XVIII Legislatura

Commissione parlamentare per le questioni regionali

Resoconto stenografico



Seduta n. 4 di Giovedì 9 maggio 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Gariglio Davide , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SUL PROCESSO DI ATTUAZIONE DEL «REGIONALISMO DIFFERENZIATO» AI SENSI DELL'ARTICOLO 116, TERZO COMMA, DELLA COSTITUZIONE

Audizione del professor Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale presso l'Università degli Studi «Roma Tre».
Gariglio Davide , Presidente ... 3 
Celotto Alfonso , professore di Diritto costituzionale presso l'Università degli Studi «Roma Tre» ... 3 
Gariglio Davide , Presidente ... 6 
Abate Rosa Silvana  ... 6 
Fregolent Sonia  ... 6 
Gariglio Davide , Presidente ... 7 
Dal Mas Franco  ... 7 
Zardini Diego (PD)  ... 8 
Rivolta Erica  ... 8 
Manca Daniele  ... 9 
Gariglio Davide , Presidente ... 9 
Celotto Alfonso , Professore di Diritto costituzionale presso l'Università degli Studi «Roma Tre» ... 10 
Gariglio Davide , Presidente ... 12

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
DAVIDE GARIGLIO

  La seduta comincia alle 9.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del professor Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale presso l'Università degli Studi «Roma Tre».

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul processo di attuazione del «regionalismo differenziato», ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, l'audizione del professor Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale presso l'Università degli Studi «Roma Tre».
  Ringrazio il professor Celotto per la sua presenza. Pur avendo impegni professionali, si è organizzato in maniera tale da poter essere qui, e per questo lo ringrazio.
  Do la parola al professor Celotto per lo svolgimento della relazione.

