XVIII Legislatura

Commissioni Riunite (XI e XIII)

Resoconto stenografico



Seduta n. 3 di Martedì 7 maggio 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Cenni Susanna , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SUL FENOMENO DEL COSIDDETTO «CAPORALATO» IN AGRICOLTURA

Audizione di rappresentanti di Milan Center for Food Law and Policy; Osservatorio Placido Rizzotto; Terra! Onlus; Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie; Oxfam Italia; GOEL-Gruppo Cooperativo; SOS Rosarno e Associazione No CAP.
Cenni Susanna , Presidente ... 3 
Venegoni Giovanni , senior researcher del Milan Center for Food Law and Policy ... 3 
Cenni Susanna , Presidente ... 5 
Bilongo Jean René , responsabile dell'Osservatorio Placido Rizzotto ... 5 
Cenni Susanna , Presidente ... 7 
Ciconte Fabio , direttore di Terra! Onlus ... 7 
Cenni Susanna , Presidente ... 9 
Pati Davide , membro della Presidenza nazionale di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie ... 9 
Cenni Susanna , Presidente ... 11 
Ceccarelli Giorgia , agricolture and food security policy advisor di Oxfam Italia ... 11 
Cenni Susanna , Presidente ... 13 
Bantel Gerhard , vicepresidente di GOEL-Gruppo Cooperativo ... 13 
Cenni Susanna , Presidente ... 15 
Pugliese Giuseppe , socio fondatore e componente del Consiglio Direttivo SOS Rosarno ... 15 
Gallinella Filippo , Presidente ... 18 
Consoli Angelo Raffaele , responsabile dell'ufficio esteri dell'Associazione No CAP ... 18 
Gallinella Filippo , Presidente ... 19 
Consoli Angelo Raffaele , responsabile dell'ufficio esteri dell'Associazione No CAP ... 19 
Gallinella Filippo , Presidente ... 20 
Liuni Marzio (LEGA)  ... 20 
Tripiedi Davide (M5S)  ... 21 
Viscomi Antonio (PD)  ... 21 
Cenni Susanna (PD)  ... 22 
Parentela Paolo (M5S)  ... 23 
Incerti Antonella (PD)  ... 23 
Gallinella Filippo , Presidente ... 23 
Bilongo Jean René , responsabile dell'Osservatorio Placido Rizzotto ... 23 
Gallinella Filippo , Presidente ... 24 
Bilongo Jean René , responsabile dell'Osservatorio Placido Rizzotto ... 24 
Gallinella Filippo , Presidente ... 24 

Allegato 1: Documentazione depositata dal Milan Center for Food Law and Policy ... 26 

Allegato 2: Documentazione depositata da GOEL Bio ... 31 

Allegato 3: Documentazione depositata dall'Associazione NO CAP ... 35

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Partito Democratico: PD;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Fratelli d'Italia: FdI;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Civica Popolare-AP-PSI-Area Civica: Misto-CP-A-PS-A;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-+Europa-Centro Democratico: Misto-+E-CD;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE;
Misto-Sogno Italia - 10 Volte Meglio: Misto-SI-10VM.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE
DELLA XIII COMMISSIONE
SUSANNA CENNI

  La seduta comincia alle 12.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti di Milan Center for Food Law and Policy; Osservatorio Placido Rizzotto; Terra! Onlus; Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie; Oxfam Italia; GOEL-Gruppo Cooperativo; SOS Rosarno e Associazione No CAP.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti di Milan Center for Food Law and Policy; Osservatorio Placido Rizzotto; Terra! Onlus; Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie; Oxfam Italia; GOEL-Gruppo Cooperativo; SOS Rosarno e Associazione No CAP, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul fenomeno del cosiddetto caporalato in agricoltura.
  Ringrazio tutti i nostri ospiti per aver accolto l'invito delle due Commissioni.
  Prima di cedere la parola agli auditi, avverto che avremo complessivamente a disposizione delle due Commissioni circa due ore. Propongo, quindi, che gli interventi dei nostri ospiti abbiano una durata di dieci minuti ciascuno. Ricordo che a essi faranno seguito le domande e le osservazioni dei deputati, cui i nostri ospiti potranno replicare. Prego, quindi, tutti i colleghi deputati che intendano intervenire di comunicare il loro nome alla Presidenza prima che abbia inizio il dibattito.
  Do la parola al dottor Giovanni Venegoni del Milan Center for Food Law and Policy.

