ma in ragione di esigenze temporanee e che, invece, è utilizzato in modo sistematico, attraverso continui rinnovi, senza peraltro alcuna garanzia di continuità del rapporto di lavoro per chi è messo in mezzo, creando una sorta di manodopera ricattabile, senza sicurezza e senza prospettive, soprattutto i giovani e soprattutto le donne. E cosa fa questo Governo? Anche nel provvedimento attualmente in discussione al Senato, dopo averlo già fatto in modo veramente offensivo con un decreto che è stato chiamato “Primo Maggio”, e questa cosa mi inorridisce ancora oggi, cosa fa? Allarga, invece, la possibilità - senza alcun limite, senza alcun criterio e senza alcuna regola - di ricorso al lavoro a termine, senza cioè quell'aggancio necessario, ripeto, alle esigenze di temporaneità, che, solo, potrebbero giustificare il ricorso a tale strumento. Non parliamo, poi, di quello che fa sistematicamente il settore pubblico, che usa lavori precari, il lavoro a termine, continuamente. Noi stiamo continuando a chiedere, e lo chiediamo ancora con forza in questa mozione, che si faccia un programma di assunzioni serie nella pubblica amministrazione, dove abbiamo carenze di personale, in tutti i confronti internazionali e in tutti i settori, ben note e ben conosciute. Chiediamo che si stabilizzi il personale esistente e vorremmo che queste stabilizzazioni - che vengono fatte in modo totalmente casuale, arbitrario e, quindi, ingiusto - fossero, invece, fatte con criterio, riconoscendo a tutti quelli che hanno prestato, per anni e con qualità, il proprio lavoro nella pubblica amministrazione, di arrivare finalmente a un punto fermo nel loro percorso. Nell'ultimo disegno di legge in discussione al Senato, la maggioranza amplia, invece, i limiti e le condizioni del contratto a termine, permettendo di fatto un uso e, quindi, un abuso fino a 24 mesi. E lo stesso avviene per la somministrazione. Anche la somministrazione non è il demonio, doveva permettere a un datore di lavoro di attivare competenze di lavoratori di cui non disponeva per esigenze temporanee. Sarebbe potuta essere un'idea sensata, se non fosse diventata, invece, un modo sistematico e improprio di attivare, in forma indiretta, sempre un lavoro precario, un lavoro a termine. E anche in questo caso, i limiti che erano stati posti proprio per evitare gli abusi di questa forma di contratto, sono, invece, continuamente superati, con la normativa 1° maggio, con la normativa attualmente in discussione qui alla Camera, perché c'è una logica, per quanto spezzettata, in queste azioni dissennate della maggioranza, ossia l'idea di allargare la percentuale e l'incidenza delle forme di contratto a termine, e, in questo caso, del contratto in somministrazione, rispetto al totale della forza lavoro, come se noi volessimo andare verso un radioso mondo in cui le imprese e i datori di lavoro operano solo con persone a termine. E capite come possiamo fondare il nostro sviluppo economico su imprese che si fondano su un lavoro di questo tipo, che significa, di fatto, usando termini un po' del passato, ma sempre attuali, voler creare un vero e proprio esercito di riserva, che può essere occupato in deroga ai limiti e che tiene dentro persone più o meno disperate, disoccupati di lungo termine, percettori di assistenza, che sono disponibili o costretti a lavorare a qualsiasi condizione. Anche per questo passa il calmieramento dei salari, che non è un calmieramento, ma la legittimazione di uno sfruttamento non più accettabile.

L'altro primato che noi abbiamo è quello del part time, che è pure una forma di precariato, perché nel nostro Paese è largamente un part time involontario, è largamente un part time a cui sono destinate le donne, è largamente un part time che nasconde lavoro nero. C'è una flessibilità che ti viene richiesta: ti metto in regola a 16 ore, te ne faccio lavorare 40, ma quelle altre 24 te le pago in nero. Anche su questo non possiamo più permetterci di chiudere gli occhi. Questo, quindi, è un altro obiettivo della nostra mozione. Il tema del part time ha un connotato di genere fortissimo. Sul genere avremmo tantissime cose da dire. Noi sappiamo che le donne, in Italia, lavorano meno pagate e in settori meno tutelanti, perché devono accettare condizioni di lavoro, magari più vicino a casa, ma che permettano loro di conciliare il lavoro sul mercato con il lavoro fuori dal mercato, che è il lavoro di cura, il lavoro domestico, che è ancora, purtroppo, appannaggio, in larghissima parte, nel nostro Paese, delle donne. Per questo, in questa mozione, ed è legato sempre a questo tema del mercato del lavoro, noi chiediamo l'altra gamba di un mercato del lavoro funzionante, cioè il rafforzamento dei servizi. Non ci va bene che, nella revisione del PNRR, siano stati tagliati 100.000 posti negli asili nido. Non ci va bene che il tempo pieno nelle scuole stenti a diventare un LEP, un livello essenziale di prestazioni, da garantire su tutto il territorio nazionale e non solo su quelle regioni, magari, ad autonomia differenziata, che potranno permetterselo. Ed è per questo che noi non abbiamo apprezzato il modo in cui - nel realizzare parzialissimamente una delega, che, invece, era importante, sui servizi per la non autosufficienza - si sia tagliata proprio una parte rilevante e innovativa dell'integrazione sociosanitaria, che avrebbe alleviato il lavoro di cura. Non ci è piaciuto neppure che siano stati tagliati i soldi riservati ai caregiver. Ma dietro questo, c'è una considerazione di base: le donne che hanno un figlio, e non solo sotto i 5 anni, cioè non solo in età prescolare, ma anche dopo i 5 anni, lavorano molto meno, accedono molto meno al mercato del lavoro, poi magari lavorano anche di più, rispetto alle donne che non hanno figli. La distanza, anche quando i figli sono di 6, 7, 8, 9, 10, 11 anni, eccetera, resta di quasi 16 punti percentuali. C'è qualcosa che non va.