  ALFONSO CELOTTO, professore di Diritto costituzionale presso l'Università degli Studi «Roma Tre». Presidente, grazie per l'invito. Per me è sempre un onore contribuire ai lavori parlamentari, soprattutto su un tema così delicato che va, secondo me, inquadrato storicamente per capire il senso dell'articolo 116, terzo comma della Costituzione.
  Ricordiamo che la struttura dello Stato italiano era basata sull'ordinamento sabaudo, quindi era diviso province e comuni. In Assemblea costituente lungamente si discusse sull'idea di introdurre le regioni. Le regioni furono proprio lo strumento per «amalgamare» il territorio nazionale. Se prendiamo l'elenco originario della Costituzione, molte regioni sono declinate al plurale – le Puglie, gli Abruzzi – proprio per dare l'idea di territori che si uniscono. Del resto, il costituente era consapevole della differenziazione pluralistica dell'Italia e anche per questa ragione creò le autonomie speciali differenziate, che sono isole e territori di confine, con tutte le difficoltà e le particolarità storiche connesse.
  Il disegno costituente era un disegno di Stato accentrato (articolo 5), uno e indivisibile, pur riconoscendo le autonomie (articolo 114), quindi i tre livelli: regioni, province e comuni.
  Questo disegno è andato «in crisi» dagli anni Ottanta del secolo scorso. E così si è iniziato a dibattere di una riforma delle autonomie territoriali. Conosciamo tutti i vari «tentativi» su province, comuni e regioni.
  Fino alla riforma costituzionale del 1999-2001, come spesso accade, noi costituzionalisti prima l'abbiamo esaltata e poi deprecata. Perché? Perché è una riforma incompiuta, un «tentativo» di federalismo. Mancava il Senato delle regioni, che probabilmente era la parte essenziale per completare un sistema veramente federale. Comunque, in quel contesto si inserisce il nuovo articolo 116, terzo comma.
  Ricordo a me stesso l'idea del 2001, la rivoluzione copernicana: mettere le regioni al centro e lo Stato attorno. Tutte le competenze vanno alle regioni (articolo 117, quarto comma). Quindi, lo Stato resta, come in uno Stato federale, la cornice. Le regioni Pag. 4diventano piccoli Stati, dovrebbero essere Stati federati. Un esempio è quello che sarebbero dovuti diventare gli Statuti ordinari, non più approvati con legge parlamentare, ma fatti con un procedimento quasi costituzionale dai Consigli regionali, con il referendum, il controllo della Corte costituzionale. Un procedimento che ricorda quello delineato dall'articolo 138 della Costituzione.
  In questo contesto, va inquadrato l'articolo 116, terzo comma. Che cosa ci dice? Su alcune «materie» (un paio dell'articolo 117, secondo comma, e quelle del terzo comma) si può attribuire questa autonomia differenziata.
  Abbiamo due questioni: l'ambito e il procedimento. Per quanto riguarda l'ambito, abbiamo un elenco di ventitré materie. L'idea è che alcune regioni possano avere – su alcune di queste materie, data la specificità dei territori – un'autonomia differenziata. Ad esempio, una regione può avere più interesse al turismo e un'altra interesse alla formazione oppure alla sanità. Questa è la ratio della riforma del 2001.
  L'idea non è che le regioni possano avere tutte le ventitré materie di maggiore autonomia, ma che ne abbiano alcune, soprattutto differenziandole in base alla tipicità dei territori. Una delle questioni più aperte riguarda la sanità. Ci sono alcune regioni che sulla sanità, come sappiamo, sono più avanti e, quindi, possono avere un'autonomia differenziata nel rispetto dei princìpi costituzionali e dell'articolo 119. Altrimenti non avrebbe alcun senso.
  Il primo punto fermo, a mio avviso, quindi, è che non tutti debbano avere tutto.
  Il secondo punto – correlato – è che questa autonomia differenziata, come tale, dovrebbe spettare ad alcuni. Prendiamo quello che è successo in questi quindici anni. Ci sono stati tentativi, come sappiamo, soprattutto della Lombardia e dell'Emilia-Romagna, che non hanno mai sortito alcun effetto. Nella scorsa legislatura ci fu l'accordo dell'on. Bressa con le regioni su cinque punti. In questi ultimi due anni – i professori sono più liberi di parlare alcune volte, quindi lo possiamo dire – è scoppiata la «moda» dell'articolo 116, terzo comma, che a me risulta richiesta da tredici regioni su quindici. Già questo dato mi stupisce. L'autonomia speciale è un concetto di relazione. Devono essere tutti «ordinari», così si giustificano alcuni speciali. Se noi arriviamo a pensare che su venti regioni ne abbiamo diciotto speciali, non esiste più l'autonomia ordinaria. Come idea, quindi, l'autonomia differenziata può appartenere soltanto ad alcuni.
  Certo, si può replicare, in uno Stato veramente federale tutti possono avere autonomie differenti. Parliamo, però, di autonomie differenti su singole materie in uno Stato federale. A noi manca la condizione presupposta. Per come è stato attuato il Titolo V, l'Italia non è uno Stato federale. Lo Stato federale è basato sull'organizzazione e sulle competenze. Non ci siamo arrivati. La Corte costituzionale in certi punti è stata veramente – potremmo dire – la terza Camera sull'attuazione (o non attuazione) del Titolo V. Sappiamo che oramai la metà del contenzioso costituzionale riguarda questioni regionali sul riparto delle materie. Sappiamo anche che fino al 2000 la Corte costituzionale aveva l'85 per cento di attività sul giudizio di costituzionalità, quello incidentale, quello per cui era nata, essenzialmente. L'altra competenza, quella di «arbitro» tra Stato e regioni, è stata sempre una competenza residuale (10-15 per cento). Siamo arrivati, dai primi anni dopo il 2001, ad avere oltre il 50 per cento di questioni sulle competenze. Proprio perché il quadro della riforma del Titolo V non era chiaro.
  Perché non siamo federali? Perché mancava il Senato federale. Quel contenzioso doveva essere svolto in sede politica, perché è in sede politica che bisogna capire se la regione «X» può fare la legge, ad esempio, sul mobbing, sul tabagismo o sui giochi non davanti alla Corte costituzionale. È un sintomo chiaro, quindi, che l'Italia non è diventata federale.