  GIOVANNI VENEGONI, senior researcher del Milan Center for Food Law and Policy. Buongiorno. Ringrazio per l'invito fatto al Milan Center for Food Law and Policy a partecipare a quest'audizione.
  Leggerò un discorso tratto dalle conclusioni finali del progetto che abbiamo presentato tra il 2017 e il 2018, denominato Best Practices against Work Exploitation in Agriculture (Be Aware), che contiene alcune riflessioni sulle buone pratiche contro lo sfruttamento del lavoro in agricoltura in Europa.
  Dallo studio della letteratura, dalle interviste svolte, dagli incontri e dalle analisi del campione di buone pratiche raccolte durante il progetto BeAware sono emerse alcune considerazioni. Prima di tutto, il lavoro informale e sommerso e gravemente sfruttato in agricoltura presenta delle criticità che ne rendono difficile il contrasto su tutto il territorio europeo. Il fenomeno ha, infatti, una forte componente di eterogeneità: si manifesta in diversi contesti lavorativi, dalle piccole alle grandi imprese, e coinvolge lavoratori dai differenti profili e backgrounds (donne, uomini, ragazzi, cittadini italiani, europei e migranti).
  A tale eterogeneità si aggiunge la molteplicità delle forme dei reati: dall'intermediazione illecita al lavoro nero, dagli abusi sui contratti di «distacco» al mancato rispetto delle norme di sicurezza e igiene.
  La forte stagionalità del lavoro agricolo, inoltre, ha storicamente giustificato, dal punto di vista etico, morale e sociale, l'utilizzo Pag. 4 di forme informali di accordo tra datore di lavoro e impiegati, nonché di condizioni di lavoro estreme, soprattutto se in imprese di piccole e medie dimensioni. Alcuni imprenditori preferiscono non regolarizzare le assunzioni per rimanere competitivi su un mercato nel quale la maggior parte delle aziende agricole versa in una condizione di destrutturazione e isolamento. In questi contesti territoriali, in cui l'apparato istituzionale è debole e tardivo o incapace nel porre rimedio alle situazioni di illegalità, le irregolarità si consolidano.
  Per questo la scelta del progetto di Be Aware è di seguire l'approccio del continuum of exploitation, scelta che affonda le proprie radici proprio nella valutazione dell'indefinitezza delle forme e del contesto in cui lo sfruttamento del lavoro si realizza.
  Manca, infatti, una definizione comune europea di sfruttamento del lavoro. Manca, altresì, un coordinamento degli Stati europei per contrastare il problema, sebbene non manchino i progetti avviati per il futuro. Ancora più in profondità, manca un approccio giuridico condiviso che permetta di costruire norme in grado di tutelare gli interessi dei lavoratori e dei coltivatori scegliendo con attenzione le vie della repressione e della promozione.
  La carenza di una comune normativa ha due conseguenze macroscopiche che hanno un grande impatto sulla filiera. La mancanza di una definizione condivisa impedisce un rilevamento chiaro e definitivo dei dati sullo sfruttamento, elemento che non poco complica il lavoro di ricerca e valutazione delle pratiche. A sua volta, la carenza di informazioni che ne deriva impedisce una chiara comprensione a livello politico, ma anche a livello culturale e sociale, della dimensione del problema, inficiando la capacità d'azione di ispettorati, Forze dell'ordine e agenzie preposte.
  Una definizione chiara e una capacità di rilevamento efficiente sono alla base di un percorso politico e giuridico in grado di promuovere il cambiamento e la regolarizzazione di diffuse condizioni di irregolarità e illegalità. Prendendo ad esempio il concetto di undeclared work, da quanto si desume dal Rapporto 2017 del progetto European Platform tackling undeclared work, solo 11 dei 28 Paesi dell'Unione europea possiedono una chiara definizione nei codici civile e penale.
  Una volta individuati alcuni degli sforzi congiunti degli stakeholder della filiera agroalimentare europea nel contrastare i fenomeni di lavoro informale sommerso e gravemente sfruttato, è possibile individuare e far emergere gli ambiti di successo di tale attività. In questo senso, le buone pratiche emerse dalla ricerca Be Aware forniscono alcuni spunti di riflessione su quello che Stati, imprese, sindacati e società civile possono fare per promuovere il cambiamento. A fronte delle inevitabili differenze esistenti tra i casi individuati, ognuno dei casi ha mostrato come l'azione decisa e strutturata contro lo sfruttamento del lavoro e per la regolarizzazione delle relazioni lavorative possa avere buoni, se non ottimi, risultati.