Una cosa che non va è la pessima distribuzione domestica del lavoro fra uomo e donna. Per questo, noi chiediamo congedi paritari. E questo c'entra con il mercato del lavoro, questo c'entra con la precarietà, questo c'entra con la questione salariale. Congedo paritario uomo-donna, per permettere anche agli uomini di svolgere con gioia il loro compito di padri fin dalla più tenera età dei figli e per non creare alibi, sul mercato del lavoro, per discriminare le donne nei confronti degli uomini. Infatti, tutti gli studi che sono stati fatti spiegano il gap salariale uomo-donna con tanti fattori, compresi i fattori culturali, i fattori legati al percorso di istruzione e a questi temi di cui sto parlando, ma c'è sempre un pezzettino che gli studi non riescono a spiegare e che si chiama: discriminazione. Un Paese che ritiene fragili due segmenti del mercato del lavoro, i giovani e le donne: ma di che segmenti parliamo? Il 70 per cento della forza lavoro è costituito da segmenti deboli, ma li avete contati quanto fanno insieme giovani e donne? Fanno quasi il 70 per cento della forza lavoro e sono fragili nel nostro Paese. C'è qualcosa che non va. C'è molto che non va! E non solo nel lavoro dipendente, anche nel lavoro autonomo, specialmente il falso lavoro autonomo, le false partite IVA, alimentate anche da un regime fiscale discriminatorio, che discrimina un tipo di lavoro rispetto all'altro. Noi vogliamo che questi temi siano al primo posto nell'agenda delle politiche del nostro lavoro, perché il lavoro - lo dice il nostro articolo 1 della Costituzione - è ciò su cui si fonda la nostra Repubblica democratica (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Carmina. Ne ha facoltà.

IDA CARMINA (M5S). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, parto proprio dall'articolo 1 della Costituzione, che definisce la nostra una Repubblica fondata sul lavoro. Ma certamente, nella visione dei nostri Padri costituenti, il lavoro non è quello, secondo un'ottica riduzionista, che noi vediamo in questi giorni, semplice fattore della produzione, un costo da diminuire per incrementare il profitto dal capitale dell'imprenditoria, ma è la cifra dell'uomo.

Darwin afferma che nel mondo sopravvive il più adattabile e l'uomo, non solo si adatta al mondo circostante, ma, unico, adatta il mondo a sé e la chiave è il lavoro. Lo ribadisce anche San Giovanni Paolo II, nella Laborem exercens, allorché dice che il lavoro porta su di sé un particolare segno dell'uomo e dell'umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura. Per questo, la nostra Repubblica è fondata sul lavoro, non per fare un'opzione su un fattore di produzione. Pertanto, il lavoro è il mezzo più usato di realizzazione personale, è il momento forse più rilevante, perché diffuso, dell'azione individuale nella società, lo strumento per adattare alla realtà noi stessi. Quindi, il lavoro è per l'uomo e non viceversa; quando è strumento di realizzazione personale, nell'ottica costituzionale, è strumento di libertà e di uguaglianza (pensiamo all'emancipazione femminile), il vero ascensore sociale, in una società in cui si offrono ai cittadini pari opportunità e per questo è un diritto da garantire a tutti (l'articolo 4 della Costituzione), ma è libertà coniugata con dignità, così nell'articolo 36, laddove sulla retribuzione ci si esprime in termini di garanzia al lavoratore e alla sua famiglia di un'esistenza libera e dignitosa.

