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Resoconto dell'Assemblea

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XIX LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 15 di martedì 29 novembre 2022

PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE ANNA ASCANI

La seduta comincia alle 10.

PRESIDENTE. La seduta è aperta.

Invito il deputato segretario a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

ROBERTO GIACHETTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 25 novembre 2022.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati in missione a decorrere dalla seduta odierna sono complessivamente 50, come risulta dall'elenco consultabile presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta odierna (Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna).

Annunzio della convocazione del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.

PRESIDENTE. Comunico che, d'intesa con il Presidente del Senato, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica è convocato per mercoledì 30 novembre 2022, alle ore 14, presso la sede di Palazzo San Macuto, per procedere alla propria costituzione.

Sull'ordine dei lavori.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Borrelli. Ne ha facoltà, per un minuto.

FRANCESCO EMILIO BORRELLI (AVS). Grazie, Presidente. Poc'anzi mi hanno informato che domani ci sarà, alla presenza del Presidente Fontana, la commemorazione delle vittime di Casamicciola, e ci sarà la possibilità di cominciare ad affrontare questo dramma, che è un dramma ischitano, campano e nazionale. Ma quello che volevamo chiedere noi di Alleanza Verdi e Sinistra è che il Governo venga a riferire in Aula. È un momento di unità, noi riteniamo che in questa fase le polemiche ci possano essere, ma è necessario fare qualcosa di molto importante per il nostro Paese, e cioè prevedere aiuti concreti alle popolazioni, alle vittime - ci sono stati tanti ragazzi, addirittura bambini e neonati -, però, e concludo, occorre immaginare nel PNRR un grande intervento di messa in sicurezza del nostro Paese. Ne abbiamo bisogno, è necessario ed è utile a tutti.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Ilaria Fontana. Ne ha facoltà.

ILARIA FONTANA (M5S). Grazie, Presidente. Anche noi abbiamo preso la parola per chiedere un'informativa al Governo sulla tragedia avvenuta ad Ischia. A nome del MoVimento 5 Stelle, esprimo cordoglio per le vittime e vicinanza alle famiglie. Mi permetta, Presidente, anche di ringraziare i soccorritori, la rete di volontari e di volontarie che in queste ore, fin da subito, si sono messi a disposizione per cercare, tutti insieme, di non perdere tempo e di rendersi utili. Anche noi, lo ripeto, chiediamo un'informativa perché non è una tragedia dell'isola di Ischia, ma è una tragedia che colpisce un po' tutti, l'intero Paese (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Fornaro. Ne ha facoltà.

FEDERICO FORNARO (PD-IDP). Grazie, Presidente. Credo che non ci si possa che associare alle parole che sono state testé dette dai colleghi. È una tragedia che colpisce tutta l'Italia, non soltanto gli abitanti di Ischia. Credo che questi siano momenti anche di unità nazionale, dobbiamo compiere ogni sforzo per portare aiuto alle popolazioni e per vedere se ci sono ancora persone in grado di essere salvate. Detto questo, ci associamo anche noi alla necessità che ci sia in quest'Aula un'informativa del Governo. È un tema che non può essere lasciato soltanto alle pagine dei giornali, occorre una riflessione critica e autocritica su queste vicende e, oggi più che mai, credo che quest'Aula sia il luogo adatto per fare questo.

PRESIDENTE. Naturalmente esprimo da qui la vicinanza della Presidenza alle vittime e il grazie ai soccorritori, che è il grazie di tutto il Parlamento italiano. Attraverso il Presidente ci faremo tramite della richiesta di informativa al Governo.

Discussione delle mozioni Conte ed altri n. 1-00010, Zanella ed altri n. 1-00020 e Richetti ed altri n. 1-00022 concernenti iniziative in relazione al conflitto tra Russia e Ucraina.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Conte ed altri n. 1-00010, Zanella ed altri n. 1-00020 e Richetti ed altri n. 1-00022 concernenti iniziative in relazione al conflitto tra Russia e Ucraina (Vedi l'allegato A).

La ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicata nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta del 23 novembre 2022 (Vedi l'allegato A della seduta del 23 novembre 2022).

Avverto che è stata presentata la mozione Serracchiani ed altri n. 1-00025, che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verrà svolta congiuntamente (Vedi l'allegato A). Il relativo testo è in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

È iscritto a parlare il deputato Lomuti, che illustrerà anche la mozione n. 1-00010, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

ARNALDO LOMUTI (M5S). Presidente, onorevoli colleghi, la guerra è una follia, come il Papa non si stanca di ripetere. Questa folle guerra, che è stata scatenata dalla ingiustificabile e illegale invasione ordinata da Putin, sta facendo strage nella popolazione ucraina. Secondo i dati delle Nazioni Unite sono oggi 6.600 le vittime civili; di queste, purtroppo, oltre 400 sono bambini. A questi dati si aggiungono altri numeri: 15 milioni di sfollati, 15 mila dispersi. E aggiungiamo ancora un ulteriore numero: 100 mila le vittime tra le fila dell'esercito ucraino e altrettante in quello russo. Qui c'è la tragedia della guerra, che è universale, è un crimine contro l'umanità, perché noi abbiamo giovani che uccidono altri giovani che fino all'anno scorso condividevano fra di loro arte, cultura, moda, musica, una lingua quasi uguale; oggi una parte manda al fronte dei giovani contro la loro volontà, che si ribellano, come testimonia la massiccia renitenza alla leva e i numerosi casi di diserzione dal fronte. Ciò rende questa situazione, questo conflitto russo-ucraino, una guerra che è una tragedia contro l'umanità; una follia fatta di violenza che aumenta giorno per giorno, che è fatta di stupri, di torture, di massacri; una tragedia che crea un solco che la storia faticherà a colmare. Una follia che, se non verrà fermata al più presto, ogni giorno di più rischia, per volontà o anche per un incidente, se vogliamo dire per volontà di incidente, di trascinare l'Europa e il mondo intero verso un conflitto globale nucleare. E allora il nostro problema, Presidente, non sarà più il caro bollette; il nostro problema sarà ben diverso, sarà la nostra esistenza, sarà la sopravvivenza del genere umano. Noi stiamo vivendo in questi giorni uno di quei momenti storici che abbiamo letto nei libri di scuola, dove popoli interi viaggiavano spediti verso la tragedia bellica, senza rendersene conto, come tanti topolini ipnotizzati da un pifferaio, ostaggi della retorica bellicista, che si trasformava poi in pensiero unico e che condannava come disfattisti e traditori coloro che osavano anteporre alle ragioni della guerra quelle della pace. Allo stesso modo, oggi viene insultato o deriso, a reti unificate, chiunque osi parlare fuori dal coro, chiedendo di fermare questa escalation militare prima che sia troppo tardi e di iniziare a lavorare per costruire la pace, che è un lavoro molto difficile, molto più difficile che inviare le armi, che noi abbiamo inviato insieme agli aiuti umanitari e agli aiuti economici, in ossequio all'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite perché c'era un una disparità di peso militare sul campo, in favore dell'aggressore e ai danni dell'aggredito, che avrebbe capitolato in pochi giorni, se non fossimo intervenuti in tal senso.

Ma oggi la situazione è cambiata; oggi c'è una situazione paritaria, almeno sul piano militare e quindi oggi è il momento di lanciare un'azione sul piano diplomatico, non di cedere a pericolose tentazioni di vendetta o di revanscismo punitivo. Oggi occorre, piuttosto, che tutti insieme lavoriamo per il peacebuilding - ossia per costruire la pace, che non va costruita assolutamente con azioni belliciste -, che dovrebbe portare a due obiettivi: il primo è un immediato cessate il fuoco ed è funzionale al secondo obiettivo, volto a dar luogo ad una conferenza internazionale di pace, magari proprio qui, a Roma - la città del Papa, la città della pace, la città dove 65 anni fa sono stati firmati quei Trattati che hanno dato poi vita alla Comunità europea -, con lo stesso spirito di 47 anni fa a Helsinki, con lo spirito di cooperazione e di sicurezza che, in piena Guerra Fredda, ha dato luogo all'avvio della distensione dei rapporti fra Est e Ovest. Per questo, oggi, noi del MoVimento 5 Stelle, dopo 9 mesi di guerra, chiediamo a tutti voi, onorevoli colleghi, ma soprattutto al nuovo Governo che si è formato, di fermarsi un attimo a riflettere, per capire qual è la cosa giusta da fare per il bene dei popoli, per il bene del popolo ucraino, per il bene del popolo russo, per il bene del popolo europeo e per il bene del popolo mondiale. Noi vogliamo che l'Italia sia da pungolo, che svegli l'Europa da questo sonno della ragione, da questo torpore, da questa trance bellicista, da questo sonno determinato dal ritmo dei tamburi di guerra della NATO. La NATO fa la NATO, perché deve fare la NATO, poiché è un'alleanza militare; l'Europa invece, che è un'alleanza e una comunità politica, dovrebbe aspirare a ben altro, dovrebbe abbandonare la strada dell'escalation militare e cogliere questa occasione, che è chiaramente tragica - bisogna dirlo -, per diventare finalmente un soggetto geopolitico autonomo e indipendente, che persegua gli interessi continentali, che persegua la pace nell'area euroasiatica e che agganci la Russia alla propria convivenza pacifica, alla propria sfera storico-culturale e valoriale, che è quella europea, scongiurando che questo, invece, accada in favore di una trazione cinese.

Noi da tempo diciamo che questo Paese ha bisogno di un nuovo umanesimo; al giorno d'oggi, direi che servirebbe addirittura un nuovo illuminismo per questo Paese e per tutta l'Europa perché, quando diciamo queste cose, ci viene sempre rilevato che noi vogliamo far arrendere l'Ucraina e non vogliamo fermare Putin, ma - attenzione, signori - qui il punto non è fermare Putin, perché tutti lo vogliamo; il punto è come fermarlo perché, se fermarlo vuol dire prendere la strada dell'escalation militare, signori, qui entriamo in un binario morto, che ci pone nel pericolo di una guerra nucleare. Se andiamo avanti così, poniamo non soltanto in pericolo il popolo ucraino, ma il mondo intero, quindi dobbiamo fermare la folle corsa di questo treno verso la guerra nucleare. E come? Dobbiamo obbligare chi è in conflitto a sedersi a un tavolo attraverso gli strumenti della diplomazia, partendo da posizioni inconciliabili e trovando un compromesso. È già successo in passato, in situazioni molto meno pericolose, di ben più scarso impatto globale.

Questi sono i punti che mi appresto a elencare della nostra mozione. In primo luogo, Presidente, nel rispetto della democrazia, della natura democratico-parlamentare della nostra Repubblica – che, per nostra fortuna, non è ancora una Repubblica presidenziale, come qualcuno vorrebbe - torniamo a chiedere anche a questo Governo, che non è un Governo di tecnici - attenzione: oggi siamo di fronte a un Governo super politico - di coinvolgere il Parlamento nella definizione della posizione dell'Italia sulla guerra, compreso l'ulteriore eventuale invio di armamenti, attraverso comunicazioni alle Aule - come vuole la Costituzione -, che consentano la formulazione di un chiaro indirizzo politico parlamentare. Presidente, è una questione di democrazia e su questo punto apro e chiudo una parentesi: svegliarsi con la notizia che il Governo intende prorogare l'invio delle armi per tutto il 2023, attraverso un emendamento su un altro decreto, che nulla c'entra con questa materia, fa capire bene che questo Governo mette in campo un comportamento che è tipico di chi non ha il coraggio di assumersi la responsabilità delle proprie azioni. È un Governo che non ha il coraggio di affrontare un pericolo, come se il Parlamento fosse un pericolo. Poi, vedere questo Governo di centrodestra che scappa dal Parlamento, fa pensare al periodo che abbiamo vissuto, che abbiamo lasciato da pochi mesi, della campagna elettorale, nel corso della quale il centrodestra mostrava un linguaggio e una retorica roboante di super uomini, di super donne, di gambe d'acciaio e cuori impavidi (ci siamo spaventati anche noi durante la campagna elettorale di questo linguaggio). Poi, che cosa succede? Che il Governo scappa dal Parlamento.

Noi quell'emendamento lo contrasteremo con tutte le nostre forze, ben consci del fatto che saremo gli unici dell'opposizione a farlo, dato che in questa opposizione siedono anche partiti ormai chiaramente guerrafondai e reazionari; saremo gli unici a farlo. Di una cosa però, che non avevamo previsto, siamo rimasti molto delusi: confidavamo almeno nel fatto che questo Governo di centrodestra - con tutte le contraddizioni e i contrasti nella linea programmatica emersi durante la campagna elettorale - fosse almeno un Governo di discontinuità; bene, questo emendamento dichiara, in maniera cristallina, che il Governo Meloni non è altro che la continuità del Governo Draghi. Ci chiediamo, a questo punto, che cosa ci faceva Fratelli d'Italia tra i banchi dell'opposizione, considerato che l'opposizione l'abbiamo fatta noi, dalla maggioranza (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

Presidente, onorevoli colleghi, mi avvio alla conclusione di questo intervento. La guerra molte volte è scatenata dai leader ed è figlia di bugie, però sono i popoli a imporre la pace. Per questo, il MoVimento 5 Stelle, dopo essere sceso in piazza, insieme a centinaia di migliaia di cittadini, il 5 novembre, porta oggi in quest'Aula la voce di quella piazza, che è: “Pace, pace, pace” (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Devis Dori, che illustrerà anche la mozione Zanella ed altri n. 1-00020, di cui è cofirmatario.

DEVIS DORI (AVS). Grazie, Presidente. L'Alleanza Verdi e Sinistra ribadisce, anzitutto, la ferma condanna della criminale aggressione della Russia di Putin nei confronti dell'Ucraina, che pone la Russia in palese violazione del diritto internazionale, provocando uno scenario di insicurezza globale. Come in ogni guerra, è soprattutto la popolazione civile che subisce le peggiori conseguenze del conflitto. Esprimiamo, pertanto, piena solidarietà alla popolazione colpita dalla guerra, ai profughi e ai rifugiati, costretti ad abbandonare le proprie case e le proprie attività, alle vittime dei bombardamenti, delle violenze e delle torture.

Al di là delle altalenanti evoluzioni di questo conflitto, ormai si prefigura una condizione di guerra di posizione e di logoramento, destinata a protrarsi nel lungo periodo, prolungando e aumentando così il carico di morte, distruzione e sofferenza. Bisogna, quindi, considerare che, in questo contesto, non è immaginabile una soluzione militare al conflitto. La soluzione non può essere nelle armi.

Oggi, a distanza di mesi dall'inizio del conflitto, su un aspetto possiamo essere certi: non si sta lavorando a un chiaro percorso negoziale; non si sta lavorando nella direzione della politica, che sta rinunciando a creare le condizioni concrete e realistiche per rendere possibile un negoziato. L'inconsistenza del ruolo diplomatico dell'Italia e dell'Unione europea è evidente. È, quindi, urgente un cambio di strategia e di prospettiva, finalizzato a rendere prioritaria la via negoziale per la ricerca della pace e la fine del conflitto. Si tratta di un percorso complesso - ne siamo ben consapevoli - ma è l'unica strada possibile per interrompere un'ulteriore escalation e allargamenti del conflitto. È necessario mettere immediatamente in campo una forte iniziativa diplomatica multilaterale che includa la convocazione di una conferenza di pace, con un rinnovato protagonismo delle Nazioni Unite per il cessate il fuoco e per la definizione di un quadro di sicurezza regionale e internazionale condiviso e costruito su un sistema di garanzie multilaterali.

Qualche mese fa abbiamo approvato in quest'Aula una mozione a mia prima firma che impegnava il Governo a dare sistematicità alle attività dei Corpi civili di pace, riconoscendone pienamente il valore di prevenzione e di trasformazione dei conflitti nella difesa non armata e non violenta, alternativa all'uso della forza. Di fronte all'atrocità della guerra in Ucraina, l'idea di rilanciare i Corpi civili di pace acquisisce una straordinaria urgenza, perseguendo l'obiettivo di rafforzare e di lavorare su soluzioni alternative all'uso della forza per la risoluzione dei conflitti. Troviamo, quindi, inaccettabile il continuo e scellerato aumento delle spese militari in Italia, in Europa e nel mondo, aumento iniziato ben prima del conflitto in Ucraina. È, invece, necessario lavorare per strutturare percorsi di disarmo, in particolare il disarmo nucleare. A giugno l'Interpol ha lanciato un allarme, affermando che almeno una parte del materiale bellico inviato all'Ucraina finirà nel mercato nero, gestito dalla criminalità organizzata, e alimenterà un florido commercio di armi, sia leggere che pesanti in tutto il mondo. Ma noi in quest'Aula avevamo già sollevato questo tema a marzo: con un ordine del giorno, respinto dal Governo Draghi, avevamo chiesto al Governo di operare un rigoroso controllo per evitare che l'ingresso di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in Ucraina avvenisse ad opera di intermediari fuori dal controllo delle autorità governative del Paese. Perché respingere un ordine del giorno di buonsenso? Perché i Governi trovano più comodo riempire il vuoto della diplomazia con il peso distruttivo delle armi: è più facile riempire l'Europa di armi che riempirla di costruttori di pace. Si inviano armi senza nemmeno preoccuparsi di come e dove andranno quelle armi, perché occhio non vede e cuore non duole. Ma il cuore, colleghi, duole, eccome se duole! Ma mentre il cuore duole, il portafoglio dell'industria bellica si gonfia e senza troppa fatica, considerato che la maggioranza, con un emendamento in Senato, intende prorogare fino al 31 dicembre 2023 la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari. Il messaggio che mandano la maggioranza e il Governo è chiaro: non importa come andrà il conflitto; meglio buttarsi nel mucchio in anticipo. State scommettendo su una lunga guerra e a quel punto, per vincere la vostra scommessa, troverete sconveniente puntare sulla diplomazia. I soldi mettiamoli in campo per un grande sforzo di solidarietà, per la concessione della protezione temporanea per chi fugge dalla guerra in Ucraina. È, però, incomprensibile e ingiusta la scelta di riconoscere la protezione temporanea ai soli cittadini ucraini e ai loro familiari, escludendo migliaia di persone straniere presenti in Ucraina, costrette anch'esse a fuggire dalla medesima guerra. Concludo con le parole che il Presidente Mattarella ha pronunciato all'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa il 27 aprile scorso: “La pace è frutto del paziente e inarrestabile fluire dello spirito e della pratica di collaborazione tra i popoli, della capacità di passare dallo scontro e dalla corsa agli armamenti al dialogo”. Questo è quello che anche noi con la nostra mozione, come Alleanza Verdi e Sinistra, vogliamo realizzare: un progressivo disarmo globale che lasci spazio a efficaci pratiche di dialogo tra i popoli (Applausi dei deputati del gruppo Alleanza Verdi e Sinistra).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Giulia Pastorella, che illustrerà anche la mozione n. 1-00022, di cui è cofirmataria.

GIULIA PASTORELLA (A-IV-RE). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, nel corso di questa mattinata abbiamo sentito più volte dire che la guerra in Ucraina è una follia, che deve finire subito, che la situazione non è più sostenibile, che addirittura adesso è arrivata a colpire direttamente i cittadini europei in Polonia, quindi proprio alle porte di casa. Abbiamo sentito dire che questa guerra di logoramento non sta portando da nessuna parte, nonostante nelle scorse settimane l'esercito ucraino abbia costretto a una disastrosa ritirata le truppe di Mosca, ritirata che magari persino qualcuno qui dentro definirebbe prontamente un ripiegamento tattico, fedeli alla propaganda del regime e dei suoi emissari. È vero: questa guerra sta costando moltissime vite umane, soprattutto vite di civili inermi, donne e bambini, che vengono bersagliati dai missili russi, dai missili del generale macellaio che Mosca ha messo in campo per fiaccare la resistenza Ucraina. Dunque, è quasi un'ovvietà - io direi - affermare che la pace sia l'opzione più auspicabile in questa circostanza. Ma la domanda che vi faccio è: chi siamo noi per dire, a un popolo che vuole combattere, che è ora di mollare le armi e sedersi a un tavolo, un tavolo dove, tra l'altro, probabilmente non troverebbe nessuno o forse al massimo troverebbe qualche bicchiere avvelenato? Chi siamo noi, soprattutto, per chiedere un cessate il fuoco a chi è stato aggredito, invece di chiederlo forse a chi è l'aggressore? Oggi in quest'Aula sembra che fingiamo di non sapere che questi tavoli negoziali sono stati fatti, che esistono da ben prima del gennaio 2022 e da ben prima di quell'epoca il mondo cerca di dialogare con Putin per dissuaderlo dall'iniziare questo conflitto. Fingiamo anche di non ricordarci e di non sapere che questa guerra è iniziata prima del 2022: è iniziata nel 2004, con l'invasione della Crimea, ed è dal 2004 che si cerca di negoziare e di tenere a bada la Russia. Ancora oggi sembra che fingiamo di non sapere che tutti questi sforzi sono stati inutili e che, nonostante la comunità internazionale abbia tenuto entrambi gli occhi chiusi sul comportamento di Putin e della Russia nell'ultimo decennio, questo non è servito a scongiurare il tentativo di soverchiare un Governo democraticamente eletto come quello ucraino.

La verità, gentili colleghi, è che l'unica negoziazione che Putin è disposto a prendere in considerazione è quella che garantisce a lui e al suo Paese tutto ciò che vuole, che lo metta al sicuro da tutto ciò che teme, che si tratti dell'esistenza di un'opposizione interna nel suo Paese oppure la volontà di uno Stato, che lui ritiene vassallo, di autodeterminarsi e - perché no? - di scegliere un futuro europeo. Come biasimarli, d'altronde; forse qui dentro alcuni di voi non lo sanno oppure fingono di non ricordare qual è stato il rapporto tra il dominatore russo e la popolazione ucraina. Avete mai sentito parlare, per esempio, dell'Holodomor? Novant'anni fa l'Ucraina ha vissuto uno dei periodi più bui e tragici della sua storia: una carestia artificialmente creata dal regime sovietico che ha ucciso milioni di ucraini e che ha devastato il Paese. Per fortuna, sabato scorso qualcuno a Bologna se ne è ricordato, e per questo dobbiamo ringraziare i tanti cittadini italiani e le tante associazioni che ci chiedono di andare avanti. Non è vero che gli italiani sono stufi di questa guerra e pertanto, come gruppo di Azione-Italia Viva e forse a nome anche di questi italiani che non sono stufi, chiediamo al Governo di impegnarsi a fare le seguenti cose: a proseguire senza riserve l'attività di sostegno economico e militare a Kiev e al popolo ucraino, in continuità con le azioni intraprese dai provvedimenti dell'Esecutivo guidato da Mario Draghi, anche - e qui lo voglio sottolineare - mediante l'invio di nuovi equipaggiamenti bellici, tenendo, ovviamente, opportunamente informato il Parlamento delle decisioni che si intendono assumere; ad adottare iniziative di competenza per esigere dalle autorità russe l'immediata cessazione delle operazioni belliche e il ritiro di tutte le forze militari che sono entrate illegittimamente in Ucraina dopo il 24 febbraio 2022 (questo è un modo di chiedere il cessate il fuoco, ma - ripeto - alla parte giusta); terzo, a stimolare e a sostenere tutte le iniziative diplomatiche pubbliche, riservate, bilaterali, multilaterali e tutti i canali possibili che abbiano come obiettivo l'ottenimento di quanto previsto dall'impegno n. 2 del presente atto di indirizzo e incontrino, comunque, il consenso del Governo ucraino, perché ricordiamoci che una pace deve essere fatta non solo ai termini dell'aggressore ma soprattutto ai termini dell'aggredito; quarto - e qui mi trovo d'accordo con chi mi ha preceduto -, a rafforzare i programmi umanitari per la popolazione ucraina e a semplificare le procedure di utilizzo dei fondi erogati.

Inoltre, quinto punto, chiediamo al Governo di attivarsi, in ogni opportuno consesso europeo, per un netto rafforzamento della politica estera e di sicurezza comune, anche con riguardo alle riforme procedurali necessarie per promuovere l'abolizione del criterio dell'unanimità nel processo decisionale del Consiglio europeo e, quindi, per la creazione di un esercito comune europeo.

Voglio concludere, Presidente - perché entrambi i miei colleghi hanno citato Mattarella, sembra che Mattarella venga citato a scelta, prendendo i pezzettini che convengono per provare il proprio punto -, citando anch'io il nostro Presidente, perché il Presidente della Repubblica, nel suo intervento al Quirinale, alla cerimonia di consegna delle decorazioni dell'Ordine militare d'Italia, ha dichiarato qualcosa di un po' diverso e, credo, di più rilevante di quello che è stato citato. Ha dichiarato che la guerra scatenata dalla Federazione Russa contro l'Ucraina sta riportando indietro di un secolo l'orologio della storia. Questo è vero, ma ha anche dichiarato che non possiamo arrenderci a questa deriva e che, pertanto, occorre proseguire nel sostegno senza riserve a favore di Kiev e questo noi chiediamo (Applausi dei deputati del gruppo Azione-Italia Viva-Renew Europe).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Stefano Graziano, che illustrerà anche la mozione Serracchiani ed altri n. 1-00025, di cui è cofirmatario.

STEFANO GRAZIANO (PD-IDP). Buongiorno, Presidente, onorevoli colleghi. Innanzitutto, prima di illustrare la mozione, per noi è fondamentale chiedere al Governo di ritirare l'emendamento al Senato sulla proroga del decreto-legge n. 14 del 2022, un emendamento fatto al decreto Calabria che poco c'entra o nulla, sostanzialmente, con il decreto-legge n. 14 del 2022. Ciò per due questioni, una di merito e una di metodo: la questione di merito è che siamo a sostegno da sempre dell'Ucraina e continuiamo ad esserlo in tutte le forme rispetto all'attuale scenario bellico; sulla questione di metodo, penso che, attraverso un emendamento a un decreto che nulla c'entra, non si possa e non si debba parlare della vicenda ucraina.

Già a giugno avevamo presentato una risoluzione dove si chiedeva di coinvolgere il Parlamento; penso che questo sia un tema troppo importante, perché si possa legiferare attraverso un decreto.

Chiediamo al Governo di ritirarlo. Ovviamente, nel merito abbiamo chiarito il nostro sostegno all'Ucraina e lo diciamo anche nella mozione, una mozione che per il PD sostiene lo sforzo italiano a sostegno dell'Ucraina, in linea con la Carta delle Nazioni Unite e con il diritto internazionale. L'Ucraina ha esercitato un suo legittimo diritto a difendersi dall'aggressione russa per riconquistare il pieno controllo del proprio territorio e liberare i territori occupati entro i confini riconosciuti a livello internazionale. L'Italia condanna la Russia e opera al fianco dell'Unione europea e della NATO. Il Governo italiano ha condannato immediatamente e con assoluta fermezza l'aggressione russa all'Ucraina, inaccettabile e ingiustificata, e tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento hanno espresso analoga condanna ed hanno fornito sostegno e solidarietà al popolo e alle istituzioni ucraine, lavorando al fianco degli alleati europei e della NATO per rispondere immediatamente, con unità e determinazione, alla crisi militare e, soprattutto, umanitaria che ne è nata.

La Russia, nel perpetrare questa violazione del diritto internazionale, aggredendo uno Stato sovrano, si sta macchiando di ignobili crimini di guerra nei confronti della popolazione civile, su cui chiediamo che la magistratura internazionale faccia luce. Negli ultimi mesi, la Federazione Russa ha proseguito la sua guerra illegale, non provocata e ingiustificata nei confronti dell'Ucraina, compiendo azioni in totale spregio del diritto internazionale, soprattutto, umanitario, come anche ci ricordano le tantissime testimonianze di stupri compiuti per lo più dai soldati russi sui civili ucraini.

Secondo i dati della procura generale ucraina, già a luglio 2022 erano 10.619 i crimini di guerra e di aggressione registrati dall'inizio del conflitto in Ucraina, ma riguardo agli stupri soltanto poche tra le donne vittime di violenza sono psicologicamente e fisicamente in grado di testimoniare per le aggressioni sessuali che rientrano anch'esse in questa categoria di reati.

Nel sostegno al popolo ucraino in tutte le forme deve essere impegnato prioritariamente il nostro Governo; questa mozione lo impegna, infatti, a proseguire l'azione fattiva costante già svolta dall'Italia per il sostegno della popolazione ucraina in patria, nonché a implementare tutte le misure di accoglienza adottate per le persone in fuga dalla crisi bellica, con particolare attenzione alle esigenze dei soggetti minori, anche al fine di assicurare la tutela dei diritti loro riconosciuti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, e alle esigenze dei più fragili, tra cui anziani e disabili, anche in ragione del previsto aumento di arrivi dovuti al danneggiamento sistematico delle fonti energetiche in Ucraina da parte russa, che ostacola la capacità del Paese di affrontare l'inverno.

Viene ricordata l'iniziativa - dentro la mozione – dell'Europarlamento e della rete Eurocities per raccogliere fondi per acquistare macchinari per la popolazione ucraina senza luce e gas, un appello a tutti i comuni del Vecchio Continente; la pace si costruisce cominciando a salvare le vite umane.

Circa 10 milioni di ucraini sono senza elettricità in pieno inverno, a causa dei bombardamenti russi che hanno colpito le infrastrutture energetiche del Paese. Quello che stiamo cercando di fare è dare una mano concreta per l'approvvigionamento energetico sulla base delle città dell'Ucraina.

“Siamo al fianco dei cittadini ucraini e doneremo generatori da tutta Europa per alimentare le loro case e illuminare la notte. Insieme attraverseremo l'oscurità causata dalle bombe del Cremlino”, hanno detto da Eurocities. Con l'appello che hanno fatto Eurocities e l'Europarlamento, dobbiamo necessariamente lavorare in quest'unica direzione per sostenere, in modo fattivo e tempestivo, l'appello delle autorità ucraine per l'acquisto e l'invio di generatori elettrici, anche da parte del Governo e coinvolgendo tutto l'associazionismo e gli enti locali.

È per questo che, come primo impegno nella risoluzione, chiediamo che il Governo si impegni a sostenere il ruolo dell'Italia all'avvio di un percorso diplomatico per la costruzione di una conferenza di pace, sempre nel quadro di una stretta e fattiva collaborazione con le istituzioni europee e gli alleati della NATO, attraverso iniziative utili a una de-escalation militare che realizzi un cambio di fase del conflitto, anche in linea con gli orientamenti emersi in occasione dell'ultimo incontro del G20.

È sempre più evidente che è forte il sentimento pacifista e occorre promuovere ogni sforzo utile a condurre il prima possibile a una risoluzione pacifica, negoziale e giusta del conflitto…

PRESIDENTE. Concluda.

STEFANO GRAZIANO (PD-IDP). Concludo, Presidente. Il nostro impegno è sulle conseguenze che ci sono del conflitto in Ucraina, che sono conseguenze alimentari, vedi la crisi del grano, ma non solo, per cui l'effetto domino del conflitto in Ucraina sulle speranze di una ripresa post pandemia di molti Paesi sta dispiegando tutti i suoi peggiori effetti, a partire dal forze rialzo dei prezzi delle materie prime alimentari ed energetiche di cui l'Ucraina è uno dei maggiori esportatori, insieme alla Russia.

Dunque, chiediamo al Governo di impegnarsi a definire ogni soluzione necessaria a livello bilaterale e multilaterale, a partire dall'ONU, dall'Unione Europea e dal G7, per assicurare la sicurezza alimentare.

PRESIDENTE. Deputato, dovrebbe concludere.

STEFANO GRAZIANO (PD-IDP). Continuiamo a sostenere anche i dissidenti russi che sfidano in patria il regime di Putin per dire “no” alla guerra. Infatti si impegna il Governo ad adoperarsi, in sede europea e internazionale, per promuovere azioni di solidarietà nei confronti dei cittadini russi impegnati, arrestati o costretti a fuggire per avere protestato contro il regime e contro la guerra (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Pino Bicchielli. Ne ha facoltà.

PINO BICCHIELLI (NM(N-C-U-I)-M). Signor Presidente, colleghi deputati, signori del Governo, nella legislatura da poco iniziata è la prima volta che ci troviamo in quest'Aula a occuparci del conflitto in Ucraina, ma poiché l'istituzione è una, anche se cammina sulle gambe delle donne e degli uomini che la animano, possiamo affermare senza tema di smentita che, ogni volta che fra questi scranni è risuonata la parola “guerra”, ci si è unanimemente augurati che fosse l'ultima.

Il problema è che l'auspicio della pace, talvolta, viene confuso con l'invito alla resa, con una narrazione in chiaroscuro che tende a relativizzare non solo i confini geopolitici di una nazione sovrana, illegalmente occupata, ma anche i confini morali che distinguono l'invaso dall'invasore.

E, allora, per perseguire una pace giusta e duratura e allontanare la tentazione della resa e, con essa, rifuggire anche l'illusione dell'ambiguità, è bene ribadire alcuni concetti che hanno ispirato le linee programmatiche del Governo e della coalizione che lo sostiene e che speriamo possano continuare, con ampia condivisione, a guidare le scelte del nostro Paese nello scacchiere internazionale.

Signor Presidente, per quanto ci riguarda, Noi Moderati riteniamo, e continuiamo a ritenere, la collocazione europea e atlantista la conferma e il rafforzamento della posizione italiana nel quadro delle alleanze internazionali proprie della nostra identità e tradizione, come capisaldi essenziali, io direi come condizioni imprescindibili, dell'azione di Governo. E questo non solo con riguardo all'atteggiamento da tenere di fronte a situazioni di conflittualità, come quella drammatica che interessa oggi i nostri lavori. È, infatti, all'interno di questi stessi contesti, che definiscono anche il nostro orizzonte valoriale, che deve esplicitarsi la linea di Governo sulle emergenze da affrontare, ma anche sulla direzione di sviluppo, di crescita economica, di progresso tecnologico e di benessere sociale che intendiamo imprimere alla guida del nostro Paese.

L'Italia, signor Presidente, nel contesto della crisi ucraina, ha dato un contributo decisivo al risveglio e all'unità di intenti di un Occidente che era parso troppo spesso sopito e dimentico anche delle proprie tradizioni, che affondano le radici in una civiltà libera e solidale, con l'anelito di giustizia delle nazioni e di libertà dei popoli. Ne siamo orgogliosi e contribuiremo a far sì che da questa vocazione non si defletta, anche perché, ne siamo convinti - è anche da qui che passa il perseguimento di un nostro interesse nazionale, in un quadro geopolitico sempre più articolato e complesso -, il protagonismo dell'Italia, in una cornice di coesione occidentale, significa il contesto NATO e lo sviluppo del ruolo nazionale nell'alleanza militare ovviamente, ma significa anche riempire di senso la costruzione di una vera comunità europea, chiamata a una posizione di protagonismo in una tensione che insiste proprio nel quadrante euroasiatico e che vede l'Unione come una sorta di terra promessa per gli aggrediti.

È uno scenario, signor Presidente, che carica l'Europa e il nostro Paese di una grande responsabilità ed è il dovere di definire una posizione comune che resiste ai marosi delle contingenze e che si ponga come obiettivo primario quello di mettere fine al conflitto, difendere l'indipendenza dell'Ucraina e preservare la pace nel mondo.

In Europa, dicevamo, se la pandemia ha portato al grande passo del debito comune - quasi un salto quantico rispetto al passato anche recente -, il conflitto in Ucraina può essere un ulteriore acceleratore nella direzione della creazione di una vera comunità politica che, al di là della configurazione della stessa Unione e dei parametri stringenti che la determinano, anche in termini di vincoli di bilancio, possa definire uno spazio sostanziale di cooperazione economica, politica e anche militare.

In questo quadro, è possibile sperare in una velocizzazione del processo di riforma dei Trattati, a partire dal superamento dell'unanimità su alcune questioni. Lavorare perché si addivenga, ribadendo la centralità e il ruolo fondamentale della NATO, alla creazione di quell'esercito comune che era nella visione dei Padri fondatori e del quale una preminenza della burocrazia sulla politica e degli egoismi sulla percezione di un comune destino ha fin qui impedito la realizzazione, che sarebbe un vero passo verso un'Europa politica e non solo economica. Si tratta, signor Presidente, di passi qualificanti che possono consentire oggi all'Unione europea, unico vero attore in campo, di svolgere un ruolo decisivo nel contesto di crisi, avviando un processo concreto di pacificazione e superamento del conflitto in Ucraina e, domani, ripristinare una prospettiva di pace autentica e duratura.

Presidente, colleghi, in questi giorni, siamo tornati a leggere, ed ascoltare anche in quest'Aula, di distinguo, di ambiguità, armi sì, armi no, armi forse, proprio mentre il Paese invasore ha dato mostra di volersi avvalere del più micidiale dei suoi generali, il “generale inverno”, al culmine di un continuo cambio di tattica, dal tentativo di guerra lampo dei giorni immediatamente successivi all'invasione russa alla sostituzione dei comandanti o delle tipologie di soldati inviati sul terreno, tra avanzamenti e ritirate. Ora il Cremlino sta colpendo direttamente la popolazione, individuando come target le infrastrutture di rete energetica e l'arma utilizzata è quella delle più tradizionali guerre di logoramento: il freddo.

L'altra accusa di coloro che confondono la pace con la resa sarebbe quella di alimentare, con il sostegno all'Ucraina, in termini di equipaggiamento, una presunta escalation in un conflitto che, oltre all'impatto umanitario e alle ripercussioni energetiche, che oramai tutti drammaticamente conosciamo, sta facendo avvertire il proprio peso anche sul fronte alimentare e logistico, come attestano, ad esempio, i rincari dei prezzi dei seminativi. Ma questa accusa è smentita dai fatti e proprio le cronache recenti ne danno prova.

Nella notte più lunga della NATO, quando in pieno G20 i frammenti di un missile hanno colpito il territorio polacco al confine con l'Ucraina, uccidendo due persone, una situazione che avrebbe potuto scivolare fino a giungere a un passo dal conflitto mondiale è stata gestita con grande prudenza, a dimostrazione del fatto che nessuno persegue la guerra in quanto tale, ma il tentativo della comunità internazionale è di giungere a una pace che sia rispettosa della libertà dei popoli, del diritto delle comunità e dell'integrità delle nazioni.

Presidente, colleghi, infine lasciatemi ricordare che in questi giorni ricorre il novantesimo anniversario dell'Holodomor. Neanche un secolo fa, per volontà di Stalin, il regime sovietico affamava il popolo ucraino, uccidendo di stenti milioni di persone. Veniamo spesso richiamati al ricordo di ciò che è successo nel Novecento come monito per preservare il valore supremo della libertà. Affinché tutto ciò, però, non sia vuota retorica, non dobbiamo mancare l'appuntamento con la storia che oggi ci chiama a mettere questo valore in atto (Applausi dei deputati del gruppo Noi Moderati (Noi con l'Italia, Coraggio Italia, UDC, Italia al Centro)-MAIE).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Ciani. Ne ha facoltà.

PAOLO CIANI (PD-IDP). Presidente, onorevoli colleghi, il 24 febbraio, l'invasione militare russa dell'Ucraina, uno Stato sovrano e indipendente, ha aperto un conflitto terribile nel cuore dell'Europa: 278 giorni di guerra, decine di migliaia di morti, distruzione, violenza. È importante fermarsi oggi a riflettere su questi mesi. Infatti, l'attenzione per il dramma ucraino è proceduta nel nostro Paese a fasi alterne, invece è importante mantenere la massima attenzione sulla guerra, la più grande tragedia della nostra storia. L'Italia si è stretta da subito, con l'Europa tutta, attorno all'Ucraina, Paese aggredito e occupato, lo ha sostenuto economicamente, militarmente, umanitariamente ed ha fatto bene, perché ha soccorso un Paese aggredito. Perché la guerra, oltre a morte e distruzione, ha provocato anche un immenso esodo di milioni di cittadini, al 90 per cento donne e bambini, a cui abbiamo dovuto dare risposta. E vorrei oggi, qui, ringraziare le migliaia di nostri concittadini che hanno aiutato i profughi, aprendo le loro case, le loro famiglie, aiutando economicamente. È stato un grande momento di generosità e fraternità del nostro popolo, che fa onore all'Italia tutta. Grazie. Questo è avvenuto anche attraverso l'impegno fattivo di tante organizzazioni, messe oggi paradossalmente sotto accusa per interventi umanitari in altre zone, e ancora dovremmo occuparci, come Italia, dei profughi ucraini dinanzi a un inverno gelido nei territori in guerra.

Abbiamo presentato una mozione articolata, è stata presentate ed altri colleghi ne parleranno. A me preme sottolineare alcuni aspetti. Il primo: purtroppo, in questo tempo, abbiamo visto troppo normalizzare il demone della guerra. È aumentato un linguaggio bellicista, si è mostrata la guerra degli altri e raccontato l'uso delle armi, le strategie militari, la descrizione delle offensive e delle controffensive, come fossimo in un film.