  A questo punto, in questo quadro attuato solo parzialmente, si giustifica meno l'articolo 116, terzo comma, perché l'articolo 116, terzo comma, può consentire queste Pag. 5 forme particolari di autonomia in uno Stato di stampo federale.
  La seconda questione riguarda il procedimento di approvazione della legge di cui all'articolo 116, terzo comma. Penso che sia uno dei punti più complicati da capire. Normalmente, quando si scrivono le norme, ci si ispira sempre a norme esistenti. Quindi, volendolo comparare con altri procedimenti costituzionali, si dice che questa legge può somigliare alla legge sulle intese con le confessioni religiose, l'articolo 8. Può somigliare perché – come recita l'ultima parte del comma – è «sulla base di intese». Sulla base di intese, però serve la maggioranza speciale delle Camere. Qui iniziamo a «somigliare» a una legge come quella su amnistia e indulto o addirittura a una legge, di cui all'articolo 138, di natura costituzionale: con maggioranze speciali.
  Inoltre – e qui le cose si complicano – questa legge dello Stato è su iniziativa della regione, sentiti gli enti locali. Per cui, messi insieme questi cinque elementi, abbiamo a mio avviso una legge completamente atipica: somiglia a quella relativa ad amnistia e indulto, ad intese fra Stato e regioni, ma per certi versi può somigliare anche ad una legge (articolo 80) sui trattati internazionali o (articolo 81) sul bilancio. È una legge sicuramente di approvazione. Le leggi di approvazione sono quelle leggi che si basano su un testo che nasce fuori dal Parlamento e che arriva in Parlamento a fini di controllo. Giustamente, nell'idea costituente della centralità del Parlamento, la legge è stata arricchita di funzioni non solo normative vere e proprie (articolo 70), leggi generali e astratte che regolano la vita, ma anche leggi per controllare e approvare ulteriori attività: le intese, i Patti Lateranensi, le approvazioni degli Statuti speciali e ordinari, il bilancio, i trattati internazionali diventano leggi che consentono al Parlamento di controllare, verificare, potremmo dire, usando un termine improprio, «bollinare» un'attività ulteriore. Il Parlamento è giustamente il centro della Repubblica.
  A questo punto, va capito – aspetto ovviamente nuovo – qual è il ruolo del Parlamento su questa legge. Il problema si riduce all'osso a un profilo: è una legge emendabile o inemendabile? Ovviamente, questo non è chiaro. E non essendoci precedenti, non abbiamo ancora un indirizzo. Come spesso accade in diritto, si possono sostenere fondatamente entrambi gli argomenti. Da una parte, possiamo ritenere che, essendo sulla base dell'intesa, dovrebbe essere un «prendere o lasciare». Però le Camere si esprimono a maggioranza assoluta, quindi una maggioranza rinforzata. Non è una legge che recepisce l'intesa, ma «sulla base dell'intesa». Anche il senso delle parole, quindi, potrebbe aiutare a capire. Si prende ispirazione da quella legge; però, se il Parlamento ritiene che la materia «turismo» – ne cito una, ad esempio – non debba essere assegnata in quel modo, può sicuramente emendarla.
  Un dibattito simile avvenne qualche anno fa sulla legge di conversione del decreto-legge. Anche sulla legge di conversione del decreto-legge si può sostenere che la conversione sia semplicemente un «prendere o lasciare», in quanto il Governo si auto-assume la iniziativa legislativa e il Parlamento semplicemente dice «sì» o «no». Peraltro, in Spagna per anni la legge di conversione è stata assolutamente inemendabile. Giustamente diventa una bollinatura, un'approvazione dell'iniziativa governativa.
  Insomma, è sostenibile l'idea che la legge ex articolo 116 della Costituzione sia inemendabile. Tuttavia, ci sono ampi spazi per ritenerla emendabile.
  Bisogna anche ragionare, secondo me, sulla tipologia pluralistica dei rapporti tra lo Stato e le regioni rispetto alla legge sulle confessioni religiose. Le confessioni religiose fanno parte nel senso più ampio dello «Stato comunità», ma non fanno parte dello «Stato persona». In quel senso, il Parlamento dovrebbe avere minori poteri rispetto a una confessione religiosa sulla legge di approvazione. In questo modo, del resto, si è costruito l'articolo 8 della Costituzione Ma ovviamente questi sono spunti. Sono tentativi. Insomma sto facendo un po’ di «palestra giuridica»: quando bisogna tracciare un nuovo solco, bisogna capire quali sono i riferimenti per sostenere una tesi o un'altra. Pag. 6
  Essendo le regioni all'interno dello «Stato persona», invece, si può pensare che il Parlamento nazionale abbia un'interlocuzione maggiore, quindi abbia un potere di interazione anche sulla legge d'intesa, sui singoli punti, come peraltro similmente è avvenuto sul decreto-legge. La prassi si è consolidata nel ritenere che, essendo comunque espressione di potestà legislativa – perché comunque è un atto legislativo proprio –, il Parlamento può intervenire emendando i singoli articoli in sede.
  Pertanto, io non riesco, in merito al procedimento, a essere concludente sul ruolo parlamentare. Sicuramente, ciò che è chiara nel modello dell'articolo 116 è la tipologia di iniziativa. Serve l'iniziativa regionale. Sappiamo bene – questo, però, è un punto già superato – che non è necessaria un'iniziativa referendaria regionale, perché la regione è libera di scegliere come presentare la sua iniziativa. Del resto, la regione ha di per sé l'iniziativa legislativa, un'iniziativa che comunque si inserisce nella sua tipicità. Serve il parere degli enti locali. Anche in quel caso vi sono stati dubbi per individuare gli enti locali interessati. Qui, però, ci trasferiamo sul problema dell'articolo 132 della Costituzione, quando bisogna fare le variazioni dei comuni rispetto alle singole regioni, quindi chi sentire, quali sono i veri interessati.
  Ma soprattutto, resta aperta la questione del procedimento parlamentare che, a mio avviso, sarà molto interessante vedere in che modo sarà costruito, dal momento che è assolutamente costruibile nei due sensi, sia nel senso dell'emendabilità che nel senso dell'inemendabilità.
  A questo punto, concluderei la mia introduzione per ascoltare eventuali domande e aprire un'interlocuzione, se il presidente è d'accordo.