E' evidente che il lavoro è anche la precondizione grazie alla quale una persona può programmare di farsi una famiglia, una casa e di avviare il proprio futuro. Quindi, il lavoro è libertà, dignità e diventa speranza, forza di propulsione individuale e sociale. Un lavoro che non assicuri condizioni di giustizia sociale libertà e dignità, determina condizioni di disgregazione della società, dell'intera società, a partire - lo vediamo evidentemente - dallo spopolamento di alcune zone del Paese, in cui, per mancanza di lavoro si emigra. In pochi anni, 1.300.000 persone hanno lasciato l'Italia. C'è anche la questione del decremento demografico, perché, se non si assicurano condizioni dignitose di lavoro e di retribuzione, come si fanno una famiglia e figli? È causa di quell'impoverimento generalizzato, di aumento di discriminazioni, che deriva dall'affermarsi di una concezione classista e ottocentesca di lavoro semplice fattore di produzione. Questa visione miope mette a rischio l'intera società ed è quella che intendiamo contrastare con l'odierna mozione, che si propone di restituire al lavoro la funzione fondante che gli attribuisce la Costituzione italiana.

In questi anni di crisi, sono cresciute le diseguaglianze a livelli ormai inaccettabili. Occorre un nuovo contratto sociale che, sul fronte del lavoro, veda al centro la lotta alla precarietà, allo sfruttamento, alla povertà, che ormai raggiunge livelli insostenibili.

Abbiamo 5.700.000 italiani sotto la soglia della povertà, in povertà assoluta, e 1.300.000 bambini in povertà assoluta in Italia.

Il MoVimento 5 Stelle crede che il lavoro per essere confacente a questa visione costituzionale debba essere stabile, congruamente retribuito e significativamente produttivo. Soprattutto per garantire la stabilità, abbiamo varato il decreto dignità, che rispondeva all'esigenza di dare al lavoratore una stabilità contrattuale dignitosa, di modo che ciascuna persona fosse in grado di realizzare il proprio progetto di vita, programmare il futuro in modo importante e a lungo termine. L'esigenza di stabilità è, peraltro, prima di tutto, un'esigenza esistenziale.

Essere lavoratore precario significa avere una vita precaria, senza serenità e sicurezze. Chi non ha un'entrata sicura e costante nel tempo non potrà accendere un mutuo e, oggi, peraltro, sono divenuti insostenibili e, quindi, questo si riconnette alla questione salariale: comprarsi una casa, costituire una famiglia, mettere al mondo figli. Si vive una non vita. Ecco perché, con il decreto dignità, avevamo costituito meccanismi che limitassero il ricorso al lavoro a tempo indeterminato e i risultati, fin dalle prime rilevazioni, ci diedero ragione.

Nel 2019, l'occupazione a tempo indeterminato raggiunge il suo massimo storico e gli occupati erano in Italia 23.000.000. Invece, dalla metà degli anni Novanta, il nostro Paese ha adottato una serie di riforme volte a introdurre flessibilità nel mercato del lavoro, dal pacchetto Treu del 1997, al Jobs Act del 2015, passando per la legge n. 30 del 2003, per la riforma Fornero e il decreto Poletti - un vero e proprio accanimento -, che, però, non hanno portato in Italia flessibilità, perché il mondo del lavoro italiano è diverso da quello americano che si prendeva a riferimento. Non hanno portato flessibilità, ma precarietà, con tutto quello che di negativo ha, una precarietà che ha contribuito alle diseguaglianze di reddito. Né si può fare vanto dell'aumento occupazionale recente, quando si tratta di occupazioni di brevissima durata, addirittura di un giorno o di poche settimane e molti dei cosiddetti nuovi lavoratori percepiscono retribuzioni da fame, che non permettono di vivere dignitosamente e sono in condizioni di sfruttamento. Il lavoro a termine è cresciuto, raggiungendo record storici ed invertendo il trend positivo che lo stesso decreto dignità aveva avviato.

All'interno di questa precarietà, il problema dei contratti a termine di durata giornaliera o settimanale è allarmante. A risentire di questa situazione sono maggiormente i giovani fra i 15 e i 34 anni e le donne, soprattutto del Mezzogiorno. Poi gli stranieri, con ricadute non trascurabili sull'assetto sociale. Altra forma di instabilità lavorativa deriva dall'incremento notevole di part-time, oltre 4.000.000 di lavoratori in Italia hanno contratti part time e di questi il 57,9 per cento, quasi il 60 per cento, è involontario: l'incidenza più alta di tutta l'eurozona. E degli occupati part time, il 74 per cento è donna, una su tre del totale delle lavoratrici.

Non ultimo, è di tutta evidenza ed è stato messo in risalto in questo periodo, in cui si è verificato un numero ingente di incidenti sul lavoro, l'acuirsi dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, soprattutto quando si versa in condizioni di precarietà, con il tragico corollario di morti e infortuni, che ancora affliggono il nostro mercato del lavoro ed è una piaga assolutamente da debellare. È inammissibile che un padre di famiglia esca di casa per procurare il sostentamento ai propri cari e non ritorni, se non in una cassa da morto: uno ogni otto ore, quattro al giorno.