Ma la guerra non è un film. Lo sanno bene gli anziani italiani, che ancora raccontano la tragedia della guerra in casa nostra. Lo sapevano bene i padri costituenti, che nella Costituzione hanno inserito un articolo che recita - e non è mai inutile ricordarlo - che l'Italia ripudia la guerra. Ed è interessante andare a rileggere il dibattito che, alla Costituente, ha dato corpo a questo articolo, e l'ho fatto più volte, in questi mesi. Tra i costituenti, infatti, vi erano partigiani che, negli anni precedenti, avevano imbracciato le armi, combattuto, ucciso; non certo anime belle, pacifiste, come qualcuno ha definito, in questi mesi, chi osava parlare di mediazione e pace. Ecco, proprio quei partigiani furono tra coloro che insistettero per ripudiare la guerra, perché l'avevano vissuta in prima persona, e non dal salotto di casa propria.

Colleghi, mai dobbiamo pensare al demone della guerra come a un compagno di strada normale della nostra storia. Oggi le guerre si eternizzano; lo sanno bene i popoli di tanti Paesi, troppo spesso dimenticati: la Somalia, la Libia, l'Afghanistan, lo Yemen, la Siria, per citarne alcuni. Pensiamo alla Siria: 11 anni di guerra senza fine. Abbiamo seguito con attenzione i primi tempi della guerra, la distruzione di città come Aleppo, le violenze, l'uso dei gas, le stragi di minoranze. Ma chi parla, oggi, della Siria? Non dobbiamo dimenticare. Uno dei mali del nostro tempo è, infatti, l'assuefazione al dolore degli altri. Noi italiani ed europei, che abbiamo goduto di una lunga pace, purtroppo l'abbiamo considerata scontata. La guerra era qualcosa degli altri, dei popoli non europei, e oggi ce la ritroviamo in casa, forse perché è scomparsa la generazione dei testimoni che portavano la memoria dell'orrore della Guerra mondiale e ci dicevano che nella guerra possono avvenire le cose più orribili e si sviluppano i sentimenti peggiori: l'odio, la vendetta, il disprezzo.

In questi mesi si è parlato della ricerca della pace come velleitarismo, l'ho ascoltato anche in questo primo dibattito, come buonismo, o, ancora peggio, come tradimento. È accaduto anche in altri momenti della storia. Invece, se non si cerca la pace per l'Ucraina, si tradisce un popolo intero. Certo, la pace deve essere giusta, sicura, ma, come ha detto recentemente il Presidente francese Macron, la pace è impura, perché la pace nasce dalla guerra, che è la cosa più sporca, sporca di sangue e di odio, il peggio che esista al mondo. Lo ha ricordato, al termine della manifestazione per la pace del 5 novembre, qui, a Roma, Andrea Riccardi, un pacificatore, mediatore di un conflitto che ha prodotto più di un milione di morti, quello in Mozambico, che proprio qui, a Roma, ha trovato un luogo di mediazione e la firma della pace. Ecco, quella manifestazione del 5 è stata un segnale importante: gente diversa, lavoratori del sindacato, vari gruppi cattolici, organizzazioni pacifiste e sociali che si sono riunite - e anche diversi di noi erano lì -, ribadendo la condanna della guerra russa, nonostante qualcuno abbia detto il contrario, e ricordando come la pace sia l'obiettivo di fondo di ogni politica.

Sia chiaro, pace non vuol dire debolezza nei confronti degli aggressori. Noi condanniamo con fermezza l'invasione russa, un'aggressione immotivata e ingiustificabile, e per questo rivendichiamo gli interventi che l'Italia ha promosso fino a oggi. E proprio dinanzi al protrarsi della guerra e alle sue evoluzioni, riteniamo importante, però, un nuovo impegno: ci vuole un nuovo investimento sulla diplomazia, che cerchi efficacemente strade nuove, a cominciare da un cessate il fuoco. Bisogna investire più sul dialogo, sulla mediazione, perché solo questo e la diplomazia ci daranno la pace, coinvolgendo la comunità internazionale, l'ONU, gli Stati Uniti e l'Europa, che deve avere in misura maggiore una sua politica di pace. Lo dico dinanzi al dramma della guerra in Ucraina e alle sofferenze del suo popolo e dinanzi alla minaccia atomica, che non è un fantasma evocato, ma una realtà possibile e che speravamo di aver consegnato alla storia. Bisogna aprire un negoziato e una tregua che evitino questa escalation.

PRESIDENTE. Concluda.

PAOLO CIANI (PD-IDP). Concludo, Presidente. Papa Francesco - e io sono con lui - ha scritto: “La guerra è un fallimento della politica e dell'umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male”. Non vogliamo abituarci alla guerra. Le immagini orrende di Bucha, i bombardamenti di queste ore su Kherson, i racconti e i video di distruzione, ci chiamano a un impegno nuovo, accanto agli ucraini, solidali con le loro sofferenze, con una convinzione profonda per cui spendersi. L'unica vittoria sarà la pace (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Emanuele Loperfido. Ne ha facoltà.

EMANUELE LOPERFIDO (FDI). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, chi vi parla è esponente di un gruppo parlamentare che ha compiuto un lungo percorso prima di diventare parte della coalizione del centrodestra come Partito di maggioranza, sostenendo il Premier Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio: qualcosa di rivoluzionario per questo Paese. E, durante questo percorso, spesso è capitato che ci trovassimo su posizioni abbastanza contrapposte rispetto a ciò cui ci troviamo oggi di fronte. Ovviamente, tutti anelano a candidarsi a guidare il Paese, ma mai avremmo pensato di poterlo fare, probabilmente in uno dei momenti peggiori del nostro Paese, a livello internazionale, per questa situazione in cui ci troviamo, con una crisi forse post-pandemica, una crisi energetica, nel bel mezzo di una guerra nel cuore dell'Europa, causata anche da posizioni che noi spesso abbiamo condiviso, che abbiamo sempre rimarcato nelle nostre posizioni parlamentari, anche quando eravamo uno sparuto gruppo parlamentare; questo perché le nostre posizioni sono sempre state chiare, tanto chiare che per noi viene prima di tutto la libertà, la sovranità del popolo, la democrazia, al punto tale che queste condizioni, queste posizioni le abbiamo sostenute anche quando a governare non eravamo noi. L'abbiamo fatto recentemente, con il Governo Draghi. Questo perché per noi ci sono princìpi che vanno al di là del posizionamento politico. E, allora, quando ci troviamo di fronte a una feroce, inammissibile aggressione dello Stato della Federazione Russa nei confronti dei nostri amici ucraini, noi immediatamente sappiamo da che parte stare e la nostra cultura politica ci aiuta a comprendere anche cosa bisogna fare, perché di fronte alle cannonate, ai missili, ai mortai, alle uccisioni, alle stragi, non ci si può soltanto riempire di belle parole, ma bisogna veramente aiutare coloro i quali, in questo momento - con le temperature che stanno diventando sempre più fredde e che stanno mettendo in ginocchio la popolazione - stanno strenuamente resistendo, da mesi, contro gli invasori russi. Dobbiamo continuare ad aiutarli per davvero, ovvero concretamente. Allora, ecco l'importanza di una politica estera fatta, da un lato, di sanzioni, ma, soprattutto, di aiuti.

Io provengo dalla regione Friuli-Venezia Giulia, che è al confine, come tutti voi sapete; dai suoi valichi, nei giorni della guerra, hanno iniziato ad arrivare decine e decine di famiglie, prevalentemente donne con bambini. Tutti gli abitanti del Friuli-Venezia Giulia, come tutti gli italiani, come tanta parte degli europei, in prima fila gli amici della Polonia, hanno accolto senza pensare quanto potesse essere impegnativo, hanno accolto a braccia allargate…

PRESIDENTE. Mi scusi, onorevole. Colleghi, per cortesia, colleghi… Grazie.

EMANUELE LOPERFIDO… immediatamente queste persone. Faccio un esempio: proprio un articolo di oggi riporta che nel Friuli-Venezia Giulia sono arrivate più di 1.000 persone; di queste, il 20 per cento sono minori, accolti all'interno delle nostre scuole, i quali sono stati inseriti nei plessi scolastici, per cercare di attutire il più possibile l'impatto psicologico che grava su di loro e, soprattutto, cercare di dare loro una sorta di vita naturale e normale.

Ricordo, essendo anche temporaneamente assessore alla Protezione civile del comune capoluogo, che ho coordinato, insieme ai validissimi volontari della Protezione civile, alla Croce Rossa, alla Caritas e ai servizi sociali, i primi soccorsi, i primi aiuti, le prime accoglienze, coordinati anche dalle prefetture. Ricordo i volti intristiti delle famiglie, delle mamme e di coloro i quali avevano lasciato i mariti, i genitori o il padre al fronte, ma ricordo anche la gioia di questi bambini che si vedevano donate semplici uova pasquali per la Pasqua ortodossa.

Di fronte a queste immagini, dobbiamo continuare con l'accoglienza, ma non possiamo tirarci indietro rispetto all'aspetto principale, il sostegno militare. Infatti, la politica dell'accoglienza è importante, fondamentale e dovremmo continuare a finanziarla. Ricordo che, per esempio, sempre come regione Friuli-Venezia Giulia, la Protezione civile ha montato un campo per la prima accoglienza ai confini tra Ucraina e Polonia, perché dobbiamo dare supporto. Ma questo è soltanto un aspetto. Infatti, dobbiamo continuare a lavorare per puntare sempre più sui principi inviolabili, ovvero l'integrità territoriale, l'autodeterminazione dei popoli, la sovranità, la democrazia e la libertà. Sempre con riferimento alla regione alla quale con orgoglio appartengo, il Friuli-Venezia Giulia è stata una regione lungo la cortina di ferro, è stata una regione che, sulla propria pelle, ha sentito il respiro dell'invasore o di coloro i quali ci vedevano come ghiotta preda. Voglio ricordare quanto ancora durante la Seconda guerra mondiale accadeva nelle nostre terre, dove c'era qualche italiano che vedeva di buon occhio il IX Korpus titino, per cui si doveva lottare non per garantire l'appartenenza all'Italia del nostro territorio, ma per darla all'esercito invasore jugoslavo. Voglio ricordare semplicemente che ci furono italiani che presero in mano le armi per opporsi anche a coloro i quali, all'interno del movimento partigiano, cercavano di regalare l'Italia alla Jugoslavia. Faccio due nomi, il parente del cantautore romano Francesco De Gregori, più noto forse come Bolla, e il fratello di Pier Paolo Pasolini, conosciuto come Ermes: italiani che morirono, perché volevano fare in modo che l'Italia rimanesse agli italiani e non venisse concessa ad un popolo invasore. La stessa cosa sta avvenendo oggi con gli ucraini, che si oppongono, in ogni centimetro del loro territorio, all'invasore russo.

Di fronte a questa situazione, di fronte a questi atti eroici, non possiamo chiudere gli occhi rispetto al fatto che dobbiamo sostenere non soltanto economicamente un Paese in ginocchio. I dati sono veramente drammatici: le azioni continue di bombardamento paiono indiscriminate, ma, in realtà, fanno parte di una vera e propria strategia di strangolare e distruggere, sia la capacità dello Stato ucraino di resistere a livello militare, sia la capacità di continuare a funzionare, semplicemente funzionare, a livello economico e sociale. Ad oggi, l'Ucraina sta accumulando, per via delle spese del conflitto in corso, un deficit di 5 miliardi di dollari al mese; oltre il 30 per cento delle aziende ucraine ha cessato ogni attività; i danni alle infrastrutture civili e militari hanno superato i 300 miliardi di dollari, mentre le perdite totali sofferte dall'economia avevano raggiunto, nel periodo estivo, oltre i 600 miliardi di dollari, una cifra superiore al PIL del Paese per l'anno 2021. I danni al patrimonio edilizio al momento ammontano intorno ai 1.000 miliardi di dollari; è stato distrutto il 30 per cento del sistema viario del Paese; le importazioni sono crollate di due terzi, dimezzate le esportazioni: il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l'Unione europea hanno approvato prestiti eccezionali per 5,6 miliardi di dollari, ma è soltanto un bicchier d'acqua nel mare. Questi dati agghiaccianti vanno letti in contemporanea ai dati socio-demografici, che sono oltremodo impressionanti: 13,2 milioni di rifugiati, suddivisi a metà tra interni ed esterni, di cui 4,8 milioni di bambini sono sfollati dalle loro case; 6.000 vittime civili, di cui 1.000 bambini; 470 attacchi a strutture sanitarie e 2.500 a strutture educative. Tali dati, insieme a quelli economici, vanno valutati in rapporto alla popolazione ucraina, che, alla vigilia delle ostilità, era stimata in 37,5 milioni di persone. Quindi, quand'anche - come si chiede - si possa raggiungere una pace, deve essere una pace vera, perché, in questo momento, una vittoria militare potrebbe essere semplicemente un rischio che l'Ucraina diventi, in ogni caso, uno Stato non in grado di sostenersi da solo. Uno Stato non in grado di sostenersi da solo, le cui relazioni commerciali sono fondamentali per il nostro Paese. Il calo drammatico delle esportazioni incide sul nostro Paese; nel nostro territorio abbiamo aziende che non hanno più merci o, nel caso in cui facciano export, non ricevono pagamenti e questo blocca ogni relazione commerciale con un Paese strategico. Ecco, allora, perché, con riferimento a una tematica simile, abbiamo sempre desiderato che la politica estera venisse fatta in modo più compiuto, con una maggior presenza dell'Italia al tavolo delle relazioni diplomatiche internazionali, in cui si parlasse di politica europea, di politica estera e di politica di difesa, per tutelare il nostro posizionamento sul tavolo internazionale e le nostre relazioni geopolitiche. È per questo che ribadiamo con orgoglio l'avere nominato presidente della Commissione affari esteri l'onorevole Tremonti, perché, dall'alto della sua capacità, professionalità e esperienza, sarà in grado di portare la Commissione in tavoli istituzionali a parlare di vera politica estera, per tutelare gli interessi del nostro Paese. Una politica estera e di difesa che richiede serietà. Nelle settimane scorse, quando c'è stato quel caso del missile arrivato in Polonia, qualcuno si è dilettato immediatamente ad agire con post e tweet, per dire immediatamente la propria opinione, sostenendo che bisognava farla finita ed iniziare a contrattaccare, quando si è scoperto che la realtà era ben altra.

In politica estera servono polsi fermi, prudenza, capacità, competenza, lungimiranza. La capacità dimostrata dal nostro leader Giorgia Meloni nei primi consessi internazionali nei quali ha avuto l'occasione di partecipare ci fa ben sperare che, insieme alla coalizione del centrodestra e ai membri del Governo, si potrà veramente pensare a operare, consentendo agli amici dell'Ucraina i dovuti aiuti e il dovuto supporto di carattere umanitario, economico, finanziario e militare. Si dovrà poi lavorare sulle diplomazie, per fare in modo che ci sia quella pace e che anche il Presidente della Repubblica consenta di garantire all'Ucraina la legittima difesa, di proteggere la propria popolazione ed arrivare ad una giusta pace.

Per questo motivo, sappiamo benissimo da che parte stare, sappiamo benissimo che l'Alleanza atlantica è il posizionamento corretto, sappiamo benissimo che quelle bandiere rosse che sono sui carri armati non sono le bandiere rosse che sono nelle nostre manifestazioni e che vediamo in altre manifestazioni di parte di piazza. Sono le bandiere che dobbiamo allontanare ed escludere, perché sappiamo qual è l'invasore e sappiamo quali sono gli amici e i tavoli su cui trattare (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Pellegrini. Ne ha facoltà.

MARCO PELLEGRINI (M5S). Grazie, signor Presidente. Colleghe e colleghi, sono ormai trascorsi nove mesi da quando la Russia ha invaso l'Ucraina, violando il diritto internazionale e scatenando una guerra nel cuore dell'Europa, provocando morte, violenza, distruzione, sofferenze terribili al popolo ucraino e una vera e propria crisi umanitaria, con ripercussioni, peraltro, sul tessuto economico-produttivo internazionale e sull'approvvigionamento energetico di moltissimi Paesi, tra i quali anche l'Italia.

È un'aggressione, quella di Putin, che, come MoVimento 5 Stelle, abbiamo condannato e continuiamo a condannare fermamente.

Oggi lo riaffermiamo ancora una volta con forza: noi siamo a fianco del popolo ucraino, ma, proprio perché sono passati già tanti mesi di conflitto e sono già immani le sofferenze patite dagli ucraini, chiediamo con ancora maggiore forza al Governo italiano di voltare pagina. Non ci siamo assuefatti alla guerra, non la riteniamo né un fatto ineluttabile né un mezzo per risolvere le controversie internazionali, come recita l'articolo 11 della nostra Costituzione. Per questi motivi proponiamo da mesi che l'Italia svolga un ruolo decisivo, da protagonista, per l'apertura di tavoli negoziali, che l'Occidente tutto e l'Europa cambino profondamente strategia e che si inneschi una escalation diplomatica che metta fine all'escalation militare che sta provocando, come dicevo prima, sofferenze indicibili all'Ucraina.

Non è pensabile, a nostro parere, arrivare a una vittoria militare sul campo né a una controffensiva sul suolo russo con armi di lunga gittata. Non bisogna prendere in giro gli italiani, bisogna dire loro la verità e sottolineare che, se si continua in questo modo, c'è un rischio concreto di uno scoppio di un conflitto ancora più ampio e magari con l'uso di armi nucleari. Dobbiamo quindi invertire, finché siamo in tempo, la tendenza e far emergere a tutti i costi la ragionevolezza e la volontà di perseguire la pace, come da tempo indica anche Papa Francesco, un grido, il suo, purtroppo praticamente inascoltato. A parole molti di voi, colleghi, volete la pace, ma temo solo a parole, perché nei fatti continuate a insistere pervicacemente sulla necessità di una escalation militare, che invece è un percorso senza uscita e che aggiungerà morte, distruzione e sofferenze a quanto ha già patito il popolo ucraino.

Come Occidente abbiamo imboccato un vicolo cieco, ma ora dobbiamo avere la forza e il coraggio di uscirne e di dire basta. Dobbiamo invertire la rotta per seguire con tutte le nostre forze percorsi di pace, per garantire la sicurezza dei popoli europei e del mondo intero. Prima di entrare nel merito, con questa mozione noi poniamo al Parlamento e al Paese intero un tema, una questione di metodo. Non è infatti più ammissibile l'esautoramento del Parlamento dalle decisioni che riguardano la guerra, e quindi la sicurezza nazionale. Voglio ricostruire soltanto i fatti dall'inizio, per avere un quadro completo. Il 1° marzo in quest'Aula si approvava una risoluzione che dava massimo sostegno e solidarietà al popolo ucraino, attivando, con le modalità più rapide e tempestive, tutte le azioni necessarie a fornire assistenza umanitaria, finanziaria e militare. Quel voto noi del MoVimento 5 Stelle lo rivendichiamo perché si fonda sul diritto internazionale, e, ai sensi dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, era giusto dare all'Ucraina la possibilità di esercitare il proprio diritto alla legittima difesa nei confronti dell'aggressore russo. Senza quell'intervento, nostro e delle altre forze occidentali, probabilmente l'Ucraina sarebbe capitolata in poche settimane, quindi abbiamo fatto bene. Però in quella risoluzione era previsto espressamente che gli sforzi del Governo italiano dovessero essere indirizzati - e voglio leggerlo testualmente - “a una de-escalation militare e alla ripresa di un percorso negoziale tra Kiev e Mosca”. La realtà però ci racconta tutt'altro perché, durante questi mesi, né l'Europa né l'Italia hanno giocato un ruolo da protagonisti, delegando di fatto l'iniziativa diplomatica alla Turchia di Erdogan. È assurdo, lo ripeto con forza, è assurdo che l'unico voto espresso dal Parlamento su una materia così delicata risalga a tanti mesi fa, al 1° marzo, e poi più nulla sia successo in queste Aule. E se, da un lato, quel voto dava la possibilità al Governo di inviare forniture fino al 31 dicembre, dall'altro, è assolutamente evidente che il contesto attuale sia profondamente mutato rispetto al quadro iniziale, rispetto a quel 1° marzo. Con il passare delle settimane, in Italia e altrove le pulsioni belliciste hanno pervaso moltissime menti, raggiungendo livelli davvero preoccupanti; il che sta rendendo concreto il rischio di una guerra lunghissima, in cui il prezzo più alto, come al solito, come in tutte le guerre, lo pagano le popolazioni civili. In questa situazione, quello che proponiamo, quello che pretendiamo, è di poter discutere qui, davanti al popolo italiano, ognuno prendendosi la responsabilità delle proprie posizioni. Vogliamo confrontarci sulle possibili strategie, vogliamo che il Parlamento torni centrale in queste scelte. Cari colleghi, tutto ciò si chiama democrazia parlamentare; quello che chiediamo oggi, e lo chiediamo da mesi, è scritto nella nostra Costituzione. Tutto ciò anche in considerazione dell'intenzione del Governo di emanare un sesto decreto interministeriale per la cessione di ulteriori mezzi militari all'Ucraina, con particolare riferimento a sistemi di artiglieria per la difesa aerea. Dopo cinque decreti sull'invio delle armi è imprescindibile oggi l'esigenza di un confronto qui, in Parlamento, tra le varie forze su come impostare l'azione politica dell'Italia nei prossimi mesi al riguardo della guerra in Ucraina. Questa è stata la nostra posizione in questi mesi, l'abbiamo ribadita più volte e non l'abbiamo mai cambiata; tra l'altro, è inserita nella risoluzione del 22 giugno, però l'ex Presidente del Consiglio, Draghi, ha sempre preferito non coinvolgere le Camere. Ma ora c'è un nuovo Governo, con una nuova maggioranza, e quindi è ancor di più necessario discutere, confrontarsi e sciorinare tutti questi temi. Ripeto, noi lo pretendiamo, lo pretende non solo il MoVimento 5 Stelle, ma la maggioranza degli italiani. E ci fa piacere, per la verità, constatare che altre forze politiche, da un po' di tempo, da un po' di settimane, ci seguono su questa richiesta; non siamo più soli, almeno così sembra, meglio tardi che mai. Del resto, su argomenti così delicati il confronto tra Governo e Parlamento è assolutamente indispensabile, come, ad esempio, è successo durante la pandemia, quando l'allora Presidente del Consiglio, Conte, venne molte volte nelle Aule ad informare su cosa stava accadendo e su quali fossero le mosse del Governo. Ora è il turno del nuovo Esecutivo Meloni, che quindi deve venire qui, in Aula, a spiegare esattamente cosa voglia fare e se ha intenzione, come sembra, di inviare nuove armi in Ucraina, su cui noi siamo, e lo diciamo in maniera forte e netta, contrari. Chiediamo sin d'ora un voto delle Camere su questa decisione, così che ognuno possa prendersi le proprie responsabilità davanti ai cittadini.

Torno alla questione del merito, e mi avvio a concludere, Presidente. Negli ultimi mesi non si è fatto altro che parlare di armi, in un crescente e preoccupante clima di escalation militare; il che rischia davvero di prolungare la guerra e le sofferenze degli ucraini, di far crescere il già altissimo numero di morti civili - vi facevo riferimento prima - che sono le principali vittime della guerra e di far aumentare a dismisura la crisi economica che sta attanagliando l'Italia e l'Europa. Un esempio di questo atteggiamento davvero irresponsabile lo abbiamo visto pochi giorni fa, quando sono caduti i missili in Polonia, e c'è stato chi, come Letta e Calenda, senza nemmeno aspettare una minima verifica sulla paternità di quei lanci, senza adottare la minima prudenza, che è d'obbligo in situazioni così gravi, si sono lanciati in dichiarazioni pericolosissime, precipitandosi a scrivere tweet, quasi come se avessero l'elmetto in testa. Subito sono stati poi smentiti dal Presidente degli Stati Uniti, Biden, che invece, nell'immediatezza dell'evento, ha stemperato gli animi, facendo intendere che era davvero difficile che si trattasse di missili provenienti dalla Russia. Però nessuno poi in Italia, dopo questi tweet, ha chiesto minimamente scusa per quello che era successo. Parlare di pace in questi periodi è difficile, scatta subito il manganello mediatico e l'accusa di essere filoputiniani, con una foga neo-maccartista che sembrava davvero relegata al passato. Noi lo ribadiamo per l'ennesima volta e non mettiamo minimamente in discussione l'appartenenza al Patto Atlantico, ma riteniamo deleteria la strategia sin qui seguita dall'Occidente, fondata essenzialmente sull'escalation militare. Ci stiamo adoperando per far cambiare questa strategia, per costruire le basi di un percorso che porti al cessate il fuoco, a negoziati tra Ucraina e Russia e alla pace.

PRESIDENTE. Deputato, dovrebbe concludere.

MARCO PELLEGRINI (M5S). Se mi dà un altro minuto, Presidente.

PRESIDENTE. Deputato, non è previsto, i tempi sono quelli previsti. Si avvii alla conclusione.

MARCO PELLEGRINI (M5S). Va bene. Comunque davvero spiace constatare che esiste una profonda continuità tra le scelte dell'ex Presidente Draghi e quelle della Presidente Meloni, sia in ordine alle misure economiche sia in ordine alle scelte che riguardano la guerra in Ucraina. Noi auspichiamo, come ho più volte sottolineato nel mio intervento, una inversione di tendenza, specie per quanto riguarda le armi, e riteniamo gravissime le ultime dichiarazioni del Ministro Crosetto, che era favorevole all'invio delle armi.

Lui si trova, lo ricordo, in uno spaventoso conflitto di interessi, avendo rappresentato la lobby dei produttori delle armi fino all'altro giorno (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Simonetta Matone. Ne ha facoltà.

SIMONETTA MATONE (LEGA). Buongiorno a tutti. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signori membri del Governo, con la discussione generale odierna è iniziato il primo confronto in questa Assemblea che riguardai la politica estera e di difesa dell'Italia. Si tratta, quindi, di un passaggio molto importante, fondamentale, che sarà senza dubbio seguito con grande attenzione dalla stampa e anche dalle Cancellerie europee dei nostri principali alleati.

Il Governo, presieduto dall'onorevole Meloni, fin dall'inizio, dal primo momento del suo insediamento, ha reso chiara la collocazione internazionale del nostro Paese, con una scelta di solidarietà nei confronti dell'Ucraina e in perfetta continuità, senza ambiguità e senza dubbi, rispetto al Governo precedente. Ripeto: non ci sono ambiguità, mentre prosegue e si spera che gli sforzi per raggiungere la pace, quelli cui noi tutti tendiamo, vengano intensificati.

L'Italia è e resterà nella famiglia delle Nazioni del Patto Atlantico e rimarrà protagonista anche in Europa, ma senza trascurare i propri interessi e cercando di armonizzarli con quelli dei nostri partner europei. Questo dibattito a cosa serve? Serve a verificare se, al di là del Governo, il Parlamento e le forze che vi sono rappresentate possano convergere sulla linea di politica estera che è stata adottata. Noi pensiamo di sì, anche perché - dobbiamo dirlo - non vediamo, nei testi presentati dai gruppi di opposizione, proposte veramente alternative. Ci sono sfumature diverse, ma, in realtà, siamo tutti molto convergenti, come dovrebbe essere sempre quando si discute di questioni come la pace, la guerra, la posizione del Paese, gli interessi e la sicurezza del Paese.

Ci sono però - non ce lo nascondiamo - temi molto delicati e una prima questione affrontata delle mozioni concerne gli aiuti a Kiev. Qui c'è un elemento importante che non va sottovalutato: non c'è un'aperta richiesta di interrompere l'assistenza militare, che noi garantiamo all'Ucraina per permetterle di difendersi dagli invasori russi. Qualcuno però desidera che un ulteriore invio di materiali d'armamento a Kiev venga comunicato preventivamente al Parlamento. Non è la prima volta che parliamo di questo argomento spinoso; se ne discusse anche al principio della scorsa estate. L'alternativa qual era? Un'autorizzazione a tempo, fino alla fine di quest'anno, oppure un'autorizzazione circostanziata di volta in volta e prevalse la prima opzione, ma prevalse anche per mantenere una certa riservatezza sulla quantità e il tipo di armi che ogni volta venivano trasferite agli ucraini. Ora, non sembra opportuno ripensare alla scelta fatta allora, perché - ora come allora - rendere espliciti questi dati danneggerebbe proprio chi vogliamo aiutare.

Altro punto sensibile e delicatissimo riguarda le spese militari: l'urgenza di arrivare alla pace - lo ribadiamo - si capisce meglio quando si considera ciò che in questo momento sta accadendo. Perché diciamo questo? Perché nel mondo non si è mai speso tanto in armi, quanto stiamo spendendo in questo momento. Ce lo dice il rapporto di SIPRI, un autorevole istituto che si occupa di questi problemi e che ha appena pubblicato un rapporto veramente allarmante, perché ci ha rivelato, con dati certi, come lo scorso anno siano stati spesi in armi 2.113 miliardi di dollari, che è la cifra più alta di sempre; mai sono stati spesi così tanti soldi per armarsi. La guerra peggiora le cose, ovviamente, incoraggiando tutti a destinare a quel comparto risorse ancora maggiori. Perché succede? Succede perché c'è più paura, una paura che, invece, dovrebbe spingere a rinnovare gli sforzi per indurre le parti in lotta ad avviarsi ad una conclusione negoziale del conflitto, conflitto che sembrerebbe avere provocato un numero veramente agghiacciante tra morti e feriti, pari a 100.000 unità per ogni parte in conflitto.

Con la nostra mozione, auspichiamo che il Governo italiano riesca a ricavarsi un ruolo nello spingere alla definizione della pace, in tutti i fori internazionali in cui è parte, laddove è possibile e, naturalmente - lo ribadiamo per evitare fraintendimenti passati, presenti e futuri -, sempre insieme agli alleati europei ed atlantici del nostro Paese. In tutto questo, uno spazio - è fuor di dubbio - lo dovrebbe avere anche l'Europa. Alcuni pensano sia necessario un incremento della capacità europea nel campo della politica estera e di difesa, creando nuovi strumenti ed abbandonando il principio che ha sempre caratterizzato l'Europa e cioè quello delle decisioni all'unanimità. Ovviamente, che l'Europa possa contare di più sulla scena internazionale e dare un contributo più incisivo alla pace e alla sicurezza è un auspicio che non possiamo che condividere, ma rimanendo con i piedi per terra e raccomandando prudenza.

La guerra in corso in Ucraina e le sue conseguenze sul piano economico, alimentare ed energetico hanno posto in luce le nostre vulnerabilità condivise. Abbiamo scoperto tutti di essere più deboli, quando, intorno a noi, infuria la guerra, anche perché, di fronte alla paura e ai costi imposti dal conflitto, non tutti riescono a respingere la tentazione di fare da soli per proteggersi meglio e per proteggersi anche a discapito degli altri.

Sul cosiddetto esercito europeo, di cui si sta parlando in questi giorni, bisogna ragionare molto bene. Perché dico questo? Perché non è chiaro chi avrà poi il potere di usarlo e cosa accadrebbe se uno solo dei Paesi dell'Unione europea ne avesse bisogno e gli altri non fossero d'accordo. Il tema dell'unanimità, su questo punto, è un tema delicatissimo e difficilissimo da superare.

Al di là di tutto, però, pensiamo che l'interesse nazionale debba essere comunque al centro - lo ribadiamo con forza -, perché è l'interesse del territorio e delle comunità che abitano il nostro Paese e pensiamo a politiche conseguenti, che, oggi, vogliono dire soprattutto chiarezza con i nostri alleati, in un momento tanto difficile, tanto complicato, tanto denso di nubi della storia europea.

È un momento nel quale, purtroppo, la forza militare è diventata purtroppo rilevante, quindi, siamo pienamente d'accordo con la linea che ha espresso il Governo e a cui rinnoviamo la nostra lealtà anche oggi (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Elisabetta Piccolotti. Ne ha facoltà.

ELISABETTA PICCOLOTTI (AVS). Gentili colleghi e colleghe, siamo oggi chiamati a discutere di un obiettivo etico irrinunciabile: fermare una guerra che sta devastando l'Ucraina, uccidendo decine di migliaia di civili innocenti, provocando una violenta crisi umanitaria e perfino alimentare, grave anche sul piano energetico e per le conseguenze che ha in Europa e in tanti altri Paesi del mondo, dove l'inflazione colpisce prima di tutto i più deboli.

La guerra è orrore e, come tale, come dice la nostra Costituzione, va ripudiata. Fa male, per questo, dover ripercorrere il dibattito di questi 9, lunghi mesi. È stato rimproverato ai pacifisti di essere imbelli, inermi di fronte all'aggressore o di essere deboli e pavidi, peggio ancora, di essere finti, di volere, con il pacifismo, lasciare campo libero all'invasione russa. Quante falsità, Presidente, contro un popolo che diventa sempre più grande e che il 5 novembre è sceso in piazza per condannare l'aggressione russa, in solidarietà con il popolo ucraino, vittima di orribili crimini di guerra, e con i tanti, tantissimi ragazzi russi che muoiono per una guerra folle e ingiusta, oltre che con i tanti oppositori politici di Putin, i cui diritti umani vengono sistematicamente violati con arresti e condanne illiberali e totalmente arbitrari.

È in nome dell'empatia con questa sofferenza che il popolo della pace chiede a questo Governo e a questo Parlamento di cambiare strategia e di mettere al centro del proprio impegno non più l'aumento della spesa militare e l'invio di armi, ma l'azione diplomatica e la convocazione di una Conferenza internazionale di pace sotto l'egida dell'ONU, insistendo anche affinché l'Europa riconquisti il ruolo che merita e che i suoi cittadini le chiedono di svolgere, il ruolo di chi agisce per cercare una tregua, un cessate il fuoco, di chi agisce per aprire un tavolo di trattativa, in un contesto multilaterale, chiamando ad agire, in questo senso, anche altre potenze mondiali, come la Cina e gli Stati Uniti.

Per questo siamo basiti rispetto a quanto accaduto ieri al Senato, con l'emendamento presentato dal relatore al “decreto NATO e Calabria”, con cui il Governo autorizza l'invio di armi fino alla fine del 2023. Presidente, le chiedo, per questa ragione, di pretendere il rispetto di quest'Aula: questa decisione non può essere presa prima che questo Parlamento abbia discusso, in maniera approfondita, dell'evoluzione del conflitto militare in Ucraina; questa decisione non può essere presa con un emendamento a un decreto minore, che parla anche di altro.

Nella scorsa legislatura i parlamentari di Sinistra Italiana e di Europa Verde si schierarono contro l'invio di armi, capendo, fin dall'avvio del conflitto, che l'escalation militare non avrebbe aiutato a risparmiare sofferenze al popolo ucraino. Lo spiegammo - o, meglio, tentammo di farlo, sommersi da un'odiosa campagna mediatica contro i pacifisti -, da soli e isolati anche da forze politiche che oggi fortunatamente hanno cambiato idea e sono qui a sostenere, come noi, che non sia più necessario inviare armi; spiegammo, dicevo, rispetto alle parole della Presidente von der Leyen, che incoraggiava ad andare avanti nelle azioni militari fino alla vittoria, che l'unica vittoria realistica e possibile sarebbe stata quella di ottenere il cessate il fuoco e una Conferenza di pace che evitasse l'aggravarsi del conflitto, che può arrivare a sfociare nell'utilizzo delle armi nucleari.

A 9 mesi di distanza persino il Capo di stato maggiore congiunto delle Forze armate degli Stati Uniti, Milley, afferma che esiste una bassa probabilità che l'Ucraina possa costringere militarmente la Russia a lasciare tutto il territorio ucraino che occupa. Siamo, quindi, in una nuova fase della guerra, che impone al Governo di venire in Aula a discutere dei suoi orientamenti in merito. Mentre qui discutiamo, l'Esercito russo, infatti, sta devastando la rete elettrica e quella idrica dell'Ucraina, con un salto di qualità; mentre discutiamo, la Russia sta rendendo impossibile la vita e la sopravvivenza forse di milioni di persone, che sono al buio e al freddo. Per questo stride e pare davvero incredibile che il Governo italiano non abbia pronunciato alcuna parola a sostegno di Papa Francesco, che ieri, saggiamente e generosamente, ha dichiarato la disponibilità del Vaticano e della Santa Sede a ospitare un dialogo orientato alla pace. Nessuna parola.

Chi siamo, noi, per chiedere il cessate il fuoco? Questa surreale domanda è stata posta in quest'Aula, pochi minuti fa, dalla collega Giulia Pastorella, come se il cessate il fuoco fosse una richiesta che può essere avanzata solo dai belligeranti o come se l'Italia non potesse avere alcun ruolo o, ancora, come se questo Parlamento avesse davanti due uniche opzioni: belligerare a sua volta o arrendersi all'orrore, come un mero spettatore di un film che ci riguarda solo da lontano. No, non è così. Chi siamo, noi, per chiedere il cessate il fuoco? Noi siamo uomini e donne di pace, uomini e donne che devono agire e fare tutto il possibile affinché questo conflitto trovi una fine, affinché milioni di persone vengano salvate, affinché la distruzione si arresti e cessino i combattimenti. Noi non smetteremo di dirlo finché questo Parlamento non agirà in questo senso (Applausi dei deputati del gruppo Alleanza Verdi e Sinistra ).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Patrizia Marrocco. Ne ha facoltà.

PATRIZIA MARROCCO (FI-PPE). Grazie, Presidente. Poco più di 9 mesi fa, il 24 febbraio 2022, l'Esercito della Federazione Russa, varcando, con le sue truppe, i confini dell'Ucraina, dava il via a un'invasione che, secondo alcune stime, ha già causato più di 240 mila vittime, delle quali – stando a quanto riportato in un rapporto pubblicato dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani - sarebbero quasi 6.600 i civili ucraini, senza contare i feriti, i milioni di sfollati e la distruzione di città, villaggi e obiettivi civili. È un'aggressione che, dopo gli anni del conflitto nella ex Jugoslavia, ha riportato la guerra nel cuore del nostro continente, minacciando gravemente la pace e la stabilità internazionali. È stata una grande violazione del diritto internazionale, dell'indipendenza e dell'integrità territoriale di uno Stato sovrano, al quale l'Unione europea e la NATO hanno saputo rispondere con una compattezza senza precedenti, dando risposte immediate, approvando pacchetti di sanzioni economiche via via sempre crescenti, aiuti umanitari verso la popolazione ucraina e accogliendo i milioni di profughi in fuga da quel territorio, atrocemente martoriato.

Anche l'Italia ha fatto la sua parte, accogliendo decine di migliaia di profughi, cui ha dato assistenza e ospitalità. Abbiamo tutti ancora negli occhi la straordinaria mobilitazione di cittadini, imprenditori, associazioni e anche delle regioni e dei sindaci, che, ancora una volta, sono stati in prima linea a gestire un'altra emergenza, quando da poco si era conclusa quella legata al COVID-19, e si sono prodigati per aiutare chi scappava dalle bombe. La maggior parte degli Stati dell'Unione europea ha deciso di fornire materiale e mezzi militari a Kiev, contribuendo così a impedire la rapida capitolazione del legittimo Governo e, anzi, consentendo all'Esercito ucraino di resistere e di riguadagnare terreno.

L'Italia ha inviato materiali ed equipaggiamenti militari e i suoi uomini contribuiscono alla sicurezza del fronte est della NATO, in piena coerenza con le politiche decise in sede di Unione europea e di Alleanza atlantica. Il Parlamento, nella scorsa legislatura, ha convertito in legge, praticamente all'unanimità, il decreto-legge 25 febbraio 2022, n. 14, con il quale è stata autorizzata fino al prossimo 31 dicembre la cessione alle autorità governative ucraine di materiali, mezzi ed equipaggiamenti militari, previo atto di indirizzo delle Camere, atto di indirizzo approvato il 1° marzo, con due distinte risoluzioni di Camera e Senato. Con gli strumenti militari, che anche noi abbiamo fornito, abbiamo consentito e stiamo consentendo che l'Ucraina, anziché capitolare, possa esercitare il proprio diritto alla legittima difesa ed essere soggetto politico in grado di sedersi a un prossimo tavolo delle trattative di pace.

Questa guerra ha reso ancora più urgente portare a termine il processo di costruzione della casa comune europea. Le tre dimensioni fondamentali della reazione dei Paesi dell'Unione europea al conflitto, individuate nel corso del Vertice di Versailles del marzo scorso, sono ancora lì, a indicarci la strada: rafforzare la capacità di difesa dell'Unione; ridurre le dipendenze energetiche; costruire una base economica più solida.

In tema di difesa comune è stato deciso un passo in avanti verso l'approvazione della bussola strategica, il nuovo documento strategico di politica estera, di sicurezza e di difesa dell'Unione, che fissa diversi obiettivi per rafforzare la sicurezza dell'Unione e far fronte alle minacce che incombono su di noi, individuando gli strumenti necessari per dare vita a un'Unione europea maggiormente rafforzata e coordinata nel settore della sicurezza e della difesa.