  PRESIDENTE. Grazie, professore, per gli spunti che ci ha fornito.
  Apriamo la discussione.

  ROSA SILVANA ABATE. Professore, la ringrazio per la spiegazione che ci ha fornito, molto chiara e molto semplice. La ringrazio anche per la semplicità con la quale ci ha fatto capire quali sono sostanzialmente le criticità.
  Approfitto della sua presenza per rivolgerle una domanda (per noi avere un docente universitario significa veramente poter avviare un ampio confronto): secondo lei, qual è il procedimento più giusto nel quale inserire questa importantissima modifica? Soprattutto vorrei sapere se lei ritiene giusto – anche se preferirei utilizzare il termine «opportuno» – inserire l'emendabilità, se il Parlamento deve avere la possibilità di emendare questa legge o meno, quindi il procedimento che si armonizza di più rispetto a tutte le altre norme costituzionali da lei richiamate.

  SONIA FREGOLENT. Ringrazio il professore per l'illustrazione.
  Io sono veneta, orgogliosamente veneta. Sono una di quei 2.328.949 elettori che sono andati a votare per il referendum veneto. Il Veneto si è posto un obiettivo molto elevato, che era quello di interrogare la popolazione rispetto a un percorso importante, dove oltre il 57 per cento dei veneti è andato a votare e dove oltre il 98 per cento dei veneti si è espresso, come tutti sanno, con un voto favorevole a questo percorso di autonomia differenziata.
  Io l'ho ascoltata con molto interesse e ho capito che, fondamentalmente, la riforma del 2001 è rimasta incompiuta non per una volontà espressa dalla popolazione (spesso e volentieri la popolazione anticipa le decisioni politiche), ma, di fatto, il percorso non si è concluso per una volontà politica. Questo non significa che, se gli organi politico-amministrativi sono in ritardo, le esigenze o comunque i bisogni della popolazione non debbano essere soddisfatti, soprattutto in un percorso di democrazia, dal momento che siamo qui eletti per volontà popolare. Parliamo di un percorso in cui nessuno toglie nulla a nessuno e dove si parte con una bozza che parla di costi standard, di efficienza e di efficacia.
  Mi stupisco un po’ di assistere a questa sorta di «paura». Parliamo di spesa storica come base di partenza; non parliamo dell'idea di togliere risorse a qualcuno, non parliamo – come sento dire spesso – dell'idea di costruire cittadini di serie A e Pag. 7cittadini di serie B. Nessuno vuole dividere l'Italia, nessuno vuole prevaricare gli altri. Semplicemente, si tratta di offrire una possibilità a chi ritiene di cogliere una sfida di efficienza e di efficacia nell'azione amministrativa.
  Personalmente credo che se la popolazione di una regione, per il tramite del proprio Consiglio regionale, del proprio presidente, dei propri soggetti rappresentativi istituzionali, raggiunge un'intesa su una materia e sulla modalità di attivazione di quella specifica materia, la possibilità di emendare o meno un accordo raggiunto debba andare anche a scapito di un ragionamento e di una valutazione fatta dagli organi regionali competenti; quindi sì, una determinata materia sono in grado di portarla avanti, di renderla più efficiente, oppure no. Forse dovremmo imparare a rispettare la volontà che proviene dal territorio.

  PRESIDENTE. Pregherei davvero i colleghi di formulare domande sintetiche, in maniera tale che il professore abbia la possibilità di rispondere senza difficoltà.