Altro aspetto che intendiamo perseguire è l'equità retributiva con il salario minimo, innanzitutto. Non si può continuare a praticare la moderazione salariale, che sta avendo esiti fallimentari. Siamo gli unici in Europa a perseguire questa via dal punto di vista economico per sanare l'inflazione. Questo non ha fatto altro che diminuire la retribuzione reale media che, al netto dell'inflazione, nel 2023 è scesa dello 0,7 per cento. Per i lavoratori italiani si è attestato a meno 2,6 per cento; peggio di noi hanno fatto solo l'Ungheria e la Repubblica Ceca. Non solo, ma dalla stessa analisi della Confederazione europea dei sindacati, emerge che invece i profitti delle imprese negli ultimi anni sono cresciuti in termini reali.

Non solo, la Banca centrale europea attesta, rispetto all'impennata inflazionistica che si è registrata in questi ultimi anni, che non si è innescata una pericolosa spirale salari-prezzi tale da giustificare la cosiddetta ricerca della moderazione salariale, semmai, al contrario, ad alimentare la corsa dei prezzi innescata dalla ripresa post-COVID e dalla guerra in Ucraina il fattore più incisivo è rappresentato dai profitti dell'Eurozona.

L'Italia è l'unico Paese fra i 27 Stati dell'Unione europea con un indice del costo del lavoro in recessione dello 0,1 per cento nell'ultimo trimestre del 2023, un valore che si scontra con il dato medio del 3,8 per cento nei Paesi UE e il 3,1 per cento nei Paesi dell'Eurozona. E, come già tristemente noto, l'Italia è l'unico Paese dell'area OCSE che, nel periodo dal 1990 al 2020, ha visto diminuire il salario medio annuale (- 2,9 per cento), mentre in Germania è cresciuto del 33,7 per cento e in Francia del 31,1 per cento.

Il costo della crisi economica lo stanno scontando tutto i lavoratori. Dalla lettura congiunta, da un lato, delle ore lavorate e, dall'altro, della quota salari sul PIL, desunta dalla banca dati macroeconomica della Commissione europea, emerge come in Italia, benché si lavori comparativamente di più, la quota di reddito destinata a remunerare il lavoro dipendente tramite i salari sia notevolmente più bassa persino della Spagna.

Qual è la soluzione? Noi insistiamo sul salario minimo. Siamo convinti che con il salario minimo si possa dare un minimo di dignità a milioni di lavoratori poveri. Insieme a Svezia, Finlandia, Danimarca e Austria, l'Italia è uno dei pochi Paesi dell'Unione europea ad essere sprovvisto di una normativa sul salario minimo. Com'è risaputo, avevamo depositato una proposta di legge, a prima firma Giuseppe Conte, per introdurre un salario minimo a 9 euro lordi l'ora e rafforzare la contrattazione collettiva. Nel dicembre 2023, invece, la maggioranza ha deciso di rinviare la palla in tribuna, rinviando al Governo, con una legge delega, l'eventuale proposizione del salario minimo, sine die, perché non sappiamo se e quando si decideranno a proporre qualcosa. Il problema è che questi lavoratori poveri continuano ad essere poveri e continuano a crescere nel numero e non serve sicuramente il carrello tricolore ad evitare l'impoverimento generalizzato dei lavoratori italiani, ai quali non è accordato neppure il salario minimo.

Il Governo aveva coinvolto anche il CNEL. Certamente, Brunetta, che ha dato un parere negativo sul salario minimo, non ha problemi ad arrivare a fine mese, atteso che, negli ultimi tempi, gli è stato addirittura riconosciuto un lauto stipendio - mi pare di 240.000 euro -, che si aggiunge alla già lauta pensione di cui gode.

Secondo l'Istat, il salario minimo a 9 euro l'ora, se adottato, comporterebbe un incremento della retribuzione annuale per 3,6 milioni di lavoratrici e lavoratori, che beneficerebbero di un aumento medio annuo di 804 euro. Quindi, non è assolutamente una cosa insostenibile, infattibile. Fra l'altro, nella proposta di legge a prima firma Conte, all'articolo 7, era stato inserito un meccanismo che prevedeva la possibilità di aiuto nella transizione al nuovo regime per quelle imprese che ne avessero avuto bisogno.

Oggi, 6.700.000 persone lavorano con il contratto scaduto, in molti casi, dunque, i loro salari sono totalmente insufficienti ad affrontare la quotidianità e, secondo l'Istat, il 63 per cento delle famiglie italiane stenta ad arrivare a fine mese.

Salto gli effetti disastrosi che la mancanza di un salario minimo avrà per i giovani che cominciano adesso a lavorare. Per esempio, gli under 35 andranno in pensione a 74 anni, con meno di 1.600 euro lordi, quindi pensate che disastro si creerà.

La garanzia di una retribuzione dignitosa e adeguata a tutti i lavoratori favorirebbe senz'altro la realizzazione di un mercato del lavoro più inclusivo, equo e paritario, abbattendo le disuguaglianze anche in termini di divario retributivo di genere.