Sul piano della dipendenza energetica, dopo il REPowerEU, occorre continuare a ricercare soluzioni comuni per affrancarsi dalla dipendenza dalle fonti fossili russe, portando a compimento la diversificazione delle fonti energetiche e per risolvere il problema del caro energia, impedendo prioritariamente la speculazione e l'innalzamento dei prezzi che colpiscono pesantemente imprese e famiglie, interrompendo definitivamente la ripresa post pandemica. Lo scorso 11 novembre, la Russia ha lasciato la città di Kherson; questa ritirata, però, è emblematica del fallimento della strategia finora seguita dai russi in Ucraina. A tale smacco Mosca ha reagito con un cambio di tattica: non più una mobilitazione sul territorio con mezzi e uomini, ma attacchi sistematici alle infrastrutture strategiche e vitali dell'Ucraina, con ondate di brutali raid missilistici su città, centrali elettriche, reti di comunicazione e infrastrutture civili, privando così la popolazione ucraina di luce, acqua e riscaldamento alle porte dell'inverno rigido dell'Est Europa. In poche settimane di feroci bombardamenti, più del 70 per cento delle case ucraine è senza luce e riscaldamento, mentre circa metà delle infrastrutture energetiche risulta ormai danneggiata, con conseguenti problemi per la popolazione che si trova a dover affrontare le rigide temperature che stanno rapidamente scendendo sotto gli zero gradi centigradi. Come ha avuto modo di dire il direttore regionale dell'OMS per l'Europa, le vite di milioni di persone saranno a rischio quest'inverno in Ucraina. Si prevede, infatti, che in varie zone del Paese, nei prossimi mesi, le temperature scenderanno a meno 20 gradi centigradi e per riscaldarsi molti saranno costretti a bruciare carbone e legna o ad utilizzare combustibili inquinanti esponendo bambini, anziani e persone con problemi respiratori e cardiovascolari a sostanze tossiche. La strategia russa, quindi, non è più quella di presidiare i territori occupati e continuare ad avanzare sul terreno, ma quella di fiaccare la resistenza Ucraina, per indebolirne ulteriormente la capacità di tenuta, non essendo l'esercito russo in grado di sconfiggere quello Ucraino in una guerra convenzionale. Questi mesi hanno dimostrato ai russi che le loro convinzioni erano del tutto sbagliate: gli ucraini non hanno accolto l'Armata rossa come la forza liberatrice da un ipotetico regime nazista e men che meno la maggioranza del popolo ucraino vuole tornare sotto la Russia; anzi, è stata la forte resistenza dell'esercito e della popolazione civile che ha impedito alle truppe di Mosca di arrivare alla capitale, Kiev; inoltre, questi mesi di aggressione e di efferate brutalità contro la popolazione civile non hanno fatto altro che aumentare la rabbia e il risentimento verso gli invasori. A tutto ciò, i vertici russi non sanno rispondere, se non con ulteriore violenza, sfruttando la loro capacità di colpire l'intero territorio ucraino. Se gli ucraini non vogliono tornare russi, allora - questa è l'aberrante logica che pare muovere i vertici del Cremlino - occorre colpirli con una grande operazione punitiva, quasi terroristica, che non si ferma di fronte a nulla e a nessuno. Non è più una guerra contro i militari, ma una guerra da condurre contro la popolazione civile fino a che, come hanno detto alcuni esponenti russi, l'Ucraina non assumerà una posizione negoziale realistica, il che significherebbe dover accettare la perdita di più del 20 per cento del proprio territorio, rinunciandovi definitivamente, in sostanza, una vera e propria resa. Tuttavia, colpire le infrastrutture energetiche civili dell'Ucraina, oltre che mettere alla prova la risolutezza della popolazione ucraina e del sostegno al Presidente Zelensky, significa saggiare anche la risolutezza del sostegno europeo all'Ucraina di fronte ad una possibile ripresa dell'emergenza umanitaria con nuove ondate di profughi e la richiesta di nuovi aiuti economici ai partner occidentali. Come con l'Unione europea e con l'Alleanza atlantica siamo stati fermi e compatti in questi mesi, così dobbiamo continuare a esserlo ora di fronte a questa nuova fase del conflitto, ma ciò non significa rinunciare a perseguire la via diplomatica per una cessazione delle ostilità e per cercare una pace duratura. Per questo anche il Governo di centrodestra deve, assieme all'Unione europea e ai partner internazionali, continuare a esplorare tutte le strade volte a creare le condizioni affinché le due parti, con la supervisione della comunità internazionale a cominciare dalle Nazioni Unite, possano sedersi a un tavolo delle trattative. Ma è bene ribadirlo: non potrà esservi una pace duratura se l'aggressore vincerà e se prevarrà la legge del più forte. La Russia rimane l'aggressore, l'Ucraina ha il diritto di difendersi e noi vogliamo continuare ad aiutarla. Ciò significa continuare nel supporto umanitario, nell'accoglienza dei profughi e nel fare tutto il possibile per aiutare le autorità ucraine a ripristinare la distribuzione di energia elettrica e di acqua in questo inverno difficile, ma ciò significa anche garantire un eventuale invio di armi soprattutto ora, dove c'è bisogno di sistemi di difesa antimissili, che consentano all'Ucraina di resistere agli attacchi sistemici su obiettivi strategici - lo voglio ricordare - civili. Non inviare mezzi di difesa, non significa essere equidistanti fra le parti ma, di fatto, sarebbe avvantaggiare l'esercito invasore che le armi le possiede. Il modo migliore per aumentare le possibilità di una soluzione pacifica è continuare convintamente a sostenere il coraggioso popolo ucraino stando al suo fianco; un popolo che lotta per mantenere la sua indipendenza, un popolo che ama la libertà, un popolo di grande dignità, un popolo che vuole la pace e non la resa, un popolo che ci vedrà sempre dalla stessa parte per la democrazia e la difesa dei valori di libertà (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia-Berlusconi Presidente-PPE).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Valentina Ghio. Ne ha facoltà.

VALENTINA GHIO (PD-IDP). Signora Presidente, onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, siamo a discutere oggi di un argomento di grande importanza. L'invasione dell'Ucraina da parte della Federazione Russa rappresenta una violazione di principi e norme che regolano la vita della comunità internazionale. Con essa la Federazione Russa si è resa colpevole di una gravissima violazione del diritto internazionale, aggredendo l'Ucraina con atrocità e azioni ostili, in particolare nei confronti di civili e lo dimostrano le azioni di questi giorni, infatti, sta agendo sempre più in modo devastante dopo i bombardamenti a Kherson, con città sempre più isolate, persone costrette a vivere senza energia elettrica, allo stremo delle forze.

All'inizio del decimo mese di guerra, il conflitto continua a provocare ingenti perdite umane, sofferenze e distruzioni, nonché consistenti flussi di profughi e una grave emergenza umanitaria: sono oltre 5,6 milioni i rifugiati registrati dall'ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite, il 90 per cento dei quali sono donne e bambini; si tratta della più grande emigrazione forzata di profughi interni e internazionali di questo nuovo secolo e millennio.

“Il vostro dolore è il mio dolore”, scrive Papa Francesco in questi giorni al popolo ucraino, in una bella lettera colma di parole di identificazione profonda con un popolo che soffre, invitando le autorità a prendere decisioni lungimiranti per la pace. La distruzione delle infrastrutture a partire da quelle energetiche, colpisce milioni di cittadini ucraini, 10 milioni dicono i dati; l'inverno e il freddo sopraggiunti contribuiranno a gonfiare ulteriormente l'esodo, andando a rendere ancora più urgente la gestione di una già imponente crisi umanitaria. Quindi, anche per queste ragioni, dobbiamo ribadire il pieno sostegno al popolo ucraino con tutte le forme di assistenza necessarie e con quelle che consentano di affrontare la crisi umanitaria. Su questo, insieme ai percorsi necessari di ricerca della pace, voglio focalizzare alcuni concetti: l'Europa ha risposto da subito alla crisi umanitaria dell'Ucraina in modo unitario e solidale; il Consiglio europeo ha deciso di introdurre una protezione temporanea automatica con diritto di soggiorno immediato, con diritti armonizzati, come l'assistenza medica, l'istruzione e il diritto all'alloggio. La reazione di grande solidarietà nei confronti dei rifugiati è stata sostenuta concretamente anche dai cittadini europei e italiani, con un grande sforzo ancora una volta sostenuto dai nostri sindaci e dai comuni.

I profughi ucraini sono stati accolti nelle case di migliaia di famiglie italiane ed europee, anche nei Paesi finora più contrari all'accoglienza dei rifugiati, come la Polonia.

Questo è un tema urgente di cui dobbiamo farci carico con più intensità, a partire dalle nuove misure che dovrà intraprendere il Governo in questa direzione, con risorse economiche e strumenti organizzativi da destinare a questo scopo, sostenendo i territori, sia per la permanenza e l'integrazione delle persone già da mesi presenti sia per fare fronte alla prevedibile ondata di nuovi profughi che l'emergenza energetica e l'escalation dei bombardamenti genereranno. Un fenomeno migratorio che può diventare strutturale e che comporta risposte immediate di gestione abitativa, sanitaria, di integrazione scolastica, di mediazione linguistica, di inserimento lavorativo, che non bisogna lasciare soltanto, ancora una volta, sulle spalle degli enti locali.

Noi chiediamo di continuare a garantire pieno sostegno e solidarietà al popolo ucraino mediante tutte le forme di assistenza necessaria in tempi di guerra, insieme agli aiuti umanitari urgenti per assicurare l'obiettivo primario del farsi carico delle persone civili in fuga, come dicevo, o di quelle rimaste nell'incubo quotidiano della vita attuale del loro Paese. E chiediamo oggi, con forza, di utilizzare tutti gli spiragli e i percorsi possibili per mettere in atto, con concretezza e celerità, le azioni di pace necessarie per evitare l'acutizzarsi di questo conflitto. L'esasperazione e anche l'intensificarsi e il protrarsi del conflitto rendono certamente più complessa l'azione della diplomazia per avviare i negoziati per il cessate il fuoco. Ma è questa la via da perseguire, è una via da perseguire cercando di programmare e condividere, come comunità internazionale, anche quello che dovrà venire dopo il cessate il fuoco, sia per la tutela della popolazione che abita lo Stato ucraino sia per la tutela dell'Europa. Secondo le stime correnti, ad oggi, la ricostruzione dell'Ucraina è stimata in 750 miliardi di euro, laddove il PIL dell'Ucraina è sotto i 200 miliardi. Su questo obiettivo dobbiamo collaborare tutti.

Queste sono riflessioni necessarie affinché al cessate il fuoco, che auspichiamo tutti, segua una pace vera. Per questo obiettivo si devono tenere insieme diversi fattori: la ricostruzione, il ritorno dei profughi che lo vorranno nel territorio ucraino, oltre che la considerazione dell'evoluzione della situazione politica interna alla Russia. La richiesta di pace è stata portata a gran voce anche dalla grande piazza di Roma del 5 novembre scorso, che ha evidenziato plasticamente la solidarietà dei manifestanti al popolo ucraino aggredito e che ha evidenziato come nel nostro Paese sia forte la richiesta di una pace rapida e giusta. Di questa istanza, di questa consapevolezza, che riguarda il rispetto delle vite degli ucraini, ma anche la salvezza dei Paesi poveri del Pianeta colpiti fortemente dalla crisi alimentare generata dal conflitto, che riguarda la volontà di evitare il rischio di escalation nucleare per ampia parte del mondo, dobbiamo farci carico con urgenza, affinché l'Europa, nel suo complesso, eserciti un ruolo decisivo verso questa direzione.

Il nostro Paese deve essere incisivo nello stimolare e nel sollecitare l'azione dell'Unione europea, che deve trovare coesione sia nel sostegno, in tutte le forme, al popolo ucraino, che nella fattiva mobilitazione per la pace. L'Europa deve trovare unità, parlare ad una voce sola, con forza, deve esercitare un ruolo autonomo per evitare ulteriori escalation, per evitare i rischi che ciò comporta, per scongiurare nuove contrapposizioni tra Russia e Stati Uniti che riporterebbero pericolosamente indietro la storia, per traguardare la via del cessate il fuoco. Ancora una volta, diciamo che chiedere pace non significa dimenticare che c'è un aggressore e un aggredito e, quindi, riconoscere una responsabilità precisa e, per questa ragione, la mozione che proponiamo, nel ribadire in ogni sua parte il riconoscimento delle prerogative dell'Ucraina e le necessità di sostegno, mette al primo punto l'avvio di un percorso diplomatico per una conferenza di pace che, nel quadro della collaborazione fra Paesi dell'Unione europea e Alleanza atlantica, lavori per il cessate il fuoco e, al secondo, il continuare a dare pieno sostegno e solidarietà a popolazione e istituzioni ucraine con tutte le forme necessarie. Su questi punti, la posizione del Partito Democratico è chiara, ma chiediamo che anche il Governo abbia una linea altrettanto chiara e la esponga in un confronto parlamentare, non attraverso un emendamento in un decreto centrato su altre questioni. Il Partito Democratico continua ad avere chiarezza della necessità di sostegno all'Ucraina e di attivazione di tutti i percorsi possibili per il cessate il fuoco.

PRESIDENTE. Deputata, dovrebbe avviarsi a concludere.

VALENTINA GHIO (PD-IDP). Questa chiarezza - e concludo - non ci sembra di scorgere nei passaggi di queste ore del Governo, che deve avviare un ampio coinvolgimento delle Camere. Sono temi che riguardano la politica estera, il presente e il futuro dell'umanità: non possono essere risolti a colpi di emendamenti! Il Governo deve venire ad esporre la propria posizione al Parlamento e coinvolgerlo appieno, come prevede la democrazia parlamentare (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Mura. Ne ha facoltà.

FRANCESCO MURA (FDI). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, membri del Governo, nella storia della nostra Repubblica, il percorso della destra italiana, oggi rappresentata dal mio partito, da Fratelli d'Italia, si è sempre contraddistinto per aver tenuto al centro del proprio cammino, al di sopra di ogni altro tema, il concetto della patria. Siamo oggi, come lo eravamo ieri, i più convinti sostenitori della sovranità della nostra Nazione. E, se solo per un minuto provassimo il tragico esercizio di immedesimarci nei panni di un nostro coetaneo ucraino che, come noi, ama la terra dei padri, la sua bandiera, il suo inno nazionale o, molto più concretamente, la libertà di poter vivere nella propria nazione con i diritti di un cittadino europeo quale è, capiremmo, in quel solo minuto, la sofferenza e il desiderio di rivalsa che gli ucraini stanno vivendo oggi, ormai da 9 mesi dentro un conflitto che, in maniera unilaterale, nel totale dispregio dei fondamenti costitutivi della Carta delle Nazioni, la Federazione Russa ha scatenato contro la nazione sovrana Ucraina. Un conflitto che segna la fine di un'epoca di pace diffusa in Europa e che, oltre a minare il diritto di autodeterminazione del popolo ucraino, al quale rinnoviamo tutta la nostra solidarietà e fraterna vicinanza, va a minare la stabilità delle stesse culture occidentali, vero grande valore di civiltà.

L'articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite sul divieto dell'uso della forza sancisce che ogni Stato deve astenersi nelle sue relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. Tale principio, dapprima subordinato all'assoluta preminenza del diritto di sovranità degli Stati, è ormai diventato il fulcro attorno al quale ruotano oggi le relazioni internazionali ed è alla base della condanna internazionale della Federazione Russa per l'invasione dell'Ucraina. Vi è, dall'altra parte, il diritto fondamentale alla legittima difesa, che garantisce agli Stati che si trovino in una particolare condizione, come ora è l'Ucraina, vittima di un attacco armato, la possibilità di agire a tutela della propria sovranità e della propria indipendenza politica o territoriale. E, se il diritto alla legittima difesa giustifica la richiesta di aiuti militari e di supporto logistico da parte dello Stato offeso, anche le conseguenze della guerra sull'economia mondiale, sulla crisi energetica e sulla crisi alimentare di alcune zone del Pianeta non possono lasciarci indifferenti e spettatori passivi di questa tragedia, senza intraprendere tutte le iniziative necessarie a porre fine, nel più breve tempo possibile, al conflitto in atto. Voltare le spalle di fronte all'aggressione nel cuore dell'Europa della Federazione Russa al popolo ucraino, senza fornire loro tutti i mezzi necessari per poter esercitare il sacrosanto diritto alla legittima difesa, significherebbe non riconoscere come fondamento del diritto internazionale i principi di sovranità, integrità territoriale e autodeterminazione dei popoli; significherebbe minare e stravolgere l'ordine internazionale, faticosamente e dolorosamente raggiunto nel Ventesimo secolo con il dolore e il sacrificio di milioni di persone; significherebbe voltare le spalle a se stessi, a noi tutti, alla storia del nostro Paese, alla storia dell'Europa intera e della sua civiltà millenaria.

L'aggressione russa ha portato la guerra nel cuore dell'Europa, minacciando la stabilità internazionale delle nostre nazioni e causando contraccolpi devastanti per le nostre economie, rimettendo in discussione tutto il sistema di approvvigionamento energetico e delle materie prime.

Sarà fondamentale per la nostra Nazione proseguire sul solco tracciato dal nostro Presidente, Giorgia Meloni, in una nuova stagione di accordi internazionali, all'interno di quella che è la collocazione naturale dell'Italia, in maniera indiscutibile, dentro l'Alleanza atlantica, nel pieno sostegno al valoroso popolo ucraino, come ha detto il nostro Presidente, non soltanto perché è inaccettabile l'aggressione di una Nazione sovrana, ma anche per tutelare il nostro interesse nazionale. Interesse nazionale che diventa centrale in questa fase, dove la Federazione Russa attua una aggressione militare all'Ucraina e una aggressione economica al resto dell'Occidente.

L'intento malsano di voler limitare le forniture di gas deve indurci a pensare con la massima celerità a nuove forme di approvvigionamento energetico. Bene fa il Governo a sostenere con forza che sia finito il tempo dei “no” a tutto. L'Italia deve trovare il modo per essere quanto più autonoma possibile e nel più breve tempo possibile, se vuole raggiungere un livello di indipendenza energetica accettabile e quindi un livello di sovranità accettabile.

La strada per raggiungere l'obiettivo passa inequivocabilmente dal coinvolgimento dei territori e degli enti locali, che sapranno senza ombra di dubbio contribuire fattivamente con il Governo alla ricerca di soluzioni energetiche, ma è di fondamentale importanza velocizzare tutte le procedure autorizzative ambientali e paesaggistiche, ovviamente nel pieno rispetto dei vincoli idrogeologici, per evitare che le popolazioni siano messe a rischio, con la consapevolezza che questa battaglia si vince mettendo a sistema tutte le istituzioni centrali e locali, con l'unico obiettivo finale dell'autonomia energetica, non più derogabile.

Risulta, inoltre, sempre più fondamentale la necessità di rafforzare il nostro apparato militare, portando la spesa per la difesa nazionale fino almeno al 2 per cento del prodotto interno lordo, escludendo nella riforma del Patto di stabilità la spesa per gli investimenti militari dal computo dei vincoli di bilancio.

Troppo spesso i nostri militari e il nostro Esercito sono stati oggetto di attacchi ideologici da parte di persone che vorrebbero vivere in un mondo fiabesco, dove le nazioni possono rinunciare alla difesa dei propri confini e delle proprie libertà. Ma la tragedia ucraina, suo malgrado, avrà sicuramente risvegliato le coscienze e avrà avuto almeno il triste merito di restituire dignità alle donne e agli uomini delle nostre Forze armate, facendo tacere una volta per tutte le insostenibili voci dell'antimilitarismo militante. La capacità di azione del nostro Esercito è fondamentale per garantire autorevolezza al nostro Governo ed al nostro sistema diplomatico, che tanto è evocato anche nelle mozioni di alcuni gruppi di opposizione, dove, in maniera non troppo velata, si fa riferimento a cambi di strategia e approccio, alludendo a trattati di pace che in maniera oggettiva non possono esistere senza il riconoscimento della Nazione ucraina invasa dalla Russia, che non accetta affatto alcun cambio di approccio.

A chi, in quest'Aula, parla di una strada esclusivamente diplomatica per arrivare alla pace nel martoriato territorio ucraino, chiedendo di interrompere l'invio di armi all'Ucraina, vi è da chiedere quali siano i mezzi diplomatici che da soli possono indurre la Federazione Russa ad interrompere l'invasione.

Come disse qualcuno in un passato non troppo lontano in Europa, non si può trattare con la tigre se la tua testa è dentro le sue fauci. Non vi è contrasto tra l'uso della forza per difendersi da un'invasione armata e l'azione della diplomazia. Sono due strade che devono essere percorse parallelamente, fino ad arrivare alla convergenza finale del termine del conflitto e ristabilire l'equilibrio geopolitico di quell'area. Senza le azioni diplomatiche il conflitto durerebbe un tempo inaccettabile, con gravi conseguenze per la popolazione ucraina, ma ancor più gravi sarebbero le conseguenze affidandosi unicamente all'azione diplomatica e lasciando l'Ucraina a difendersi solo con i propri mezzi in una lotta impari. Significherebbe attendere l'inesorabile sconfitta di una Nazione sovrana e la sua sottomissione alla Federazione Russa, situazione inaccettabile per l'Europa e per l'equilibrio geopolitico mondiale.

Da parte di questo Parlamento deve essere ferma e totale la condanna dell'invasione dell'Ucraina da parte della Federazione Russa, così come fermi e totali devono essere il sostegno militare con l'invio di armi alla legittima difesa della Nazione Ucraina, il sostegno alimentare e sanitario in loco della sua popolazione, e l'accoglienza e l'assistenza dei profughi che abbandonano la propria terra attraverso corridoi umanitari che salvaguardino la parte di popolazione più fragile, bambini e anziani in primis, garantendo loro accoglienza presso gli Stati europei.

Correttamente e coerentemente, il mio partito, sin dall'inizio del conflitto, ha dichiarato la propria contrarietà all'invasione russa in Ucraina e ha avuto il buon senso di condividere azioni in favore della credibilità italiana, per dare tutto il sostegno militare e fornire assistenza umanitaria, finanziaria ed economica al popolo ucraino; e lo ha fatto pur essendo, allora, all'opposizione, con lo spirito costruttivo di chi non fa opposizione preconcetta e contrapposizione integrale su tutto, cosa cui purtroppo stiamo assistendo in queste ore e in questi giorni.

Fratelli d'Italia è, oggi come allora, fermamente convinto della necessità di un sostegno umanitario e militare all'Ucraina, intensificando l'azione diplomatica nella ricerca di una risoluzione di pace che garantisca la sovranità e l'integrità territoriale dell'Ucraina. Il nostro auspicio è che oggi quest'Aula possa spogliarsi da qualsiasi titubanza e distinguo e decida di sostenere all'unanimità la scelta di stare dalla parte dell'Occidente, dalla parte della libertà e dalla parte dell'Ucraina (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Giangiacomo Calovini. Ne ha facoltà.

GIANGIACOMO CALOVINI (FDI). Grazie, Presidente. Presidente, onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, non è facile intervenire su un tema come quello del conflitto tra Ucraina e Russia, un argomento tanto delicato sotto molteplici aspetti e che, dal febbraio di quest'anno, ha avuto un forte impatto anche sul nostro Paese.

Non è facile intervenire, non certo perché da parte nostra non vi sia la certezza di chi ha torto o di chi ha ragione, in questa tragedia che è innanzitutto umanitaria, ma perché siamo consapevoli che ogni decisione che è stata adottata e che verrà adottata da questo Parlamento avrà conseguenze impattanti sotto il profilo economico, militare e, ancor più, umanitario.

Crediamo sia ormai chiaro a tutti che, da più di nove mesi, la Federazione Russa ha deciso di perpetrare una inammissibile aggressione nei confronti dei confini ucraini e del popolo ucraino. Un'aggressione che ci ha portato, senza dubbio alcuno, a prendere sin da subito una posizione di ferma e netta condanna, che oggi più che mai vogliamo rimarcare in quest'Aula.

È per noi inaccettabile che nel cuore dell'Europa si cerchi di rovesciare il diritto di esistere di una Nazione attraverso feroci e violenti attacchi, che violano ogni principio universalmente riconosciuto dalla Carta delle Nazioni Unite. Ed è altrettanto inammissibile, secondo noi, continuare ad assistere ogni giorno agli appelli di aiuto sempre più insistenti da parte dell'inerme popolazione civile, che da mesi è ormai oggetto di costanti e indicibili orrori, così come di insopportabili sofferenze.

Tale terribile scenario ha, inoltre, continuato a rendere più instabile l'equilibrio geopolitico. Il conflitto ucraino - che ha riportato la guerra vicino a noi dopo più di mezzo secolo di pace, se si eccettua forse la tragedia dei Balcani che tutti noi abbiamo ancora purtroppo in mente - sta, infatti, minacciando la pace e la stabilità internazionale, continuando a produrre gravi effetti negativi a livello globale, a livello energetico e sociale, così come a livello economico, produttivo e anche alimentare, e ha messo in ginocchio l'intero sistema regionale di approvvigionamento del grano, mostrando tutti i limiti di alcune politiche passate in questo settore.

È chiaro, Presidente, che oggi come non mai dobbiamo ragionare adottando nuovi paradigmi, comprendendo che gli equilibri geopolitici sono tutti variati e che si rendono necessarie nuove strategie, volte a contribuire innanzitutto alla sicurezza della nostra Nazione.

Cosa possiamo fare allora? Innanzitutto, deve essere affrontato l'aspetto militare, di cui spesso ci si è dimenticati. Dopo il summit di Madrid dello scorso giugno, la NATO ha definito un nuovo Concetto strategico 2022, che ha evidenziato come - cito testualmente - l'area euro-atlantica non è più in pace e che viviamo - citando sempre testualmente - un tempo critico per la sicurezza, la pace internazionale e la stabilità.

Quanto scritto, colleghi, sembra delineare una sorta di ritorno al passato, in parziale discontinuità con le forme che l'Alleanza atlantica, di cui noi facciamo orgogliosamente parte con convinzione, ha assunto nell'ultimo trentennio, e non perché sia cambiato il suo obiettivo di lungo periodo, ossia salvaguardare la libertà e la sicurezza degli alleati, assicurando la difesa collettiva contro la minaccia proveniente da ogni direzione, né perché sono stati modificati i 3 principi cardine, quali la deterrenza e la difesa, la gestione della crisi e la sicurezza cooperativa, che, al contrario, sono stati nuovamente ribaditi all'interno del documento. Ciò che dobbiamo comprendere è che l'attacco russo potrebbe indurre la NATO a tornare a occuparsi prioritariamente del contrasto ai tentativi di cambiamento dello status quo internazionale perpetrati attraverso la violenza. Pertanto - e qui sta un punto fondamentale - la politica nazionale deve prenderne atto.

C'è, poi, un secondo aspetto, che merita una nostra riflessione, ed è quello politico, sotto il profilo europeo. Senza l'aggressione del 24 febbraio, molto probabilmente, non ci sarebbe stata una nuova fase di allargamento, che sta permettendo l'ingresso rapido nell'Alleanza a Svezia e Finlandia. Questi Paesi, che durante la Guerra Fredda furono costretti a mantenere una rigida neutralità, al termine del conflitto erano entrati nell'Unione europea, ma non nella NATO. Il loro ingresso nell'Alleanza atlantica oggi è una realtà, così come lo è il dibattito - seppur timido, per carità - di una possibile adesione per Irlanda, Austria e addirittura Svizzera. Non solo: la reazione di ferma condanna dell'Unione europea è stata immediatamente intransigente, prima, attraverso un sistema di sanzioni nei confronti della Federazione russa e, poi, attraverso un considerevole sostegno all'Ucraina in termini di aiuti militari, che le hanno permesso di sopravvivere e su cui oggi ci stiamo tutti confrontando. Questa posizione, energica, da parte di Bruxelles ha smorzato le crescenti frizioni, che stavano prendendo forma tra gli alleati europei intorno al futuro dell'Alleanza stessa, così come sul ruolo europeo in ambito militare e anche strategico. C'era, infatti, la visione dei Paesi dell'Est, convinti che la NATO dovesse continuare a occuparsi della stessa minaccia di sempre, ovvero la Russia, con gli stessi strumenti di deterrenza e difesa. C'era, poi, la visione dei Paesi dell'Europa meridionale, Italia in testa, che le chiedevano di occuparsi paritariamente delle minacce provenienti dal fianco Est e dal fianco Sud. Infine, c'era la visione anglosassone, che ambiva a trasformarla in una alleanza sempre più globale, allargandone ulteriormente il raggio d'azione, rilanciando gli impegni in temi di sicurezza cooperativa. Lo choc provocato dall'aggressione russa all'Ucraina ha inevitabilmente rafforzato la prima delle tre posizioni, se così si può dire, ponendo nuovamente l'attenzione, da parte nostra, negli alleati, avvicinandoci gli uni agli altri e alla necessità di una nuova strategia militare. Fino ad oggi, colleghi, ci siamo comportati nel modo corretto, ed è giusto rimarcarlo. In piena coerenza con le politiche stabilite dall'Europa e nel rispetto degli impegni internazionali, il Parlamento ha approvato, nei mesi scorsi, la cessione alle autorità governative ucraine di materiali, mezzi ed equipaggi.

Ecco - e mi avvio alla conclusione -, il terzo punto, su cui vorrei riflettere oggi insieme a voi. La politica italiana deve avere il coraggio di fare scelte che guardino al futuro della nostra Nazione, che tutelino i nostri confini e che garantiscono la sicurezza dei nostri concittadini. Durante l'insediamento del nuovo Governo, il Presidente del Consiglio Meloni ha rimarcato - cito testualmente - che “l'Italia continuerà a essere partner affidabile in seno all'Alleanza atlantica, a partire dal sostegno al valoroso popolo ucraino, che si oppone all'invasione della Federazione russa, non soltanto perché non possiamo accettare la guerra di aggressione e la violazione dell'integrità territoriale di una Nazione sovrana, ma anche perché è il modo migliore di difendere il nostro interesse nazionale”. Queste parole nascono da una chiara decisione e visione politica, nascono da una forte volontà di garantire sostegno e vicinanza al popolo ucraino affinché si metta fine a questa tragedia umanitaria, nascono con la voglia di condividere con i partner europei occidentali la capacità di agire in contesti di prevenzione e gestione delle crisi, rafforzando i rapporti di partenariato. Queste parole nascono con l'auspicio di poter dare vita, a fianco degli alleati, a una serie di iniziative diplomatiche, volte a creare le condizioni per un negoziato di pace, nel rispetto delle norme di diritto internazionale e della sovranità e dell'integrità territoriale, a cui tutti noi dobbiamo, per forza e con forza, credere (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. Saluto la delegazione di studenti e studentesse dell'Università di Varsavia che assistono ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).

È iscritto a parlare il deputato Care'. Ne ha facoltà.

NICOLA CARE' (PD-IDP). Grazie, Presidente. Colleghe e colleghi, come ci ha di recente ricordato il Presidente Mattarella, l'Italia ha scelto di non avere Paesi nemici e lavora intensamente per il consolidamento di una collettività internazionale, al fine di garantire universalmente pace, sviluppo e promozione dei diritti umani.

Siamo spinti dal solenne impegno alla rinuncia della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. L'aggressione all'Ucraina da parte della Russia pone in discussione i fondamenti stessi della nostra società internazionale, a partire dalla coesistenza pacifica. L'inasprirsi del conflitto conduce soltanto ad accrescere l'odio, a negare le ragioni della libertà e della democrazia. Occorre ripristinare una rinnovata legalità internazionale. L'Italia ha condannato immediatamente e con assoluta fermezza l'aggressione russa all'Ucraina e siamo attivamente coinvolti, nell'ambito della NATO, a dare il nostro contributo per irrobustire la postura di deterrenza e difesa negli spazi orientali dell'area euro-atlantica.

Un conflitto come quello in corso ha inevitabilmente effetti globali. La comunità internazionale vede pesantemente messi in discussione i risultati faticosamente raggiunti negli ultimi decenni. Trovarsi nuovamente immersi in una guerra, che sta generando morte e distruzione e che non accenna a fermarsi, richiama immediatamente alla responsabilità. E l'Italia è convintamente impegnata, a più livelli, nella ricerca di vie di uscita dal conflitto, che portino al ritiro delle truppe occupanti e alla ricostruzione dell'Ucraina. Sono stati messi a repentaglio valori democratici e liberali dell'Occidente e l'Italia ha supportato l'Ucraina, sia politicamente sia materialmente, sin dalla prima fase dell'invasione, partecipando alle sanzioni nei confronti della Russia e con l'invio di aiuti militari. Siamo - e saremo - al fianco di Kiev, per porre fine all'aggressione e arrivare a una pace vera, rispettosa del diritto. In linea con la Carta delle Nazioni Unite e con il diritto internazionale, l'Ucraina ha esercitato il suo legittimo diritto di difendersi dall'aggressione russa, per riconquistare il pieno controllo del proprio territorio e liberare i territori occupati contro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale.

Con lucidità e con coraggio, occorre porre fine - e lo ribadisco - all'insensatezza della guerra e promuovere le ragioni della pace. Non è un conflitto con effetti soltanto nel teatro bellico: le conseguenze della guerra riguardano tutti, ai vari livelli e le sofferenze si vanno allargando, colpendo altri popoli e nazioni. Accanto alle vittime e alle devastazioni provocate sul territorio dello scontro, la rottura determinata nelle relazioni internazionali si riverbera sempre più sulla sicurezza alimentare di molti Paesi e sull'ambito della coesione delle normali relazioni, incluse quelle economiche e commerciali. Per impedire che la crisi umanitaria continui ad aggravarsi, dobbiamo raggiungere il prima possibile un cessate il fuoco. Putin definisce il conflitto in corso un'operazione militare speciale per la denazificazione dell'Ucraina. Io la considero una scelta di disumanità, uno sfregio, con morti, milioni di persone che devono lasciare il loro Paese, donne stuprate, bambini perduti.

C'è qualcosa di tanto disumano in quello che sta accadendo, che non c'è ragione politica che possa giustificare Tuttavia, ciò da cui noi dobbiamo partire, oltre allo scandalo di questa invasione, è domandarci come si possa fermare questo scandalo. Questa guerra ha mostrato anche il volto solidale del nostro Paese, che si è adoperato per l'accoglienza, per offrire aiuti materiali alla popolazione fuggita dalla guerra e per costruire reti territoriali di sostegno. Gli scenari di guerra negli ultimi mesi ci hanno insegnato che, se l'Unione europea vuole essere non solo un gigante economico, ma anche un attore globale, capace di incidere nel nuovo scenario internazionale, deve dotarsi di strumenti di decisione più efficaci. La crisi internazionale causata dal conflitto si intreccia con la crisi energetica già in corso, che ha portato aumenti in bolletta. A questo si aggiunge la crisi del grano, una crisi alimentare, in primis in Europa, ma che, soprattutto come crisi alimentare, mette in ginocchio i Paesi più poveri del mondo. Tutti noi abbiamo speranza e cognizione che istituire una trattativa di pace è la via da perseguire.

Tutti dobbiamo sostenere il ruolo dell'Italia nell'avvio di un percorso diplomatico per la costruzione di una conferenza di pace, così come, fra l'altro, ha chiesto a gran voce anche una manifestazione pacifica del 5 novembre scorso, che ha riunito tantissime persone in piazza e che chiedeva all'Italia, all'Unione Europea, agli Stati membri e alle Nazioni Unite l'impegno ad assumersi la responsabilità del negoziato per fermare l'escalation e raggiungere l'immediato cessate il fuoco, l'impegno a convocare urgentemente una conferenza internazionale per la pace per ristabilire il rispetto del diritto internazionale, per garantire la sicurezza reciproca e impegnare tutti gli Stati ad eliminare le armi nucleari, visto che c'è da scongiurare anche il rischio di una guerra nucleare.

In sintesi, dunque, come Partito Democratico, chiediamo al Governo di adoperarsi in ogni sede internazionale per l'immediato cessate il fuoco e il ritiro di tutte le forze militari russe; di continuare a garantire pieno sostegno al popolo e alle istituzioni ucraine mediante tutte le forme di assistenza necessaria nell'attuale scenario; di adoperarsi in sede europea e internazionale per promuovere azioni di solidarietà nei confronti dei cittadini russi perseguitati, arrestati o costretti a fuggire dal Paese per aver protestato contro il regime e contro la guerra; a provvedere a misure di sostegno alle imprese per i maggiori oneri derivanti dalle applicazioni di sanzioni; a definire ogni soluzione necessaria per assicurare la sicurezza alimentare a livello globale attraverso corridoi sicuri. La pace è urgente e necessaria, la via per costruirla passa da un ristabilimento della verità, del diritto internazionale, della libertà del popolo ucraino (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali. Chiedo al Governo se intenda intervenire o si riservi di farlo successivamente.

MARIA TRIPODI, Sottosegretaria di Stato per gli Affari esteri e la cooperazione internazionale. Grazie, Presidente. Il Governo si riserva di intervenire successivamente.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad atra seduta.

Discussione delle mozioni Orlando ed altri n. 1-00012 e Conte ed altri n. 1-00023 concernenti iniziative volte all'introduzione del salario minimo.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Orlando ed altri n. 1-00012 (Nuova formulazione) e Conte ed altri n. 1-00023 concernenti iniziative volte all'introduzione del salario minimo (Vedi l'allegato A).

La ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicata nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta del 23 novembre 2022 (Vedi l'allegato A della seduta del 23 novembre 2022).

Avverto che sono state presentate le mozioni Richetti n. 1-00026 e Grimaldi ed altri n. 1-00028 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione (Vedi l'allegato A).

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

Avverto sin d'ora che procederemo ora ai soli interventi per l'illustrazione delle mozioni, per poi sospendere la discussione, che riprenderà alle ore 14,30.

È iscritto a parlare il deputato Sarracino, che illustrerà la mozione n. 1-00012 (Nuova formulazione), di cui è cofirmatario.

MARCO SARRACINO (PD-IDP). Presidente, onorevoli colleghi e onorevoli colleghe, mai avrei voluto cominciare questo mio primo intervento così, ma, da parlamentare della provincia di Napoli, utilizzo anche questa circostanza per esprimere, ancora una volta, la vicinanza e la solidarietà mia e del mio gruppo a tutta la comunità dell'isola di Ischia e del comune di Casamicciola, perché siamo dinanzi a una tragedia che, in questo momento, necessita di tutta la collaborazione istituzionale, e il nostro cordoglio va alle famiglie delle vittime, il nostro ringraziamento a chi è impegnato nei soccorsi, compiuti da un numero impressionante di volontari, che sono la prova del grande cuore di quel popolo, che ha sofferto troppe volte eventi tragici come quello di sabato.

Voglio iniziare questo intervento da una premessa e da una considerazione politica netta, radicale: il salario minimo è e sarà una delle battaglie identitarie del Partito Democratico, ed è su questi temi che la nostra forza politica caratterizzerà l'iniziativa parlamentare in questa legislatura, perché in Italia esiste una questione sociale non più rinviabile, e questa crisi purtroppo la sta aggravando. Ci sono diseguaglianze economiche che hanno raggiunto livelli che non sono più accettabili dal punto di vista etico.

Oggi, nel nostro Paese il 20 per cento più ricco della popolazione detiene il 70 per cento della ricchezza nazionale, la forbice tra chi ha e chi non ha continua ad allargarsi. Ci sono aziende, ne abbiamo parlato più volte, che hanno realizzato extraprofitti senza averne alcun merito. Crediamo che una politica che riaffermi una nuova giustizia sociale, che vada nella direzione di una redistribuzione delle ricchezze, ma anche delle opportunità, sia assolutamente prioritaria in un momento come questo.

La manovra di bilancio varata da questo Governo purtroppo non va in questa direzione, anzi. Sul tema del lavoro non c'è praticamente nulla, anzi, qualcosa c'è: si reintroducono i voucher, che non fanno altro che aumentare ed esaltare la precarietà. Noi, invece, riteniamo fondamentale in questo momento affrontare con urgenza la questione salariale, perché i salari degli italiani crescono poco, anzi, non crescono affatto. Ma oggi siamo dinanzi a un fatto nuovo: abbiamo un'inflazione, un costo della vita, dell'energia, che è cresciuto esponenzialmente in pochissimi mesi rispetto ai salari.

Oggi milioni di italiani rischiano di non farcela, e questo si manifesta con maggiore impatto soprattutto tra chi ha salari che non sono assolutamente accettabili. Non è possibile che una persona che la mattina si sveglia e va a lavorare si ritrovi poi a vivere in condizioni di povertà, non è tollerabile. Eppure questo avviene, avviene che ci sono 2 milioni e più di italiani che, nonostante vadano a lavorare, siano poi poveri. E voglio ricordare anche in maniera pleonastica, ma penso sia necessario, che basse retribuzioni oggi significano basse pensioni domani. Generalmente a vivere così sono le fasce più deboli, con meno diritti, giovani e donne. E questo è un fenomeno che, come racconta anche il rapporto Svimez presentato ieri, si accentua particolarmente nelle aree metropolitane e al Sud.