  Le buone pratiche emerse dalla ricerca del Milan Center forniscono alcuni spunti di riflessione, a fronte delle differenze esistenti tra i casi individuati, ognuno dei quali ha mostrato come un'azione decisa e strutturata possa generare dei buoni risultati. Per le aziende produttrici, ad esempio, le buone pratiche dimostrano che chi ha scelto strategie innovative di sviluppo è maggiormente in grado di garantire impieghi dignitosi, sostenibilità e redditività economica. È, quindi, necessario puntare alla diffusione dell'innovazione tecnologica per favorire la riduzione della stagionalità lavorativa e, attraverso tecniche e tecnologie agricole, la diversificazione delle colture, delle serre, delle produzioni tecnologicamente avanzate, come l'idroponica, l'aponica e così via, ma anche un aumento di qualità e professionalità del lavoro dei campi attraverso la formazione dei lavoratori e altre iniziative a loro tutela e promozione.
  Le aziende distributrici, attraverso attività di verifica e sensibilizzazione sulla supply chain, possono influenzare profondamente il settore. Per promuovere buoni risultati a livello sistemico, però, è necessario diffondere codici di condotta, protocolli produttivi e di controllo che permettano di selezionare prodotti eticamente puliti Pag. 5 e di alta qualità. Allo stesso tempo, è necessario costruire campagne di sensibilizzazione dei consumatori collegate alle attività lungo la filiera.
  Per i Governi, a livello nazionale, i risultati migliori sono stati raggiunti laddove lo Stato ha varato politiche e normative in contrasto allo sfruttamento del lavoro e di promozione della redditività degli investimenti. Le indicazioni emerse dalla ricerca evidenziano, infatti, che a livello continentale è necessario uno sforzo comune di uniformazione delle politiche di contrasto al caporalato, che preveda, tra l'altro, lo sviluppo di una condivisa definizione di sfruttamento del lavoro.
  A livello locale, i Paesi devono promuovere un'azione coordinata e partecipata sostenuta dal Governo, ma che coinvolga tutti gli stakeholder.
  Quanto ai sindacati, si è notato che i migliori risultati sono stati ottenuti laddove le campagne svolte sul territorio hanno goduto del sostegno e dell'appoggio degli stakeholder locali. A partire dalla valutazione di alcune delle buone pratiche, si può consigliare che le rappresentanze sindacali mantengano e implementino una rete transnazionale di accordi multilaterali tra Paesi di partenza e arrivo attraverso cui promuovere campagne di informazione dei lavoratori migranti sia in Europa sia all'estero; che vengano promosse azioni coordinate intorno alle istituzioni di sistemi di centri di collocamento privati e pubblici che operino secondo regole condivise.
  Abbiamo poi notato che l'impegno della società civile in alcuni casi è il primo motore delle buone pratiche. Dalle pratiche analizzate emergono, infatti, come i migliori risultati siano stati raggiunti laddove associazioni, ONG e società civile abbiano saputo valorizzare pienamente il rapporto con il territorio, da sempre un loro punto di forza. Le indicazioni emerse dalla ricerca evidenziano come sia fondamentale che la società civile stringa relazioni con tutti gli stakeholder della filiera e continui ad affrontare il problema contrastando anche la violazione di altri diritti umani regolarmente violati nei luoghi dello sfruttamento.
  In conclusione, è necessario un lavoro coordinato e complementare da parte di tutti gli attori del lavoro agricolo (Governi, sindacati, imprese e consumatori) per poter avere una politica sostenibile che rispetti tutte le persone e le comunità che in esse operano. Le capacità di infiltrazione del crimine e gli spazi aperti alle malversazioni degli operatori del settore possono essere efficacemente contrastati solo da un'azione congiunta e coordinata di tutti gli attori della filiera. Senza una governance allargata le possibilità che una buona pratica consegua risultati duraturi si riducono, così come si mette a rischio la sostenibilità nel tempo.
  Come evidenziato nella ricerca, le pratiche nel campo necessitano del sostegno della legge tanto del mercato quanto dei suoi operatori. Gli stakeholder della filiera agricola devono strutturare iniziative che raggiungano il lavoratore in ogni aspetto della sua vita lavorativa per garantire il pieno godimento dei diritti. Governance allargata significa strutturazione di una rete che in diversi modi contrasti lo sfruttamento del lavoro in agricoltura, che renda difficile l'attività irregolare grazie a una fitta rete di controlli, informazioni e verifiche, che garantisca al lavoratore una maggiore protezione contro la possibile caduta nel sommerso e nell'illegale, che promuova la redditività degli investimenti in agricoltura in termini di innovazione e ammodernamento.
  Per questo appare indispensabile sostenere un approccio propositivo, piuttosto che punitivo, soprattutto in termini legislativi. Offrire sostegno a iniziative positive significa promuovere modelli imprenditoriali eticamente corretti, progetti di partenariato internazionali, programmi di accoglienza e integrazione. Un approccio propositivo serve a stringere la rete, riducendo il rischio di sfruttamento del lavoro e promuovendo lavori e impieghi irregolari.