Le diversità di trattamento economico hanno, poi, inciso anche sullo spopolamento italiano e sul trasferimento di un grandissimo numero di italiani, favorendo una spinta all'emigrazione all'estero. Negli ultimi 10 anni, l'Italia ha perso 1.300.000 persone, un fenomeno paragonabile a quanto accadeva negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando, però, chi emigrava aveva un basso livello di scolarizzazione; oggi, invece, si stima che un emigrante su tre sia laureato.

Fra l'altro, c'è una precisa direttiva europea che fa richiamo all'esigenza del salario minimo e una recente sentenza della sezione lavoro della Corte di cassazione, la n. 27713, ha statuito che nell'attuazione dell'articolo 36 della Costituzione, il giudice che venga chiamato a stabilire quale sia il salario minimo adeguato a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa non debba e non possa più fare riferimento ai contratti collettivi nazionali di lavoro quando questi siano scaduti da anni e non siano stati aggiornati. In questo caso, addirittura, secondo la Corte di cassazione, il giudice potrà fare riferimento ad indicatori statistici, anche secondo quanto suggerito dalla direttiva (UE) 2022/2041.

Un altro punto potrebbe essere quello della riduzione dell'orario di lavoro, a parità di salario, fino a 32 ore settimanali, così come previsto dalla proposta di legge a prima firma del presidente Conte, in via sperimentale, soprattutto nei settori ad alta tecnologia.

È evidente che tutti i punti in cui chiediamo al Governo di impegnarsi hanno un obiettivo: rendere il lavoro in Italia più dignitoso, fare in modo che gli italiani non debbano emigrare all'estero per avere un salario dignitoso e consentire una serenità di vita a tutti i cittadini italiani, perché anche se in Italia, nella nostra Costituzione non c'è il richiamo alla felicità, al diritto alla felicità, di cui alla Costituzione americana, i cittadini italiani hanno il diritto a stare bene e ad essere sereni con la propria famiglia.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Coppo. Ne ha facoltà.

MARCELLO COPPO (FDI). Grazie, Presidente. Ho ascoltato tutti gli interventi precedenti, mi ero preparato un discorso, ma ho pensato bene di cambiare registro, perché, se siamo in Parlamento, è bene anche dibattere su quello che si è detto e su quello che si dice man mano, e non saprei se iniziare con i dati o con la narrazione. Perché? Perché, bene o male, di narrazione ne ho sentita tanta: ho sentito parlare del fatto che i contratti collettivi nazionali non sarebbero valorizzati o il sistema di contrattazione collettiva non sarebbe valorizzato dal Governo e da questa maggioranza, nonché del fatto che gli appalti e i subappalti sono le prime cause per quanto riguarda i salari bassi o la poca sicurezza sul lavoro; ho sentito anche parlare del grande problema del caporalato.

Ci sono aspetti da valutare, però, se siamo in questa situazione, dobbiamo anche chiedere e dire grazie a quelli che ci hanno portato in questa situazione. Questo Governo sta operando bene su tutti i settori.

Da una parte, era chiaro, pacifico, lo dicevano persino le organizzazioni sindacali che il salario minimo, così come proposto, o comunque con una cifra già fissata, portava al grande rischio di un abbassamento ulteriore dei salari, perché ragioniamo del fatto che tutti i contratti collettivi nazionali di lavoro, nella stragrande maggioranza, portano a un salario superiore a quello che era stabilito. E anche lì, gli appalti e i subappalti: ci sono dei tipi di lavorazioni che non possono essere fatte come si facevano nel 1900 perché richiedono competenze specifiche.

Sul caporalato, sinceramente, dalla sinistra non mi farei dare lezioni, e su questo allungherei troppo il discorso. La causa che ha portato a un abbassamento dei salari in Italia è stata - e la prendo larga, ma non penso sia larga - un'assenza di politica industriale del nostro Paese, perché? Perché mancava una strategia del nostro Paese che potesse mettere in sicurezza il sistema produttivo - nel sistema produttivo ci sono tutti i fattori, e uno dei principali, ovviamente, è il lavoro - da eventuali scombussolamenti esterni.

La nostra visione non è una visione autarchica, per carità, ma è una visione che diventa una proposta per l'Europa, perché abbiamo parlato, nelle mozioni precedenti, addirittura del CBAM, cioè di quel sistema dove si andavano a identificare dazi per determinate materie prime che entravano in Italia e che venivano importate con un gap, diciamo così, di ecosostenibilità. Strano che questo ragionamento nessuno lo abbia fatto quando hanno aperto al world trade, al commercio internazionale, anche alla Cina, e quando lo hanno aperto relativamente a Paesi dove i salari erano decisamente bassi, perché lo stesso ragionamento era stato fatto, mi pare anche proposto, da un onorevole di Fratelli d'Italia, allora Ministro, che era l'onorevole Tremonti. Perché? Perché, se apro a una globalizzazione, la concorrenza, per forza di cose, non è pari; e, se la concorrenza non è pari, allora vuole dire che bisogna trovare degli equilibri. Lasciamo perdere il sistema che ho appena indicato, perché è stato già sviscerato prima, quindi le criticità sono già state evidenziate in maniera importante, però la criticità sui salari e sui diritti, quella, bene o male, nessuno l'aveva considerata, all'epoca. Proposta per il mondo, proposta per l'Europa. Noi abbiamo visto che sono successe principalmente tre situazioni che hanno portato a scombussolamenti anche nel mondo del lavoro.