Proprio dal Sud voglio raccontare una storia che si è verificata questa estate, che è un po' il simbolo di quello che si verifica alcune volte nel nostro Paese. Una ragazza di Secondigliano, nella periferia di Napoli, è arrivata alle cronache nazionali, perché su uno dei social del momento ha postato un video con migliaia di visualizzazioni in cui denunciava di avere avuto un'offerta di lavoro, come commessa, per 280 euro al mese, 280 euro al mese! Ci rendiamo conto? La ragazza ha rifiutato quell'offerta di lavoro, tanti suoi coetanei non sono nelle condizioni di poterlo fare. E sapete che cosa ha dichiarato, che cosa ha scritto quel presunto datore di lavoro? Che i giovani di oggi non vogliono lavorare. Ma non è vero, i giovani di oggi non vogliono essere sfruttati, che è una cosa molto diversa, molto diversa (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista)! E noi saremo al loro fianco. Ora è chiaro che questo è un esempio limite, ma il salario medio di un under 35 nel nostro Paese è comunque di 850 euro al mese, di questo parliamo.

Come può un ragazzo progettare il futuro in queste condizioni? Come può pagare un affitto, costruirsi una famiglia? Voi parlate dell'immigrazione, ma non vedete che il principale problema di questo Paese è quello che viene chiamato inverno demografico. Una situazione resa ancora più complessa da quel fenomeno che vede migliaia di ragazzi e ragazze andare via ogni anno, perché il loro diritto a restare viene messo in discussione da condizioni di lavoro che non garantiscono nulla, da contratti che forse hanno un carattere legale, ma non ti permettono di poter vivere. Ecco perché riteniamo che sia arrivato il tempo di istituire un salario minimo con una sua quantificazione a 9,50 euro all'ora, perché, oltre le parole, occorrono anche strumenti alle persone per vivere una vita dignitosa e rivendicare i propri diritti. Noi vogliamo però avanzare questa proposta, arrivando ad un sano confronto anche con le parti sociali, perché quella del salario minimo è una questione che si lega ad altri tasselli molto importanti, la formazione dei lavoratori e anche il tema della rappresentanza.

Ed è per questo che è necessario il confronto con le parti sociali, disinnescando potenziali tensioni e potenziali conflitti. Per questi motivi, con questa mozione, il Partito Democratico impegna il Governo ad avere una road map in grado di giungere al recepimento della direttiva comunitaria in tempi brevi. Puntiamo immediatamente alla definizione della retribuzione minima legale, facendo innanzitutto riferimento ai principali contratti collettivi nazionali sottoscritti da datori e prestatori di lavoro più rappresentativi, ma prevedendo, ripeto, che il trattamento economico corrisposto ai lavoratori non possa essere inferiore a 9,50 euro all'ora, al lordo degli oneri contributivi e previdenziali, perché esiste una soglia sotto la quale non si tratta più di lavoro, ma si tratta di sfruttamento, e questo è inaccettabile.

Siamo convinti che il senso di responsabilità che dovrebbe accompagnare tutte le forze politiche ci guiderà in questo percorso, non facile, ma necessario. Per quel che riguarda il Partito Democratico, faremo vivere questa battaglia politica non solo qui, in Parlamento, ma anche in ogni parte del Paese, tra chi soffre, tra chi è sfruttato, in ogni piazza, nella testa e nel cuore di ogni italiano, perché chiunque è colpito da un'ingiustizia, piccola o grande che sia, deve sapere che troverà a sua protezione e al suo fianco, per una vita più giusta, il Partito Democratico (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Davide Aiello, che illustrerà anche la mozione Conte ed altri n. 1-00023, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

DAVIDE AIELLO (M5S). Grazie, Presidente. Oggi, con questa mozione, portiamo all'attenzione dell'Aula e del Governo il tema del salario minimo, che per noi del MoVimento 5 Stelle è una vera battaglia identitaria, non propaganda.

In Italia, purtroppo, il fenomeno dei working poor, dei lavoratori poveri, è un fenomeno dilagante. Sono tantissimi i lavoratori il cui reddito è al di sotto della soglia di povertà, pur essendo regolarmente occupati. Questo è un fenomeno purtroppo sempre in crescita, che riguarda soprattutto i giovani e le donne. A ciò si aggiungono i dati sulle prospettive di vita: stando agli ultimi dati forniti dal Censis, ben 5,7 milioni di italiani, soprattutto i giovani, rischiano di avere nel 2050 pensioni sotto la soglia di povertà. Ebbene, noi pensiamo che tutto questo sia veramente inaccettabile per uno Stato civile.

La garanzia di una retribuzione dignitosa e adeguata per tutti i lavoratori favorirebbe senz'altro la realizzazione di un mercato del lavoro più inclusivo, più equo, più paritario, abbattendo le disuguaglianze anche in termini di divario salariale tra uomo e donna. La misura che sicuramente è più idonea a raggiungere questo risultato è la fissazione legislativa dei minimi salariali.

La necessità di interventi razionali sul salario minimo, in un contesto di garanzia europea e di adeguatezza delle retribuzioni, è avvertita con maggiore urgenza anche alla luce della crisi che è stata prodotta dall'emergenza epidemiologica, dall'emergenza energetica e relativa all'inflazione causata anche dalla guerra in corso, che purtroppo colpisce in modo particolare proprio i settori caratterizzati da un'elevata percentuale di lavoratori a basso salario, quali ad esempio quello del commercio al dettaglio, dei servizi, del turismo e agricolo.

In base agli studi condotti dalla Commissione europea, riportati anche nella proposta di direttiva relativa ai salari minimi, l'aumento dei costi del lavoro verrebbe in gran parte compensato da un incremento dei consumi da parte dei lavoratori a basso salario così da sostenere la domanda interna.

Inoltre, sempre in base alle richiamate stime dell'Unione europea, l'eventuale impatto negativo sull'occupazione sarebbe di scarso rilievo, rimanendo nella maggior parte dei casi al di sotto dello 0,5 per cento del tasso di occupazione totale.

Nonostante nel nostro Paese si registri una copertura quasi totale della contrattazione collettiva, purtroppo un consistente numero di lavoratori percepisce salari non dignitosi. Questo è quanto emerge dall'ultimo rapporto annuale dell'Istituto nazionale di previdenza sociale, l'INPS, che, ipotizzando diversi importi di salario minimo, individua ben 2.596.000 lavoratori “sotto soglia”, se si considera un salario minimo pari a 8 euro l'ora e più di 4,5 milioni di lavoratori, se consideriamo invece un salario tabellare a 9 euro l'ora.

L'insufficienza dei salari percepiti dai lavoratori italiani risulta inequivocabilmente confermata anche dalle stime relative al numero di soggetti che, pur essendo titolari di rapporti di lavoro, percepiscono il reddito di cittadinanza proprio perché, essendo lavoratori poveri, hanno bisogno di un'integrazione del proprio reddito. Più precisamente, in base alle informazioni in nostro possesso, sono circa 365.000 i beneficiari della misura che, alla data dell'8 gennaio 2021, risultano titolari di un rapporto di lavoro attivo. Questo significa che 365.000 persone percepiscono un trattamento economico che non consente loro di superare la soglia di povertà, nonostante siano lavoratori.

Dalla verifica dei dati disponibili sui minimi contrattuali applicati in concreto, emerge che sia certamente necessario individuare dei criteri affidabili di selettività dei soggetti collettivi abilitati a fissare questi minimi salariali, fondati su trasparenti riscontri in termini di rappresentatività e, al tempo stesso, offrire direttive orientative agli agenti negoziali sui limiti che in ogni caso si devono garantire; quindi, un doppio sostegno alla contrattazione senza il quale la realtà ci mostra che, nonostante gli sforzi e gli impegni di parte sindacale, i risultati possono essere deludenti.

In alcuni settori, infatti, i minimi salariali fissati nei cosiddetti contratti leader non sembrano adeguati e sufficienti, alla luce delle disposizioni costituzionali e degli indicatori internazionali. Per fare alcuni esempi di contratti collettivi tra i più applicati, secondo i dati forniti dall'INPS, si possono richiamare sicuramente il contratto collettivo nazionale del settore del turismo (dove il trattamento orario minimo è pari a 7,48 euro), quello delle cooperative nei servizi socio-assistenziali (in cui l'importo minimo ammonta a circa 7,18 euro l'ora), il contratto collettivo per le aziende dei settori dei pubblici esercizi, della ristorazione collettiva e commerciale e del turismo (7,28 euro) e il contratto del settore tessile e dell'abbigliamento, che stabilisce un minimo di 7,09 euro l'ora per il comparto dell'abbigliamento. In alcuni casi addirittura la retribuzione scende sotto la soglia dei 7 euro e questo accade, ad esempio, nel contratto collettivo nazionale dei servizi socio-assistenziali, nei quali il minimo retributivo è fissato in 6,68 euro, oppure nel contratto collettivo delle imprese di pulizia e dei multiservizi (6,83 euro). Addirittura, se andiamo a vedere alcuni settori come la vigilanza e i servizi fiduciari, i cui contratti collettivi non sono aggiornati dal 2015, questa soglia scende a 4,60 euro.

A ciò si aggiungono ulteriori ragioni che ostacolano l'effettività del diritto a percepire una giusta retribuzione. Tra di esse particolare rilievo deve certamente riconoscersi al proliferare dei cosiddetti contratti pirata, ossia quei contratti collettivi stipulati da soggetti dotati di scarsa o inesistente forza rappresentativa, finalizzati a fissare condizioni normative o economiche peggiorative per i lavoratori rispetto a quanto previsto dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Questo dà vita sicuramente a fenomeni di distorsione della concorrenza e si ripercuote ovviamente sui salari dei lavoratori.

In alcuni settori, quali ad esempio quello alimentare, quello della logistica e quello sociosanitario, è frequente la presenza del cosiddetto fenomeno delle esternalizzazioni al ribasso.

Una soluzione alle problematiche descritte potrebbe essere rappresentata dall'introduzione del salario minimo legale che, proprio nell'ambito degli appalti pubblici e privati, potrebbe portare a risultati significativi, consentendo di sottrarre con maggior decisione il costo del lavoro dal gioco della libera concorrenza tra imprese.

Si può agevolmente concludere che l'attuale assetto della contrattazione collettiva necessita di essere sostenuto e promosso dall'ordinamento statuale al fine di garantire a tutti i lavoratori italiani l'applicazione di trattamenti retributivi dignitosi.

Per questo, Presidente, con questa mozione, il MoVimento 5 Stelle impegna il Governo, ferma restando l'applicazione generalizzata dei contratti collettivi nazionali di lavoro, a ulteriore garanzia del riconoscimento di una giusta retribuzione, ad introdurre una soglia minima inderogabile non inferiore a 9 euro lordi l'ora; a valorizzare i contratti collettivi leader; a definire specifici criteri atti a pesare il grado di rappresentatività sia delle organizzazioni sindacali che datoriali, valorizzando sicuramente i criteri dell'ordinamento intersindacale negli accordi interconfederali; a sancire il principio secondo il quale le parti sociali sono abilitate a stabilire il trattamento economico complessivo ed il trattamento economico minimo; ad istituire una commissione composta dalle parti sociali maggiormente rappresentative, che avrà il compito di aggiornamento e controllo dell'osservanza di un trattamento economico proporzionato e sufficiente, così da garantire effettivamente ai lavoratori una giusta retribuzione e ad introdurre un'apposita procedura giudiziale di matrice collettiva, volta a garantire l'effettività del diritto dei lavoratori a percepire un trattamento economico dignitoso. Per noi del MoVimento 5 Stelle questa è stata sempre una battaglia identitaria e su questa ovviamente non faremo nessun passo indietro (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Marco Grimaldi, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00028. Ne ha facoltà.

MARCO GRIMALDI (AVS). Onorevoli colleghe e colleghi, nessun dipendente della logistica dovrebbe lavorare 14 ore al giorno per sei giorni alla settimana con oltre 150 ore di straordinario mensili pagate forfettariamente meno di un euro l'ora. Eppure è avvenuto a None, in Piemonte, e in tanti altri luoghi di questo Paese.

Se conoscete il nostro Paese, sapete di quel mondo sofferenza - così lo chiamiamo - dove vige nella forma più pura e feroce un modello produttivo pensato al massimo ribasso dei diritti. Come nelle campagne, la gran parte dei lavoratori della logistica è composta da migranti, spesso i soggetti più ricattabili e quelli che, organizzandosi e lottando, rischiano di più.

Ma non parliamo solo del settore della logistica: sono tantissimi i dipendenti del settore privato persi nel mare degli appalti, dei subappalti e del lavoro conto terzi e, ahimè, non solo, perché il pubblico non è innocente e spesso contribuisce a creare e diffondere il lavoro povero.

Nessun operatore culturale dovrebbe subire un taglio di oltre il 20 per cento di 850 euro mensili, mentre il direttore del polo museale si aumenta lo stipendio magari di più di 30 mila euro. È avvenuto! È avvenuto alla Reggia di Venaria a Torino, con una cooperativa aggiudicataria di un appalto applicando il multiservizi. Nessun aspirante assistente alla regia o alla fotografia dovrebbe rispondere a un annuncio che chiede addirittura di pagare 500 euro per lavorare. Avete sentito bene: è avvenuto anche questo!

Nei confini labili fra il lavoro e la formazione si insinuano non solo il lavoro gratuito, come dimostra l'alternanza scuola-lavoro che produce spesso anche dumping salariale e contrattuale, ma addirittura il lavoro a pagamento o quella economia della promessa in base alla quale lavorare gratis fa curriculum e pagare per un finto stage è il viatico per qualcosa che non arriverà mai. Nessun appalto regionale per i servizi di pulizia delle nostre aziende sanitarie dovrebbe consentire di tradurre un'offerta economica più vantaggiosa del 33 per cento rispetto al precedente appalto in una riduzione dell'orario di lavoro del 33 per cento con lo stesso carico di lavoro, ma è avvenuto più volte e continua a succedere. Ecco perché c'è una questione di salari, ma c'è una questione più grande di mercificazione al massimo ribasso sul costo del lavoro.

Colleghe e colleghi, nessun bracciante dovrebbe rischiare tutto e sfidare il caporalato per denunciare lo sfruttamento dei lavoratori migranti nei campi e negli allevamenti con paghe da fame a cottimo e fino a undici ore di lavoro al giorno, anche di sabato e di domenica; nessun fattorino delle piattaforme digitali dovrebbe essere sottoposto a un contratto pirata che prevede il pagamento a cottimo per una consegna da 15 minuti di 2,50 euro e tutte le consegne al di sotto dei quindici minuti penalizzate per una consegna da sette minuti a 1,16 euro. Nessuna paga mentre il lavoratore aspetta, magari al freddo, che gli giunga, appunto, un ordine. Zero: zero euro per tutta l'ora di attesa! Eppure accade, è accaduto e continuano a morire fattorini per quella paga a cottimo.

Colleghe e colleghi, ho visto in questi anni che a volte la lotta paga - per carità! - ma costa anche molto: miseria, ritorsioni, licenziamenti ingiusti, isolamento. Lo Stato dovrebbe essere dalla parte di chi rischia tutto per ottenere condizioni dignitose per sé e per gli altri. Invece, oggi il Governo si accanisce, secondo noi, con i percettori del reddito di cittadinanza, chiamandoli magari fannulloni, colpevolizzando la povertà e fiancheggiando tutti quei padroni che si lagnano di incontrare manodopera che preferisce il sostegno al reddito al lavoro. A nessuno viene mai il dubbio che le condizioni proposte da quei datori siano inaccettabili, ancora più misere rispetto a quelle di un ammortizzatore sociale? Un lavoratore in Italia guadagna in media in un anno ben 15 mila euro in meno di un omologo tedesco e 10.700 euro in meno di un omologo francese. Lavoriamo di meno, secondo voi? Non è così, macché! Lavoriamo mediamente 1.730 ore, in assoluto uno dei livelli più alti del nostro continente. In Germania, anche grazie, appunto, alla piena occupazione, si arriva a 1.360 ore e in Francia si arriva a 1.470 ore. In Italia si lavora troppo o si lavora troppo poco e abbiamo spesso salari da fame e part time involontari. Nessun giovane iper formato e ultra titolato dovrebbe sentirsi chiamare choosy quando resiste in un mercato del lavoro pronto solo a umiliarlo e a sotto inquadrarlo. Eppure avviene continuamente, colleghe e colleghi. Ci si muove in un mercato del lavoro che alimenta il classismo, classismo perché molti lavori qualificati includono un limbo di precariato tale che solo se si ha una famiglia benestante alle spalle ci si può permettere di attraversarlo. Basti pensare alle nostre prestigiose università o al nostro immenso patrimonio culturale, in cui il 90 per cento dei lavoratori dei beni culturali è esternalizzato e guadagna - udite, udite! - meno di 8 euro l'ora. Dopo la pandemia l'occupazione è tornata a crescere, si dice. Grandi titoli, ma trainano la crescita i contratti a tempo precario, il 60 per cento dei posti di lavoro. I salari offerti sono bassissimi, con una media di 5 euro l'ora (ma si arriva anche a 3,5 euro l'ora). Oltre 5 milioni di lavoratori e lavoratrici guadagnano meno di 10 mila euro l'anno, ossia 830 euro al mese. Secondo il Censis, i working poor in Italia sono 2,9 milioni, una cifra che ci pone ai primi posti in Europa nella sfera del lavoro povero, e vi si possono inquadrare praticamente quasi tutti i lavori precari, il lavoro di cura, il lavoro irregolare e una parte, appunto, dei lavoratori dei settori agricoli. In sostanza, nel nostro Paese il lavoro non è un'assicurazione contro il rischio della povertà. Ma come siamo arrivati a tutto questo? Do a tutti noi un consiglio: rileggiamo il professor Luciano Gallino, un maestro che ci ricorda che il lavoro non è una merce. Come ci siamo arrivati? A causa della stagnazione economica, certo, ma anche della concorrenza sul mercato globale giocata tutta sul piano della riduzione del costo del lavoro, delle dinamiche salariali dell'Eurozona, del dumping prodotto dallo sfruttamento della manodopera migrante. E poi che cosa? Troppe riforme di liberalizzazione del mercato del lavoro: lo hanno svalutato e precarizzato sempre di più, rendendo il tessuto sociale sempre più povero. Ecco perché è urgente l'introduzione di un salario minimo legale pari a 10 euro all'ora, al lordo degli oneri contributivi, da rivalutare annualmente sulla base della variazione dell'indice dei prezzi. Ne trarrebbero beneficio quasi 2,6 milioni di lavoratori e lavoratrici. Una legge per istituire il salario minimo, che non può e non deve essere alternativa alla contrattazione collettiva nazionale; è necessaria anche perché i contratti collettivi pirata sono sempre più diffusi e, comunque, ci sono diversi contratti collettivi nazionali sovente in contrapposizione e in concorrenza tra loro.

Ecco perché non si può affrontare il problema dei bassi salari da solo. Dunque, bisogna intervenire per porre un freno alla precarietà, alla discontinuità lavorativa, al proliferare di tipologie contrattuali che spostano il rischio di impresa interamente sul lavoratore o si prestano ad essere utilizzate in modo fraudolento per eludere la normativa sul diritto del lavoro, con la crescita esponenziale, appunto, dei part time involontari e della disparità salariale di genere e geografica; bisogna promuovere l'occupazione femminile attraverso politiche di conciliazione; dobbiamo ridistribuire il tempo, riducendo l'orario di lavoro a parità di salario; vogliamo congedi di paternità obbligatori per orientare un cambiamento necessario e per togliere dal ricatto tante donne; dobbiamo investire sui servizi ispettivi per prevenire e contrastare il ricorso al lavoro grigio e l'uso fraudolento di contratti che mascherano il lavoro non regolare. Tutto questo, come avete colto, è interconnesso: tutto riguarda la dignità di chi lavora, una dignità troppo a lungo calpestata proprio nella Repubblica democratica che sul lavoro si è fondata, perché nessuno in Italia dovrebbe lavorare per meno di 10 euro all'ora, anzi permettetemi di dire che l'attuale situazione dell'inflazione ci dice che dovrebbero essere già 11 euro (Applausi dei deputati del gruppo Alleanza Verdi e Sinistra).

PRESIDENTE. Interrompiamo la seduta, che riprenderà alle ore 14,30 con il seguito della discussione generale.

La seduta, sospesa alle 12,50, è ripresa alle 14,40.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE SERGIO COSTA

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati in missione a decorrere dalla ripresa pomeridiana della seduta sono complessivamente 52, come risulta dall'elenco consultabile presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta odierna.

Si riprende la discussione delle mozioni.

(Ripresa discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione delle mozioni Orlando ed altri n. 1-00012 (Nuova formulazione), Conte ed altri n. 1-00023, Richetti n. 1-00026 e Grimaldi ed altri n. 1-00028, concernenti iniziative volte all'introduzione del salario minimo.

Avverto che è stata testé presentata la mozione Tenerini, Rizzetto, Giaccone, Pisano ed altri n. 1-00030 (Vedi l'allegato A). Il relativo testo è in distribuzione.

È iscritta a parlare la deputata Rosaria Tassinari, che illustrerà anche la mozione Tenerini, Rizzetto, Giaccone, Pisano ed altri n. 1-00030, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

ROSARIA TASSINARI (FI-PPE). Grazie, Presidente. Il salario minimo orario è la soglia minima a cui devono sottostare le retribuzioni affinché possano essere eque ed efficienti, la quota al di sotto della quale qualsiasi datore di lavoro non può scendere, pena sanzioni civili e anche penali. Tale misura è attualmente in vigore in 21 Stati europei, inclusi la Germania e il Regno Unito, e ha principalmente lo scopo di contrastare il lavoro povero, mentre i 6 rimanenti Stati, Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia e, appunto, Italia, affidano l'individuazione della retribuzione base ai contratti collettivi delle diverse categorie.

Il lavoro povero è un fenomeno che si è esteso maggiormente a seguito della crisi 2008-2009 e a seguito della rivoluzione tecnologica che ha colpito il lavoro dipendente, soprattutto di bassa qualifica. Lo scorso 25 ottobre, è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea la direttiva sul salario minimo - n. 2022/2041/UE -, che intende garantire ai lavoratori dell'Unione condizioni dignitose; il Parlamento europeo l'ha approvata, nella versione definitiva, nella seduta del 19 ottobre 2022. La norma non fissa una soglia europea di salario, bensì detta le regole entro le quali ciascuno Stato membro deve muoversi: i salari minimi devono essere fissati a un livello adeguato e i lavoratori devono avere accesso alla tutela garantita del salario minimo, sotto forma di salario minimo legale o di salari determinati nell'ambito dei contratti collettivi, così come avviene in Italia in maniera molto estesa. L'obiettivo dell'UE non è uniformare i sistemi nazionali sui salari minimi per la definizione di un salario minimo unico per tutti gli Stati membri, piuttosto tendere a una convergenza verso l'alto delle retribuzioni minime, nel rispetto delle specificità di ciascun ordinamento interno e favorendo, al contempo, il dialogo tra le parti sociali.

L'intervento dell'UE si snoda, quindi, su tre assi: migliore adeguatezza dei salari minimi legali, ove esistenti; maggiore coinvolgimento delle parti sociali per la loro definizione e promozione della contrattazione collettiva in tutti gli Stati membri, in particolare in quelli in cui la copertura della contrattazione collettiva è inferiore al 70 per cento dei lavoratori - per inciso, in Italia la contrattazione collettiva copre circa l'85 per cento dei contratti dei lavoratori -; migliore applicazione e monitoraggio per tutti gli Stati membri, anche mediante relazioni annuali degli Stati membri alla Commissione, unitamente a un dialogo strutturato.

In Italia, la discussione sul salario minimo è sul tavolo della politica da un po' di tempo, dal momento che alcune forze politiche ritengono possa essere lo strumento migliore per garantire condizioni dignitose di lavoro e retribuzione. Come dicevo in precedenza, il nostro Paese gode di una contrattazione collettiva che copre l'85 per cento dei lavoratori; per inciso, la Germania ha attuato il salario minimo nel 2015, avendo una scopertura del 40 per cento dei lavoratori nell'ambito della contrattazione collettiva, quindi, con una situazione del tutto diversa da quella italiana. Il sistema italiano garantisce una serie di misure che, negli anni, sono state introdotte a tutela dei lavoratori: TFR, malattie, ferie, permessi, tredicesima, quattordicesima, previdenza complementare e sanità integrativa. Tale sistema determina già in molti casi salari più alti di una ipotetica soglia di salario minimo e comprensivi degli istituti accessori di welfare e tutela succitati. Con la definizione per legge di un salario minimo si metterebbe a rischio il sistema della contrattazione collettiva, con il serio pericolo di favorire le tendenze alla diminuzione delle ore lavorate, l'aumento del lavoro nero, l'incremento della disoccupazione e l'aumento, altresì, dei contratti di lavoro irregolare e dei contratti cosiddetti pirata. Occorre sottolineare come l'introduzione di una retribuzione minima potrebbe avere anche un effetto inflazionistico sul mercato, dal momento che le imprese potrebbero riversare i maggiori costi del lavoro sui consumatori finali, determinando così un ulteriore aumento dei prezzi dei prodotti dalle stesse commercializzati.

Piuttosto che intervenire sui salari, si ritiene che la contrattazione collettiva andrebbe assolutamente implementata, puntando a quella di prossimità. Quest'ultima, in particolare, rappresenta uno strumento utile, proprio per la sua flessibilità, in un mercato del lavoro oggi più che mai dinamico, dal momento che offre alle imprese la possibilità di adeguare alcuni istituti normativi e contrattuali, entro limiti prestabiliti, alle condizioni e alle specifiche esigenze delle diverse realtà aziendali. Aggiungo anche che una legge sul salario minimo esiste già in Italia ed è statuita dalla Costituzione all'articolo 36, che dispone che i lavoratori hanno diritto ad avere un salario equo, in base alla quantità e qualità del lavoro e che sia tale da garantire una vita dignitosa a loro stessi e alla loro famiglia.

Un ampliamento della contrattazione collettiva contribuirebbe ad arginare il fenomeno dei contratti pirata, molto diffusi nel nostro Paese, cioè quei contratti che vengono stipulati da sindacati con scarsa rappresentanza e che tendenzialmente fanno l'interesse del datore di lavoro, piuttosto che del dipendente. Con tale dicitura si definisce, infatti, questo tipo di contratti poco rappresentativi, con l'obiettivo di costruire un'alternativa ai contratti collettivi nazionali, cosiddetti tradizionali.

Alla luce della difficile situazione economica che il nostro Paese sta affrontando, che rischia di avere pesantissime ripercussioni per tutti i settori produttivi, riteniamo che occorra intervenire sul mercato del lavoro, partendo dal presupposto che in Italia il costo del lavoro è tra i più alti in Europa. È indispensabile, quindi, tagliare prevalentemente il cuneo fiscale, seguendo la scia già tracciata dall'ultimo Consiglio dei ministri, del 20 novembre ultimo scorso. Infatti, il cuneo fiscale, come è noto, è dato dalla differenza tra il costo del lavoro per il datore di lavoro e la corrispondente retribuzione netta del lavoratore ed è composto dalla somma dell'imposta sul reddito delle persone fisiche IRPEF e dei contributi previdenziali; la prima è posta a carico del dipendente insieme a parte dei contributi previdenziali, mentre il datore è onerato della restante parte di contributi previdenziali. L'onere rappresentato dal cuneo fiscale si configura, quindi, come uno dei principali indicatori degli effetti dell'imposizione fiscale e contributiva sul reddito dei lavoratori e delle conseguenti dinamiche correlate all'occupazione e alla crescita economica.

Nel 2021, l'Italia aveva il quinto cuneo fiscale più alto, sia fra i Paesi OCSE sia fra quelli dell'area Euro. A titolo esemplificativo, per un lavoratore dipendente con uno stipendio lordo medio il cuneo era del 46,5 per cento, contro una media del 41,4 per cento dell'area Euro.

Una riduzione del cuneo fiscale determinerebbe un aumento del potere di acquisto dei lavoratori in un momento come quello attuale, caratterizzato da un alto tasso di inflazione. A livello generale, inoltre, la riduzione del cuneo fiscale darebbe il via a un circolo che dovrebbe far ripartire l'economia reale, ossia quella direttamente collegata alla produzione e alla distribuzione di beni e servizi, in contrapposizione all'economia finanziaria: meno tasse, più soldi disponibili, più consumi, più produzione, più distribuzione di beni e servizi, più lavoro.

Per le imprese, con un taglio del costo del lavoro, si libererebbero risorse, non solo per garantire salari più elevati ai dipendenti, ma anche per la transizione digitale, la green economy e l'assunzione di giovani nel mondo del lavoro, l'aggiornamento dei dipendenti. A tale scopo, una adeguata riduzione del cuneo fiscale rappresenta, ora più che mai, un intervento indispensabile e urgente, poiché il suo ammontare elevato rappresenta un deterrente per lo sviluppo del Paese e per la sua competitività, configurandosi come un elemento ostativo agli investimenti delle imprese, un freno alla crescita dei tassi di produttività, al potere di acquisto dei lavoratori e alle potenzialità del mercato del lavoro.

Quindi “si” a una politica proattiva sul lavoro. I Governi degli ultimi anni hanno privilegiato misure assistenziali, come il reddito di cittadinanza, che hanno comportato l'impegno di ingenti risorse per le casse dello Stato e che, oltre a non portare l'Italia fuori dalla crisi economica, si sono dimostrate inadeguate per i criteri con i quali sono state introdotte. Occorre intervenire per tagliare il reddito di cittadinanza, come nelle intenzioni del presente Governo, facilitando l'ingresso nel mercato del lavoro di tutti gli attuali percettori occupabili, favorendo, con l'ammontare risparmiato, la detassazione delle imprese, mirata anche all'assunzione dei giovani lavoratori. Per questo motivo, si chiede di impegnare il Governo per raggiungere l'obiettivo della tutela dei diritti dei lavoratori, non con l'introduzione del salario minimo, ma con le seguenti iniziative: attivare percorsi interlocutori tra le parti non coinvolte nella contrattazione collettiva, con l'obiettivo di monitorare e comprendere, attraverso l'analisi puntuale dei dati, motivi e cause della non applicazione; estendere l'efficacia dei contratti collettivi nazionali comparativamente più rappresentativi, avvalendosi dei dati emersi attraverso le indagini conoscitive, prevalentemente svolte a livello nazionale, alle categorie dei lavoratori non comprese nella contrattazione nazionale; avviare un percorso di analisi rispetto alla contrattazione collettiva nazionale, che soprattutto in certi ambiti coinvolga un gran numero di lavoratori, alla luce della frequente aggiudicazione di gare che recano nel loro seno il concetto della migliore offerta economica; mettere in atto una serie di misure volte al contrasto dei cosiddetti contratti pirata, in favore dell'applicazione più ampia dei contratti collettivi, con particolare riguardo alla contrattazione di secondo livello ed ai contratti di prossimità, che danno la possibilità di adeguare la contrattualistica generale alle situazioni specifiche e oggettive dell'azienda a cui si riferiscono e al comparto; favorire l'apertura di un tavolo di confronto, che rassicuri il pieno coinvolgimento delle parti sociali e del mondo produttivo sul tema cruciale delle politiche finalizzate alla riduzione del costo del lavoro e all'abbattimento del cuneo fiscale al fine di rilanciare lo sviluppo economico delle imprese, incrementare l'occupazione e la capacità di acquisto dei lavoratori; porre in essere interventi e azioni volte a liberare risorse da altre voci della spesa pubblica per destinarle al mercato del lavoro e favorire l'occupazione, che rappresenta il volano di crescita del nostro Paese, nonché implementare una serie di politiche attive volte a garantire una più veloce collocazione dei giovani nel mondo del lavoro.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Laus. Ne ha facoltà, per 7 minuti.

MAURO ANTONIO DONATO LAUS (PD-IDP). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghe e colleghi e Governo, un amico, elettore di Fratelli d'Italia e convinto fan della Presidente Meloni, mi ha fortemente criticato perché sostiene che la nostra opposizione sia sempre strumentale e mai costruttiva. Io chiaramente non condivido, però oggi, in questa discussione sul salario minimo e sulla giusta retribuzione, cerco di fare uno sforzo in più, evitando di scivolare nella trappola della polemica politica. Nell'altra legislatura - il sottosegretario Durigon ne è testimone - fino agli ultimi giorni, dopo fiumi di dibattiti e audizioni, è emerso che tutte le forze politiche che oggi sostengono questa maggioranza si siano dichiarate palesemente contrarie rispetto all'introduzione nel nostro ordinamento di una legge sul salario minimo, indipendentemente poi dall'importo (che siano 9, 8, 10 o 6 euro); hanno detto categoricamente “no” a una legge sul salario minimo. Il giudizio negativo è arrivato anche dalle organizzazioni datoriali e sindacali e da tanti giuslavoristi. Aggiungo - mio parere personale -, dopo un'attenta lettura della direttiva europea, che anche la stessa non ci fa fare dei passi avanti sull'introduzione di una legge per il salario minimo. Perché? Che cosa ci dice la direttiva europea? Ci dice che, nei Paesi in cui la copertura della contrattazione collettiva sia inferiore all'80 per cento, è necessario intervenire. Se non si interviene, allora scatta la legge sul salario minimo. Nel nostro Paese, abbiamo una copertura superiore al 90 per cento, quindi non riusciamo a fare un passo in avanti. È evidente allora che, se questo Governo dovesse arrivare - glielo auguro - a fine legislatura, nei prossimi cinque anni, di sicuro - è certo e matematico - non ci sarà una legge sul salario minimo. Però questo Parlamento ha il dovere morale di rispondere ad alcune domande senza titubanza e con responsabilità. È giusto che nel nostro Paese ci siano lavoratori che percepiscono una retribuzione iniziale pari a 4,70 euro, pari dopo un anno a 5,19 euro e che si stabilizza, dopo due anni, a 6,50 euro? È giusto che tanti di questi lavoratori, anche laureati, lavorando, percepiscano meno di un percettore pieno del reddito di cittadinanza e tanti siano costretti a ricorrere all'integrazione del reddito di cittadinanza qualora ne sussistano i requisiti? È giusto che un giovane lavoratore sappia in anticipo che percepirà una pensione da fame perché, oltre alla discontinuità lavorativa e spesso al part time involontario, si ritrova a versare contributi veramente risibili? È giusto che nelle controversie relative ad appalti pubblici i giudici amministrativi, rispondendo correttamente alle regole di diritto amministrativo, considerino congrua una cifra e poi spesso i giudici del lavoro, correttamente, seguendo le regole del diritto giuslavoristico, spesso ribaltino completamente quella congruità ritenuta dal giudice amministrativo, generando incertezza del diritto, ingolfando tribunali, facendo un danno a tutti gli attori in causa, quali l'ente pubblico, l'imprenditore e il lavoratore, spesso costretto a ricorrere per tentare di ricevere un giudizio positivo dal giudice? È giusto che sia, ancora una volta, il giudice a risolvere le problematiche dovute alla manifesta incapacità politica? È giusto che presso il Consiglio nazionale del lavoro siano depositati circa 1.000 contratti, molti dei quali si candidano a regolamentare le stesse attività merceologiche? È giusto che le grandi organizzazioni sindacali e datoriali siano costrette da sole spesso a combattere con quelle di comodo, nate esclusivamente per ridurre i salari? È giusto che sia lo Stato, con tutte le sue articolazioni, a beneficiare dei salari bassi negli appalti e nei subappalti? A queste domande e a tante altre, che per questioni di tempo ometto di fare e di inanellare, rispondo che non è giusto. Mi piace pensare che anche questa maggioranza e quel mio amico, che ha votato Fratelli d'Italia, non lo trovino giusto. È del tutto evidente che in questo scenario, se si esclude il salario minimo legale, resta esclusivamente la soluzione di una legge sulla rappresentanza, così come hanno previsto i Padri costituenti con l'articolo 39 e non come avviene oggi, tramite accordi privatistici che non hanno nessun valore giuridico perché, se non c'è una misurazione giuridica delle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative, questi contratti e queste norme restano claudicanti e io aggiungerei prive di significato giuridico, senza un intervento specifico del giudice. Pertanto è necessario applicare gli articoli 39, 36 e 3 della Costituzione.

Nella nostra mozione - mi avvio alla conclusione, Presidente - che cosa chiediamo? Diciamo che è necessario che i contratti collettivi possano esplicare una efficacia erga omnes e, nel momento in cui nasce questo tavolo negoziale, con le mani giunte, chiediamo che la cifra non possa andare al di sotto dei 9,50 euro. Questo è quello che chiediamo e ci rimettiamo al Governo e alla responsabilità delle forze di maggioranza che sostengono questo Governo per trasferire, finalmente, la questione nell'aspirazione al giusto epilogo. Grazie (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giovine. Ne ha facoltà, per 14 minuti.

SILVIO GIOVINE (FDI). Grazie, Presidente. Saluto gli onorevoli colleghi. Gli interventi che mi hanno preceduto, giustamente, hanno posto l'attenzione sulla definizione di salario minimo intesa come soglia cui devono sottostare le retribuzioni minime per essere considerate efficienti ed eque; quella quota sotto la quale non possono andare, nelle retribuzioni, i datori di lavoro. Ma è pur vero però, che, nell'affrontare un argomento talmente rilevante, non possiamo prescindere da una sorta di contestualizzazione di questa tematica, non solo sul campo nazionale, ma anche affrontando le dinamiche internazionali.

E proprio a questo proposito, per sgomberare l'equivoco, di recente approvazione e pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea, c'è la direttiva (UE) 2022/2041, pubblicata proprio lo scorso 25 ottobre, che intende garantire ai lavoratori europei condizioni dignitose. Una norma che non va a definire o fissare una soglia europea di salario, ma che si è posta dichiaratamente l'obiettivo di tendere a una convergenza verso l'alto delle retribuzioni minime, nel totale rispetto di tutte quelle che sono le peculiarità degli Stati membri, delle specificità degli ordinamenti interni, favorendo, chiaramente, il dialogo tra le parti sociali e promuovendo, soprattutto, la contrattazione collettiva, in modo particolare proprio in quelle nazioni laddove non raggiunge una copertura del 70 per cento.

Ora, venendo a noi, la contrattazione collettiva, in Italia, copre l'85 per cento dei lavoratori, ma, soprattutto, ha contribuito a definire un sistema di tutela che non ha eguali in Europa: un sistema di tutela fatto di TFR, permessi, tredicesima e quattordicesima, previdenze complementari, sanità integrativa; un sistema che già da solo, in modo totalmente unitario, definisce delle soglie minime salariali che sono molto più alte di quelle che qualcuno vorrebbe imporre per legge. Questa imposizione per legge, paradossalmente, rischia cosa? Rischia di andare a pregiudicare tutti questi straordinari risultati ottenuti, favorendo il lavoro nero e i contratti irregolari. Ma c'è un dato che, più di tutti, secondo me, secondo noi, focalizza quella che è la fotografia della nostra Nazione: il 97 per cento dei lavoratori dei settori privati sottostanno a dei contratti che sono stati siglati dalla triplice sindacale confederale; non meri tariffari, ma, probabilmente, la sintesi più profonda di quelli che sono gli interessi che stanno alla base di questo rapporto straordinario, che è un rapporto virtuoso, che, guardate, è una sintesi scevra da qualsivoglia condizionamento ideologico o politico, perché molto distante da quella competizione che qualcuno, ancora oggi, vuole raccontare all'interno delle aziende tra datore di lavoro e lavoratore. Ma queste dinamiche, oggi, nelle nostre fabbriche non esistono più. C'è solo un obiettivo comune quando parliamo di relazione tra datore di lavoro e lavoratore ed è generare benessere, crescita e lavoro.

E, allora, guardate, partiamo dal presupposto che, evidentemente, siamo tutti disposti e in prima fila; è una priorità certamente quella di combattere il lavoro povero, il cosiddetto lavoro povero, e che tutto questo, ovviamente, dovrebbe prescindere da appartenenze politiche o partitiche, però chiariamoci su come intendiamo combatterlo. Perché, dopo il fallimento del reddito di cittadinanza, che non ha contribuito solo a sperperare miliardi di euro pubblici, ma che - cosa ancora più grave - ha devastato le nuove generazioni, perché soprattutto questa è stata una misura fortemente diseducativa per i nostri ragazzi, non vorremmo che il nuovo specchietto per le allodole, la nuova misura per cercare di attirare, ammaliare, circuire a fini elettorali le fasce più deboli della popolazione diventasse proprio salario minimo, perché non presteremo il fianco a questo teatrino, non ci vedrete complici assolutamente come maggioranza di questo Governo.