  FRANCO DAL MAS. Anch'io mi associo a coloro che hanno ringraziato il professor Celotto, l'amico Celotto.
  Sostanzialmente, il suo intervento parla di ambito e procedimento, di dubbi sull'ambito di applicazione di questo «riscoperto» articolo 116, terzo comma. È una cosa messa lì allora, nessuno sapeva della sua esistenza (mi sia consentita l'espressione ardita). Forme particolari di autonomia sono concesse. Anche interpretando il primo comma e quello dopo – prima si parla di autonomia speciale e poi si parla di autonomie ordinarie – diventava difficile intendere cosa esattamente volesse significare il legislatore.
  La cosa è evidente al punto tale che, se non ricordo male, tutto il dibattito e tutta la riforma sul Titolo V partiva dal presupposto dell'efficientamento del sistema, di individuazione dei costi standard. Mi pare che da questo punto di vista siamo ancora all'anno zero, tant'è che i costi standard – lo diceva la collega prima – rappresentano un costo storico. Oggi per definire i costi standard partiamo dai costi storici.
  Io vengo da una regione a Statuto speciale che è fuori dal sistema sanitario regionale. Si paga la sanità a fronte di qualche decimo in più (poi ulteriormente modificato). Sostanzialmente, penso di averlo già detto, ma mi ripeto, se oggi dovessi fare due conti, avrei qualche dubbio sulla validità di quell'operazione, ma non perché il nostro sistema non sia efficiente. Probabilmente, se io parlo solo di farmaci oncologici sono in difficoltà, perché non ho le risorse. Mi conviene stare dentro il Fondo sanitario nazionale, dove ci sono più soldi. Lo dico molto volgarmente, mi sia consentita questa battuta.
  Ritornando al discorso di prima e accogliendo l'invito del presidente alla sintesi, il professore dice che questo articolo 116 non vuole dire «tutto a tutti». Non è che tutte le materie dell'articolo 117, cioè della legislazione concorrente, siano di per sé trasferibili a livello locale, perché questo muterebbe il quadro dei rapporti Stato-regioni. A questo punto, mi pongo una domanda: la differenza tra autonomie ordinarie e autonomie speciali verrebbe cancellata se applicassimo questo principio tout court, alla lettera, per tutti? Già questo pone un problema di armonizzazione rispetto alle autonomie speciali, che sono aree di confine o isole. Parliamo dei confini di un tempo. Oggi sappiamo che non è più così, però se la vediamo sotto il profilo della concorrenza, della tassazione, voi della Lega sapete benissimo che il problema esiste, dove c'è la flat tax e dove non c'è, quindi la questione diventa complicata anche per noi. Non «tutto a tutti», quindi, ma soltanto qualcosa, evidentemente. Diversamente non si spiegherebbe questa riforma del Titolo V, dal momento che, fino a prova contraria, il nostro non è uno Stato federale.
  Vi è, poi, l'aspetto del procedimento. Compare la questione delle intese e delle confessioni religiose (articolo 8 della Costituzione). Benissimo. Non è che scopriremo di avere bisogno di una legge costituzionale per definire queste fonti?

Pag. 8

  DIEGO ZARDINI. Ringrazio il professore per la dotta esposizione.
  Anche io, prima di porre una domanda, vorrei fare una riflessione di contorno. Non so se si senta, ma sono veneto anch'io. Essendo veronese, diciamo che sono quasi lombardo.
  Lo dissi anche al presidente Zaia, sia in audizione che in altre occasioni, anche sulla stampa. Se qualcuno si è un po’ spaventato rispetto a questo processo verso un'autonomia differenziata è anche perché durante la fase referendaria, soprattutto in Veneto e in Lombardia, ci fu una propaganda elettorale di un certo tipo, che ha evidentemente evocato i nove decimi del trattenimento delle risorse e anche una sorta di autonomia speciale simile a quella del Trentino Alto Adige, che aveva sicuramente spaventato chi non era veneto e chi non era lombardo. Secondo me, quello fu – e rimane – un grave errore di tattica da un punto di vista politico.
  Anche io, pur appartenendo a una forza politica differente dalla collega senatrice, ho partecipato al referendum e ho votato «sì», tanto più che il Titolo V fu modificato nel 2001 dal centrosinistra, dai partiti che hanno fondato il mio attuale partito. Addirittura, non tutti si dimenticarono di quella riforma: i capigruppo del centrosinistra, nel 2002, in Veneto fecero una proposta di iniziativa legislativa proprio per attuare la riforma del Titolo V, articolo 116, terzo comma, soltanto che in quel periodo chi governava il Veneto aveva altre cose in testa (dalla secessione alla devolution) che hanno fatto perdere vent'anni ai veneti e a chi, invece, tra i vari cittadini italiani, pretendeva o chiedeva una forma maggiore di autonomia.
  Penso anche al tema relativo all'ambito di applicazione e ringrazio il professore per questo. Dissi – magari in forma sbagliata, e fui ripreso allora, in sede di audizione, dal Presidente Fontana – che poteva sembrare arrogante, in una fase così prematura e precoce di applicazione di questa forma di autonomia differenziata, chiedere proprio tutte e ventitré le materie. Parlo anche di opportunità politica e non solo, quindi, di questione giuridica, così dotta come ci è stata presentata stamattina: partire con ventitré materie può sembrare, almeno al Parlamento, alle altre regioni, una forma di arroganza, perché non è detto che le regioni siano così efficienti su tutto.
  Il Veneto, evidentemente, ha dalla sua delle performance magari migliori rispetto a molte altre regioni – e io ne vado orgoglioso in quanto veneto – però, da questo punto di vista, oltre ai motivi di carattere giuridico e costituzionale già presentati, penso ci sia anche un elemento di opportunità politica. Dall'altra parte mi interessa capire – magari potrebbe lasciarci una relazione o potrebbe produrre alcuni documenti di carattere giuridico-costituzionale – cosa accade sul tema del procedimento.
  Dal mio punto di vista, l'emendabilità in Parlamento è necessaria se vogliamo, come veneti e come rappresentanti di quel territorio, arrivare alla conclusione di questo processo. L'ho detto al Presidente Zaia, lo ripeto qui e lo ripeterò ovunque.
  Se noi pretendiamo – perché una parte dei cittadini italiani che risiedono in Veneto ha votato «sì» al referendum e io fra quelli – che tutti gli altri si adeguino al tipo di autonomia differenziata che noi proponiamo come regione Veneto, penso che non si arriverà ad avere la maggioranza necessaria in Parlamento. Se noi vogliamo avere quella maggioranza in Parlamento, dobbiamo assolutamente arrivare a un percorso condiviso con tutto il Paese, con tutti gli organismi deputati. Questa è la domanda: se può spiegare più chiaramente quali sono questi elementi.