  PRESIDENTE. Do ora la parola al dottor Jean René Bilongo, responsabile dell'Osservatorio Placido Rizzotto.

  JEAN RENÉ BILONGO, responsabile dell'Osservatorio Placido Rizzotto. L'Osservatorio Pag. 6 Placido Rizzotto nella mia persona ringrazia per quest'invito a presenziare a quest'audizione sul tema dello sfruttamento del caporalato in agricoltura.
  L'Osservatorio Placido Rizzotto, come sapete, si è misurato molto con questo tema nel corso degli ultimi dieci anni. Noi pubblichiamo ogni due anni il rapporto Agromafie e caporalato. Credo sia uno strumento abbastanza conosciuto, molto ambito e abbastanza analitico della realtà dello sfruttamento e del caporalato in agricoltura. Siamo giunti alla quarta edizione. La quinta è prossima.
  Il quadro del caporalato e dello sfruttamento è abbastanza inquietante in Italia, tale da determinare livelli di allarme. Il nostro Osservatorio quantifica in oltre 400.000 i lavoratori sotto le forche caudine dello sfruttamento del caporalato. Noi li chiamiamo gli invisibili. Eravamo partiti con poco meno di 400.000, ma ora il numero è in crescita. C'è un'inflazione del caporalato e dello sfruttamento in ambito agricolo.
  Il percorso delle organizzazioni sindacali è poi stato lungo e impegnativo insieme alla società civile e ad altre organizzazioni della società civile. Abbiamo raggiunto due mete: nel 2011, con l'introduzione dell'articolo 603-bis del codice penale; nel 2016, con la legge n. 199 del 2016 contro lo sfruttamento del lavoro partendo dall'agricoltura.
  Non dobbiamo commettere l'errore di pensare che la legge n. 199 del 2016 riguardi il caporalato in agricoltura. È la legge contro lo sfruttamento del lavoro e il riallineamento retributivo nel settore agricolo.
  Abbiamo raggiunto questa straordinaria meta. Ora, bisogna passare alla fase di implementazione e di declinazione fattiva delle previsioni di quell'impianto normativo. È a questo punto che si pongono delle questioni e delle criticità.
  Noi riteniamo come Osservatorio che la priorità assoluta per contrastare in modo deciso, forte e incisivo il caporalato sia quella di declinare le previsioni della legge n. 199, a partire dalle sezioni territoriali della Rete del lavoro agricolo di qualità.
  Si fa molta fatica. A stento partono le sezioni territoriali della Rete del lavoro agricolo di qualità, che dovrebbero far riferimento all'INPS, presso le commissioni per l'integrazione salariale degli operai agricoli. A oggi, le sezioni fattivamente implementate, attuate, sono circa quattro, quindi ben poche.
  Al contempo, il numero di aziende agricole che si sono iscritte alla Rete è irrisorio. La platea di aziende agricole in Italia è piuttosto imponente e noi siamo a poco meno di 4.000 ragioni sociali agricole iscritte alla Rete del lavoro agricolo di qualità. Penso che un impulso vada dato in questa direzione e vadano catalizzate la necessità, l'urgenza e l'opportunità di iscriversi alla Rete del lavoro agricolo di qualità.
  Sono convinto che le previsioni preventive della legge n. 199 dinanzi ai fenomeni così disdicevoli che si vedono da nord a sud, sulle isole, così come al centro, vadano declinate fattivamente.