Non ci sottrarremo, evidentemente, a discutere del problema del lavoro povero, ma lo faremo a modo nostro, proponendo delle strade percorribili, attuabili, che possano portare al bene della Nazione e dei nostri lavoratori, facendo, peraltro, molta attenzione ad un aspetto che non è assolutamente irrilevante, perché oggi l'eventuale intromissione del Parlamento all'interno delle dinamiche che regolano i rapporti di lavoro rischierebbe di cristallizzare due convinzioni, pericolosamente. La prima è che, evidentemente, i sindacati potrebbero apparire come superflui nella dinamica di tutelare i lavoratori e la seconda - forse ancor più grave - è che, nell'ambito del mercato del lavoro, una legge potrebbe essere più utile a tutelare i deboli della contrattazione privata.

Noi non siamo assolutamente d'accordo che questa possa essere la strada da intraprendere; riteniamo, anzi, che vadano garantite l'efficacia, la forza dei contratti collettivi, della contrattazione collettiva, magari semplificandola, magari sburocratizzandola dove vi debba essere questa necessità (sono mille, lo ricordavamo prima, i contratti attualmente depositati al CNEL). Ma c'è una sfida per la nostra Nazione che sicuramente è più importante di tutte quando affrontiamo un argomento di questo tipo ed è quella che riguarda la contrattazione di secondo livello, la contrattazione che avviene nelle nostre aziende, la contrattazione territoriale, la contrattazione di prossimità; una contrattazione che noi dobbiamo mettere al primo posto, alla quale dobbiamo garantire un regime pattizio, che venga basato su una fondamentale condivisione su base volontaria.

Andiamo a capire certo, contestualmente, quali sono i motivi per cui in determinati ambiti la contrattazione collettiva non viene applicata, ci metteremo in prima fila a combattere la contrattazione cosiddetta privata, perché, ovviamente, riguarda dei sindacati minoritari, ma lo faremo consapevoli che il miglior modo per garantire le migliori condizioni per i lavoratori è favorire assolutamente la crescita, consapevoli, però, che non è lo Stato a produrre ricchezza, ma lo fanno le nostre aziende, i nostri imprenditori, i nostri agricoltori, i nostri allevatori, con i loro sacrifici, con la loro dedizione quotidiana, con la passione, con gli investimenti che noi dobbiamo difendere.

Ed è per questo che nella manovra finanziaria, costruita a tempo record, che sappiamo doveva fronteggiare soprattutto un'emergenza che era quella energetica, abbiamo voluto dare dei messaggi chiari, inequivocabili, anche su una tematica fondamentale, come quella del mercato del lavoro, con la prima riduzione del cuneo fiscale, con l'avvio del “più assumi, meno paghi”, con la detassazione dei premi di produttività e l'azzeramento della contribuzione per quanto riguarda le nuove assunzioni di giovani, donne, percettori di reddito di cittadinanza, con il welfare aziendale, con il congedo parentale, con tutto quello che definisce quella che è la nostra visione, una visione non solo di questa prima manovra, ma una visione di quello che sarà il nostro orizzonte di mandato per tutta la legislatura. Avremo un'ossessione in questi anni: partire da un presupposto, perché la priorità è garantire la crescita e la competitività del nostro tessuto produttivo economico e, consapevoli che non c'è modo migliore per tutelare i nostri lavoratori e per difendere e preservare il nostro marchio, il made in Italy, le nostre imprese, avremo solo ed esclusivamente questo obiettivo. Predisporremo tutti gli atti che saranno fondamentali, ne discuteremo qui con voi, ma lo faremo con atti concreti, in modo non ideologico e solo per il bene dell'Italia (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Carotenuto. Ne ha facoltà, per 10 minuti.

DARIO CAROTENUTO (M5S). Signor Presidente, egregi deputate e deputati, e, poi, Jacopo, Rosé, Laura, Nicola, Lucio, Paolo, Roberto, Nadia, Khalidou, Bruna, Danilo, Angela, Andrea, Amina, Anna, Marco e centinaia di migliaia - milioni oserei dire - di lavoratori nostri concittadini: mi riferisco a tutti, italiani e non, che partecipano al benessere della nostra comunità dedicando il loro tempo, il loro talento, il loro lavoro. Oggi, in quest'Aula, si affronta un tema di estrema importanza per me e per il MoVimento 5 Stelle, ma soprattutto per loro: il diritto di tutte le lavoratrici e i lavoratori del nostro Paese ad avere uno stipendio dignitoso, in altre parole, di un salario minimo legale.

Negli ultimi anni questo tema è stato trattato con sufficienza e disinteresse - lo sento ancora adesso, in alcuni interventi - da alcune parti politiche, che sono arrivate a derubricarlo, appunto, specchietto per allodole. Per motivare il “no” alla sua introduzione abbiamo ascoltato le tesi più strampalate, prive della minima attinenza con la letteratura scientifica in materia. Ecco, da questa tesi, da questa politica, sia chiaro che il MoVimento 5 Stelle si fregia di aver preso le distanze, schierandosi sempre al fianco degli ultimi e dei precari, come ben dimostrano il decreto Dignità e soprattutto il reddito di cittadinanza (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle), che, intendo sottolinearlo, difenderemo in ogni sede e con tutte le nostre forze, perché queste sono misure che hanno messo i cittadini in condizioni di difendersi dalla precarietà e dall'aggressione ai loro diritti, e hanno messo nelle condizioni i cittadini, finalmente, di non accettare condizioni non di lavoro, ma di schiavitù moderna, che non possiamo e non dobbiamo considerare posti di lavoro, ma posti di ricatto.

Per altre forze politiche, i reali bisogni dei lavoratori sono sempre venuti - e tuttora, a quanto ascolto, vengono - all'ultimo posto, sempre dopo quelli del profitto. Il valore delle merci prima di chi le produce e di chi le trasporta. Non è un caso, dunque, se, anno dopo anno, in Italia, il numero dei working poor, ossia i lavoratori poveri, soprattutto giovani e donne, sia cresciuto vertiginosamente. I dati parlano chiaro: nel 2019, nel nostro Paese, circa 5 milioni di persone avevano un salario effettivo non superiore a 10 mila euro lordi annui. Secondo un rapporto Eurostat del 2018, sempre in Italia, circa il 12 per cento dei lavoratori riceveva un salario inferiore ai minimi contrattuali, dato di quasi 3 punti superiore alla media europea. Parliamoci chiaro, tutto ciò è una vergogna per il nostro Paese e a vergognarsi di più dovrebbe essere chi ha permesso che si creassero condizioni affinché questo accadesse. Presto dovremo darne conto anche noi, Presidente e colleghi, se non riusciremo a porre rimedio, perché anche stamattina, dal sud al nord del Paese, ci sono lavoratrici e lavoratori, giovani e meno giovani, impiegati per pochi spiccioli l'ora, con contratti che prevedono minimi retributivi sideralmente lontani dalla dignità e spesso costretti al part-time involontario o, peggio, a paghe da part-time per turni da tempo pieno e oltre. A questa situazione, che è drammatica, poi si aggiungono le concrete preoccupazioni per le prospettive post lavorative. Secondo il Censis, nel 2050 ben 5,7 milioni dei giovani precari odierni rischiano di avere pensioni al di sotto della soglia di povertà, e meno male che lavorano e pagano questa pensione.

Il MoVimento 5 Stelle non può tollerare questo stato di cose e spero davvero non lo tolleri alcuno in quest'Aula, signor Presidente, perché è una macchia all'immagine del nostro Paese. Ecco perché crediamo fermamente - e lo diciamo a gran voce nelle Aule parlamentari da ben 10 anni - che l'istituzione del salario minimo legale anche in Italia non sia più rinviabile. Mentre i dati dell'inflazione continuano a salire, in quest'ultimo periodo, lo vediamo, in modo vertiginoso, siamo l'unico Paese dell'area OCSE in cui i salari hanno subito addirittura una contrazione: siamo almeno al 3 per cento. Per fare un paragone, tra il 1990 e il 2020, in Germania e Francia, gli stessi aumentavano di oltre il 30 per cento.

In diversi settori, inoltre, anche i minimi salariali fissati dai cosiddetti contratti leader non sono sufficienti. Penso, ad esempio, a quello sociosanitario, dove è frequente il fenomeno delle esternalizzazioni al ribasso, o alla vigilanza privata, nella quale la paga minima oraria è di 4,60 euro lordi. E ancora, ci sono interi comparti, come la logistica, che ormai da anni è alle prese con battaglie per il riconoscimento di diritti e salari adeguati per i lavoratori. Poi c'è il lavoro stagionale - oggetto di numerose inchieste giornalistiche, che hanno documentato una realtà fatta di sfruttamento diffuso - che rischia di rimanere schiacciato dal peso di una visione distorta, che, come dicevamo, mette sempre il profitto al primo posto. Per non parlare delle categorie ancora più svantaggiate, penso ai braccianti nell'agricoltura. E poi in questo Paese c'è ancora il gender gap: sappiamo bene come i salari delle lavoratrici siano ancora incomprensibilmente più bassi di quelli dei colleghi uomini.

Colleghi, per tutti questi motivi, noi del MoVimento 5 Stelle riteniamo che sia giunto il momento di introdurre anche nel nostro Paese il salario minimo legale, e sottolineo legale (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle), e sottolineo anche nel nostro Paese, perché negli altri Paesi è presente, è una misura di equità, di giustizia e sostenibilità che esiste in 21 Stati europei su 27, e che, con i loro studi, illustri economisti, cito ad esempio il premio Nobel David Card, ci hanno dimostrato come possa portare a un miglioramento della società, tanto dal punto di vista sociale, quanto economico, senza ricadute negative sull'occupazione.

In più, di recente, il Parlamento europeo ha dato il via libera definitivo ad una specifica direttiva in materia, che dunque anche l'Italia è chiamata a recepire entro il 2024.

Infine, voglio parlare della nostra amata Costituzione, che ho sentito citare anche in precedenza, che è - e sarà - uno dei fari dell'azione del MoVimento 5 Stelle, ma davvero. Per tale motivo, uno degli obiettivi dichiarati di questa legislatura, da parte nostra, è far sì che l'articolo 36 venga finalmente attuato. Lo voglio rileggere in quest'Aula insieme a voi, così che tutti possiamo tenerlo bene a mente, io per primo: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.” Garantire un'esistenza libera e dignitosa a tutti i lavoratori significa realizzare un mercato del lavoro più inclusivo, equo e paritario. Da questa Aula giunga un segnale forte: basta sfruttamento, basta lavoro nero, basta diseguaglianze. Mettiamo le persone e i loro diritti al centro dell'azione di questo Parlamento e di questa legislatura. Approviamo insieme un salario minimo legale (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Filiberto Zaratti. Ne ha facoltà, per 5 minuti.

FILIBERTO ZARATTI (AVS). Grazie, Presidente. Onorevole rappresentante del Governo, colleghe e colleghi, viviamo in un momento drammatico: la pandemia, la guerra, i cambiamenti climatici; e su questo lasciatemi dire: quanti morti ci vogliono ancora nel nostro Paese affinché il Governo e la maggioranza si rendano conto che i cambiamenti climatici sono un problema serio? Abbiamo visto che cosa è accaduto nella Marmolada, quello che è accaduto nelle Marche e, adesso, a Ischia. È il momento di intervenire con decisione.

Viviamo un momento nel quale aumentano in modo significativo i disoccupati, l'inflazione galoppa, il basso potere di acquisto delle famiglie sta creando un sistema di povertà strutturale nel nostro Paese. A questo si aggiungono i bassi salari. Il 14 settembre 2022 il Parlamento europeo ha emanato una nuova direttiva, che è quella che chiede ai Paesi membri, entro 2 anni, di introdurre il salario minimo. Le condizioni di lavoro dei lavoratori europei sono spesso a livello di allarme. È necessario creare condizioni di lavoro dignitose per i cittadini e per le cittadine. Le retribuzioni sono sempre più basse. In 21 Paesi, su 27, dell'Unione europea abbiamo leggi che garantiscono il salario minimo. In Italia ci sono ben 4 milioni di lavoratori in difficoltà. I contratti collettivi non riescono a garantire salari sulla media europea. Ci sono contratti troppo bassi e i lavoratori poveri - i cosiddetti working poor - hanno un reddito inferiore alla soglia di povertà relativa; 11,7 milioni di lavoratori dipendenti ricevono un salario inferiore ai minimi contrattuali. I dati ISTAT ci dicono che lo stipendio medio è inferiore ai 21 mila euro lordi l'anno, per i lavoratori.

È evidente che il salario minimo è uno strumento indispensabile di lotta contro la povertà e contro le disuguaglianze economiche. Il salario minimo è fondamentale per arginare la povertà. I lavoratori poveri sono un fenomeno diffuso, specialmente in Italia e anche in Europa. Molti lavoratori non hanno salari sufficienti per far vivere le proprie famiglie in condizioni di dignità. L'Italia è il quarto Paese per povertà tra i lavoratori, questi sono dati Eurostat. In questa speciale classifica, noi siamo ai primi posti, siamo in zona Champions League, come si dice. Ma soprattutto, è tra i giovani che si assiste al fenomeno dei bassi salari: i giovani tra i 18 e i 24 anni sono il 15,8 per cento dei salari bassi. E quindi è necessario che ci sia un'inversione di tendenza. È necessario che il Paese, che la maggioranza prendano coscienza di questo fatto. In un momento difficile, in un momento così particolare, dobbiamo dare attuazione a quanto previsto dall'articolo 36 della Costituzione, che sancisce il diritto del lavoratore a una retribuzione adeguata.

È attraverso uno strumento come questo che noi possiamo intervenire. Non possiamo più permettere che milioni di lavoratori nel nostro Paese abbiano salari sottopagati. Abbiamo contratti collettivi nazionali di lavoro che prevedono il pagamento ai lavoratori di retribuzioni intorno ai 4,5 euro l'ora. Io vorrei sapere chi è in grado in quest'Aula di sopravvivere con un salario di questo genere. La norma sul salario minimo garantito è un elemento fondamentale, è un elemento di civiltà, è un elemento ineludibile, che dobbiamo assolutamente mettere in campo.

È evidente che questo ci rende più europei, perché ci mette in linea con i 21 Paesi europei che già hanno questa norma. Non è un elemento che contraddice la necessità - e vado a concludere - della contrattazione collettiva. Purtroppo, però, noi abbiamo in questo Paese anche il fenomeno, dei “sindacati pirata” costituiti appositamente per firmare dei contratti nazionali a basso reddito dei lavoratori. È necessario intervenire con forza ed è necessario che ci sia un segnale da questa maggioranza, in un momento particolare del Paese, in una direzione di maggiore uguaglianza e di lotta alle disuguaglianze. Grazie, Presidente, e buon lavoro (Applausi dei deputati del gruppo Alleanza Verdi e Sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Mascaretti. Ne ha facoltà, per quattordici minuti.

ANDREA MASCARETTI (FDI). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, siamo qui oggi a parlare del salario minimo, cioè del livello minimo di retribuzione, per contrastare quello che è chiamato il lavoro povero. Un lavoro povero che la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica hanno sicuramente implementato e accelerato. Chi non ha presente, in quest'Aula, i lavoratori che lavorano duramente, ma non arrivano alla fine del mese, che non riescono a mantenere le loro famiglie? Ritengo che intervenire su questo problema, cioè quello del lavoro povero, sia prioritario, ma sono rimasto stupito oggi ad ascoltare in quest'Aula colleghi che rappresentano un partito o dei partiti che hanno governato per oltre 1.500 giorni e che, ora che sono all'opposizione, dicono che questo tema è prioritario e fanno proposte che rischiano di essere fallimentari, così come lo è stato, come politica attiva del lavoro, il reddito di cittadinanza. Sono proposte che paiono uno specchietto per allodole, cioè rischiano di distrarre l'attenzione di chi è deputato a prendere certe decisioni, perché sappiamo bene che in Italia l'85 per cento dei lavoratori sono già tutelati da un contratto collettivo nazionale.

Leggo anch'io, come ha già letto un collega, l'articolo 36 della Costituzione italiana. Lo leggo a favore di chi è stato al Governo fino adesso e forse l'ha dimenticato: il lavoratore ha diritto di ricevere una retribuzione sufficiente e proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e ad assicurare a sé e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Ma come può essere dignitosa una retribuzione che è tassata al 46,5 per cento? Voi sapete che in Italia abbiamo una tassazione sul lavoro del 46,5 per cento, mentre la media nell'area euro è del 41,4. Allora, dobbiamo chiederci chi ci ha portato fino qui, chi quell'articolo 36 della Costituzione lo ha dimenticato e non lo ha letto quando ero al Governo.

Dunque, l'85 per cento di lavoratori è coperto dal contratto collettivo nazionale, però resta un 15 per cento scoperto; c'è chi non applica i contratti collettivi nazionali, però ci sono i “contratti pirata”, però c'è il lavoro nero: troppi “però”. Su questo dobbiamo intervenire. Dobbiamo intervenire garantendo un mercato del lavoro stabile con regole certe, che tutti rispettano. Dobbiamo intervenire sostenendo le imprese che creano posti di lavoro, che aumentano i posti di lavoro e che pagano le tasse in Italia. Dobbiamo intervenire sulla formazione, perché, solo con le competenze, diamo sicurezza a quei lavoratori più fragili e più poveri.

Questa mattina in Aula ho sentito parlare di ricattabilità dei lavoratori, in particolare di quelli stranieri. Certo che sono ricattabili, se non sono regolari! Certo che sono ricattabili quei lavoratori, che, ad esempio, percepiscono un reddito di cittadinanza e poi lavorano in nero. La ricattabilità è un danno per tutti i lavoratori: quei pochi che sono ricattabili rendono vulnerabili tutti i lavoratori più fragili. L'irregolarità di alcuni danneggia tutti i lavoratori e alimenta costantemente il lavoro nero, che è il peggior nemico del lavoro tutelato, sicuro e con retribuzioni dignitose. Il lavoro nero danneggia anche le imprese sane e gli imprenditori onesti, genera concorrenza sleale. Così, per migliorare le condizioni del lavoro e di reddito dei lavoratori poveri, occorre far rispettare le regole, nell'immigrazione come nell'applicazione dei contratti. Occorre fare formazione soprattutto ai lavoratori con poche competenze, che possono essere espulsi più facilmente dal mercato del lavoro, utilizzando le grandi risorse europee in arrivo in Italia. Occorre favorire la contrattazione collettiva di prossimità, sostenere le imprese che assumono. Questi sono i punti che per noi devono essere prioritari.

È necessario mettere in campo vere politiche attive per il lavoro, al posto del reddito di cittadinanza, che sull'inserimento lavorativo è stato un fallimento totale. Solo con un mercato che funziona, con il rispetto delle regole, con l'estensione dell'applicazione della contrattazione collettiva nazionale e con una riduzione del cuneo fiscale, i lavoratori italiani avranno garanzia di stabilità lavorativa e una retribuzione dignitosa (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fossi. Ne ha facoltà, per cinque minuti.

EMILIANO FOSSI (PD-IDP). Grazie, signor Presidente. Sottosegretario, colleghe e colleghi, la discussione che stiamo facendo oggi ha un'importanza centrale e fondamentale per il nostro Paese. Credo ci sia bisogno di un grande sforzo comune per provare a costruire una comunità, e quindi un Paese, più coeso e più solidale, una comunità basata sulla solidarietà, sulla reciprocità e sulla collaborazione, che provi a mettere al centro la persona, le persone, la relazione tra esse. In un Paese, come il nostro, dove molto ancora c'è da fare sul fronte dei diritti, perché ancora oggi molti diritti sono negati (diritti individuali e collettivi, diritti sociali e diritti civili), più volte anche in quest'Aula, in questi pochi giorni di legislatura, abbiamo sentito ripetere la frase: “ci si salva insieme, non da soli”. Se vogliamo tradurre in pratica anche le frasi autorevoli importanti come questa, dobbiamo essere coerenti con il lavoro che abbiamo da fare.

Noi possiamo costruire un Paese più solidale, più coeso e più forte, se proviamo a ripartire da due elementi fondamentali: il lavoro e la giustizia sociale. Infatti, il lavoro deve essere dignitoso, perché le disuguaglianze non sono soltanto una cosa inaccettabile, ma rappresentano un freno reale ad ogni prospettiva di crescita e di sviluppo per il nostro Paese. Non si tratta soltanto di ricollegarsi - è importante certo - alla direttiva europea sul salario minimo, perché si crei un'armonizzazione maggiore per i salari tra gli Stati membri, ma significa provare a dire quanto anche il nostro Paese può fare, anche raccogliendo gli sforzi che il nostro Paese e i Governi precedenti hanno fatto. Infatti, credo non sia un mistero che sul salario minimo si era lavorato e che, per esempio, il Ministro Orlando aveva profuso un importante sforzo. Dopo che il Governo è caduto, perché si è fatta terminare la legislatura, quell'elemento è stato frenato. Lo dico anche ai colleghi di Fratelli d'Italia, che poco fa criticavano un'inefficienza e una mancanza di iniziativa in questo senso.

E lo dico con spirito davvero ecumenico, anche se siamo in un frangente, dove si vuole approvare - probabilmente si approverà - una legge di bilancio che mi pare che, sul tema delle povertà e delle politiche verso chi sta peggio, segni elementi di mancanza importante, se è vero che sui fondi per la lotta contro la povertà, nel 2023 avremo circa 743 milioni in meno e dal 2024 in poi 1,7 miliardi, cioè il 19,5 per cento in meno.

Credo, tuttavia, che dobbiamo provare ad adeguarci alla linea generale europea, che prevede la presenza di questo strumento, lo citava anche il collega del MoVimento 5 Stelle poco fa. Paesi importanti come il nostro, la Francia, la Germania, lo hanno; l'Italia è uno dei cinque Paesi dove non è previsto il salario minimo. E' necessario e non solo e soltanto per armonizzarci con gli altri Paesi europei, ma anche perché dobbiamo fare passi avanti importanti, l'Italia è il Paese dove dal 1990 al 2020, quindi in trent'anni, il salario medio annuale è diminuito, meno 2,9 per cento, mentre, per esempio, negli stessi Paesi che citavo prima - Francia e Germania, - è cresciuto, più 31 per cento la Francia e più 33,7 per cento la Germania.

L'introduzione del salario minimo può fare anche da argine a quella pratica, quella realtà che rappresenta il nostro mercato del lavoro, ovvero la frammentazione, dove proliferano i contratti pirata, il lavoro occasionale, il lavoro di piattaforma e molti altri. Serve, quindi, non a ridurre tanto la povertà in senso lato, cosa importantissima, ma a diminuire anche la povertà lavorativa e - cosa non trascurabile - avvantaggerebbe soprattutto quelle categorie che sappiamo essere più esposte a forme di sfruttamento salariale, i giovani, le donne, le persone non nate in Italia, ma di provenienza straniera, permettendoci di fare così un passo importante verso una più marcata giustizia sociale.

L'introduzione con le modalità previste dalla nostra mozione è un contributo naturalmente che diamo e nel quale assolutamente crediamo. Il nostro Paese non può fare a meno di questa misura. La sommatoria di precarietà, di inflazione e dell'aumento dei costi della vita delle famiglie peggiorano le condizioni di vita di chi già sta male, e, pericolosamente, fanno scivolare verso il basso anche quelle fasce sociali di persone che sono in una condizione di cosiddetta normalità, il cosiddetto ceto medio.

Chi ha fatto l'amministratore comunale, come me fino a pochi mesi fa, sa benissimo che, una volta che le persone scivolano verso il basso, poi è molto difficile avere gli strumenti e le possibilità per farle riemergere verso percorsi di emancipazione ed autonomia. Quindi, abbiamo una grande responsabilità…

PRESIDENTE. Onorevole, la prego, concluda.

EMILIANO FOSSI (PD-IDP). …che dobbiamo cogliere insieme. Nessuno ha l'esclusiva di niente, maggioranza, minoranza.

Credo solo che questa cosa vada fatta. Proviamo a farla, facciamola, attraverso uno sforzo collettivo di questa classe politica (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Malagola. Ne ha facoltà.

LORENZO MALAGOLA (FDI). Signor Presidente, onorevoli colleghi, le mozioni qui oggi in discussione toccano una questione di assoluta attualità politica in merito alla struttura del nostro mercato del lavoro. La dinamica salariale in Italia è bloccata da trent'anni ed è divergente rispetto al trend registrato in altre Nazioni europee, come Francia e Germania. Il cosiddetto lavoro povero riguarda, infatti, quei lavoratori occupati per più di sei mesi, con qualsiasi tipologia contrattuale, che si trovano però in una situazione di povertà relativa, ossia dispongono di un reddito inferiore al 60 per cento del reddito mediano nazionale. In Italia, purtroppo, un lavoratore su dieci versa in questa condizione. È indubbio, pertanto, che il lavoro povero sia un'emergenza che chiede risposte immediate.

Ma perché questo accada è bene rifuggire da ogni distorsione ideologica. Il salario minimo legale rappresenta, infatti, una scorciatoia, e, come l'esperienza ci insegna, le scorciatoie portano spesso a perdere l'orientamento e a non raggiungere la meta desiderata. Innanzitutto, è bene sgombrare il campo dalla vulgata che il salario minimo legale sarebbe obbligatorio per l'Italia in seguito alla Direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 del Parlamento europeo, emanata lo scorso ottobre. Non è così. La direttiva in questione, infatti, ne auspica l'adozione da parte di quegli Stati membri nei quali il livello di adesione ai contratti collettivi nazionali è inferiore all'80 per cento. In Italia il tasso di riferimento è superiore al 90 per cento, addirittura, si attesta al 97 per cento se analizziamo i dati INPS e del CNEL, calcolati sulle comunicazioni di applicazione dei contratti operati dalle aziende.

È il segno che la contrattazione collettiva da noi ha una robusta tradizione ed è uno strumento largamente esercitato dalle parti sociali.

L'eventuale intromissione del Parlamento nella regolazione economica del rapporto di lavoro cristallizzerebbe, dunque, due convinzioni, i falsi amici della rappresentanza, come li chiamava il professor Mario Grandi. La prima è che le parti sociali, soprattutto i sindacati, non siano in grado di garantire la dignità del lavoro, obbligando l'intervento della politica. La seconda è che la legge sia maggiormente in grado di difendere i più deboli rispetto a qualsiasi forma di contrattazione privata.

Sorprende, pertanto, come alcuni sindacati, in particolare uno storicamente legato alla parte sinistra di questo emiciclo, siano pronti a sacrificare l'autonomia della contrattazione sindacale sull'altare del salario minimo. I sindacati italiani da sempre hanno scelto di non sottomettersi all'articolo 39 della Costituzione per ribadire la propria indipendenza dalla politica, che ha rispettato questa scelta lungo tutta la storia repubblicana, non dando seguito legislativo a quella disposizione. Tale equilibrio ha generato un sistema contrattuale autonomo, forse complesso, talvolta lento, ma in grado di garantire ai lavoratori italiani trattamenti non solo economici, ma soprattutto normativi, tra i più avanzati nel mondo occidentale. I contratti collettivi che regolano i rapporti di lavoro non sono freddi tariffari, ma ricercate e spesso sofferte mediazioni, ove si trovano diritti sindacali, permessi, welfare, diritto allo studio, difesa della maternità, obblighi in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Ricondurre la difesa dei diritti dei lavoratori soltanto al loro stipendio è una forzatura non immediatamente tecnica, ma culturale e storica. La contrattazione collettiva ha sempre anticipato le conquiste del diritto del lavoro e tuttora risulta essere più dinamica del legislatore. Inoltre, la convinzione che la legge sia efficiente per definizione è ampiamente smentita dalla realtà dei fatti. Proprio nell'ambito del lavoro, si osserva come le soluzioni calate dall'alto, uguali da Bolzano ad Agrigento, o nella meccatronica, così come nella cooperazione, semplicemente non funzionano. La regolazione operata dagli stessi attori economici, ancor più se direttamente sui luoghi di lavoro, e mi riferisco qui alla contrattazione aziendale, può disporre di quell'intelligenza, di quel realismo e di quella flessibilità tipica della prossimità e che è impossibile attuare da Roma.

La forzatura su questi assunti è forse più rischiosa ancora dei possibili effetti economici negativi di una disposizione rigida sul salario minimo, comunque ampiamente trattati anche in dottrina, e lo ricordo al collega Carotenuto. Basti pensare all'effetto depressivo sull'incremento salariale nei settori già sopra i limiti di legge: perché continuare a concedere trattamenti generosi, quando la legge certifica che l'equo compenso è sensibilmente più basso? Oppure alla possibile fuga dai contratti collettivi per potersi sottomettere alla più vantaggiosa tariffa di legge. Il salario minimo produrrebbe l'effetto distorsivo di una desindacalizzazione dei lavoratori, e quindi una loro minor complessiva tutela.

O ancora, sarebbe probabile il rischio di una determinazione salariale del tutto sconnessa dalla produttività del lavoro, penalizzando merito e talenti.

Onorevoli colleghi, vi prego: non invadiamo ciò che settant'anni di protagonismo dei corpi intermedi ha delimitato con tanta chiarezza. Faccio appello anche a quei sindacati riformisti che hanno già manifestato la contrarietà al salario minimo legale. Sappiate che Fratelli d'Italia continuerà a rappresentare un argine contro chi vuole circoscrivere l'azione sindacale. Siamo convinti che siete voi a poter tutelare maggiormente i diritti normativi ed economici delle lavoratrici e dei lavoratori italiani. Infatti, non esiste legge che possa rendere effettivo un diritto al di fuori della volontà delle parti in causa né esiste legge che possa sostituire il lavoro prezioso che ogni giorno conducete nelle fabbriche e negli uffici. I diritti, per divenire effettivi, hanno bisogno di trovare chi li afferma e li difende: non basta una riga di testo legislativo.

Infatti, tra le principali cause del lavoro povero, crescente in tutto il mondo occidentale, vi è, innanzitutto, la quantità di ore lavorate. Vi sono lavoratori che ricevono una paga oraria superiore alla media ma che lavorano, purtroppo, pochissime ore alla settimana. Ma vi è anche la qualità del lavoro svolto e molto spesso l'inquadramento è la causa di una penalizzazione del lavoratore. Rilevante, ma non così incidente, è il livello salariale del settore dove si è occupati. Non a caso, il rischio di povertà lavorativa è doppio per i lavoratori part time rispetto a quelli a tempo pieno e triplo per i lavoratori con contratti a termine o per gli autonomi rispetto agli assunti a tempo indeterminato.

La direttiva europea fissa la soglia di lavoro povero al 50 per cento del salario minimo e al 60 per cento del salario mediano. I nostri minimi tabellari sono largamente superiori a 7 euro l'ora lordi, identificati dalla direttiva europea come il confine di dignità per l'Italia. Questa affermazione è molto importante, innanzitutto perché chiarisce che anche in Italia vi sono dei paletti all'implosione verso il basso dei redditi e questi sono i minimi tabellari fissati ogni tre anni dalle associazioni di imprese e dai sindacati dei lavoratori nei contratti collettivi, che sono, appunto, molto più che un mero tariffario, tanto che, se considerati nella loro integralità - considerando, quindi, il TFR, il welfare e tutte le parti variabili dello stipendio - prevedono un trattamento salariale medio oltre i 10 euro. In secondo luogo, è importante questo dato perché è lo stesso atto europeo, la direttiva, a chiarire che negli Stati ove i contratti collettivi regolano almeno l'80 per cento dei rapporti di lavoro, come in Italia, non solo non è obbligatorio alcun intervento legislativo ma, anzi, è possibile che siano minori le disuguaglianze salariali.

Esistono, quindi, ben altre vie per combattere il lavoro povero, ridando potere d'acquisto e percorsi di crescita alle lavoratrici e ai lavoratori italiani. Innanzitutto, incoraggiando una sempre maggiore copertura dell'efficacia dei contratti collettivi nazionali comparativamente più rappresentativi. Questo è possibile farlo facilitando il rinnovo dei contratti scaduti attraverso il dialogo con le associazioni datoriali e sindacali coinvolte, per comprendere le ragioni del ritardo del rinnovo; è possibile farlo inserendo nei bandi di gara pubblici il vincolo di applicazione dei contratti più rappresentativi per l'azienda aggiudicataria; infine, è possibile farlo contrastando con una più diffusa opera di ispezione l'applicazione dei contratti collettivi in dumping, i cosiddetti contratti pirata.

È bene, poi, avviare un percorso di analisi della contrattazione collettiva nazionale, anche prevedendo l'obbligatoria indicazione in busta paga e nei flussi di comunicazione amministrativa del codice univoco INPS-CNEL del contratto collettivo applicato, in modo che sia censita - e non solo a fini statistici - con certezza l'applicazione di ogni contratto e sia possibile per il sindacato stesso verificare le situazioni anomale. È poi importante stimolare la contrattazione territoriale aziendale, proseguendo sulla strada, già intrapresa dal Governo, di detassare la parte variabile, la componente variabile del salario connessa a incrementi di produttività, qualità, efficienza e redditività. Poi, è importante proseguire nella detassazione del costo del lavoro. Anche qui il Governo ha preso degli impegni importanti presentando la legge di bilancio. È bene farlo nel raccordo con le parti sociali e proseguire sulla traiettoria tracciata.

È bene, infine, ripensare al sistema formativo italiano. La formazione professionale rappresenta uno snodo fondamentale per la crescita professionale, occupazionale e anche salariale dei nostri lavoratori. Non dimentichiamo, infatti, che il personale inquadrato nei livelli più bassi dei contratti collettivi può crescere se accompagnato in percorsi di riqualificazione. Una maggiore produttività porta con sé una crescita salariale.

Il contrasto al lavoro povero è per noi di Fratelli d'Italia una priorità, ma non è certo il salario minimo che risolverà il problema. Non intendiamo imboccare le scorciatoie ideologiche avanzate dall'opposizione, ma vogliamo prendere la via maestra della detassazione del lavoro, della lotta al lavoro sommerso, della riforma del sistema della formazione professionale, dello stimolo della contrattazione nazionale e, soprattutto, di quella di secondo livello, affinché si inneschi una dinamica di crescita dei salari e un allargamento effettivo dei diritti e delle tutele dei lavoratori e delle lavoratrici italiane (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Arturo Scotto. Ne ha facoltà, per cinque minuti.

ARTURO SCOTTO (PD-IDP). Grazie, signor Presidente. Colleghi della maggioranza, sottosegretario Durigon, dovete dire la verità a chi sta ascoltando questo dibattito: l'argomento non vi interessa, perché in questo momento le vostre priorità sono altre, cioè esenzione del POS a 60 euro e alzare il tetto del contante a 5 mila euro. State pagando le vostre cambiali elettorali. Strizzate l'occhiolino a chi non paga le tasse o le evade e vi rifiutate di parlare a chi ha pagato le tasse sempre fino all'ultimo centesimo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

Dovete rispondere a una semplice domanda: pensate sia giusto lavorare a meno di 9,50 euro l'ora, in un grande Paese democratico come l'Italia? E per farlo quali strumenti intendete mettere in campo? La mozione di maggioranza, da questo punto di vista, ha l'encefalogramma piatto. Encefalogramma piatto: non c'è il salario minimo e si sposta l'attenzione su altro, mentre invece la principale emergenza di questo Paese si chiama diseguaglianza salariale, congelamento del potere d'acquisto e impoverimento del lavoro. È l'indice di uno spaventoso balzo all'indietro della società italiana.

Bankitalia, in un rapporto recente preparato sulle trasformazioni del mercato del lavoro dal 1997 a oggi, parla chiaramente di vincitori e di vinti. La domanda è: da che parte state? Dalla parte di chi ha vinto o di chi ha perso? Perché chi ha perso è sicuramente il mondo del lavoro, che ha visto un indebolimento della contrattazione sindacale, ha visto un aumento dei profitti delle imprese e una diminuzione dei salari, soprattutto nei contratti a termine. Da che parte state? Ascoltando l'onorevole Malagola mi pare che la parte sia molto chiara e penso che forse i dati di Bankitalia siano un po' più autorevoli di qualche pacca sulla spalla e - aggiungo - di qualche minaccia al sindacato, quando si parla di sottomettersi a un articolo della Costituzione.

Chi ha difeso la Costituzione in questi anni sono state le forze che si sono mobilitate per difendere il lavoro. ma anche un'altra cosa, ricordate? Il Presidente Meloni ieri ha dichiarato alla Confindustria che non bisogna disturbare chi produce. Giusto, tra chi produce, tra i produttori c'è innanzitutto chi vive del proprio lavoro e bassi salari e precarietà abbassano il livello di produttività, c'è scritto in tutti i manuali di economia e di diritto del lavoro. Solamente questa maggioranza non se ne è accorta. Voi, invece, l'unica proposta che siete in grado di mettere in campo si chiama: voucher, che sono poco più che un palliativo e, come ha detto oggi il segretario generale della CGIL, una forma di sfruttamento che pensavamo risalisse all'Ottocento e che invece viene riprodotta nuovamente all'interno della legge di bilancio, come unica proposta sul mercato del lavoro.

Noi proponiamo alcune cose semplici, chiare, saranno risolutive? Non lo so, ma sicuramente sono un tentativo: un salario minimo, come c'è in tutta Europa, a 9,50 euro, e finalmente una legge sulla rappresentanza, perché quello che voi non riuscite a spiegare a nessuno più è come sia possibile che in questo Paese, lo diceva prima il collega Laus, ci siano oltre 900 contratti di lavoro che alla fine riguardano una minoranza di lavoratori e che molto spesso sono contratti pirata. Allora, proviamo a dare una risposta seria, netta e radicale alla più grande emergenza del nostro tempo che si chiama lavoro povero (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Chiara Gribaudo. Ne ha facoltà.

CHIARA GRIBAUDO (PD-IDP). Presidente, onorevoli colleghi, Sottosegretario Durigon, liberiamoci di un dibattito tutto ideologico quando parliamo di salario minimo e per farlo occorre ricordare a noi stessi qual è la situazione italiana partendo dai dati, dai numeri, per rendere giustizia alla situazione di disagio di tantissime persone nel nostro Paese e per sgombrare il campo da strumentalizzazioni di parte. Il salario annuo medio degli italiani è, oggi, inferiore a quello del 1990, lo ripeto, colleghe e colleghi, del 1990. Mentre nelle altre nazioni il salario delle lavoratrici e dei lavoratori cresceva, in Italia con il passare degli anni perdeva forza e potere d'acquisto. In particolare, l'ultimo decennio ha visto un decremento drammatico, che oggi si traduce nella presenza di circa un milione e mezzo di lavoratori poveri; parliamo di donne e uomini che guadagnavano fra i 550 e gli 820 euro al mese, l'11,8 per cento dei lavoratori, più di uno su dieci. Se consideriamo soltanto i lavoratori più giovani la quota sale al 15,6 per cento. Quando cerchiamo le cause dell'esodo dei giovani italiani verso altri Paesi, qui c'è la risposta; mentre in Francia e in Germania i salari crescevano fino al 30 per cento, qui, diminuivano.

I lavoratori poveri scontano due elementi da evidenziare: il primo, naturalmente, è un salario basso; il secondo è la bassa intensità di lavoro, un orario cioè insufficiente o un lavoro discontinuo; tradotto significa precarietà costante e che non consente di uscire dalla soglia di povertà. In questo quadro già difficile, si sta aggiungendo la crescita poderosa dell'inflazione. Non è questo il tempo delle parole, ma delle soluzioni efficaci, evitando palliativi o errori, come scale mobili o altri tagli fiscali. Da vent'anni ci raccontiamo come il taglio del costo del lavoro sia l'unica cura per la competitività delle imprese italiane. Questa narrazione ha oscurato la necessità di investimenti in produttività legati all'aumento consistente dei salari. Gli ultimi Governi, quindi, anche quelli in cui il PD era in maggioranza, sono già intervenuti per ridurre il peso del fisco sulla busta paga dei lavoratori dipendenti e la riforma dell'IRPEF del Governo Draghi ha inglobato e allargato questo sgravio, ma dal lato della contrattazione e delle imprese, colleghi, dobbiamo dircelo, non sono stati fatti passi avanti o, meglio, dopo una fatica francamente incomprensibile, grazie al lavoro del Ministro Orlando, si era arrivati a un accordo con i sindacati; partite da lì, Sottosegretario Durigon, se non volete perdere tempo.