  ERICA RIVOLTA. Mi sembra che il discorso sia che ogni regione può scegliere il proprio passo, il numero delle materie. La Lombardia e il Veneto ritengono di avere un'efficienza e una capacità di proporre l'autonomia su tutte le ventitré materie. Siamo convinti che questo sia un processo virtuoso e che giustamente debbano essere rispettati i ritmi e i tempi di altre regioni, che possono scegliere, invece, delle materie sulle quali si sentono pronti per l'autonomia e per una gestione più efficiente e più performante.

Pag. 9

  DANIELE MANCA. Ringrazio il professore.
  Avendo seguito da sindaco il percorso attuativo in Emilia-Romagna, molto diverso rispetto a quello veneto e a quello lombardo, proprio in relazione alla sua corretta, a mio avviso, e anche importante e lucida riflessione espressa in modo sintetico ed efficace, le chiedo se non ritenga che manchi proprio al Parlamento il tema dell'emendabilità o della non emendabilità, proprio perché le regioni possono chiedere, ma poi il Governo deve verificare, a mio avviso, quali sono le caratteristiche di queste regioni e se quelle regioni hanno solidità e livelli di efficienza tali nella gestione dei servizi da poter fare meglio nei processi di autonomia rafforzata che si vanno ad insediare. Perché è evidente che le regioni sono nate perché differenziano l'articolazione dello Stato; sono già differenti le articolazioni dello Stato all'interno delle singole regioni, basta guardare la quantità, la qualità e la differenza del potere legislativo che si è sviluppato dal 1970 ad oggi nelle diverse regioni.
  Ritengo evidente che, di fronte al quadro che ci è stato rappresentato, l'emendabilità sia un diritto parlamentare. Tuttavia, penso che manchino, perfino al Parlamento, gli ingredienti per poter valutare i requisiti, cioè se una regione può o non può disporre di quell'autonomia.
  Siamo in assenza dei costi standard, dei LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni), di tutto. Noi dobbiamo in qualche modo anche rassicurare inevitabilmente il resto del Paese – e lo dico dall'Emilia-Romagna, essendo d'accordo sui processi autonomistici che sono stati avanzati – che lo Stato opera con risorse e iniziative finalizzate a ridurre le differenze, perché altrimenti non siamo più all'interno di un interesse generale dello Stato, in una Repubblica che peraltro non è federale.
  La domanda – e concludo – è la seguente: non ritiene che manchino anche gli ingredienti, gli indirizzi fondamentali per poter decidere se una regione ha o non ha titolo per chiedere quella materia? La moda che sta dilagando è che adesso tutti chiedono tutto o molto. Io sono terrorizzato anche per le richieste che ancora non hanno avuto un iter così avanzato come Veneto, Lombardia ed Emilia. Non c'è alcun elemento che consenta al Parlamento di sapere se ci siano o meno i requisiti per l'autonomia. Grazie.