  Abbiamo la questione del trasporto dei lavoratori agricoli, che è lì, rimane un'emergenza. I fatti di Foggia ci raccontano che è un tema centrale per contrastare il caporalato. Naturalmente, accanto a questo c'è tutto il tema dell'accoglienza dei lavoratori stagionali nel loro seguire passo dopo passo il ciclo delle colture, e quindi una forma di nomadismo in cerca di occasioni di lavoro, di opportunità nel settore agricolo. Da questo punto di vista, penso che ci sia straordinario bisogno di promuovere condizioni di accoglienza dei centri in cui vivono questi lavoratori.
  Un altro aspetto che vorremmo porre in evidenza è quello della necessità di non cadere nella trappola di pensare che il caporalato, e lo sfruttamento soprattutto, riguardino soltanto la parte extraeuropea della compagine lavorativa. Sono tanti i cittadini autoctoni anch'essi vittime dello sfruttamento e del caporalato.
  Il caporalato si può sconfiggere promuovendo degli approcci di riformulazione della catena del valore. C'è un abisso tra il prodotto in quanto tale, dal momento in cui germoglia, e lo stesso prodotto quando lo si acquista poi nei supermercati, nella distribuzione, dal punto di vista dei consumatori. Pag. 7 Noi dobbiamo fare in modo che questa catena del valore sia equamente distribuita lungo la filiera e questa è una delle questioni essenziali per l'Osservatorio.
  Il tema del caporalato poi si abbina a quello della tracciabilità del prodotto. Naturalmente i lavoratori subiscono l'effetto del dumping che si verifica su di essi. Se i prodotti vengono proposti a prezzi particolarmente concorrenziali, attraenti, allettanti, qualcuno poi lungo la filiera dovrà pagarne il prezzo, e spesso sono i lavoratori. La contrazione dei prezzi si riverbera necessariamente sull'anello più debole della catena, il lavoratore, che in agricoltura si trova in condizioni di estrema debolezza, di estrema vulnerabilità, di isolamento, per cui non ha voce in capitolo. Anche laddove ci sono grandi aggregazioni di lavoratori, queste, in realtà, sono una somma di solitudini individuali, e quindi non sempre i lavoratori hanno la capacità di difendersi dagli abusi, dal calpestio di cui sono vittime.
  Il caporalato si può sconfiggere anche rivedendo l'approccio che l'Italia ha avuto nel corso degli ultimi vent'anni al tema dell'immigrazione. Le vittime del caporalato tra i lavoratori migranti sono tante, anche con esiti di premorienza tra questi lavoratori. Il numero di morti dovrebbe destare preoccupazione, inquietudine e allarme sociale. Noi abbiamo il dovere di contrastare queste derive e questi abusi.
  I prodotti italiani non possono proporsi sulla scena globale avendo il sospetto di essere macchiati dal sangue e dal pianto, dalle lacrime degli invisibili, dei nuovi schiavi. La concorrenza così è falsata. Sono tante le aziende che applicano i contratti e subiscono la concorrenza sleale delle altre aziende che, invece, non li applicano o che nell'osservanza dei contratti fanno cilecca.
  Abbiamo il dovere di misurarci con proposte e interventi fattivi per contrastare il caporalato, perché si può fare.