Fatemi dire agli amici del MoVimento 5 Stelle che per me resta incomprensibile che abbiano sottovalutato questo passaggio fondamentale per dare salari dignitosi a milioni di persone, stimolando così tutto il sistema Paese, la contrattazione in primis, a fare un salto di qualità, quello che ci serviva. Fare politica solo per convenienza elettorale, in un momento difficile come quello che stiamo attraversando non solo è inutile, ma è dannoso, perché - e spero di essere smentita - la destra al Governo ci darà ancora una volta la prova di come su questi temi incomprensibilmente sia sorda e preferisca rispondere a chi l'ha votata senza occuparsi davvero di chi è in difficoltà. Sì, perché già dalle bozze di bilancio abbiamo visto benissimo quale strada avete intrapreso: in un Paese in cui l'evasione fiscale ha numeri importanti, il lavoro povero e in nero non tende a diminuire, voi che fate? Alzate le soglie del contante che favorisce il nero e aumentate la precarietà del lavoro, introducendo i voucher con tetti troppo alti. Allo stesso tempo mettete in piedi misure spot sulle pensioni.

Dovevate scegliere il futuro del Paese, avete scelto di aumentare il debito pubblico sulle spalle di chi già paga e, soprattutto, di chi pagherà le tasse. Eppure, un Governo che ha avuto un chiaro mandato popolare avrebbe dovuto puntare sulla diminuzione del debito e sulla buona occupazione che è la migliore strategia per combattere la povertà. Invece, portate a casa lo scalpo ideologico della cancellazione del reddito di cittadinanza che volete sostituire con le social card degli anni Duemila, questo per ricordare quali sono le vostre priorità. Per voi i poveri vengono dopo gli evasori e dopo i corrotti.

Occorre riprendere il cammino interrotto a luglio, perché i maggiori contratti nazionali sono rimasti al palo, mentre nei settori centrali per l'economia del terzo millennio la contrattazione pirata è divenuta una minaccia concreta per le tutele e i diritti più basilari, portando a condizioni salariali da terzo mondo. In particolare, nel mondo della logistica e fra le cooperative di servizi, il conflitto sociale è sfociato anche in gesti ed episodi di grave violenza antisindacale, come l'uccisione di un delegato sindacale investito da un camion mentre svolgeva un picchetto alla Lidl di Novara nel giugno del 2021 o come lo sgombero, nello stesso periodo, dei picchetti alla FedEx di Lodi da parte di guardie private che hanno picchiato i lavoratori. Tuttavia, noi vogliamo fare un'opposizione costruttiva e per questo vi faccio due proposte diverse per eliminare situazioni di illegalità e di sfruttamento, perché due sono i problemi: il primo è affrontare con forza la questione salariale che riguarda tutti i salari, non solo quelli bassi, perché tutti i salari sono diminuiti e tutti i salari sono ora aggrediti dall'inflazione; il secondo problema è combattere il lavoro povero che nasce dai salari bassi, ma anche dal part time involontario, dal lavoro nero, dallo sfruttamento che si annida in tante filiere produttive. La soluzione al primo problema è rafforzare la rappresentanza delle parti sociali e far valere erga omnes, per tutte le lavoratrici e i lavoratori, la buona contrattazione collettiva che ne deriva; riuscire ad approvare una legge sulla rappresentanza, infatti, vuol dire creare le condizioni per l'efficacia erga omnes dei contratti collettivi, come ci chiede anche l'Unione europea. La soluzione al secondo problema è sia l'introduzione di un salario minimo legale nei settori deboli ad alta incidenza di lavoro povero, sia l'approvazione di norme efficaci contro il nero e lo sfruttamento, esattamente l'opposto di quello che state facendo voi al Governo.

In Germania, il salario minimo convive con la contrattazione dal 2015 e non ha prodotto l'effetto temuto da alcuni di indebolire i contratti. Oggi, da noi non esiste un parametro pubblico che dica quando il lavoro è dignitoso o meno, ma l'Italia nel 2022 ne ha estremamente bisogno. Anche queste soluzioni non basteranno, se non lavoreremo sulle politiche per la crescita e la produttività, proprio mentre la globalizzazione sta cambiando pelle e nuove filiere corte potrebbero ridare competitività ai nostri distretti produttivi.

Abbiamo bisogno di crescita, non di debito, di produttività, non di evasione, l'opposto, di nuovo, della ricetta della destra di Governo. Ecco, affrontare il tema del lavoro povero non è solo una battaglia di sinistra, è un investimento sul futuro dell'Italia, ecco perché oggi noi abbiamo fatto una proposta molto chiara al centrodestra, che per ora ci risponde senza risponderci, anzi fa un panegirico di cui nessuno capisce niente. Noi vogliamo provare a risolvere un problema; se volete affrontarlo, ci troverete, altrimenti stiamo solo perdendo tempo, illudendo ancora una volta gli italiani perbene (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Intervento del Governo)

PRESIDENTE. Chiedo al Governo, rappresentato dal Sottosegretario, senatore Claudio Durigon, se intenda intervenire.

CLAUDIO DURIGON, Sottosegretario di Stato per il Lavoro e le politiche sociali. Sì, Presidente, intendo intervenire, perché sono stati molti gli argomenti di questa discussione generale e ringrazio i colleghi di averla messa così in evidenza.

Ho sentito le domande che ha posto l'onorevole Laus - senatore Laus, come lo chiamo io -, e credo che la direzione del Governo sia quella di trovare soluzioni. Poi lo strumento, casomai, non lo condividiamo, ma sicuramente l'intenzione di dare una risposta c'è.

Oggi, parliamo delle mozioni presentate dal gruppo parlamentare del Partito Democratico-Italia democratica e progressista, dal gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, dal gruppo parlamentare Azione-Italia Viva e dal gruppo parlamentare Alleanza Vedi e Sinistra, che sono volte all'introduzione del salario minimo legale.

In particolare, le mozioni, pur nelle rispettive differenti formulazioni, tanto nelle premesse quanto negli impegni, affrontano il tema del recepimento nell'ordinamento italiano della direttiva europea (UE) 2022/2041 del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai salari minimi adeguati nell'Unione europea. La direttiva mira a realizzare il miglioramento generalizzato della condizione di vita e di lavoro all'interno dell'Unione europea, garantendo a tutti i lavoratori retribuzioni eque che assicurino un tenore di vita dignitoso, in linea con quanto previsto dai Trattati europei, dalla Carta sociale europea, dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea e, da ultimo, dal Pilastro europeo dei diritti sociali.

Come chiarito nel preambolo della direttiva, sul piano economico e sociale, lo strumento normativo è funzionale al contrasto dei fenomeni di povertà lavorativa, alla riduzione delle disuguaglianze salariali e del divario retributivo di genere, posto che le donne sono sovrarappresentate nei settori a bassa retribuzione, nonché alla limitazione della riduzione di reddito che si verifica nelle fasi di contrattazione economica mediante il sostegno alla domanda interna, il contrasto delle pratiche di concorrenza sleale basata sui salari e favorendo una ripresa economica sostenibile ed inclusiva.

Per il perseguimento di tali obiettivi, la direttiva richiede agli Stati membri nei quali è previsto un salario minimo a livello legale la predisposizione di procedure che ne garantiscano la determinazione e l'aggiornamento secondo i criteri di adeguatezza (articolo 5 e seguenti). Per gli Stati che, invece, non sono obbligati ad introdurre un salario minimo legale, la direttiva demanda alla contrattazione collettiva la fissazione dei livelli salariali. Nel nostro ordinamento, la determinazione del salario minimo non è rimessa alla legge, ma è demandata alla libera negoziazione delle parti sociali attraverso lo strumento della contrattazione collettiva. Sono, dunque, i singoli contratti collettivi di settore a definire, in base al livello di inquadramento dei lavoratori, le condizioni normative ed economiche agli stessi applicabili. Tuttavia, a causa della mancanza di attuazione dell'articolo 39 della Costituzione, le clausole retributive dei contratti collettivi sono, in linea di principio, prive di efficacia erga omnes. La giurisprudenza ha avviato a tale vuoto di tutela, utilizzando l'articolo 36 della Costituzione, ove si riconosce ad ogni lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare allo stesso e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Il richiamo a tale principio ha consentito ai giudici di far riferimento, come parametro per l'individuazione della retribuzione sufficiente, alle clausole retributive dei contratti collettivi, estendendole a tutti i lavoratori.

Queste premesse per evidenziare che la complessità dell'ordinamento italiano fa sì che debba essere approfondito con estrema cautela il recepimento della direttiva europea sul salario minimo, proprio perché è fortemente innovativa nel nostro sistema ordinamentale, che, è bene ricordare, trova comunque una percentuale di contrattualizzazione degli occupati ampiamente superiore a quella dell'80 per cento fissata dalla stessa direttiva. A tal proposito, anche considerando che il termine di recepimento della direttiva scade tra 2 anni (il 15 novembre del 2024), in fase di recepimento, verranno attivati tavoli con tutte le parti sociali che garantiscano il più efficace raggiungimento degli obiettivi individuati a livello comunitario. Ciò consentirà, altresì, di evitare inopportuni effetti di spiazzamento del nostro sistema di relazioni industriali incentrato sulla contrattazione collettiva, che potrebbe essere negativamente influenzato dalla fissazione di parametri quantitativi di fonte legale non derivanti da adeguate procedure negoziali.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione della mozione Richetti ed altri n. 1-00021 concernente iniziative per la ratifica della riforma del Trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità (MES) (ore 16,05).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Richetti ed altri n. 1-00021 concernente iniziative per la ratifica della riforma del Trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità (MES) (Vedi l'allegato A).

La ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicata nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta del 23 novembre 2022 (Vedi l'allegato A della seduta del 23 novembre 2022).

Avverto che sono state presentate le mozioni De Luca e altri n. 1-00027 e Scerra ed altri n. 1-00029 (Vedi l'allegato A), che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente i relativi testi sono in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

PIERO FASSINO (PD-IDP). Chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIERO FASSINO (PD-IDP). Mi scusi, Presidente, sull'ordine dei lavori, vorremmo capire: il Governo è rappresentato dal sottosegretario Durigon anche su questo tema?

PRESIDENTE. Senatore, lei rimane in rappresentanza del Governo?

CLAUDIO DURIGON, Sottosegretario di Stato per il Lavoro e le politiche sociali. Assolutamente sì, se vi vado bene, io rimango.

PIERO FASSINO (PD-IDP). Siccome lei stava andandosene, volevamo capire se c'era qualcuno del Governo.

CLAUDIO DURIGON, Sottosegretario di Stato per il Lavoro e le politiche sociali. Ci ho ripensato, perché l'argomento è interessante.

PRESIDENTE. Diamo per acquisita, allora, la presenza del senatore Durigon per il Governo.

È iscritta a parlare l'onorevole De Monte, che illustrerà la mozione Richetti ed altri n. 1-00021, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà, per diciassette minuti.

ISABELLA DE MONTE (A-IV-RE). Grazie. Signor Presidente, membri del Governo, signor Sottosegretario, onorevoli colleghi, l'argomento oggi all'ordine del giorno affonda le proprie radici lontano nel tempo a oltre 10 anni fa: per la precisione, trova origine nella situazione di emergenza finanziaria determinata dalla crisi del 2008, che compromise la crescita economica e la stabilità finanziaria anche negli Stati europei, deteriorandone i disavanzi e i debiti. Per tale ragione, la risposta europea della zona euro fu quella di introdurre appositi fondi per sostenere i Paesi in maggiore difficoltà. Ricordiamo, quindi, il Meccanismo europeo di stabilità finanziaria, il Fondo europeo di stabilità finanziaria e il Meccanismo europeo di stabilità. Solo il primo venne istituito con un atto dell'Unione, quindi, nell'ambito del diritto dell'Unione europea; il secondo e il terzo furono, invece, istituiti con trattati internazionali stipulati dagli Stati in veste di soggetti di diritto internazionale.

In un mondo ormai caratterizzato dalla libera circolazione dei capitali, il proposito corretto fu quello di aumentare il livello delle garanzie. Questo è stato anche l'intento del cosiddetto Fondo «salva Stati» e dei tentativi di migliorarne il contenuto e la governance. Certo, tutto è migliorabile, pensiamo a quanto più forte fu la risposta degli Stati Uniti d'America alla predetta crisi del 2008, perché disponeva di una politica economica non solo monetaria, in quanto Stato federale.

Il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea prevede la possibilità di concedere un'assistenza finanziaria dell'Unione a uno Stato che si trovi in difficoltà, ossia seriamente minacciato da gravi difficoltà causate da circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo. Ciò nella forma di un prestito o di una linea di credito allo Stato membro che subisca o rischi seriamente di subire gravi perturbazioni economiche o finanziarie.

Il Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF), è un fondo istituito da un accordo di diritto internazionale per sostenere i soli Paesi dell'Eurozona, a differenza del MES che, invece, è rivolto a tutti gli Stati dell'UE. Il cosiddetto Fondo «salva Stati» è un meccanismo di stabilità permanente che sostituisce il FESF e il MESF nel fornire assistenza finanziaria agli Stati membri della zona euro.

Nella nostra mozione illustriamo i passaggi che ci hanno portato sin qui oggi, nonché le funzioni e le condizionalità, ma anche il vantaggio indubbio di attenuare i rischi di contagio connessi con eventuali crisi di un Paese dell'area euro, fatti che, in passato, hanno prodotto ripercussioni negative anche in Italia.

Nel 2017, la Commissione europea ha presentato una proposta al Consiglio di trasformare il MES in fondo monetario europeo e di inserirlo, quindi, nel quadro giuridico dell'Unione europea. La ragione espressa era quella di rafforzare maggiormente l'ancoraggio istituzionale del MES con effetti sul controllo giurisdizionale e una maggiore efficienza delle risorse finanziarie europee. Il vantaggio sarebbe stato anche quello di migliorare la cooperazione con la Commissione europea e di rapportare il MES anche con il Parlamento europeo.

Questa proposta ha, tuttavia, trovato resistenza da parte di alcuni Stati membri europei, pertanto l'esito in Consiglio, come è noto, è stato negativo. Resta il fatto che al MES sono stati attribuiti nuovi compiti, ma senza sorveglianza fiscale. Inoltre, la sua attività sarà vincolata al rispetto della legislazione dell'Unione europea.

Tornando al pregresso, è importante ricordare che il MES venne istituito con un trattato firmato a Bruxelles il 2 febbraio 2012. Ed è bene ricordare che il passaggio fondamentale avvenne all'Ecofin nel 2011, quindi all'epoca del Governo Berlusconi. Non credo che ci sia, invece, necessità di fare buona memoria di quali fossero al tempo le forze politiche che sostenevano il Governo, né dei relativi Ministri.

Molto è stato detto circa il rischio stigma rispetto all'utilizzo del Meccanismo stesso. Per tale ragione, è bene ricordare quanto avvenuto per alcuni Stati europei: nel 2011 lo spread della Spagna superava i 600 punti, quello dell'Irlanda i 700 punti, quello portoghese i 1200. Oggi le situazioni citate sono tutte rientrate grazie al Fondo e, va detto, nel rispetto delle sue condizionalità. Nessuno di questi Stati ebbe difficoltà a finanziare i suoi mercati, quindi quale stigma? Oggi, peraltro, parliamo di fatto di un altro Fondo salva-Stati. L'evoluzione del negoziato, va detto, è stata anche facilitata in senso positivo a causa della pandemia del COVID-19, che ha altresì introdotto delle condizionalità migliorative rispetto a quelle inizialmente prospettate.

Penso che quanto finora detto vada visto anche nella complessiva valutazione degli strumenti messi a disposizione a livello europeo, anche se con diverse modalità. Rammento lo stesso Next Generation EU, di cui fa parte quello che noi conosciamo come PNRR. Si è trattato di una soluzione importante e necessaria a seguito della pandemia, che da crisi sanitaria si è trasformata, purtroppo, molto presto anche in una preoccupante crisi economica. Ebbene, le ragioni di questa forma di finanziamento sono state quelle della ripresa, quindi del rilancio dell'economia degli Stati membri, ma in primo luogo della resilienza, ossia della capacità di resistere a nuove crisi. Mai più tempestiva è stata, purtroppo, la nuova e difficile sfida, cui oggi le economie degli Stati debbono far fronte per la crisi energetica, dovuta all'aumento dei prezzi al consumo. C'è stata, quindi, una risposta europea in senso solidale, che dimostra ancora una volta che la soluzione alle difficoltà va data in modo comune e con strumenti adeguati. Tali strumenti non sono affatto una necessità dello Stato, bensì una opportunità aggiuntiva a cui ricorrere nel caso di temporanea difficoltà finanziaria. Il recepimento del trattato ora spetta, tra gli Stati che hanno firmato l'accordo, solo alla Germania, che attende il pronunciamento del tribunale costituzionale, nonché all'Italia.

Vero che questo Governo si è appena insediato, ma non consideriamo rassicuranti le affermazioni di chi ritiene che si debba attendere il pronunciamento costituzionale germanico, perché questo si concilierebbe poco e male con la posizione di uno Stato sovrano. E si badi bene, uno Stato sovrano non è estraneo all'Unione europea, né agli strumenti creati per il tramite della sua organizzazione. Quindi ora possiamo dire: Governo italiano, l'Europa siete voi. La Presidente del Consiglio siede in Consiglio europeo insieme agli altri Capi di Stato e di Governo, i Ministri siedono al Consiglio dell'Unione europea, quindi sono dei co-legislatori, i Ministri delle Finanze all'Eurogruppo, quindi si può dire che è tempo di nuovi ruoli e di nuove responsabilità. E adesso, per responsabilità, il giusto convincimento deve essere quello di avere uno strumento di garanzia in più, non in meno, fatto auspicabile da chiunque, privato cittadino, professionista o impresa, che si trovi in momentanea difficoltà. Non è uno stigma, è senso di responsabilità, di realtà, di buonsenso. E a portare in fondo il ragionamento sull'aspetto istituzionale non può che esserci linearità tra una decisione assunta dall'Italia a livello europeo e in conformità con la risoluzione parlamentare assunta, e la conseguente proposta di recepimento la cui iniziativa spetta al Consiglio dei ministri. L'auspicio è, quindi, che il nuovo Governo intenda dare continuità istituzionale e recepire un trattato regolatorio di uno strumento certamente migliorato rispetto al passato (Applausi dei deputati del gruppo Azione-Italia Viva-Renew Europe).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Giovanna Iacono, che illustrerà la mozione De Luca ed altri n. 1-00027, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà, per dieci minuti.

GIOVANNA IACONO (PD-IDP). Grazie, Presidente. Colleghe, colleghi, rappresentanti del Governo, il tema oggi oggetto di discussione ha radici molto lontane. Il Meccanismo europeo di stabilità (MES), infatti, è stato istituito nel 2012 nell'ambito della Strategia dell'Unione europea per il rafforzamento finanziario della zona euro, con l'obiettivo di fornire assistenza finanziaria ai Paesi che ne sono parte e che si trovano in gravi difficoltà finanziarie o ne siano minacciati, ed è oggetto di un processo di riforma avviato già nel 2017, ma non ancora concluso.

In base al Trattato istitutivo, che l'Italia ha sottoscritto nel 2011 e poi ratificato nel 2012, il MES è un'organizzazione intergovernativa regolata dal diritto pubblico internazionale, istituita mediante un trattato intergovernativo al di fuori del quadro giuridico europeo. Il MES ha a disposizione diversi strumenti in favore dei Paesi che ne richiedono l'intervento. In particolare, può; fornire assistenza finanziaria precauzionale, da erogare sotto forma di linea di credito condizionale precauzionale o sotto forma di una linea di credito soggetto a condizioni rafforzate; fornire assistenza finanziaria anche per la ricapitalizzazione di istituzioni finanziarie di un Paese membro e concedere misure di sostegno ancora più stringenti, quali i cosiddetti prestiti; infine, acquistare titoli di debito degli Stati membri in sede di emissione sul mercato primario o secondario. L'accesso all'assistenza finanziaria è soggetto ad una rigorosa condizionalità, commisurata allo specifico strumento di sostegno utilizzato, tra cui gli strumenti di assistenza finanziaria e la definizione di un apposito protocollo d'intesa, da sottoscrivere con la Commissione, che lo negozia preliminarmente di concerto con la BCE insieme, ove possibile, anche con il Fondo monetario internazionale. Per quanto concerne i prestiti, alla preliminare verifica della sostenibilità del debito verrebbe affiancata quella della capacità di ripagare il prestito. Sono clausole, queste, a tutela delle risorse del MES, di cui l'Italia - lo ricordo prima a me stessa - è il terzo principale finanziatore e, insieme alla Germania e alla Francia, ha diritto di voto superiore al 15 per cento e può, quindi, porre il veto sulle decisioni prese in condizioni di urgenza.

Fatte queste dovute premesse, occorre dire anche che, nel dicembre 2017, al fine di integrare pienamente il MES nell'ordinamento giuridico europeo e consentire un maggior legame con il circuito politico istituzionale dell'Unione europea e nell'ambito di una più ampia prospettiva di riforma dell'Unione economica e monetaria, la Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento finalizzata a trasformare il MES in un Fondo monetario europeo, mantenendone la struttura, ma attribuendogli l'ulteriore funzione di fornire un sostegno finanziario, sotto forma di linea di credito rotativo, al Fondo di risoluzione unico istituito dal Regolamento 806/2014/UE per la gestione delle crisi bancarie. Tale proposta di regolamento non ha avuto seguito, ma i negoziati per la riforma e la modifica del MES sono andati avanti. In occasione del Consiglio europeo di dicembre 2018 sono state definite le linee guida della riforma, sulla base delle proposte di revisione del Trattato istitutivo elaborate dall'Eurogruppo il 4 dicembre 2019. Nel corso del 2019 è stata definita, nell'ambito di un più ampio pacchetto di interventi per rafforzare e completare l'Unione europea economica e monetaria, una riforma complessiva del Trattato istitutivo del MES. Il 4 dicembre 2019, infatti, l'Eurogruppo ha raggiunto un accordo di massima con riserva della conclusione delle procedure nazionali sui punti principali dei documenti correlati alla riforma del MES. All'esito di questo percorso negoziale, nel gennaio 2021 e l'8 febbraio 2021, gli Stati membri del MES hanno sottoscritto l'accordo di riforma del Trattato istitutivo. Gli strumenti di finanziamento del MES, prestiti e linee di credito, a seguito della riforma rimarranno sostanzialmente inalterati, ma si semplificheranno le procedure di accesso all'assistenza finanziaria precauzionale semplice.

Si instaureranno, inoltre, forme di cooperazione con la Commissione stessa, più trasparenti e nel rispetto del quadro giuridico dell'Unione europea.

Accanto a questa riforma, gli Stati membri del MES prevedono anche, in una logica di pacchetto, la definizione di uno strumento europeo di bilancio per la convergenza e la competitività e il completamento dell'unione bancaria, in particolare con l'introduzione di uno schema europeo di garanzia sui depositi. I negoziati per consentire il raggiungimento di un accordo sull'intero pacchetto, definito nel 2019 strategico in un'ottica di condivisione dei rischi del sistema bancario e di stabilità del sistema finanziario, hanno visto purtroppo un rallentamento e un ulteriore momento di riflessione con la pandemia da COVID-19. Sono, però, ripresi nel corso del 2020 e vanno completati.

Oggi rimane la necessità di portare avanti il processo di riforma già avviato. Riteniamo infatti opportuno, anzi necessario, completare l'attuale negoziato di modifica del MES, passo indispensabile per l'ulteriore trasformazione di tale organismo in un vero e proprio Fondo monetario europeo all'interno del quadro giuridico di diritto dell'Unione, coordinato con le politiche di bilancio europee.

Allo stato attuale, alla conclusione del processo di ratifica della riforma del Trattato istitutivo del MES, risultano mancanti, com'è già stato ricordato, le ratifiche dell'Italia - che l'ha sottoscritto nel 2021 - e della Germania, dove si attende l'esito della pronuncia del tribunale costituzionale federale, decisione che poche settimane fa il Ministro dell'Economia e delle finanze ha dichiarato di voler attendere, a nostro avviso incomprensibilmente. Si tratta di un tema fondamentale, sebbene la Presidente del Consiglio dei ministri, nella stessa occasione, abbia dichiarato che il Governo non ha ancora neanche aperto questo dossier.

Mi avvio alle conclusioni, Presidente. Con la presente mozione il gruppo parlamentare del Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista intende impegnare il Governo in due direzioni: a procedere senza ulteriori indugi e senza ulteriori ritardi alla ratifica della riforma del Trattato istitutivo del MES, presentando il relativo disegno di legge in tempi brevi, anche in modo da consentire l'avvio delle nuove funzioni, e a contribuire al rafforzamento del sistema finanziario dell'Eurozona; infine, a farsi parte attiva affinché il processo di riforma avviato in relazione al Patto di stabilità e crescita permetta di coniugare sempre più nel futuro il rispetto di traiettorie di riduzione del debito e stabilità economico-finanziaria degli Stati membri con le esigenze sempre più attuali e sempre più stringenti di politiche di investimenti e di sviluppo, in particolar modo nei settori sociali e in quelli che riguardano la transizione ambientale e digitale (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Fenu, che illustrerà anche la mozione Scerra ed altri n. 1-00029, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà, per dieci minuti. Prego, onorevole.

EMILIANO FENU (M5S). La ringrazio Presidente. Il MES, il Meccanismo europeo di stabilità, è un'organizzazione istituita nel 2012, nata con il compito di fornire, laddove è necessario, assistenza finanziaria agli Stati membri della zona euro.

Nel dicembre del 2017 la Commissione europea propose, senza riscontrare consenso, una sua integrazione finalizzata alla graduale trasformazione del MES in un Fondo monetario europeo.

La successiva riscrittura riguardava un ventaglio più ampio di interventi, finalizzati al completamento dell'unione economica e monetaria, che comprendevano l'introduzione dello strumento di bilancio (BICC) e l'unione bancaria, incluso lo schema comune di assicurazione dei depositi (EDIS). Ad oggi la riforma dell'unione economica e monetaria e dei suoi strumenti non è stata ancora completata.

La riforma del MES incorporava e incorpora l'introduzione del common backstop, il backstop comune al Fondo unico di risoluzione bancaria, a partire però dal 2024. Grazie all'azione del Governo Conte, l'Italia è riuscita a ottenere l'introduzione anticipata di tale meccanismo, che rappresenta una forma essenziale di condivisione dei rischi a livello dell'unione economica e monetaria.

La proposta di riforma prevede, inoltre, una procedura semplificata per l'attivazione della linea di credito condizionale e precauzionale e alcune innovazioni nel riparto di competenze tra i soggetti chiamati a garantire l'attuazione del Trattato, nonché l'introduzione delle clausole di azione collettiva con approvazione a maggioranza unica per titoli di Stato della zona euro di nuova emissione con scadenza superiore ad un anno.

Il processo di modifica e di ratifica dell'accordo raggiunto ha subito una battuta d'arresto anche a causa della pandemia da COVID-19. In particolare, l'Eurogruppo ha sospeso temporaneamente i negoziati in corso per adottare tutta una serie di strumenti per fronteggiare gli effetti della crisi sul piano economico e sociale.

L'intervento più significativo ha riguardato l'adozione, il 21 luglio 2020, del Next Generation EU, il programma comune di aiuti da oltre 800 miliardi di euro, mirati a fronteggiare l'emergenza economica post COVID. In particolare il Recovery and resilience facility, fulcro del Next Generation EU, si è sostituito al BICC in parte, lo strumento di bilancio dedicato all'Eurozona. L'RRF si finanzia con fondi raccolti sui mercati finanziari con emissioni di titoli e si tratta, quindi, di una forma di debito pubblico, anche se temporanea. Tale forma di debito pubblico, comunque, dovrebbe divenire strutturale e dovrà prevedere l'emissione di eurobond per finanziare beni pubblici europei, ricerca e innovazione, transizione climatica equa, lotta ai cambiamenti climatici, innovazione digitale.

Dopo l'accordo politico raggiunto in sede di Eurogruppo il 20 novembre 2020 e la firma dell'accordo che modifica il MES, non ha fatto seguito la necessaria ratifica per l'entrata in vigore del Trattato, così come modificato, da parte di tutti i 19 membri della zona euro, non avendo l'Italia e la Germania, come è stato detto, proceduto alla ratifica.

Inoltre, l'ipotesi di riforma in generale delle regole fiscali del Patto di stabilità e crescita, che è stata presentata dalla Commissione lo scorso 9 novembre, desta sicuramente alcune perplessità, riferibili in particolare al mantenimento dei parametri quantitativi del 3 per cento per il disavanzo - che resterebbe come è adesso e che sarebbe vincolante per tutti i Paesi – e all'obiettivo del 60 per cento per il rapporto debito- PIL, nonché all'assenza della previsione di una golden rule per escludere gli investimenti dalle norme fiscali dell'UE.

Considerate le condizioni attuali, coerentemente con quanto abbiamo detto e fatto nella scorsa legislatura dai banchi della maggioranza, nella mozione presentata come gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, chiediamo al Governo coerenza con gli indirizzi già espressi dalle Camere, pieno coinvolgimento del Parlamento in tutti i passaggi del negoziato sul futuro dell'unione economica e monetaria, incluso il completamento dell'iter di adesione al nuovo Trattato MES, la promozione in sede europea di una valutazione sullo stato di avanzamento dei lavori che riguardano il pacchetto di riforme dell'unione economica e monetaria e di tutti gli impegni ad essa collegati, in ottemperanza alla cosiddetta logica del pacchetto, che includa quindi un sistema di assicurazione comune dei depositi, che possa portare a una vera mutualizzazione dei rischi e al superamento del carattere intergovernativo dello stesso MES.

Chiediamo al Governo di portare avanti una strategia nell'ambito della riforma della nuova architettura UE che sia coerente con l'interesse del nostro Paese opponendosi, così come fece il Governo “Conte 2”, a qualsiasi meccanismo di ristrutturazione automatica del debito pubblico.

Sull'ipotesi di riforma del quadro di governance economica dell'Unione europea, chiediamo di avviare un dibattito nelle istituzioni europee sulle implicazioni negative per l'Italia del mantenimento degli attuali parametri e di perseguire politiche di bilancio sostenibili, superando ad esempio l'utilizzo prevalente di indicatori non osservabili, come il saldo strutturale, al fine di ancorare la sorveglianza macroeconomica a indicatori che siano direttamente osservabili e misurabili.

Chiediamo, infine, di intraprendere ogni iniziativa utile per escludere le spese per investimenti dal computo dei parametri utili al pareggio di bilancio e del rapporto deficit-PIL.

Quindi, Presidente, chiediamo ciò al Governo e alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, come detto, con argomentazioni coerenti con quelle che abbiamo sostenuto quando sedevamo tra i banchi della maggioranza. Siamo curiosi, quasi impazienti, di misurare il grado di coerenza di quella che sarà la condotta del Governo e della Presidente Meloni con le argomentazioni da lei sostenute quando parlava dai banchi dell'opposizione (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Stefanazzi. Ne ha facoltà.

CLAUDIO MICHELE STEFANAZZI (PD-IDP). Presidente, colleghe, colleghi, signor sottosegretario, il Meccanismo europeo di stabilità, istituito, come ricordato, nel 2011 e poi ratificato nel 2012, ha avuto un percorso alquanto accidentato sotto il profilo dell'opinione politica e pubblica, probabilmente a causa del fatto di essere una organizzazione intergovernativa regolata dal diritto pubblico internazionale e istituita mediante un trattato intergovernativo, quindi al di fuori del quadro giuridico europeo; e probabilmente anche a causa del fatto che la governance è nelle mani dei Governi nazionali, i quali hanno delegato la Commissione europea solo ad un ruolo di supervisione e di mediazione rispetto ad alcuni aspetti dell'esecuzione delle decisioni e degli interventi. Il MES, infatti, è guidato dal Consiglio dei governatori, composto dai ministri delle finanze degli Stati membri dell'Eurozona, e assume le decisioni all'unanimità ovvero con altre maggioranze qualificate.

Ricordiamo però che, quando fu introdotto per sostituire precedenti dispositivi di protezione che non avevano sortito alcun effetto, ottenne il risultato per cui era stato istituito, cioè arginare la speculazione nei confronti dei titoli di Stato dei Paesi più deboli dell'Eurozona, riportando il differenziale dello spread a livelli fisiologici; in questo modo - dobbiamo ricordarlo - favorendo anche il salvataggio del sistema bancario. In una fase di contrazione dell'economia, molte banche avevano investito ingenti risorse in titoli di Stato. Se non ci fosse stata l'azione del MES, e quindi una riconduzione a un equilibrio fisiologico dello spread, probabilmente avremmo assistito ad una problematica difficilmente risolvibile di capitalizzazione del sistema bancario. È stato ricordato che nel 2017 è iniziata un'attività di riforma e che questa attività di riforma è al palo, non è stata completata.

Questa attività di riforma, a parte immaginare la trasformazione del MES in un vero e proprio fondo monetario europeo, introduce una linea di credito a sostegno del Fondo di risoluzione istituito dal regolamento n. 806 del 2014. Ricordo a me stesso che questo fondo è basato sulla mutualizzazione del rischio finanziario ed è alimentato da tutte le banche del sistema dell'area euro, con un percorso che, come è stato ricordato prima, è iniziato e presumibilmente andrà a regime nel 2024. Il Fondo unico, ricordo ancora, interviene solo dopo il Fondo nazionale di risoluzione dello Stato in cui ha sede la banca e sempre che, a sua volta, le risorse degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati non siano sufficienti a salvare la banca. Tre sono le considerazioni, a mio parere, che dovrebbero spingere il Governo a ratificare rapidamente le modifiche del Trattato.

Innanzitutto, la riforma iniziata nel 2017 sembra finalmente inserire pienamente il MES nel diritto europeo, che è un passaggio direi fondamentale vista la genesi del MES stesso. Per esempio, a titolo esemplificativo, gli MoU (Memorandum of Understanding), che saranno sottoscritti per alcune ipotesi di prestito, dovranno essere sottoposti e preceduti da una valutazione di impatto sociale. Quindi gli stessi MoU dovranno sottostare alla normativa sulla better regulation europea, che prevede una valutazione economica ex ante della sostenibilità del prestito stesso. In secondo luogo, e questo è un elemento ancora più importante, se è vero che il diritto di voto rimane vincolato alle quote sottoscritte, è vero anche che alcune categorie di voto per alcune operazioni, in particolare quelle sulla sottoscrizione dei ricordati MoU all'85 per cento, obbligano i due principali sottoscrittori del MES, cioè Francia e Germania, che da soli hanno quasi il 50 per cento dello stesso MES, a raggiungere un accordo certamente con l'Italia, che è il terzo sottoscrittore, e molto probabilmente con altri Stati più piccoli dell'area Euro.

Conseguentemente, il MES non sarà mai ad esclusivo appannaggio dei creditori diretti che, attraverso un meccanismo di voto diverso, avrebbero potuto trasformare l'interesse europeo a salvaguardare un Paese in difficoltà nell'interesse del creditore più esposto. Il terzo elemento da considerare riguarda il fatto che, ampliando la riforma i compiti del MES e sostanzialmente trasformandolo nel backstop del Fondo unico di risoluzione bancaria, contribuisce al raggiungimento del secondo pilastro dell'unione bancaria, peraltro in scia con quanto il nostro Paese chiede da tempo. Si tratta, quindi, di una vera e propria mutualizzazione dei rischi che sotto il profilo della solidarietà europea mi sembra un ottimo segnale ed è un ulteriore viatico verso il progetto dell'unione bancaria, fino, ci auguriamo, ad aprire una discussione per la creazione di un vero e proprio meccanismo di mutualizzazione delle perdite.

Quindi, la costituzione del fiscal backstop al Fondo unico di risoluzione delle banche nell'ambito del sistema della gestione delle crisi e la creazione di uno schema di garanzie comune per i depositanti degli istituti di credito soggetti al meccanismo unico di vigilanza sono obiettivi di politica europea fondamentali, il cui raggiungimento, tuttavia, richiede prima la piena attuazione del processo di riforma del MES. È quindi opportuno completare l'attuale negoziato di modifica del MES e il Governo, alla luce delle considerazioni precedenti, dovrebbe procedere senza ulteriori indugi alla ratifica della riforma del Trattato istitutivo del MES, presentando il relativo disegno di legge in tempi brevi.

Infine, Presidente, in un momento storico in cui a livello nazionale ha ripreso quota la discussione sull'autonomia differenziata e sul federalismo fiscale, sarebbe opportuno utilizzare la discussione in atto sul MES, superando l'attuale assetto intergovernativo dello stesso, per dotare l'Unione europea di una vera e propria fiscalità europea, per alimentare un bilancio federale in grado di sostenere concretamente e in maniera continuativa politiche di investimento e di crescita, in particolare nei settori della transizione energetica e del Green New Deal. Va quindi rafforzato il processo di discussione avviatosi nell'ultimo decennio, in particolare relativo alla mancanza di una struttura fiscale europea in grado di emettere titoli di debito pubblico. La cosiddetta enforcement capacity dell'Unione europea, cioè la capacità dell'Unione europea di recuperare le risorse dai propri Stati membri, renderebbe questi titoli, i titoli emessi, molto appetibili sul mercato internazionale.

D'altra parte, guardiamo quello che è successo al rating delle obbligazioni emesse dal MES, che hanno una tripla A, benché non abbiano nessuna garanzia né reciproca, né di cassa. Quindi esiste un enorme spazio di intermediazione del debito in capo all'Unione. Questa situazione suggerisce l'esistenza di un potenziale inespresso da parte dell'Unione. Porre, quindi, in un unico contenitore, quota parte delle entrate fiscali nazionali e quota parte dei debiti dei Paesi membri protetti dalla potenza di fuoco dell'Unione europea, può aumentare il potenziale di finanziamento dell'intera Unione europea. Questo consentirebbe, da un lato, di ridurre il costo del finanziamento a cui oggi è sottoposta l'Unione europea e sosterrebbe, al contempo, la BCE nelle operazioni sui mercati dei debiti, ponendo le basi per una programmazione e uno sviluppo di settori strategici che richiedono forme di finanziamento continuativo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tremaglia. Ne ha facoltà, per 14 minuti.

ANDREA TREMAGLIA (FDI). Grazie, Presidente. Ho ascoltato con interesse gli interventi dei colleghi. Il tema è senz'altro un tema affascinante sotto un punto di vista macroeconomico, di sicuro, e politico; affascinante è stato in realtà, se posso permettermi in premessa, il richiamo del collega dei 5 Stelle alla coerenza del Presidente Meloni, nel senso che adesso, ovviamente, ognuno è libero di esprimere la propria posizione come meglio crede - capisco che l'attuale situazione sia politicamente difficile per gli amici dei 5 Stelle, difficile da giustificare, immagino, di fronte agli elettori avere cambiato tutte le casacche che si potevano cambiare -, ma richiamare alla coerenza l'unico partito e il Presidente del Consiglio che non ha avuto questa avventura e questa ventura mi sembra curioso. Ma capisco che faccia parte del gioco.

Presidente, spiegherò, spero nella maniera più semplice possibile, le ragioni della contrarietà di Fratelli d'Italia in questi anni allo strumento del MES. Spiegherò perché Fratelli d'Italia, in questi anni, ha sempre ritenuto che fosse un meccanismo che non ha trovato compiuta realizzazione e non poteva trovare compiuta realizzazione. Spiegherò, citando le norme, perché crediamo che, così come è stato formulato e così come è stato presentato, non possa funzionare.

Ritengo, però, di dover fare una premessa su come Fratelli d'Italia - per poter spiegare meglio la nostra posizione rispetto al MES - interpreta e vede l'Europa, l'integrazione europea e la cooperazione europea. Per fare questo, ritengo necessario precisare una cosa: personalmente userò questo termine un po' di volte nel mio intervento. Non ritengo che il termine ideologia sia necessariamente un termine negativo. Penso che se per ideologia si intende un insieme di concetti e di concezioni che rappresentano una visione del mondo e questa visione del mondo è in grado e capace di confrontarsi con la realtà, di avere a che fare, di interagire, di interpellare e di farsi rispondere dalla realtà, allora credo che sia uno strumento che può rivelarsi utile. Laddove, invece, l'ideologia diviene una collezione di dogmi e, quindi, un meccanismo cieco e sordo rispetto alla realtà, un meccanismo che cerca di vedere quello che non c'è e cerca di non vedere quello che c'è, allora diventa uno strumento dannoso, oltre che inutile.

Da questo punto di vista, faccio questa precisazione, perché ritengo che, in questi anni, la discussione sul MES e, più in generale, sull'Unione europea e sull'integrazione comunitaria europea sia stata una discussione estremamente colma di ideologia o, meglio, di dogmi, quindi di punti che non si possono toccare o che, meglio, qualcuno può toccare e qualcun altro no. Anche qui, come Fratelli d'Italia, credo che l'abbiamo sperimentato spesso sulle nostre spalle e sulla nostra pelle, in quanto ci sono alcune cose che, se le diciamo noi o se le facciamo noi, non vanno bene, invece, se le dice qualcun altro o se le fa qualcun altro, improvvisamente, vanno bene. D'altronde - adesso mi permetto anche qui un breve excursus sulla contemporaneità -, vediamo che anche l'elezione di un Presidente donna, di un Presidente del Consiglio donna, la prima in Italia, se fosse avvenuta, immagino, con un'esponente progressista, con un'esponente del centrosinistra, avremmo avuto caroselli da parte della stampa nazionale e internazionale. Purtroppo, per qualcuno - per fortuna nostra e degli italiani - questo non è avvenuto e abbiamo un Presidente donna e di destra. Quindi, detto questo, torno sull'argomento e sull'Europa.