  PRESIDENTE. Mi permetta una breve osservazione. Lei, professore, ha parlato di ambito e di procedimento. Credo che l'ambito influenzi un po’ le considerazioni sul procedimento. Se l'articolo 116, terzo comma, consente una devoluzione di competenze non solo amministrative, ma anche legislative, e se esaminiamo i due atti di indirizzo che sono giunti dalle due regioni che hanno avviato il procedimento per prime, cioè Veneto e Lombardia, vediamo che si va a un superamento vero e proprio della ripartizione delle competenze attuali, a una sostanziale devoluzione totale della funzione di alcuni Ministeri, penso ad esempio al Ministero dei trasporti, per cui gli uffici periferici, ma anche quelli centrali, in gran parte non avrebbero più ragione d'essere, per lo meno per quanto riguarda le richieste di quelle due regioni.
  Credo ci sia una differenza fondamentale fra questa procedura e quella che riguarda le intese come le confessioni religiose, perché con questa legge il Parlamento si toglie permanentemente – sul «permanentemente», i dieci anni oppure no, ci sarebbe da discutere, ma lasciamo questa parte – si sottrae, si auto-sottrae competenza legislativa per quanto riguarda una regione. Permanentemente o per un periodo decennale. Comunque, c'è una vera e propria delimitazione della sovranità parlamentare. Questo chiaramente crea un cambiamento strutturale dell'assetto dei poteri come definito dalla Costituzione.
  Io vedo due problemi. Il primo è la conoscibilità. Ad oggi il Parlamento non è in grado di conoscere lo stato dell'arte, perché giustamente il Governo dice che non si possono dare dei testi su cui sta lavorando, perché non c'è l'intesa, quindi girano migliaia di testi. Dall'altra parte, non conoscendo nulla, il Parlamento è anche nell'impossibilità di esprimere giudizi.
  Credo – questa è un po’ l'idea che mi sono fatto parlando con i colleghi – che la Pag. 10maggior parte dei colleghi convenga sul fatto che ci sia la necessità che il Parlamento, rispetto a una permanente limitazione delle proprie funzioni, abbia la possibilità di dire la sua.
  Il problema, professore, è come organizziamo questo procedimento speciale atipico, visto che è la prima volta che dobbiamo affrontarlo. Mi vengono in mente due possibilità, la prima delle quali è che il Parlamento dica la sua ex ante, si stabilisce cioè che esprima un atto di indirizzo: il Parlamento conosce prima la bozza di intesa, si esprime sulla bozza di intesa e quei pareri sono in qualche modo considerati di fatto vincolanti per il Governo. A quel punto il Governo conclude le intese e il Parlamento le ratifica, in quanto rappresentano la volontà già espressa dal Parlamento.
  Ma se l'espressione della volontà parlamentare non può esserci ex ante, deve avvenire ex post, cioè nel momento in cui l'intesa viene raggiunta tra i due soggetti che dialogano tra di loro: il Parlamento entra in gioco in una fase successiva e allora si esprime, anche perché il Governo sta disponendo non solo delle proprie competenze amministrative, ma della funzione legislativa del Parlamento.
  Non è pensabile che il Governo della Repubblica possa autonomamente delimitare le competenze parlamentari senza che il Parlamento possa esprimersi su questo. Grazie.
  Do la parola al nostro ospite per la replica.