Da una parte, le crisi internazionali, adesso ne abbiamo addirittura due, quindi sia l'Ucraina che Israele. Abbiamo anche il problema, ovviamente, del Canale di Suez, abbiamo il problema dell'innovazione tecnologica e della transizione energetica. Queste sono sfide che devono essere affrontate da tutto il sistema Paese, e il lavoro, bene o male, è uno degli elementi principali. Per arrivare a una soluzione e a una proposta che possano andare a incidere sul valore salariale dobbiamo uscire da questa narrazione che mi è parso di sentire, purtroppo è un po' diffusa, ossia che vi è una grande separazione tra capitale e lavoro, perché è proprio quella narrazione che ha portato alla distruzione o, comunque, al grande danno per il pilastro dell'economia italiana, che è il ceto medio. Questo perché, finché il ceto medio è forte, sono forti anche i salari, perché? Perché c'è movimento e perché il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, bene o male, è un rapporto familiare, è un rapporto umano, un rapporto di comunità. Questa parola, comunità, ricordiamocela molto bene. Le eccessive liberalizzazioni, che sono state spinte specialmente a livello europeo - da quell'Europa che adesso spinge per questa eccessiva, in termini cronologici, transizione energetica -, sono un po' lo stesso problema. È un po' come ritornare al discorso dell'entrata dei Paesi nella globalizzazione, che si faceva un tempo, mentre ora parliamo di transizione energetica. A chi porta vantaggio questa situazione? Porta vantaggio a chi produce - tra parentesi, con emissioni di anidride carbonica molto alte, e non solo quelle - i beni che noi dobbiamo comprare per farla. Quindi, evitare questa concorrenza sleale è sicuramente molto importante.

Per aumentare gli stipendi, a questo punto, come possiamo fare? Qual è la strada che dobbiamo scegliere? Da una parte, dobbiamo scegliere una via che riesca a combinare, se non addirittura a incentivare e creare collaborazione, la transizione - per carità, ecologica, energetica - e la tutela dell'economia reale del nostro Paese. Per fare questo dobbiamo avere persone che, quando lavorano, lavorano con un valore aggiunto più alto. Non possiamo fare certo la gara con i Paesi del Terzo mondo. Serve, quindi, formazione specifica in questo, ma formazione anche per quelli che non hanno un posto di lavoro, e su questo il Governo ha fatto molto, perché, togliendo la possibilità di prendere il reddito di cittadinanza a chi può lavorare e mettendogli un contributo per formarlo a lavorare, ha fatto molto, ha fatto veramente tanto. Questa formazione non deve essere vista come qualcosa di puramente accademico. Faccio sempre l'esempio del sopralluogo: quando voglio vedere un problema, vado sul posto a vederlo. Si può fare formazione a tavolino, per capire le basi, ma poi la formazione la fai sul campo, cioè la fai sul luogo di lavoro. Dall'altra parte, è necessario ridurre gli ostacoli tra la domanda e l'offerta di lavoro, perché, se riesco ad avere più possibilità di trovare un posto di lavoro o più possibilità di trovare un lavoratore che mi serve, sicuramente prima faccio, più produco e più sono contento perché più riesco a far lavorare qualcuno che mi rende e più sono disposto, ovviamente, a dargli uno stipendio adeguato, molto più adeguato, e magari anche superiore al contratto collettivo nazionale di lavoro.

È dunque necessario snellire le procedure di questo incontro tra domanda e offerta di lavoro e alleggerire il carico economico e burocratico sul lavoro, perché? Perché il lavoratore non è solo la RAL, cioè il reddito del lavoratore, ossia il reddito annuo lordo, perché al reddito annuo lordo dobbiamo aggiungere anche i contributi a carico della ditta e gli altri oneri, non so, il costo del consulente del lavoro, magari il costo del consulente legale, qualora vi siano problematiche, il costo del consulente per la sicurezza e quant'altro. La sicurezza serve, e non si tocca, ma ricordiamoci che, se ho un cavallo, dietro il cavallo ho un carretto e devo portare del materiale da A a B, se sul carretto aggiungo altre cose oltre quelle che servono, probabilmente anche il cavallo tirerà con più fatica, e quindi, bene o male, potrà produrre di meno, e io, purtroppo, sarò costretto a dargli di meno. Se così è, chi si è formato, chi ci mette anche del suo, e quindi il merito anche nel mondo del lavoro - so che sto dicendo una bestemmia, secondo un ragionamento e una narrazione che più volte sento - deve essere valorizzato, e quindi riuscire anche a far sì che le imprese possano, in qualche modo, essere incentivate a dare qualcosa di più è fondamentale, e, anche a tal riguardo, c'è la contrattazione di secondo livello.