La nostra visione di Europa è una visione che qualcuno ci ha rinfacciato in questi anni come una visione antieuropeista, come una visione anti-integrazione europea e – lo ripeto - qualche volta, come dicevo, forse non passa quello che noi intendiamo per Europa. Lo dicevamo in tempi non sospetti, come destra italiana, che crediamo e abbiamo sempre creduto nell'Europa dei popoli: non possiamo e non vogliamo credere nell'Europa delle cancellerie e delle burocrazie. Crediamo nella cooperazione europea, anzi crediamo che sia necessaria su tante materie la cooperazione europea. Un esempio recente, che, purtroppo, spesso sale alle cronache, ovviamente è il tema della difesa dei confini europei e della gestione dell'immigrazione in Europa. Ma - ripeto - siccome a volte sembra che se le cose le diciamo noi non si capiscono, allora sono andato a trovare un testo che avevo studiato tanti anni fa, quando era ancora giovane e andavo all'università, di Dahrendorf, sociologo, politologo e più volte, peraltro, Commissario europeo, anglo-tedesco, lord inglese a un certo punto, il quale in un bel libro che consiglio, Dopo la democrazia, che è un dialogo-intervista con Polito, parla di Europa. Questo è fatto da uno che è stato dentro all'Europa e, dunque, mi permetto di citarlo pressoché testualmente: “Qualcuno pensa ancora che l'Unione europea possa trasformarsi in una specie di Stato Nazione solo più grande. Ma ci sono pochi dubbi che quando la Comunità economica europea fu costituita la democrazia non costituì la prima preoccupazione di coloro che progettarono ed edificarono un nuovo edificio. La mia convinzione fondamentale è che in Europa si prendono decisioni, qualche volta importanti, in un modo incompatibile con i principi della democrazia. Oltre agli Stati Nazione noi non troveremo mai istituzioni totalmente appropriate per la democrazia. Questo non è un argomento per smettere di occuparsi della democrazia in Europa; è, anzi, una consapevolezza che deve spingerci a cercare e a trovare forme istituzionali che si avvicinino il più possibile ai principi democratici. Il principio più difficile da applicare oltre al livello degli Stati Nazione è il ruolo protagonista dei popoli”.

Dahrendorf, che è mancato qualche anno fa, non era un iscritto né di Alleanza Nazionale né di Fratelli d'Italia né di altre espressioni della destra italiana. Era un liberale, era uno studioso e - ripeto - un Commissario europeo, che, quindi, sa di che cosa parla. Quindi, quando poneva la questione di un'Europa siffatta, poneva la questione che noi come Fratelli d'Italia poniamo anche oggi, cioè che a noi non interessa un'Europa che sia gigante della tecnica e, appunto, della burocrazia e sia, invece, piccola e debole per quel che riguarda la politica. Questo ritengo e riteniamo che sia anche a motivo del fatto che tante volte - e forse anche oggi -, quando si parla di economia, si pensa di parlare di una materia tecnica, quando, invece, l'economia forse, oggi, è la materia più politica che esiste, certamente una materia estremamente umanistica oggi. Allora, da questo punto di vista, penso di poter rivendicare - oltre al bicchiere d'acqua, che mi avete portato, che è d'aiuto - il fatto che Fratelli d'Italia, in questi anni, rispetto all'Europa e rispetto a tutti i temi che sono passati nelle Aule del Parlamento italiano, abbia avuto un approccio pragmatico, un approccio concreto, quell'approccio, come dicevo prima, che può informarsi di un'ideologia, può informarsi di un insieme di concetti e di una visione del mondo che, ovviamente, ci deve essere, ma che poi dialoga con la realtà.

La critica nei confronti del MES non è una critica preconcetta. Noi non crediamo che alle spalle del MES si nasconda il malvagio impero galattico, non crediamo alle streghe e ai fantasmi; crediamo, più modestamente e più umilmente, a quello che vediamo e quello che vediamo è scritto nei Trattati. Ci è stato detto e ci è stato ricordato, anche negli interventi di poco fa, che sembra quasi che il MES sia un regalo. Come sappiamo tutti, abbiamo passato da poco - e speriamo definitivamente - una fase tragica a causa della pandemia e siamo ancora in una fase tragica per quel che riguarda lo scenario internazionale. Durante la fase pandemica, come ricordiamo tutti, fu proposta anche una versione - chiamiamola light - del MES. Però, questo regalo non mi sembra sia andato a ruba, anzi, mi sembra che l'Europa stessa, giustamente, a un certo punto abbia capito che lo strumento del MES non andava bene per affrontare questa situazione. Mi sembra che l'Europa stessa, a un certo punto, abbia previsto altri strumenti per poter affrontare quello che, in teoria, doveva essere il primo incarico e il primo compito del MES.

Quando dicevo che crediamo a quello che vediamo e non a streghe, a fantasmi o al malvagio impero galattico, dicevo che, rispetto a qualche narrazione che viene fatta, non è vero e non può essere vero che non esistono condizionalità. Anche qui, mi permetto di leggere; il Trattato istitutivo del MES richiama l'articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, che recita: “La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell'ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”. Anche le linee guida sull'assistenza finanziaria precauzionale del MES, citate poco fa, recitano, all'articolo 2, punto 4, che il beneficiario del MES dovrà adottare le misure correttive suggerite dal confronto con la Commissione europea e con la BCE. Inoltre, il regolamento dell'Unione europea n. 472/2013, all'articolo 2, punto 3, prevede: “Se uno Stato membro beneficia di assistenza finanziaria a titolo precauzionale da uno o più altri Stati membri (…) o dal MES (…), la Commissione sottopone a sorveglianza rafforzata detto Stato membro”. A questo, si può aggiungere ancora che lo statuto del MES stabilisce che il MES sia fatto negli interessi dei creditori e non dei debitori.

Detto tutto questo, oltre a questo elemento di condizionalità, che esiste, esistono anche innumerevoli argomenti, che, sicuramente, i colleghi economisti sanno sviscerare e spiegare meglio di me, per cui non è neanche detto che il MES sia vantaggioso su un piano economico o sia necessariamente così vantaggioso su un piano economico. Allora, si arriva, in questo modo, a quello che si diceva prima, a quello che veniva citato prima, cioè il cosiddetto stigma.

Lo stigma nasce dal fatto - non di nuovo per ragioni ideologiche o dal MES in sé - che il combinato di una condizionalità forte, di un risultato che non è necessariamente un risultato positivo, fa sì che necessariamente il MES diventi uno strumento per, non voglio esprimermi in maniera troppo greve, Stati e Paesi in estrema difficoltà, in estrema fragilità e allora lo stigma deriva da questo, evidentemente, perché se in questi anni coloro che hanno fatto ricorso - è stato ricordato prima - a strumenti simili a questo MES, o al MES stesso, sono stati Pesi in forte difficoltà, è evidente che da questo possa derivare uno stigma ed è evidente - anche questo lo spiegheranno gli economisti meglio di me, ma credo che lo capiamo anche noi non economisti stretti - che da questo stigma poi derivano in alcuni casi delle conseguenze negative maggiori delle eventuali conseguenze positive, proprio perché, come si diceva, l'economia è una materia innanzitutto politica e umanistica, oltre che scientifica.

Ora, questo MES, dal nostro punto di vista, ha dimostrato di avere un impianto fuori dal tempo, ha dimostrato di essere superato dalla realtà, di essere poco flessibile e di non tenere conto, appunto, in queste condizionalità, delle situazioni delle strutture macro economiche globali e degli Stati interessati all'eventuale sostegno da parte del MES ed è per questo che, poi, in conclusione, quando si trattò di passarlo all'esame del Parlamento, Fratelli d'Italia ricordò e sottolineò come questo, proprio per quella garanzia dei depositi di cui si parlava, anche per quella garanzia, rischiasse di diventare un regalo, sì, ma alle banche tedesche esposte soprattutto sui derivati.

Quindi, io non ritengo che faremmo un grande servizio all'Italia, non ritengo che faremmo un grande servizio all'Europa, accettando e sottoscrivendo strumenti di questo tipo in maniera leggera. Credo che l'atteggiamento di Fratelli d'Italia sia e sarà un atteggiamento concreto e pragmatico; credo che lo stesso avverrà da parte di tutto il Governo, ovviamente, e credo che dimostreremo con i fatti quello che ho detto in apertura: la visione di Fratelli d'Italia dell'Europa non è una visione - e concludo - che richiede alcuna patente….

PRESIDENTE. Concluda, onorevole.

ANDREA TREMAGLIA (FDI). La visione di Fratelli d'Italia dell'Europa è la visione di un'Europa che funziona, di un'Europa che è utile innanzitutto agli italiani e, poi, a quei processi di integrazione europea che sono utili per tutti i cittadini europei.

Fratelli d'Italia ha già dimostrato con il Presidente Meloni, primo presidente italiano donna di un partito europeo, di essere e di saper essere protagonista in Europa; anche da Presidente del Consiglio, sono sicuro che il Presidente Meloni e Fratelli d'Italia dimostreranno che continueranno ad operare come hanno sempre fatto nell'interesse dell'Europa e dell'Italia, perché, come abbiamo detto e ripetuto in questa campagna elettorale, credendoci, noi crediamo a più Italia in Europa e più Europa nel mondo (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Alessandra Todde. Ne ha facoltà, per otto minuti.

ALESSANDRA TODDE (M5S). Presidente, onorevoli colleghi, nel processo di integrazione europea è possibile riconoscere una particolare tendenza storica: ogni volta che l'integrazione europea ha subito una crisi, un rallentamento politico, economico e identitario, sull'onda della pressione di una risposta unitaria in grado di colmare i deficit dei singoli Stati membri, si è assistito ad uno sviluppo dell'integrazione medesima sotto i versanti politici, giuridici ed economici. In questo senso, eventi come la Brexit, la crisi pandemica e l'attuale situazione bellica potrebbero, con tutta probabilità, costituire una variabile in grado di determinare un avanzamento dell'integrazione europea e un'opportunità importante di ridiscussione delle regole. La riforma dell'unione economica e monetaria e dei suoi strumenti non è stata a tutt'oggi completata e in questo contesto la riforma del Trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità, il cosiddetto MES, si inserisce nell'ambito più ampio degli interventi svolti, secondo un approccio complessivo al completamento dell'unione economica e monetaria in corso dal 2015.

Il MES è stato istituito nel 2012, al culmine della crisi europea del debito sovrano, sulla carta, come meccanismo permanente di salvataggio per aiutare i Governi della zona euro che avevano perso o stavano per perdere l'accesso al mercato dei capitali, erogando prestiti soggetti a condizioni rigorose, in alcuni casi, troppo rigorose, come ha insegnato una triste storia recente, quella della Grecia. Per onestà intellettuale dobbiamo ricordare chi in Italia, prima del 2012, trattò, contrattò e poi approvò il MES, successivamente oggetto di riforma. Tutta l'attività istruttoria europea precedente all'istituzione del MES si è svolta tra il 2010 e il 2011; in carica, c'era il Governo Berlusconi 4, sostenuto dalla Lega, dall'allora Popolo delle Libertà e da quella parte di Popolo delle Libertà che sarebbe poi diventato Fratelli d'Italia (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

I contenuti del MES sono stati definitivamente adottati dal Consiglio europeo il 24 e 25 marzo 2011. A rappresentare l'Italia c'era l'allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, sostenuto da Lega e Partito delle Libertà. Il disegno di legge di ratifica del MES è stato approvato dal Consiglio dei ministri del 3 agosto 2011, presieduto da Silvio Berlusconi, a capo di un Esecutivo appoggiato da Lega e Popolo delle Libertà. Tra i Ministri di quel Governo c'erano: Roberto Calderoli, allora come oggi, Ministro; Giorgia Meloni, allora Ministra per la Gioventù, oggi, leader di Fratelli d'Italia e Presidente del Consiglio (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle); Ignazio La Russa, allora Ministro della Difesa, oggi, Presidente del Senato; Raffaele Fitto, allora come oggi Ministro.

Ma non finisce qui, perché il sostegno al MES di alcuni di questi profili è continuato anche durante il Governo Monti. Alla Camera, il 19 luglio del 2012, diversi esponenti di spicco dell'attuale formazione di Fratelli d'Italia votarono a favore dell'istituzione del MES. Tra questi, Marco Marsilio, attuale governatore dell'Abruzzo, e Fabio Rampelli, attuale Vicepresidente della Camera. Giorgia Meloni, in quel frangente, era proprio assente. Tutto questo succedeva nel 2010, 2011 e 2012, quando il MoVimento 5 Stelle non era nemmeno in Parlamento. Questo, caro Presidente, cari colleghi, per chiarezza.

La proposta di riforma del MES interviene sulle condizioni necessarie per la concessione di assistenza finanziaria e sui compiti svolti dal MES in tale ambito. La riforma, inoltre, attribuirebbe al MES una nuova funzione, quella di fornire una rete di sicurezza finanziaria, il cosiddetto backstop, al Fondo di risoluzione unico, nell'ambito del sistema di gestione delle crisi bancarie. Dopo il Governo Conte 2, dopo una dura e serrata negoziazione, l'accordo politico raggiunto in sede di Eurogruppo, il 20 novembre 2020, ha portato alla firma dell'accordo che modifica il Trattato MES, cui però non ha fatto seguito la necessaria ratifica per l'entrata in vigore del Trattato, così come modificato, non avendo l'Italia e la Germania proceduto alla suddetta ratifica.

Durante il negoziato per quella firma, abbiamo assistito a un dibattito surreale scatenato dalle opposizioni di allora. Salvini, Meloni e Bernini e anche qualcun altro che vediamo oggi seduto ai banchi del Governo hanno innescato questo emblematico caso, spostando l'attenzione da altri temi secondo me ben più importanti. Un tipo di approccio basato sulla pura contesa retorica di chi urla più forte per seminare panico e raccogliere solo meri consensi, allontanandosi dalla realtà dei fatti, non solo nel merito della riforma del Trattato MES, ma persino nel dato di fatto basilare che all'origine di questo meccanismo europeo risale il quarto Governo Berlusconi, con la Lega al Governo, la Meloni Ministro e la Bernini alle Politiche europee. Dove stavano all'epoca, erano distratti da altro? I fatti sono lì, però, fermi e immutabili.

Dal 2020 ad oggi, il mondo è cambiato: la pandemia da COVID-19 ha portato alla sospensione dei negoziati in corso e spinto l'Eurogruppo ad adottare strumenti nuovi da integrare con le politiche nazionali. Il più significativo dei quali è il Next Generation EU, il programma comune di aiuti da oltre 800 miliardi di euro mirati a fronteggiare l'emergenza economica post COVID, un risultato a cui ha contribuito la caparbietà del Presidente Conte, grazie al quale oggi l'Italia può godere della magna pars del Piano, più di 200 miliardi (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle), quello stesso PNRR, per dire, sul quale Fratelli d'Italia si è sempre astenuto, salvo poi riconoscere l'importanza dello strumento per bocca dello stesso Presidente Meloni.

Lo scorso 9 novembre, la Commissione UE ha adottato la comunicazione COM (2022) 583 final, in cui definisce gli orientamenti per una riforma del quadro di governance economica dell'UE. L'ipotesi di riforma disegnata dalla proposta della Commissione europea desta non poche perplessità in ordine al mantenimento dei parametri quantitativi del 3 per cento per il disavanzo, che resterebbe com'è adesso e sarebbe vincolante per tutti i Paesi, l'obiettivo del 60 per cento per il rapporto debito-PIL e l'assenza della previsione di una golden rule per escludere gli investimenti dalle norme fiscali dell'UE. Rispetto a tutti questi sviluppi, il MES, nonostante il tentativo di riforma, appare uno strumento inidoneo a rispondere alle attuali sfide europee; prova più plastica ne è il fatto che dopo il Next Generation EU nessuno Stato ne ha chiesto o ne sta chiedendo l'attivazione e il fatto che il Meccanismo è oggetto di un'incredibile quantità di proposte di riforma, molte delle quali tendenti a farne una sorta di agenzia del debito europeo, proposta caldeggiata peraltro da autorevoli esponenti di partiti che oggi chiedono la salvifica - a loro dire - attivazione di un MES sanitario, una macroscopica contraddizione.

In questo quadro, quindi, chiediamo al Governo di guardare ben oltre e impegnarsi ad assicurare coerenza rispetto a quanto già negoziato e di coinvolgere il Parlamento in tutti i passaggi di ratifica del MES e del negoziato sui termini della nuova futura unione economica e monetaria.

Ricordando anche con quale veemenza la Presidente Meloni aveva parlato allora di Parlamento sistematicamente umiliato e scavalcato da quel Governo, immagino non ci possano essere impedimenti a promuovere una verifica del pacchetto di riforme per l'unione economica e monetaria, con la logica di superare il MES e costruire una nuova integrazione europea, ad opporsi a qualsiasi meccanismo di ristrutturazione automatica del debito che limiti l'elaborazione in autonomia di politiche economiche, ad evidenziare in Europa le perplessità sull'ipotesi di riforma della governance economica UE in ordine alle implicazioni negative per l'Italia del mantenimento delle attuali regole di bilancio. Infine, nell'ambito della discussione sulla riforma delle regole fiscali del Patto di stabilità e crescita, ad intraprendere ogni iniziativa utile in sede europea finalizzata a prevedere, tra l'altro, l'esclusione degli investimenti produttivi, inclusi quelli in capitale umano, dal computo dei parametri utili al pareggio di bilancio e del rapporto deficit-PIL e la revisione del riferimento al saldo strutturale.

Sostenere crescita, lavoro e inclusione sociale investendo in una politica industriale aperta alle nuove tecnologie nella ricerca e nell'innovazione, nelle infrastrutture immateriali e digitali, nella cultura è l'unica strada possibile per rilanciare l'economia ed uscire dalle spirali recessive. È sicuramente la strada che vuole percorrere il MoVimento 5 Stelle, vedremo la coerenza e la determinazione con cui vorrà percorrerla questo Governo (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Bagnai. Ne ha facoltà, per 26 minuti.

ALBERTO BAGNAI (LEGA). Grazie, Presidente, anche per la sua generosità. Colleghi, membri del Governo, intervengo in questo dibattito che, devo dire, mi sembra per molti versi privo di interesse, perché inattuale. Certo, non per la buona volontà e anche per i contenuti dei discorsi di chi mi ha preceduto, ma perché stiamo parlando, visto che qui si è voluta dare una proiezione storica, di una vicenda che sostanzialmente inizia nel 2011, arrivando poi a passaggi formali nel 2012 e che si protrae fino ad oggi, dove mi sembra che, però, il tempo passato non abbia insegnato a molti dei presenti in questa aula praticamente nulla. Mi sembra che siamo ancora in una visione dei meccanismi che generano la crisi e dei meccanismi che possono correggere la crisi allineata a quella che andava molto di moda nel 2011, che poi è stata, fondamentalmente, la malapianta dalla quale sono nati i disastri dell'austerità che hanno condannato in particolare il nostro Paese a una decrescita infelice, che ci vede oggi ancora più del 4 per cento sotto il flusso di reddito nazionale che era stato raggiunto nel 2008.

Qui si è ragionato sul fatto che la ratio dello strumento MES originario era quella di disciplinare gli spread, cioè di riportare il differenziale fra i tassi di interesse ad un livello ritenuto fisiologico. Ed è proprio partendo da questa considerazione che mi permetto di notare che questo dibattito è sostanzialmente inattuale. Infatti, il 21 luglio di quest'anno - data che, personalmente, considero fausta, ma che suppongo molti qui dentro considerino infausta e il loro cuore ancora sanguinerà - oltre ad essere successo qualcosa di positivo nel nostro Paese, è successo anche qualcosa di, tutto sommato, positivo in Europa: la Banca centrale europea ha approvato il TPI, lo strumento di protezione della trasmissione della politica monetaria, cioè ha disegnato un quadro di intervento che consentisse, sostanzialmente, di fare quella cosa che la Presidente della BCE non voleva fare fino a quando non è stata costretta dai fatti, cioè chiudere gli spread.

Questa cosa è stata normata e, visto che esiste ed è affidata ad un organismo, che, come oggi ammettono sostanzialmente tutti (è una grande lezione della crisi, è una grande lezione anche degli ultimi anni), è l'unica istituzione che, ripeto, come dovremmo aver imparato dalla storia, può efficacemente contrastare gli spread, cioè la Banca centrale europea, non vedo perché dobbiamo stare a preoccuparci di riformare un'istituzione che, a questo punto, diventa, almeno sotto questo profilo, sostanzialmente superflua.

Quello che mi colpisce - se posso condividere con lei, Presidente, questa osservazione - del dibattito che si è svolto qui e che, poi, è ciò che - siamo in una sede politica, mi sia permessa una valutazione, una critica politica - ne svela in qualche modo la natura pretestuosa, senza ovviamente togliere all'opposizione il diritto di fare l'opposizione, è proprio questa mancanza di organicità nella visione che viene proposta e negli interventi che vengono chiesti al Governo.

Ci si sofferma solo sul MES, senza rendersi conto del fatto che, nel frattempo, sono intervenute anche altre istituzioni e altri strumenti nel quadro complessivo della governance europea e anche senza riflettere sul fatto che la riforma di cui si sta parlando - perché qui è stata fatta la storia del MES, ma, forse, ci dovremmo soffermare sul tema della riforma, che è il provvedimento che dovrebbe, un domani, andare in ratifica - porta una serie di cambiamenti sostanziali.

Per esempio, con la riforma, il MES viene legato, in qualche modo indissolubilmente, al progetto dell'unione bancaria, perché assume una funzione che prima non aveva, anche se, come poi vi ricorderò, l'aveva in qualche modo impropriamente svolta al di fuori di un contesto formalizzato. Infatti, abbiamo capito che la meravigliosa transizione europea - che è una transizione verso un radioso futuro che non ci viene detto come dovrà essere e quindi noi intanto camminiamo - è un processo effettivamente, molto spesso, di learning by doing, cioè vengono fatte le cose, poi, dopo, si spiega perché le si sono fatte o si capisce perché non le si sarebbe dovute fare. Ma tralascio questa parentesi.

La riforma lega strutturalmente il MES all'unione bancaria perché attribuisce al MES il ruolo di backstop, di meccanismo di ultima istanza, di prestatore di ultima istanza, per il Fondo di risoluzione unico. E questo deve promuovere la nostra riflessione, dovrebbe promuovere una riflessione sistemica. Perché c'è tanta ansia di andare avanti su questo pezzo dell'unione bancaria quando il pezzo forse più importante - sia perché sarebbe stato una vera palestra della effettiva esistenza di una solidarietà europea sia perché è uno strumento del quale, in linea di principio, tutti i Paesi potrebbero avere bisogno - cioè lo schema europeo di assicurazione dei depositi, è totalmente fermo e non se ne parla?

Questo, per esempio, è un tema di riflessione: ce lo siamo completamente dimenticato quel pezzo lì, come ci siamo anche dimenticati altri pezzi. Chi mi ha preceduto citava il fatto che, a un certo punto della lunga, faticosa evoluzione di questo quadro normativo complessivo, era apparso il BICC, il Budgetary instrument for convergence and competitiveness, quindi lo strumento di bilancio per la convergenza e la competitività, che, poi, è scomparso o, per meglio dire, è riapparso sotto mentite spoglie, più o meno, all'interno del PNRR, nel senso che il PNRR è una versione adottata in emergenza di una cosa che, in condizioni normali, i Paesi europei avevano sempre respinto. E perché l'avevano respinta? L'avevano respinta perché, secondo me, anche sottostante a questo dibattito c'è un'ambiguità di fondo.

Io credo che certamente per alcuni Parlamenti esteri, che hanno naturalmente il nostro rispetto, e molto probabilmente, quasi certamente, per molti parlamentari italiani, il primo problema non sia salvare l'Italia, ma disciplinarla, imporle alcune regole. Tutto il quadro di politica economica europea si basa su regole che traggono la loro ragion d'essere, la loro operatività e la loro concretezza dalla diffidenza di alcuni Paesi verso altri. Una diffidenza che finora si è rivelata infondata, perché l'Italia ha sempre onorato le proprie obbligazioni, ha sempre rispettato queste regole, ha sempre riformato se stessa e ha sempre aiutato gli altri, ma che continua ad essere il sottostante di questa ansia riformatrice. E, allora, qui c'è da ragionare, perché, per esempio, nessuno nota un dettaglio, che però è un dettaglio rivelatore. Nel testo riformato del MES, l'allegato 3 riporta, fra le condizioni da rispettare per accedere alle linee di credito a condizioni agevolate, il rispetto di due parametri: il parametro del 3 per cento del rapporto deficit-PIL e il parametro del 60 per cento del rapporto debito-PIL. Ve la dico in un altro modo: in una fase in cui si sta ancora riflettendo - e sono d'accordo con chi mi ha preceduto, riflettendo male - sulla riforma delle regole europee, si corre ad accettare, ratificare, validare uno strumento che si basa sul rispetto delle regole vecchie. E questo, perdonatemi, ma qualche problema lo crea. Cioè, secondo me, visto che nella struttura del MES è insito questo meccanismo premiale, tale per cui chi rispetta le regole e fa il bravo ragazzo deve avere più dei birichini - è un atteggiamento che noi abbiamo visto, ubiquitario, nella legislazione europea, pervade il PNRRR, pervade praticamente tutti gli strumenti che da lì vengono -, visto che si è presa questa decisione, allora, buon senso vorrebbe che, per lo meno, prima si capisse quali siano le regole che vanno rispettate. A me questo sembra abbastanza intuitivo, altrimenti fra 6 mesi, 12 mesi, staremmo discutendo sulla riforma della riforma del MES, perché dovremo necessariamente adattarlo all'evoluzione del quadro normativo, considerando che, nel frattempo, è uno strumento che si rivela inutile, dal punto di vista sia del controllo degli spread, sia della disciplina di bilancio.

E poi voglio dire una cosa. L'approccio delle regole è quello dell'austerità e l'austerità ha fallito in diversi modi. Il più evidente è che ha depresso i redditi dei Paesi che l'hanno praticata. In questo modo, facendo il male delle parti, hanno fatto anche il male del tutto, perché l'Eurozona complessivamente si è trovata ad arretrare. Ma quello che non viene mai notato a sufficienza è che l'austerità corrisponde al delirio mercantilista di alcuni ideologi di Paesi europei, secondo i quali un Paese è sano solo se è un esportatore netto. Di fatto, applicando le politiche di austerità, i Paesi del Sud hanno ammazzato le loro importazioni e sono diventati esportatori netti, e, quindi, l'Eurozona è diventata, nel suo complesso, un esportatore netto.

Non so se ricordate quando Krugman, amichevolmente, celiava con alcuni governanti tedeschi, cercando di spiegare loro che, se tutti i Paesi del mondo fossero stati esportatori netti, la Terra avrebbe dovuto esportare beni su Marte. Questo naturalmente è impossibile. Il miracolo che siamo riusciti a fare è rendere tutti i Paesi europei esportatori netti e, quindi, esportare nel resto dell'economia globale, contribuendo ai suoi squilibri. E lo abbiamo fatto, fra l'altro, in un modo che, storicamente, dà molto fastidio ai nostri partner atlantici, cioè attraverso una svalutazione competitiva dell'euro, che, dal 2014 ad oggi, è andato scivolando sempre più.

Quindi, quello che voglio dire è che, quando, in un precedente intervento in quest'Aula, il capogruppo Molinari ha detto che l'europeismo era incompatibile con l'atlantismo, si riferiva proprio a questo; si riferiva al fatto che l'austerità, avendo causato l'esportazione dei forti squilibri interni all'eurozona nel resto dell'economia globale, fatalmente ha urtato contro gli interessi dei nostri partner, mi riferisco in particolare a quelli statunitensi. Certo, il documento di riforma delle regole fiscali, che è stato citato in questo dibattito, in qualche modo, sembra inchinarsi ancora a questi parametri, totalmente privi di senso, del 60 per cento e del 3 per cento. Sono un ancoraggio delle aspettative per i grulli, sostanzialmente, perché nessun articolo serio, scientifico, sulla sostenibilità del debito si azzarderebbe mai ad ancorare questa sostenibilità ad un parametro fisso. Ma non è tanto questa, la cosa che mi preoccupa in questa famiglia europea, che, purtroppo, mi duole constatarlo, è allo sbando. Apro e chiudo una parentesi per dire che, se il Fondo monetario europeo non si è fatto, un motivo c'è. Io non so voi da quanto vi appassionate di economia, io sono costretto ad appassionarmi dagli anni Ottanta e ricordo che anche negli anni Ottanta si parlava di un Fondo monetario europeo per sovvenire agli squilibri determinati dal sistema monetario europeo, e non si è mai fatto. Perché? Il perché è nelle favole di Esopo: perché c'è uno che dice quia nominor leo e quindi, naturalmente, non si dimostra particolarmente incline a venire incontro ai partner che ritiene più deboli. Altro sarà - e ce lo dirà la storia - capire se questa opinione sia fondata o meno, perché quando tu pensi che ci sia uno più debole di te, potresti anche ignorare che c'è qualcuno più forte di te (vedi alla voce: reazione degli Stati Uniti alla svalutazione competitiva).

Sostanzialmente, quello che preoccupa nella riforma delle regole fiscali è che il documento inizia, chiarendo che l'Europa ha tratto un beneficio dalla violazione del 3 per cento. Cioè, si dice: la forte risposta anticiclica è stata fondamentale nel mitigare. E certo, c'è stata una forte risposta anticiclica, i deficit sono andati al 9, al 10, però bisogna rispettare il 3 per cento. Cioè, a me sono questi cortocircuiti logici che preoccupano, in un dibattito che dovrebbe essere sostanzialmente razionale e non dovrebbe essere strumentale, anche se mi rendo conto che in un contesto politico ci stia, una certa strumentalità.

Prima è stato detto che l'effetto stigma è stato assente in Spagna, che la Spagna ha risolto i suoi problemi, però la Spagna, perdonatemi, non è un esempio particolarmente calzante. Dobbiamo ricordarci che il debito spagnolo era fra il 30 e il 40 per cento del PIL, quando è scoppiato il problema della Spagna. Il problema della Spagna era legato al settore bancario e lì i fondi del MES furono utilizzati per ristrutturare le banche. Quindi, anche qui c'è un discorso di verità da fare: erano numeri più bassi, era un altro tipo di crisi, una crisi finanziaria privata. E mi lego alle parole che ha detto il collega Tremaglia, quando ha detto che ci sono cose che non possiamo dire fino a che non le dicono gli altri. Personalmente, che i problemi finanziari che l'Europa attraversava, l'Eurozona segnatamente, fossero da individuare nel settore privato, penso di averlo scritto, per la prima volta, 11 anni fa; e non si poteva scrivere, bisognava dire che la colpa era del debito pubblico e che noi cattivi andavamo puniti con l'austerità. Poi è arrivato non l'8, ma il 7 settembre del 2015, e, quattro anni dopo il mio umile contributo, ho avuto il piacere di leggere su voxEU.org il prestigioso contributo del professor Giavazzi, che diceva esattamente le stesse cose quattro anni dopo. Questa mattina mi sono trovato in una trasmissione televisiva dove uno dei tanti sfascisti, quelli che tifano, diciamo così, asteroide su questa maggioranza, e io li piango perché la loro aspirazione sarà frustrata, ha detto una cosa che mi ha particolarmente colpito, che è questa: solo chi si sente europeista, ha legittimità a criticare il disegno europeo.

Certo, poverino, un giornalista che per anni aveva fatto il peana dell'Unione europea, di fronte a una serie di fallimenti palesi come il contesto del price cap sul gas - in particolare si parla di politica energetica - cosa deve fare? Non poteva altro che criticare! Però, nel farlo, usava questo caveat: io posso, perché io mi sento europeista. Bellissima questa cosa! Neanche “io sono”, ma “io mi sento”, ovvero è la dimensione interiore di chi parla che deve prevalere sulla razionalità del discorso. Ciò significa, se seguiamo quel ragionamento, che questo dibattito sarà destinato a un avvitamento inesorabile e devastante verso il basso, perché sostanzialmente si dovrà dare la parola solo a chi ci è arrivato dopo. Chi ci è arrivato prima e per anni ha parlato con voce accorata e limpida, nel tentativo di coinvolgere le altre forze politiche in un ragionamento razionale, deve stare zitto perché ha avuto la colpa di aver capito prima quello che, ad altri, i fatti hanno fatto capire dopo.

Noi dobbiamo rifiutare questo tipo di meccanismo e anche per questo intervengo per mettere a resoconto qualche concetto. Poi ci sono delle contraddizioni talmente evidenti. Se vi sono componenti politiche veramente convinte che questo strumento abbia funzionato e - aggiungo - possa funzionare nel presente contesto, che è profondamente mutato, io non sono qui per imporre la mia idea: non volevo neanche esporla e soprattutto non così a lungo. Ma, ponendo che sia così, allora, perché tutta questa ansia di cambiarlo, se ha funzionato? E se invece non ha funzionato e deve essere adattato a un nuovo contesto, ma allora, torno sul concetto: perché non aspettiamo di capire quale è il nuovo contesto al quale questo strumento deve essere adattato? Mi dispiace deludere gli organi di stampa che ci vedono e ci rappresentano ogni tanto come duellanti, ma sinceramente non posso che considerare un segno di profonda saggezza l'atteggiamento, in particolare del Ministro Giorgetti, che riflette esattamente questo tipo di perplessità. Secondo noi non ha funzionato, ma è di piena evidenza che il nuovo mondo di regole in cui questo strumento dovrà inserirsi ancora non è stato definito. Non so se, per esempio, chi è intervenuto ha avuto modo di prendere visione delle proposte del precedente direttore, Giammarioli, che era intervenuto per capire se dobbiamo considerare il MES nel quadro del Patto di stabilità e creare un fondo di stabilità. Quindi ancora è una materia fluida e sinceramente tutta questa ansia non la vedo opportuna. Guardate, sto cercando di utilizzare gli strumenti razionali. Infatti, se avessi voluto fare il populista – peraltro, non c'è nulla di male, secondo me, nell'essere populisti, mentre c'è molto di male nell'essere demagoghi -, avrei semplicemente detto che in questo momento gli italiani hanno altre priorità, la più classica delle priorità: arrivare alla fine del mese. Ci stiamo trovando in contesti che, forse, solo negli anni Settanta hanno dei precedenti storici comparabili; quindi, questo dibattito sui massimi sistemi europei, di un'Europa che non ci sta aiutando sui veri problemi, cioè sull'energia, forse, ce lo potevamo anche risparmiare.

Però, sono veramente lieto di aver contribuito, anche per far notare un'ultima cosa, dopodiché cesso di abusare della pazienza della Presidenza. Qui si ignorano le lezioni che abbiamo appreso dalla storia, ma si ignorano anche le lezioni che stiamo apprendendo dall'attualità. Io non so se voi state seguendo la vicenda della collocazione dei bond europei destinati al finanziamento del PNRR. Ve la dico - sperando di non fare la stessa fine - come la disse un altro molto più bravo di me sotto questo profilo: "Ich bin ein Berliner”. Se Christian Lindner, il Ministro delle Finanze tedesco, ci spiega che il debito nazionale è più conveniente del debito comune europeo, forse una riflessione dovremmo farla. E, naturalmente, la prima riflessione quale sarebbe? Lui ha i Bund, che sono così belli e così appetibili, quindi vende a tassi bassi o negativi e non vuole mischiarsi con chi, come noi, ha dei tassi alti. Poi Il Sole 24 Ore ci spiega che perfino i BTP hanno tassi più bassi dei titoli che la Commissione cerca di collocare per finanziare il PNRR e, allora, a me viene in mente una riflessione, che è la seguente. In un contesto sufficientemente turbolento il vero dramma di questi strumenti, su cui noi stiamo esercitando la nostra dialettica, è che diventano tragicamente inutili. In altri termini, noi non possiamo aspettarci che il MES ci offra delle condizioni di finanziamento per i nostri squilibri interni più convenienti di quelle che ci offrirebbe il mercato, per il semplice motivo che già oggi stiamo vedendo che, in contesti meno drammatici, un esperimento di mutualizzazione del debito ci sta offrendo tassi di interesse meno vantaggiosi di quelli che avremmo potuto cogliere, intervenendo con strumenti di debito nazionale. Queste sono le questioni sulle quali dovremmo veramente esercitarci! Poi, volendo, si potrebbe anche fare accademia su tutta una serie di altri aspetti. Ragioniamo sul fatto, per esempio, che la Grecia si è presa i suoi bei miliardi all'1,23 per cento, comincerà a restituirli nel 2032 e in questo momento l'inflazione è a due cifre: noi i soldi ce li abbiamo messi e ce li ridaranno parecchio svalutati. Non lo dico per acrimonia, per acredine, nei riguardi dei fratelli greci; lo dico solo per far capire che gli italiani sono un popolo generoso e che questi meccanismi, però, drammaticamente non funzionano.

Signor Presidente, avviandomi a concludere, perché il tempo è esaurito, ribadisco il punto: non vedo nulla di particolarmente censurabile, qui come su tanti altri tavoli, nell'atteggiamento di un Governo che prima vuole capire in quale situazione si troverà ad operare, quando ciò non dipende solo da lui, ma dipende anche da fattori esogeni, come i processi legislativi di altri Paesi, che naturalmente rispettiamo. Il Governo prima vuole capire la situazione e poi vuole prendere delle determinazioni. Questa storia di buttare il cuore al di là dell'ostacolo spesso si è tradotta in un buttare il cervello al di là dell'ostacolo e non ci ha portato bene (Applausi dei deputati dei gruppi Lega-Salvini Premier e Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Francesco Emilio Borrelli. Ne ha facoltà, per nove minuti.

FRANCESCO EMILIO BORRELLI (AVS). Grazie, Presidente. La riforma del MES appare come l'extrema ratio di una ristrutturazione del debito o, nella migliore delle ipotesi, di un commissariamento dei conti italiani, perché, con questa revisione, gli interessi delle nostre imprese esportatrici sarebbero allineati a quelli delle imprese esportatrici tedesche. Sei mesi fa l'attuale Premier Giorgia Meloni scriveva sul suo profilo personale Facebook: il Ministro Franco ha annunciato che il Governo è intenzionato a riesumare la ratifica della riforma del Trattato del MES, contro la quale più volte questo Parlamento si è pronunciato in modo contrario. Noi non abbiamo cambiato idea: siamo pronti a respingere con tutte le nostre forze questo ennesimo tentativo di riforma di un Trattato, che non fa gli interessi dell'Italia. Eppure l'Eurogruppo si aspetta che l'Italia proceda con la ratifica il più presto possibile.

L'idea del MES risale al biennio 2010-2011, quando alcuni Paesi dell'Unione europea si ritrovarono sull'orlo del tracollo finanziario, non potendo contare sugli altri a causa delle previsioni dell'articolo 123 del TFUE, che vieta agli altri Stati membri della BCE di salvare Paesi in difficoltà, secondo la logica - tutt'altro che peregrina - che gli Stati membri non devono essere incentivati a indebitarsi nella convinzione che altri Paesi correranno in loro soccorso.

Ma la crisi mordeva l'economia reale, così si istituì un Fondo temporaneo, il Fondo europeo di stabilità finanziaria e, successivamente, un Fondo permanente, denominato appunto MES, un'organizzazione intergovernativa di Paesi che utilizzano l'euro, costituita con un Trattato affiancato a quelli dell'Unione europea e che può contare su capitale costituito da un valore dei titoli emessi sui mercati finanziari e sostenuti dalla garanzia degli Stati membri partecipanti, pari a 700 miliardi di euro.

Primeggia, nella scala di partecipazione, la Germania, con il 27 per cento di capitale versato, mentre il nostro Paese vi partecipa con il 18 per cento. L'obiettivo principale del MES è pertanto quello di concedere prestiti a Paesi in difficoltà, cosa che ha fatto finora nei riguardi di Cipro con 6,3 miliardi di euro, della Grecia con 61,9 miliardi di euro e della Spagna con 41,3 miliardi di euro; il tutto a fronte di una rigida condizionalità e di due regole di buon governo: di non trovarsi in procedura di infrazione e registrare da due anni un deficit sotto il 3 per cento e un debito pubblico sotto il 60 per cento. Tutte condizioni per le quali l'Italia sarebbe esclusa dal supporto, a cui potrebbe accedere in seconda battuta solo se accettasse una ristrutturazione del debito. Insomma, chi riceve i prestiti è obbligato ad approvare un memorandum di intesa ossia un piano di riforme che definisce con precisione e rigore quali misure si impegna a prendere in termini di tagli al deficit e al debito e di riforme strutturali. Nel fare questo il MES prende le proprie decisioni con una super maggioranza dei voti dei Paesi membri, operando in questo in stretto coordinamento con la cosiddetta trojka ossia con la Commissione europea, con la BCE e con l'FMI. È superfluo a questo punto ricordare come i comportamenti della trojka in alcuni Paesi sono stati pubblicamente definiti di tipo coloniale.