  ALFONSO CELOTTO, Professore di Diritto costituzionale presso l'Università degli Studi «Roma Tre». Vi ringrazio davvero per gli interventi, che mi consentono di precisare alcuni punti nodali. Inizierò con una considerazione generale.
  Secondo me, sono emersi tre punti. Un punto, che non ho affrontato, è quello dell'articolo 119 della Costituzione, giustamente, sui costi storici, i costi standard, i fabbisogni. Non avendo mai attuato l'articolo 119, è rimasto ovviamente zoppo tutto il sistema del «quasi federalismo» anche fiscale. Ecco che il problema emerge quando si devono fare i trasferimenti, perché, giustamente, chiedere i nove decimi è impensabile oggi in questo quadro. Però, giustamente, è anche impensabile basarsi sulla spesa storica. L'articolo 119 è rimasto un punto da risolvere. A prescindere
  In un'ottica più ampia, c'è da risolvere la questione del ruolo del Parlamento sul procedimento della legge «di approvazione», perché qui si tratta di capire il Parlamento che cosa fa. Può semplicemente mettere il timbro su un'iniziativa concordata tra la regione e il Governo, quando questa implica una limitazione, con fonte speciale, della tua potestà legislativa?
  Del resto, fra le varie intese che girano, alcune regioni addirittura chiederebbero i decreti legislativi di attuazione, come hanno le regioni speciali, per creare un'ulteriore fonte riservata sulla loro competenza, come è avvenuto – lo sappiamo – soprattutto per il Trentino e l'Alto Adige, che li hanno attuati con grande forza.
  Terzo punto d'insieme. Ci troviamo di fronte al problema dell'assetto delle autonomie più in generale, perché, secondo me – è facile dirlo da professore – si tratterebbe di capire finalmente qual è l'assetto delle autonomie che vogliamo, cioè cogliere l'occasione per dare un segno di indirizzo politico e rimettere a posto il Titolo V, capire cosa fare delle province e cosa fare del numero dei comuni, perché mi sembra che i tempi siano maturi per abolire le province, abolire le regioni, fare le macro-regioni, prendere una decisione di insieme, anche perché essendo meridionale ho studiato la questione meridionale ed è un tema rimasto assolutamente irrisolto, che andrebbe risolto anche in chiave di autonomia.
  In questo quadro vengo alle singole domande. Onorevole Abate, ho apprezzato il termine che lei ha usato. Lei non mi chiede qual è il procedimento più legittimo, ma il più giusto, il più opportuno. Giustamente, in questo quadro, il Parlamento, a mio avviso, per opportunità, non per legittimità, non può non interloquire.
  L'onorevole Fregolent mi ricorda come nasce l'istanza autonomistica, che giustamente è un'istanza politica. Avendo girato i territori, vedo le differenze, conosco le differenze Pag. 11 e capisco l'istanza giustamente supportata da un ampio numero di voti e dall'idea del referendum per rinforzare un'istanza politica e dire che qui abbiamo un problema politico che vogliamo affrontare. Però diventa un problema innanzitutto politico e poi giuridico di come regolamentare l'autonomia. Sono totalmente d'accordo sul fatto che l'Italia è differenziata e ha bisogno di diverse velocità, ma secondo me serve un quadro d'insieme.
  Il senatore Dal Mas, oltre a riprendere l'articolo 119, come abbiamo già detto, mi chiede che cosa deve fare il Parlamento. Mi ricollego anche a quello che diceva il presidente. Quando deve esprimersi il Parlamento? Il Parlamento sicuramente deve avere un'interlocuzione forte. Ad esempio, un'idea potrebbe essere quella di fare una legge quadro sull'articolo 116, terzo comma, cioè definire i paletti ex ante una volta per tutte. Il Parlamento fa una legge quadro e poi si capisce come si fa anche il procedimento e tutto il resto. In questo modo si dà un'indicazione. Una indicazione politica.
  Vedo che in questo momento, in questo quadro, sull'articolo 116, terzo comma, manca l'indirizzo politico, cioè si sta procedendo in maniera un po’ disordinata. Sono partite tre regioni. Ho lavorato, come molti di voi sapranno, in ambito sanitario, ero al Ministero della sanità fino a qualche mese fa, e quindi ho avuto modo di vedere le condizioni della sanità, che è la più grande competenza regionale. La sanità ha velocità differenti e bisogna prenderne atto, anche per ripianare le differenze. Però non si può, su una materia così delicata, andare a caso: partono le tre regioni più virtuose – parlo di sanità – e poi le altre le inseguono confusamente. Bisogna dare un indirizzo politico e forse la legge quadro potrebbe rappresentare l'indirizzo politico per capire come si attua l'articolo 116, terzo comma, non volendo fare un discorso più generale su tutte le autonomie.
  Ovviamente, onorevole Zardini, i nove decimi, ma anche le ventitré materie, a mio avviso, sono una provocazione politica, perché nella scorsa legislatura il lodo Bressa aveva trovato una soluzione: diamo cinque punti e partiamo. Chiederne ventitré – l'ho letto io con gli occhiali da professore – è un'istanza politica per dire che si vuole di più, che si vuole tutto.
  Non so se si può dare tutto a tutti, perché altrimenti anche in quel caso si perderebbe l'unitarietà. A quel punto sul procedimento l'emendabilità, in questo quadro, diventa necessaria. Può non essere necessaria se fa un passaggio ex ante, potrebbe non essere necessaria se avessimo una legge quadro che ci dice come si fa, ma in questa fase in cui arrivano le intese non può il Parlamento prenderle così, soprattutto perché ridisegnano il quadro della Repubblica.
  Sicuramente, come dice l'onorevole Rivolta, le regioni possono scegliere, perché è proprio ciò che è scritto nell'articolo 116: possono chiedere. Tuttavia, dovrebbero chiedere quello su cui loro hanno più bisogno di autonomia, perché quel territorio è più vocato su quello. Così era l'idea dell'articolo 116. Chiedere tutto diventa un po’ sorprendente, perché giustamente un territorio può essere più bravo nella sanità e quindi nella sanità può aver bisogno di più autonomia. È giustissimo.
  Il senatore Manca mi fa tornare in mente, invece, i princìpi fondamentali. L'articolo 116 dobbiamo leggerlo alla luce dell'articolo 5 («La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali») e alla luce dell'articolo 3, secondo comma («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli»). Bisogna dare un'attuazione per rimuovere gli ostacoli e non per aumentarli, salvo che non si scelga una diversa forma di Stato, ma bisognerebbe prima scegliere una diversa forma di Stato, che potrebbe anche essere opportuno per certi versi, ma in questo quadro, l'articolo 3 e l'articolo 5 della Costituzione impediscono di attuare una differenziazione.
  Concludo con una riflessione su quanto diceva poco fa il presidente Gariglio: in un quadro del genere, mancando l'indirizzo politico – da quanto vedo questo procedimento sull'articolo 116 appare un po’ disordinato –, il Parlamento deve poter Pag. 12 dire la sua. A mio avviso, forse, oggi, la legge quadro sarebbe la cosa più opportuna.
  Mi fermerei qui.

  PRESIDENTE. Grazie, professore, per la disponibilità e per la qualità del suo intervento.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.45.