Vediamo se effettivamente questi obiettivi, che sono stati portati avanti dal Governo, hanno portato dei risultati, perché io posso raccontarvi la mia narrazione ma se poi non vi do dei dati, sembra anche brutto, giusto? Allora ragioniamo di quello che è. Qui, hanno parlato di caporalato, di tempo determinato che aumenta, di precariato che assolutamente è una cosa che non va. Tutto vero ma secondo i dati di ottobre 2023 noi abbiamo 500.000 posti di lavoro in più, rispetto a ottobre 2022, di cui 371.000 a tempo indeterminato; in più, lo ripeto. Solo 136.000 riguardano le altre tipologie.

Quindi, se parliamo di lotta al caporalato, al precariato e al resto, penso che questo Governo stia facendo il suo lavoro e che la strada intrapresa sia un'ottima strada. Voi dite: come mai? Si è parlato di donne, si è parlato di giovani. Ebbene, sono proprio le categorie più incentivate nelle assunzioni. Non ve le sto a elencare tutte per il semplice fatto che staremmo qui troppo tempo e sicuramente prima sentiremmo il suono del campanello del Presidente, però sono quelle categorie che sono state più aiutate e che negli incentivi all'occupazione hanno portato più soddisfazioni.

A proposito dei dati, se noi ragioniamo del primo trimestre 2024, di questi 351.000, rispetto al 2023, il tasso di occupazione è aumentato dello 0,8 per cento. Ma andiamo a vedere: sono calate, appunto, del 3,2 per cento, a 63.000, le persone in cerca di lavoro e sono calati dell'1,9 per cento, a 239.000, gli inattivi compresi tra i 15 e i 65 anni. Nel novembre 2023, c'erano 23.743.000 occupati e, di questi, 10.049.000 erano donne occupate, quindi, 258.000 in più rispetto a prima. Ragioniamo, appunto, del 52 per cento delle donne tra i 20 e i 24 anni. Allora, io penso che la narrazione che abbiamo sentito sia molto interessante, molto fantasiosa, degna del fantasy e bene o male come tale la prendiamo, perché noi siamo aperti ad ogni contributo culturale, ma se stiamo a vedere i dati e stiamo a guardare l'economia noi possiamo tranquillamente non essere d'accordo. Perché? Perché noi crediamo nel lavoro, nella creatività e nella capacità degli italiani. Solo lasciandoli liberi di creare - perché lavorare è questo, è creare - sarà possibile ritornare a livelli retributivi adeguati, ricostituendo anche un ceto medio (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Francesco Mari. Ne ha facoltà.

FRANCESCO MARI (AVS). Grazie, Presidente. Sono fortunato rispetto ai colleghi di opposizione che mi hanno preceduto, perché ho la possibilità di intervenire dopo il collega Coppo e, quindi, di interloquire con lui, sempre per suo tramite. La questione è, innanzitutto, che ci sono due punti di vista che sono drammaticamente e radicalmente opposti. Vediamo cosa dice il Governo. Un po' di settimane fa cresceva l'occupazione. Purtroppo, quando è cresciuta l'occupazione, sono diminuite le ore lavorate e la massa salariale. Quindi, l'occupazione non si calcola così, non si misura a unità, l'occupazione si misura calcolando quante ore si lavorano nel Paese e quanta retribuzione viene erogata verso le lavoratrici e i lavoratori. Poi, ci hanno detto che cresceva il potere d'acquisto delle famiglie e, dopo qualche giorno, si è capito che in realtà non era così, era un discutibilissimo “zero virgola” che poi è stato smentito da altri dati.

Nelle ultime ore, soprattutto tra ieri e l'altro ieri, c'è l'economia che va bene e questo per ribaltare evidentemente i dati di Bankitalia che ci dicono che il PIL di quest'anno sarà la metà di quello della previsione, cioè circa lo 0,6 a fronte di una previsione dell'1,2.

Quindi, si rivela particolarmente utile in questa situazione e in questo quadro la mozione delle opposizioni, che è una sorta di controcanto non per aggredire la sintomatologia, che è quella della precarietà, perché noi parliamo prevalentemente di precarietà, ma, a nostro avviso, per curare la malattia. Le cose che dice il Governo in questi giorni, secondo noi, sono libera narrazione - ovviamente ci sta la propaganda - ma somigliano anche un po' a delle barzellette. Allora, visto che siamo alle barzellette, ne racconto una io: ci sono un tedesco, un francese e un italiano; il tedesco lavora 1.295 ore l'anno, il francese lavora 1.427 ore l'anno e l'italiano lavora 1.563 ore l'anno, però il tedesco guadagna 45.500 euro lordi, il francese guadagna 41.700 euro lordi e l'italiano guadagna 31.500 euro lordi. Lavoriamo più di tutti, abbiamo i peggiori redditi, abbiamo il maggior tasso di povertà e abbiamo il Paese più precario d'Europa.