Gli estimatori del MES lo ritengono uno strumento utile per affrontare la crisi perché è in grado di prestare denaro a chi non riesce più a ricevere prestiti ed inoltre perché contribuisce a rendere l'Unione europea più unita e solidale dal punto di vista economico. Gli oppositori, invece, sostengono fin dal 2012 che le condizioni e le riforme che un Paese deve accettare per ricevere un aiuto sono troppo severe. Nel frattempo, i Paesi rigoristi del Nord Europa, temendo che il MES non fosse adeguato a fronteggiare condizioni che potevano mettere a rischio la tenuta dell'eurozona, concordavano sull'esigenza di riformarlo, rafforzando e chiarendo meglio il suo ruolo e ricomprendendolo all'interno della cornice istituzionale dell'Unione europea. Nel 2018 i Capi di Stato e di Governo si trovarono d'accordo nel dare nuovo mandato all'organismo intergovernativo, con l'obiettivo di farne uno strumento di stabilità bancaria e finanziaria, consentendogli di intervenire come una sorta di paracadute finanziario in caso di crisi bancarie quando il Fondo di risoluzione da solo non fosse riuscito a farsi carico dell'insolvibilità di un istituto di credito e della sua ristrutturazione.

Per il nostro Paese il suddetto accordo è stato raggiunto il 30 novembre 2020 dopo il lavoro di due Governi, entrambi presieduti da Giuseppe Conte e di due diversi ministri, Giovanni Tria e Roberto Gualtieri. Solo dopo sono arrivati i ripensamenti di alcune forze politiche, non consentendo il via libera all'entrata in vigore di quanto concordato. Mancano all'appello solo l'Italia e la Germania; ora la parola passa al Parlamento chiamato a pronunciarsi sulla mozione presentata dal gruppo parlamentare di Azione-Italia Viva.

La parte della riforma del MES che desta maggiore preoccupazione è la seconda, ovvero quella che riguarda il salvataggio di interi Paesi, poiché introduce alcune novità relative alle fasi da seguire, dovendosi innanzitutto anzitutto procedere con il cosiddetto haircut vale a dire la ristrutturazione del debito del Paese interessato attraverso un taglio del valore dei titoli del debito pubblico. Il MES interverrà, se necessario, solo dopo questa decurtazione. Prima dell'avvio della ristrutturazione del debito si procederebbe però ad un'analisi da parte sia della Commissione, sia del MES della sostenibilità del debito, legata quindi alla futura capacità del Paese di ripagarlo.

Il testo di modifica del Trattato, per Paesi in condizioni di finanza pubblica come l'Italia, eliminando la possibilità di sostegno finanziario senza dover ristrutturare il debito pubblico, determina un'enorme rischio di default che si auto-avvera. La ristrutturazione del debito pubblico, che sarebbe da scongiurare con ogni mezzo, diventa uno strumento ordinario previsto e disciplinato con tanto di clausola. Insomma, si predispone un efficace meccanismo di sostegno finanziario per i Paesi in difficoltà di finanza pubblica per evitare la ristrutturazione del debito, ma se sei un Paese in difficoltà di finanza pubblica non puoi accedere al meccanismo finanziario a causa delle condizioni ex ante.

Altro punto critico della riforma è l'affiancamento del MES, che è un'istituzione intergovernativa, alla Commissione, che invece è un'istituzione sovranazionale; infatti, il MES deve prendere in considerazione principalmente le capacità del Paese di ripagare il prestito del MES stesso e non necessariamente l'interesse dell'intera Unione europea come fa invece la Commissione.

Allora, qual è il senso di revisionare tale Trattato? Innalzare la funzione disciplinante dei mercati finanziari in aiuto alle normative del Fiscal Compact; tutto ciò dentro una prospettiva di stagnazione economica - innalzamento dei tassi di interesse e inflazione zero -; sarebbe invece necessaria e urgente una svolta keynesiana per alimentare la domanda interna attraverso investimenti pubblici per la riconversione ecologica dell'economia, ma la neo Presidente della Commissione europea ha ribadito il “no”, senza “se” e senza “ma”, all'esclusione dal calcolo del deficit della spesa green in conto capitale.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Carmen Letizia Giorgianni. Ne ha facoltà, per quattordici minuti.

CARMEN LETIZIA GIORGIANNI (FDI). Grazie Presidente, gentili colleghi come è stato ben spiegato in quest'aula il MES è uno strumento finanziario ideato dall'Unione europea per fornire assistenza finanziaria ai Paesi dell'area euro che si trovano in difficoltà tali da precludere loro un ordinato accesso ai mercati. Il Fondo, nella sua forma esistente da dieci anni, si caratterizza per condizioni piuttosto rigide tramite le quali emette prestiti, sottoponendo i debitori a rigorosi programmi di riforme e vigilando in forma molto stringente non solo sulle loro politiche di bilancio, ma su un più ampio ventaglio di materie di politica economica con annessa anche la possibilità di atti sanzionatori.

Bruxelles negli anni passati ha lavorato a diverse ipotesi di revisione del Trattato per rispondere alle esigenze emerse negli anni e alle critiche rivolte all'impianto originario; tali sforzi hanno portato sul finire del 2020 a una riforma del meccanismo che finora è stata ratificata da tutti i diciannove Stati dell'Eurozona, tranne Italia e Germania. Berlino, infatti, sta aspettando che si pronunci al riguardo la Corte costituzionale tedesca sul ricorso presentato dai parlamentari della FDP che hanno ravvisato modifiche costituzionali nella riforma. La proposta di riformare il MES, con altre condizioni, risale al 2017, come è stato ampiamente detto dai colleghi. La bozza di riforma prevede, in particolare, una rete di sicurezza finanziaria al Fondo di risoluzione delle banche: se non avrà più denari per affrontare crisi bancarie, potrà accedere a quelli del MES. Inoltre, sarà automatico e più veloce il meccanismo dei prestiti per i Paesi che rispettano i parametri del Patto di stabilità: non superare il 3 per cento nel rapporto deficit-PIL e convergere verso il 60 per cento in quello tra debito pubblico e PIL. Questi riceveranno subito fondi senza dover firmare protocolli d'intesa o vincolarsi all'attuazione di specifiche riforme. Il problema però riguarda i Paesi che non rispettano i parametri. Dopo due anni di pandemia e la guerra in Ucraina, questa situazione si potrebbe verificare per molti Stati nel contesto dell'Unione europea. Se passerà la riforma, i Paesi meno virtuosi, che non rispettano i parametri del Patto di stabilità, subiranno un'analisi sulla sostenibilità del debito prima di ricevere il prestito e se avranno un parere negativo saranno spinti, più o meno volontariamente, a ristrutturarlo.

Le condizionalità rigide, con questa riforma, escono dalla porta per rientrare ampiamente dalla finestra. Questo potrebbe causare potenziali problemi, come ha ricordato anche il Governatore di Bankitalia, Ignazio Visco; i piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all'enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default. In sostanza, nel caso in cui l'Italia dovesse trovarsi in crisi di liquidità per accedere al Fondo, che essa stessa finanzia con 125 miliardi di euro, sarebbe obbligata a ristrutturare il suo debito pubblico come fanno le Nazioni che le aspettative dei mercati reputano indirizzate verso il default.

La ristrutturazione del debito può avvenire tramite il taglio del valore nominale dei titoli (il risparmiatore ha comprato titoli che valevano 100 e si ritrova con un taglio dei titoli che valgono 50, ad esempio) o tramite l'allungamento della scadenza dei titoli (i risparmiatori hanno comprato titoli con scadenza 2030 e si ritrovano titoli con scadenza posticipata al 2040, sempre per fare un esempio).

Insomma, una vera e propria macelleria a danno dei risparmiatori, già peraltro, vorrei aggiungere, spremuti negli ultimi anni dalle ben note crisi bancarie, le crisi delle risoluzioni delle banche italiane.

Non mancano poi criticità anche per quanto riguarda lo strumento a sostegno delle crisi bancarie. Si scrive, infatti, nella mozione Richetti: il 27 gennaio e l'8 febbraio 2021 i Paesi membri del MES hanno sottoscritto l'accordo che riforma il Trattato istitutivo: il MES, con ratifica immediata, avrebbe potuto fornire la garanzia comune (backstop) al Fondo unico di risoluzione dall'inizio del 2022 (anziché dal 2024), in considerazione di una valutazione complessivamente positiva del rispetto di alcuni obiettivi di riduzione del rischio bancario, quali la riduzione dei crediti deteriorati e la capacità di assorbimento delle perdite.

E proprio in questo senso l'Italia risulterebbe ancora una volta penalizzata, dato l'alto livello di NPL nel nostro sistema bancario; questo nonostante un'importante azione di derisking fatta proprio dalle banche sui propri bilanci negli ultimi anni, considerando peraltro che lo scenario economico che ci troviamo ad affrontare ha subito profondi mutamenti, come diceva anche l'onorevole Bagnai, anche per il nuovo shock dovuto ovviamente alla crisi russo-ucraina, i cui effetti cominceranno a farsi sentire nei prossimi mesi.

Da sottolineare, inoltre, senza per questo voler demonizzare la dimensione intergovernativa, che il MES nella configurazione attuale rimarrebbe un'organizzazione intergovernativa, in cui la componente privatistica può generare conflitti con la gestione pubblica della politica economica.

Inoltre, la capacità del MES di svolgere un ruolo di stabilizzazione dell'economia europea grazie alla creazione di una linea di credito condizionato di tipo precauzionale, PCCL, è stata minata da una serie di criteri che la rendono, come detto prima, inaccessibile alla maggior parte dei Paesi. Quindi, non rappresenta un progresso rimarchevole nella capacità di stabilizzazione del MES.

Infine, l'accordo di utilizzare il MES come barriera di protezione (backstop) per il Fondo unico di risoluzione viene percepito come un grande progresso, ma rimarrebbe, come è già stato detto anche da altri colleghi, esposto ai veti dei Parlamenti nazionali.

È difficile immaginare che il Fondo unico di risoluzione e la sua barriera di protezione possano essere utilizzati fino a quando non emergerà un quadro appropriato di risoluzione sostenuto da una disciplina genuinamente europea del fallimento. C'è un fine, un motivo non opportunistico per considerare l'esito del pronunciamento della Corte tedesca. Già con il MES originario si dovettero introdurre modifiche per tener conto di un analogo pronunciamento. Considerata la direzione ultra rigorista dei ricorrenti FDP sia contro la PCCL sia contro il meccanismo di supporto alle crisi bancarie, se venissero accolti i loro rilievi ci troveremmo ad aver ratificato qualcosa che già secondo noi ha molti limiti e che dovrebbe modificarsi in un senso che addirittura li andrebbe ad aggravare. Il Governo, quindi, farà bene a meditare una strategia senza pregiudizi, che onori le responsabilità italiane e la serietà di un Paese attraverso diversi Governi, ma al contempo non chiuda gli occhi sulle criticità note dal passato e su quelle che potrebbero addirittura presentarsi in futuro.

La mozione Richetti non può pregiudicare questa valutazione presentando la posizione italiana come decisiva per l'approvazione immediata della riforma, perché, allo stato delle cose, non è così.

Mi permetto inoltre, in conclusione, una chiosa politica: come mai con il Governo Draghi nessuno parlava più di MES e l'argomento torna puntuale con il Governo Meloni?

Forse perché Draghi sapeva, ovviamente, le stesse cose di cui stiamo, ad esempio, parlando oggi sulla non congruità degli strumenti del MES ai bisogni immediati dell'Italia, e diventava forse politicamente imbarazzante sentirselo dire da lui, mentre adesso si reputa buona l'occasione di seminare zizzania contro gli interessi del Paese (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia)?

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Scutella'. Ne ha facoltà.

ELISA SCUTELLA' (M5S). Onorevole Presidente, oggi in Aula torniamo dopo tempo a parlare del MES. Vorrei però procedere ad una sommaria cronistoria per poter comprendere appieno la questione MES.

Il MES, Meccanismo europeo di stabilità, è un'organizzazione istituita nel 2012 sulla base di un trattato intergovernativo, che entra in vigore l'8 ottobre del 2012. Si insinua nel quadro del diritto pubblico internazionale e ha sostituito il Fondo europeo di stabilità finanziaria e il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria. A quale scopo? Quello di fornire assistenza finanziaria agli Stati membri della zona euro. Avvicinandoci ai giorni nostri, la riforma del Trattato istitutivo del MES ha compiuto i suoi primi passi con i negoziati che si sono svolti nel vertice dell'Eurogruppo del 2018. È una modifica che si inserisce in un più ampio pacchetto di interventi volti al completamento dell'unione economica e monetaria.

La riforma del MES approda sul tavolo dell'Euro Summit del dicembre del 2019 e incorporava, a partire dal 2024, l'introduzione del backstop comune al Fondo unico di risoluzione. Grazie però all'azione dell'allora Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, l'Italia è riuscita ad ottenere l'introduzione anticipata di tale meccanismo, che rappresenta una forma essenziale di condivisione dei rischi a livello dell'unione economica e monetaria, obiettivo cardine per il nostro Paese e che avrebbe ovviamente quale effetto finale quello di ridurre tali rischi per tutti.

Con l'Eurogruppo del 2019, e successivamente con l'Euro Summit del 21 giugno dello stesso anno, è stato quindi raggiunto un accordo in sede europea sulla proposta di revisione del Trattato istitutivo del MES.

Successivamente, nell'Eurogruppo del 2020 c'è stata la firma dell'accordo che modifica il Trattato MES, cui non ha fatto seguito la necessaria ratifica per l'entrata in vigore del Trattato così come modificato da parte di tutti i 19 Stati membri. Infatti, come abbiamo ampiamente detto, manca la ratifica da parte dell'Italia e della Germania.

Va osservato poi che nelle more è insorta, come sappiamo tutti, l'emergenza epidemiologica da COVID-19, rallentando così i lavori dell'Eurogruppo e istituendo ulteriori azioni e strumenti volti a fronteggiare gli effetti della crisi sul piano economico e sociale.

Le azioni portate avanti e l'autorevole lavoro svolto in Europa dall'allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ci hanno permesso di ottenere risultati e risorse importanti e fondamentali per il nostro Paese. Ricordiamo tutti che, dopo ore interminabili di trattative, durante le quali il nostro Presidente Conte ha difeso le posizioni dell'Italia e preteso con autorevolezza azioni coraggiose, si trovò l'accordo per uno degli strumenti più significativi di risposta alla crisi, il Next Generation EU (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle), il programma comune di aiuti da oltre 800 miliardi di euro mirati a fronteggiare l'emergenza economica post COVID. Difatti è una misura che ha permesso al nostro Paese di ottenere più di 200 miliardi del PNRR, ma sul quale, è bene ricordarlo in quest'Aula, il partito della neo Presidente Giorgia Meloni si è astenuto in Europa. È bene che i cittadini sappiano che, se fosse dipeso da loro, non lo avremmo ottenuto.

A questo si è aggiunta l'attivazione della clausola di salvaguardia generale del Patto di stabilità e crescita, il Fondo di garanzia paneuropeo, il programma di acquisto per l'emergenza pandemica e lo SURE.

Il punto centrale della risoluzione oggi in discussione è che all'orizzonte non si intravede nessuna - ripeto, nessuna - necessità di ricorrere all'attivazione del MES (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle) e che la scelta definitiva sull'adesione dell'Italia al nuovo Trattato resta nella piena disponibilità del Parlamento, anche alla luce di un'opportuna verifica del più generale stato di avanzamento e attuazione del pacchetto di riforme dell'Unione economica e monetaria e di tutti gli impegni ad esso collegati.

È, inoltre, fondamentale, soprattutto a seguito della crisi economica ed energetica che sta affrontando l'Europa e il nostro Paese, avere una prospettiva più ampia nel contesto più generale di una riforma del sistema di governance dell'Unione. Anche l'ipotesi di riforma del quadro di governance economica che la Commissione UE ha definito il 9 novembre scorso desta non poche perplessità: in primo luogo, il mantenimento dei parametri quantitativi del 3 per cento per il disavanzo e l'obiettivo del 60 per cento per il rapporto del debito sul PIL.

Dunque, la mozione oggi in discussione in quest'Aula impegna il Governo in cosa? In primo luogo, ad assicurare la coerenza della posizione con gli indirizzi precedentemente espressi dalle Camere, oltre a un'interlocuzione costante e al pieno coinvolgimento del Parlamento in tutti i passaggi del negoziato sul futuro dell'Unione economica e monetaria, incluso il completamento dell'iter di adesione al nuovo Trattato MES.

Il Parlamento deve avere una partecipazione attiva nel processo normativo e decisionale, così come vuole la legge del 2012. È bene che il Governo, a fronte delle ultime scelte realizzate in seno all'Unione europea, che descrivono una nuova stagione di integrazione europea, promuova una verifica e una valutazione congiunta sullo stato di avanzamento dei lavori e attuazione del pacchetto di riforme dell'Unione economica e monetaria e di tutti gli impegni a essa collegati. È prioritario, a seguito della recente comunicazione della Commissione europea sull'ipotesi di riforma del quadro di governance economica dell'UE, avviare un dibattito nelle istituzioni europee sulle implicazioni negative per l'Italia del mantenimento delle attuali regole di bilancio.

Presidente, tornare a parlare oggi di MES ci consente, ancora una volta, di palesare la nostra idea di strumento anacronistico e inopportuno rispetto all'idea di Europa solidale in cui in primis il nostro Presidente Conte ha lavorato durante la pandemia, tanto da essere nominato personalità con maggiore capacità di influenza in Europa per il 2021 (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

L'impresa portata avanti in Europa ha permesso di addivenire al Recovery Fund, di cui l'Italia è la prima beneficiaria, e all'introduzione del concetto di debito comune europeo. Dobbiamo continuare a portare in Europa la voce di un Paese forte ed esigere un'Europa più equa e solidale che si impegni a rafforzare le istituzioni europee secondo un piano che, nel rispetto del nostro interesse nazionale, conduca a un'architettura più robusta e a un'equilibrata condivisione dei rischi. La storia delle trattative del Presidente Conte in Europa ci insegna che il nostro Paese può e deve avere un ruolo da protagonista in Europa, perché solo così potremo esprimere un'azione politica che sia rispondente ai bisogni dei nostri cittadini e agli interessi nazionali (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giovanni Luca Cannata. Ne ha facoltà per quattordici minuti.

GIOVANNI LUCA CANNATA (FDI). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, intervengo su questa mozione in discussione che chiede al Governo un impegno sul quale tutti i partiti di questo emiciclo si sono già espressi nelle precedenti legislature. Questo Governo eredita, per quanto concerne il Meccanismo europeo di stabilità, una situazione già pesantemente tracciata da chi ci ha preceduto, nonostante la nostra ferma posizione di criticità negli anni, che non abbiamo mai fatto mancare.

In questo senso, un po' di excursus storico di quanto avvenuto in questo Parlamento non è mai superfluo, se riesce a far riaffiorare certi ricordi, neanche troppo lontani. In effetti, è bene ricordare che la riforma del MES è stata negoziata in gran parte dal Governo “Conte 1”, con il Ministro Giovanni Tria, e poi fu conclusa con un accordo sottoscritto dall'Eurogruppo e da tutti i Paesi di Eurolandia, con la firma, per l'Italia, di Roberto Gualtieri, titolare dell'Economia nel “Conte 2”, nel gennaio 2021. È davvero singolare che neppure la maggioranza di unità nazionale di Mario Draghi sia stata in grado di approvare la ratifica, proprio perché tema spinosissimo e divisivo.

Il Meccanismo europeo di stabilità (MES) è stato istituito nel 2012, mediante un trattato intergovernativo al di fuori del quadro giuridico dell'Unione europea. La sua funzione fondamentale è concedere, sotto precise condizioni, assistenza finanziaria ai Paesi membri che, pur avendo un debito pubblico sostenibile, trovino temporanee difficoltà nel finanziarsi sul mercato. È importante ciò, perché il MES nascerebbe, dunque, per offrire maggiori strumenti per la stabilità finanziaria sotto precise condizionalità. La condizionalità varia a seconda della natura dello strumento utilizzato e per i prestiti assume la forma di un programma di aggiustamento macroeconomico specificato in un apposito memorandum, mentre è meno stringente nel caso delle linee di credito precauzionali destinate a Paesi in condizioni economiche e finanziarie fondamentalmente sane, ma colpiti da shock avversi.

Quanto ai criteri di concessione dei prestiti agli Stati in difficoltà, la riforma prevede che il MES possa intervenire secondo due modalità: la prima modalità, detta linea di credito condizionata precauzionale, è accessibile agli Stati che presentino i requisiti definiti dall'allegato 3 del testo riformato, ovvero non essere in procedura di infrazione, vantare un deficit inferiore al 3 per cento da almeno due anni, avere un rapporto debito-PIL sotto il 60 per cento, insieme a una serie di riferimenti meramente qualitativi al quadro generale di sorveglianza macroeconomica. La seconda modalità, detta linea di credito a condizionalità rafforzata, invece subordina la concessione del credito all'adozione di un programma di riforme e prevede la possibilità di una procedura che contempli una ristrutturazione del debito tramite riduzione del valore nominale o rimodulazione delle scadenze dei nostri titoli di Stato, eventualità che metterebbe a forte rischio la stabilità stessa del nostro sistema economico e finanziario, con conseguenze gravissime per il risparmio degli italiani.

Ebbene, le condizioni stabilite dall'allegato 3 del testo comportano che l'Italia potrebbe accedere ai prestiti del MES esclusivamente nella modalità a condizionalità rafforzata, cioè in quella che ho spiegato precedentemente, e, quindi, con conseguenze gravi nel caso in cui vi si accedesse. Comprendiamo bene i rischi a cui sottoporremo i nostri conti, che, tra l'altro, dovremo discutere con una governance del MES alquanto discutibile. Difatti, quanto alla governance del MES, la riforma potenzia il ruolo di indirizzo, intervento e controllo del direttore generale del Fondo, in particolare per quanto riguarda la definizione dei memorandum e il loro negoziato con gli Stati che facciano richiesta di accesso ai fondi, e la valutazione della capacità del Paese di restituire i prestiti, determinando così un'ulteriore emarginazione della sfera politica del processo decisionale. Quindi, continuerà ad essere uno strumento intergovernativo non gestito a livello comunitario, né sottoposto al controllo del Parlamento europeo e con un coinvolgimento della Commissione europea davvero minimo. Quindi, va precisato che formalmente è esterno ai trattati dell'Unione europea ed è un'organizzazione internazionale a parte che unisce i Paesi dell'area euro, vincolandoli a uno strumento di risoluzione delle crisi del debito e che si coordina - ma non è subordinato - con la Commissione e con le altre istituzioni di Bruxelles.

Il ragionamento sul MES è, quindi, più o meno il seguente: se questi denari sono così vantaggiosi, allora perché non sono state richiesti da altri Paesi? Siamo certi che il MES possa cambiare in corsa le sue condizionalità, portando, in parallelo, l'ingresso della Troika come ente controllore, così come è accaduto durante la crisi ellenica nel 2012. I popoli europei non hanno dimenticato, infatti, l'utilizzo fatto durante l'applicazione dei programmi di austerità a Grecia, Cipro e Portogallo nello scorso decennio e proprio i risultati della Grecia, che solo nel 2018 è uscita dal piano aiuti della Troika, parlano chiaro. Una situazione per cui la stessa Troika ha fatto mea culpa, ammettendo di aver commesso troppi errori.

D'altro canto, anche nel momento più critico della pandemia, il dibattito sul Meccanismo europeo di stabilità è stato uno dei più controversi e divisivi all'interno del mondo politico e sociale. Di MES si è parlato in continuazione, sommandolo, in maniera spesso erronea, con quello della linea di credito MES sanitario da 36 miliardi di euro, che molti partiti chiedevano al Governo di prendere, mentre altri, come noi di Fratelli d'Italia in testa, contestavano, temendo possibili condizionalità per un prestito fonte di incognite.

Bisogna sottolineare che non è solo l'Italia l'unica Nazione dell'area euro a non aver ratificato la riforma del MES, perché è proprio la Germania a non averla ancora ratificata (fatto che non possiamo sottovalutare). Dico questo, perché in Germania, come spesso succede quando si trattano tematiche relative ai trattati europei, la materia viene sempre portata all'attenzione del tribunale costituzionale federale per valutare la conformità con le leggi federali.

Non è tutto. Già rifiutato quando si è trattato di decidere a quale organismo europeo chiedere aiuto per la crisi da COVID e snobbato da tutti i Paesi europei (perché alla fine nessuno ha chiesto i suoi prestiti), il Meccanismo europeo di stabilità è ora ufficialmente in crisi di gestione - diciamo così -, oltre che di identità. Il Meccanismo europeo di stabilità, infatti, è in una situazione abbastanza complicata, anche per quanto riguarda la governance.

Gli Stati membri dell'area euro non sono riusciti a trovare un nuovo direttore che succeda al tedesco Klaus Regling, il cui mandato è scaduto il 7 ottobre. Infatti, il Consiglio dei governatori del MES, che comprende 19 Ministri delle Finanze dell'area euro, ha nominato il vicedirettore generale Frankel alla carica di direttore generale per un periodo ad interim, fino al 31 dicembre 2022 o fino alla data in cui entrerà in carica un nuovo numero uno, nominato dal Consiglio dei governatori.

Mi avvio alla conclusione. Ogni Paese ha un diritto di voto proporzionale al capitale sottoscritto dal MES; solo Germania, Francia e Italia hanno diritti di voto superiori al 15 per cento e possono, quindi, porre il loro veto anche sulle decisioni prese in condizioni di urgenza. Non c'è la fila per chiedere i suoi prestiti per l'effetto stigma, che perdura dai tempi della crisi del debito greco, che vide il “salva Stati” fare la parte del leone sulle difficoltà di Atene. La posizione di Fratelli d'Italia è stata sempre chiara, perché non vogliamo commissariamenti economici della nostra Nazione ad opera di funzionari sconosciuti. Abbiamo già messo in campo una nuova manovra di bilancio che mette l'Italia sulla strada della ripresa e non ci servono dunque strumenti che sarebbero contro la nostra economia.

La riforma messa in campo negli anni scorsi del MES non è stata ratificata dall'Italia e dalla Germania; si tratta di una riforma negoziata e finalizzata dal Governo Conte giallo-rosso, palesemente inadeguata alla tutela degli interessi nazionali in Europa.

Adesso, grazie al nostro Presidente Giorgia Meloni, i rapporti con l'Europa sono buoni, con un'Italia pronta a collaborare, difendendo il proprio interesse nazionale, come ovviamente fanno tutti. Dunque, quando sarà il momento di aprire il dossier MES, per noi è chiaro che la posizione resta critica, ma coinvolgeremo il Parlamento con l'unico obiettivo e interesse di difendere la nostra sovranità e gli interessi del popolo (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

Chiedo al Governo se intenda intervenire o se si riservi di farlo successivamente. Sottosegretario, onorevole Albano, vuole intervenire? No, va bene.

Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Discussione della proposta di modificazione al Regolamento (Modifiche al Regolamento relative ad adeguamenti conseguenti alla riduzione del numero dei deputati) (Doc. II, n. 5) (ore 18,03).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di modificazione al Regolamento (Modifiche al Regolamento relative ad adeguamenti conseguenti alla riduzione del numero dei deputati) (Doc. II, n. 5).

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicato nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta del 23 novembre 2022 (Vedi l'allegato A della seduta del 23 novembre 2022).

(Discussione sulle linee generali – Doc. II, n. 5)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

Ha facoltà di intervenire il relatore, onorevole Federico Fornaro, anche per conto del relatore Igor Iezzi.

FEDERICO FORNARO, Relatore. Signor Presidente, colleghe e colleghi, la presente proposta di modifica al Regolamento è stata licenziata dalla Giunta per il Regolamento nella riunione del 23 novembre 2022 e contiene i primi necessari adeguamenti al Regolamento della Camera, conseguenti alla riduzione del numero di deputati disposta con la legge costituzionale n. 1 del 2020, approvata nella passata legislatura. Questa, quindi, rappresenta una prima tappa di un percorso che era già stato avviato nella XVIII Legislatura in seno alla Giunta e che, con la conclusione anticipata di questa, non era pervenuto a compimento.

La scelta che è stata compiuta dalla Giunta per il Regolamento è di individuare una sorta di doppio binario: una prima attività riguarda sostanzialmente gli adeguamenti correlati direttamente alla riduzione del numero dei deputati, con l'obiettivo di licenziare questo provvedimento in tempi strettissimi, e, poi, un secondo binario, da avviare anch'esso subito - ma inevitabilmente con tempi più lunghi per lo svolgimento di questa attività - avente l'obiettivo più generale dell'elaborazione di un progetto più ampio e articolato di riforma del Regolamento, che tocchi una pluralità di settori, al fine di favorire un migliore andamento dei lavori parlamenti, a vantaggio dell'istituzione e della qualità del lavoro di ciascun deputato. Anche con questo spirito, della Giunta per il Regolamento entreranno a far parte anche i colleghi di due gruppi che fino ad oggi non avevano ancora avuto rappresentanza.

All'esito del dibattito svoltosi nella riunione del 23 novembre, la Giunta ha quindi convenuto di proporre all'Assemblea il testo che è agli atti e che rappresenta un generale adeguamento di tutti i quorum, rideterminati con nuove soglie, lievemente incrementate rispetto al parametro strettamente proporzionale, applicabili a decorrere già dal 1° gennaio 2023, con un'unica eccezione, a questo adeguamento, che è rappresentata dall'articolo 44, comma 1, relativo alle soglie numeriche previste per chiedere la chiusura della discussione sia in Assemblea sia in Commissione; si tratta di una tipica prerogativa utilizzata dalla maggioranza che si è preferito non variare.

Nel contempo, la Giunta ha concordato sulla rideterminazione del numero minimo richiesto per la costituzione dei gruppi parlamentari, ridotto da 20 a 14, e delle componenti politiche del gruppo Misto, di cui al primo e all'ultimo periodo del comma 5 dell'articolo 14, ridotto rispettivamente da 10 a 7 e da 3 a 2 e su quella del numero dei componenti della Giunta delle elezioni e di quella per le autorizzazioni richieste dall'articolo 68 della Costituzione, che passano rispettivamente da 30 a 20 deputati e da 21 a 15.

Per queste fattispecie, stante la già avvenuta costituzione, nella corrente legislatura, sia dei gruppi, sia delle componenti politiche del gruppo Misto, sia delle Giunte in questione, queste riduzioni entreranno in vigore dalla XX Legislatura.

È stato, invece, ritenuto opportuno non intervenire sulla composizione del Comitato per la legislazione, già oggi piuttosto ristretta, 10 membri, né si è ritenuto di intervenire per ridurre il numero dei segretari di Presidenza della Camera, come prefigurato nel testo base che era stato licenziato dalla Giunta per il Regolamento nella XVIII legislatura, sia in considerazione del fatto che tale riduzione rischierebbe di svuotarsi di significato sostanziale, in ragione della necessità prevista dal Regolamento di eleggere segretari di Presidenza suppletivi in rappresentanza di gruppi non presenti nella composizione originale dell'Ufficio di Presidenza, sia in quanto occorre - e questa è stata, poi, l'interpretazione prevalente - una valutazione sulla compatibilità di una riduzione rispetto alle effettive esigenze dei lavori parlamentari e al numero e durata delle sedute dell'Assemblea. Detto in altri termini, già nella XVIII Legislatura si è ritenuto di non modificare il numero dei Vicepresidenti e dei Questori; si era proposta la riduzione solo dei segretari, ma rimane l'elemento oggettivo che l'attività dell'Assemblea è esattamente quella di prima, cioè la riduzione da 630 a 400 non impatta ovviamente sull'attività.

Tale valutazione potrebbe eventualmente trovare posto anche all'interno del cosiddetto secondo binario del processo di riforma del Regolamento, nell'ambito del quale potrebbe altresì essere considerata l'esigenza, e su questo vorrei porre l'attenzione anche dei colleghi presenti, di una riforma complessiva della disciplina della costituzione dei gruppi, sia nell'ottica dell'adozione di misure anti-trasformistiche, più in generale anti-frammentazione, con un'eventuale rivalutazione anche del requisito numerico minimo per la costituzione dei gruppi. Cioè le argomentazioni che sono state espresse dalla Giunta per il Regolamento valgono per ridefinire tutta la materia dei gruppi, a cominciare dal numero minimo per la costituzione alla deroga, al tema del finanziamento dei gruppi, eccetera, in maniera organica e unitaria, seguendo e verificando, anche, ovviamente, che cosa è avvenuto al Senato.

L'auspicio, quindi, è che le proposte contenute nel presente documento, che hanno raccolto in tempi molto rapidi il consenso di tutti i gruppi presenti nella Giunta per il Regolamento, acclarato nella riunione del 23 novembre del 2022, possano ora conoscere una altrettanto rapida e unanime - questo è il nostro auspicio, sia mio sia del collega Iezzi - approvazione in Assemblea.

PRESIDENTE. Non essendovi iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

Il seguito dell'esame della proposta di modificazione al Regolamento è, quindi, rinviato alla seduta di domani, mercoledì 30 novembre.

Modificazione nella composizione della Giunta per il Regolamento.

PRESIDENTE. Comunico che il Presidente della Camera, a norma dell'articolo 16, comma 1, del Regolamento, udito il parere della Giunta per il Regolamento nella seduta del 23 novembre scorso, ha integrato la composizione della medesima Giunta, chiamandovi a farne parte il deputato Alessandro Colucci.

Interventi di fine seduta.

PRESIDENTE. Passiamo agli interventi di fine seduta.

Ha chiesto di parlare la deputata Morfino. Ne ha facoltà, per due minuti.

DANIELA MORFINO (M5S). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, in questi giorni continuo a ricevere tantissimi messaggi da parte di donne arrabbiate e offese con questo Governo. Tutte loro chiedono a noi parlamentari di farci portavoce della necessità di modificare i nuovi requisiti di accesso a “Opzione donna”. Il tentativo maldestro, di poche ore, fa di modificare in corso d'opera l'articolo 56 del disegno di legge di bilancio risulta una grossolana attività di cosmesi che, comunque, nasconde la discriminazione. Perché, vedete, nell'Italia con la prima Presidente del Consiglio donna, proprio se sei una donna che non ha voluto o potuto avere figli o, ancora, che ha soltanto un figlio, vedrai andare in pensione prima le colleghe che hanno avuto più di un figlio. Ditemi voi se non è un atto discriminatorio, questo. Ecco perché direi a questo punto di rinominare “Opzione donna” come “Discriminazione donna”, perché si tratta proprio di questo: di una discriminazione delle donne.

Così “Opzione donna” diventa ingiusta, persino incostituzionale, perché viola l'articolo 3 della Costituzione. Nel 2023, infatti, le donne potranno andare, sì, in pensione anticipata, a età diverse a seconda del numero di figli che hanno. Per esempio, quelle con due o più figli potranno andare in pensione a 58 anni, quelle con un figlio a 59 anni, quelle senza figli a 60 anni; una circostanza che, invece, non riguarda gli uomini, che possono anch'essi andare in pensione anticipata, ma senza che venga considerato come requisito il numero dei figli.

Ora, colleghi, mi chiedo davvero come la prima donna Premier della storia della nostra Repubblica possa consentire una tale manovra. “Opzione donna” penalizza, quindi, le donne che non hanno figli, coloro che non hanno potuto avere figli pur volendoli, quindi si tratta di un provvedimento inaccettabile e vergognoso, una vera e propria punizione nei confronti di migliaia di donne! Ritengo, inoltre, pericolosissimo far passare questo messaggio, che solo chi ha figli può accedere a diritti sacrosanti. A memoria credo, signor Presidente, che non ci sia Paese al mondo che abbia legato al numero dei figli una misura pensionistica. Stiamo vantando, anzi, il Governo sta vantando un vergognoso e incostituzionale primato.

Pertanto - e concludo, Presidente -, chiedo a questo Parlamento di mobilitarsi contro questa misura e al Governo di ravvedersi urgentemente, prima ancora che sia la Consulta a bocciare questa norma (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Michelotti. Ne ha facoltà, per due minuti.

FRANCESCO MICHELOTTI (FDI). Grazie, signor Presidente. Onorevoli colleghi, intervengo per parlare del fatto che, nei giorni scorsi, si è tenuto a Siena il Festival della salute, che è stata l'occasione per presentare formalmente e per la prima volta l'idea del nascente Biotecnopolo. In occasione del convegno, svoltosi a Siena il 25 novembre scorso, il presidente della Fondazione, Silvio Aime ha riferito che il Biotecnopolo sarà operativo dal 2023.

Come noto, il Biotecnopolo ha sede a Siena, sede legale e operativa, e svolgerà funzioni di salute pubblica attraverso il Centro nazionale anti-pandemico, con un investimento, previsto dal precedente Governo, di 437 milioni del PNRR. Il Biotecnopolo rappresenta non solo una grande opportunità occupazionale per Siena e la provincia, ma è anche un'eccellenza e presidio fondamentale per la prevenzione e la ricerca delle scienze della vita, ma occorre seguirne la genesi, per evitare che si ripetano le devastanti logiche spartitorie già viste in passato, a Siena, nella galassia Monte dei Paschi ed anche in seno a Biotech: due fulgidi esempi di quanto il Partito Democratico ha prodotto negli ultimi anni.

Per cui la volontà di collaborare e di coinvolgere le aziende del territorio non deve rimanere lettera morta o un mero appello di stile, ma occorre il coinvolgimento del distretto industriale realmente e non che sempre i soliti noti - TLS e regione Toscana - assumano le decisioni accuratamente escludendo gli industriali e gli attori del territorio. In quest'ambito occorre una riflessione sul ruolo proprio di Toscana Life Science (TLS) e del suo presidente, incarico da 9 anni ininterrottamente, al terzo mandato e che risulta, al contempo, anche membro del consiglio di amministrazione di una società di un noto gruppo farmaceutico produttore di anticorpi monoclonali.

Ebbene, siccome vogliamo tutelare la funzione strategica del Biotecnopolo in quanto hub nazionale anti-pandemico e preso atto di quanto sopra, dei molteplici ruoli assunti da TLS e dal suo presidente, riteniamo opportuno che i futuri componenti del Biotecnopolo non siano espressione di TLS per evitare potenziali conflitti di interesse, che siamo sicuri anche TLS stessa voglia evitare.

Siamo, quindi, sicuri che il Governo e i Dicasteri interessati intervengano per partecipare alle scelte della Fondazione Biotecnopolo in modo costruttivo e nell'interesse nazionale, che è il paradigma che il Presidente Meloni e Fratelli d'Italia hanno da sempre assunto nella loro azione politica. Questo per coinvolgere tutto l'indotto delle aziende che a Siena esistono e che esprimono eccellenze e portano risultati concreti e occupazione (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

Ordine del giorno della prossima seduta.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della prossima seduta.

Mercoledì 30 novembre 2022 - Ore 9,30:

(ore 9,30 e ore 16)

1. Seguito della discussione delle mozioni Conte ed altri n. 1-00010, Zanella ed altri n. 1-00020, Richetti ed altri n. 1-00022, Serracchiani ed altri n. 1-00025 e Tremonti, Formentini, Mulè, Bicchielli ed altri n. 1-00031 concernenti iniziative in relazione al conflitto tra Russia e Ucraina .

2. Seguito della discussione delle mozioni Orlando ed altri n. 1-00012, Conte ed altri n. 1-00023, Richetti n. 1-00026, Grimaldi ed altri n. 1-00028 e Tenerini, Rizzetto, Giaccone, Pisano ed altri n. 1-00030 concernenti iniziative volte all'introduzione del salario minimo .

3. Seguito della discussione delle mozioni Richetti ed altri n. 1-00021, De Luca ed altri n. 1-00027 e Scerra ed altri n. 1-00029 concernenti iniziative per la ratifica della riforma del Trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità (MES) .

4. Deliberazione in merito alla costituzione in giudizio della Camera dei deputati in relazione ad un conflitto di attribuzione elevato innanzi alla Corte costituzionale dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.

5. Seguito della discussione del documento:

Proposta di modificazione al Regolamento (Modifiche al Regolamento relative ad adeguamenti conseguenti alla riduzione del numero dei deputati).

(Doc. II, n. 5)

Relatori: FORNARO e IEZZI.

(ore 15)

6. Svolgimento di interrogazioni a risposta immediata .

La seduta termina alle 18,15.