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Bilongo.
  Cedo adesso la parola al dottor Fabio Ciconte, direttore di Terra! Onlus.

  FABIO CICONTE, direttore di Terra! Onlus. Grazie per quest'invito. Siamo contenti di partecipare a questa audizione perché ritengo che approfondire il tema del caporalato e dello sfruttamento del lavoro – ancor più in sede di Commissioni riunite Lavoro e Agricoltura – sia oggi quanto mai necessario.
  In questi anni, abbiamo lavorato molto su questo fenomeno sia con l'associazione che rappresento, sia attraverso una serie di inchieste giornalistiche pubblicate su Internazionale incontrando tutti gli operatori del settore. Abbiamo incontrato i dirigenti della grande distribuzione organizzata e i caporali nelle campagne della Puglia, della Calabria, della Basilicata, della Sicilia e non solo.
  Abbiamo riscontrato che il fenomeno è molto variegato. Proverò a fornirvi qualche elemento, perché immagino che tutti conosciate bene il fenomeno, ma vi sono una serie di questioni che forse devono essere focalizzate.
  Innanzitutto, rilevo che il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento è in continua evoluzione, non è rigido e fermo in tutta Italia. Presenta delle diversità molto profonde, che dipendono da una serie di fattori, il primo dei quali è costituito dalla cultura imprenditoriale di questo Paese, cioè dalla capacità degli imprenditori, agricoli in questo caso, di utilizzare la forza lavoro come elemento qualificante della propria attività imprenditoriale e non come elemento su cui fare leva per abbassare i prezzi.
  Sottolineo un elemento che va tenuto in considerazione: in questi anni, il lavoro straniero in agricoltura è aumentato enormemente. Se il numero dei lavoratori italiani negli anni Settanta era pari a 100, ad oggi gli italiani arrivano a 32, mentre i lavoratori stranieri salgono a 1.500. Questo dato già ci dà l'indicazione di quanto l'agricoltura oggi si regga sulle braccia dei lavoratori stranieri, che rappresentano una percentuale importante dell'intero comparto, e la rappresentano molto in chiave di manodopera poco specializzata, quindi parliamo di operai agricoli semplici e molto poco di lavoratori specializzati. Pag. 8
  Dicevo, però, che ci sono elementi diversi, ma c'è comunque sicuramente un sistema consolidato.
  Nel 2017 sono state fatte circa 7.200 ispezioni – che, a dire il vero, vanno sempre diminuendo – e sono state riscontrate irregolarità in 5.000 casi, di cui 3.000 sono quelli di lavoratori in nero.
  C'è poi da fare un distinguo importante tra i lavoratori in nero e i lavoratori in grigio. Noi abbiamo individuato quest'ultimo fenomeno in diversi areali, anche di produzione agricola ricca, come la Piana del Sele, che, come sapete, è importante per la produzione di insalata in busta, che è il nuovo trend dell'economia agricola di questo Paese. Non entro nella discussione del valore dell'insalata in busta, ma osservo che in quella zona abbiamo 18.000 lavoratori agricoli, molti dei quali sono in condizioni di lavoro che noi consideriamo grigio. Che cosa intendo per lavoro grigio? Intendo quel lavoro la cui componente salariale è suddivisa in tre macroblocchi: il primo blocco è il contratto di lavoro; il secondo è il pagamento al nero, cash, del lavoratore, e questo avviene per non oltrepassare le giornate date poi dalla disoccupazione agricola; e la disoccupazione agricola. Questi tre elementi compongono il quadro del lavoro grigio.