Ora, al di là delle responsabilità - e non me la sento, io per primo, di attribuirle tutte a un Governo che è qui a esercitare questo ruolo da un anno e mezzo -, la situazione è molto più drammatica di quella che viene descritta. Noi abbiamo 11 milioni di lavoratori che vivono nella precarietà, 10 milioni nel privato e circa un milione nel pubblico. Una situazione difficilissima che dura in questo Paese da oltre 20 anni. Più o meno, fino ai primi anni del 2000 noi siamo cresciuti quasi come gli altri, non come gli altri. Però, dal 2003, in Francia, in Gran Bretagna e in Germania c'è stata una crescita del 30 per cento, in Portogallo del 25, in Spagna del 15, in Grecia del 13 per cento. Non stiamo al passo. Abbiamo un problema gigantesco di produttività e questo problema gigantesco non può essere affrontato con le misure e con le ricette che pone in campo questo Governo, tanto meno con il decreto sul lavoro, chiamato “Primo maggio”, di un anno fa. Questo è il punto.

Poi, possiamo fare la discussione che vogliamo sui dettagli, ma noi siamo di fronte a una situazione che non può essere affrontata con le misure scelte dal Governo, che sostanzialmente vanno ancora nella stessa direzione perseguita fino a oggi: la precarietà aumenta e le imprese si aiutano a rimanere piccole - guai se crescono - e vengono aiutate anche nella difficoltà, ma anche le imprese che non producono ricchezza. Quindi, questa dimensione del nostro sistema produttivo ci condanna a non essere in grado di affrontare le sfide del futuro. Serve una ricetta molto drastica, una ricetta che introduca rigidità, purtroppo, nel mercato del lavoro e nel sistema imprenditoriale di questo Paese. Noi di tutto abbiamo bisogno adesso fuorché di conservatori liberisti. Se le politiche in materia di lavoro e di sviluppo di questo Governo si attestano sul terreno della conservazione e del liberismo, sostanzialmente come è avvenuto fino ad oggi, noi non faremo passi in avanti.

PRESIDENTE. Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

Il Governo intende intervenire o si riserva di farlo successivamente?

CLAUDIO BARBARO, Sottosegretario di Stato per l'Ambiente e la sicurezza energetica. Il Governo si riserva di intervenire successivamente.

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Ordine del giorno della prossima seduta.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della prossima seduta.

Martedì 9 aprile 2024 - Ore 11:

1. Svolgimento di interrogazioni .

(ore 14)

2. Seguito della discussione del disegno di legge:

Disposizioni in materia di politiche sociali e di enti del Terzo settore (Già articoli 10, 11 e 13 del disegno di legge n. 1532 - Stralcio disposto dal Presidente della Camera, ai sensi dell'articolo 123-bis, comma 1, del Regolamento, e comunicato all'Assemblea il 28 novembre 2023). (C. 1532-ter-A​)

Relatore: CIOCCHETTI.

3. Seguito della discussione della proposta di legge:

DAVIDE BERGAMINI ed altri: Modifiche al decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 198, in materia di considerazione dei costi di produzione per la fissazione dei prezzi nei contratti di cessione dei prodotti agroalimentari, e delega al Governo per la disciplina delle filiere di qualità nel sistema di produzione, importazione e distribuzione dei prodotti agroalimentari.

(C. 851-A​)

Relatrice: MARINO.

4. Seguito della discussione della proposta di legge:

MOLINARI ed altri: Disposizioni in materia di partecipazione popolare alla titolarità di azioni e quote delle società sportive. (C. 836-A​)

Relatore: SASSO.

5. Seguito della discussione delle mozioni Casasco, Caramanna, Andreuzza, Cavo ed altri n. 1-00253 e Sergio Costa ed altri n. 1-00266 in materia di revisione dei meccanismi di tassazione delle emissioni di carbonio (CBAM) per le importazioni a tutela della competitività delle aziende europee .

6. Seguito della discussione della mozione Scotto, Barzotti, Mari ed altri n. 1-00265 in materia di politiche del lavoro, con particolare riguardo alle iniziative volte alla lotta al precariato .

7. Discussione della Relazione della Giunta per le autorizzazioni sulla domanda di autorizzazione al sequestro di corrispondenza concernente i deputati Bonifazi e Boschi nonché Luca Lotti (deputato all'epoca dei fatti). (Doc. IV, n. 2-A)

Relatore: ENRICO COSTA.

La seduta termina alle 17.