  Naturalmente, la disoccupazione agricola è un elemento di welfare importante, doveroso e assolutamente necessario in questo Paese, ma se l'imprenditore agricolo lo utilizza poi come elemento di reddito, diventa un illecito. Far lavorare un lavoratore durante il periodo in cui percepisce il sussidio di disoccupazione è un illecito. Questo esempio serve per chiarire che il fenomeno assume sfumature diverse nelle varie situazioni.
  Abbiamo altri casi qui vicino, nell'Agro pontino, dove abbiamo 10.000 lavoratori Sikh, quindi indiani, che lavorano nelle campagne con situazioni ancora di cottimo.
  Vi fornisco un elemento che mi stupisce ogni volta che lo racconto, che è quello della raccolta di ravanelli, pagati a 0,2 centesimi di euro al mazzo da dieci. Dovete immaginare che la raccolta del ravanello viene fatta a mano, che vengono poi creati questi mazzetti da dieci e da quindici pezzi e che il pagamento avviene a mazzetto. Ciò vuol dire che ci deve essere una persona (il caporale, il datore di lavoro o chi per loro) che conta i singoli mazzetti e fa la somma. Abbiamo anche visto che vengono creati dei file Excel con i quali viene effettuata la somma di questi mazzetti. Quella somma dà il valore della giornata di lavoro e quella giornata di lavoro viene poi tradotta in una busta paga. Siamo al feudalesimo del fenomeno!
  Si arriva poi a situazioni ben più complesse, come quella della raccolta agrumicola o del pomodoro.
  Sulla raccolta del pomodoro occorre fare qualche riflessione in più, perché è forse l'unico caso che ci permette di fare una differenziazione tra due comparti che fanno lo stesso prodotto, ma in maniera diversa, cioè il distretto del Nord Italia e quello del Sud Italia, che si dividono una percentuale più o meno omogenea di ettari, pari a circa 15.000 ettari ciascuno. Al Nord, però, la raccolta è al 100 per cento meccanizzata. Senza entrare nel merito del valore di tale modalità di raccolta, che riporto qui come un dato di fatto, osservo che la raccolta meccanizzata del pomodoro riduce, ovviamente, il rischio di sfruttamento perché viene fatta da una macchina e quindi ciò comporta la necessità di una minore manodopera. Nel Sud, invece, la raccolta meccanizzata – che sta aumentando ma non ancora tanto – si attesta intorno all'80-85 per cento del totale (alcuni dicono 70, altri 90 per cento). Il dato che vi fornisco deriva dal fatto che la restante parte di raccolta manuale, il 15 per cento circa, determina la necessità di impiegare ancora 800 lavoratori al giorno nel periodo della raccolta che dura due mesi. Dovendo impiegare 800 lavoratori al giorno, il rischio di sfruttamento è elevatissimo.
  Ciò senza considerare il fatto che la Puglia, così come la Calabria, sconta anche il problema dell'alloggio. La situazione dei ghetti in Puglia, ma anche in Calabria, è drammatica. La nostra associazione sta rilevando che, anche a seguito del decreto sicurezza del Ministro Salvini, negli ultimi Pag. 9mesi rischia di aumentare il numero di persone che vivono nei ghetti, senza altra possibilità di muoversi in altri luoghi. I ghetti rischiano, quindi, di diventare non un luogo di reclutamento della forza lavoro, come sono stati fino a oggi, ma luoghi di abitazione. Questo è un elemento di analisi importante.
  Poi c'è un sistema di filiere produttive che abbiamo analizzato molto. Dicevo prima della cultura imprenditoriale. Abbiamo incontrato diversi operatori agricoli bravi; ne abbiamo incontrati altrettanti che considerano la forza lavoro come forza lavoro da sfruttare. Abbiamo visto situazioni alloggiative anche nelle aziende agricole vicine a situazioni di schiavitù. Parliamo di persone di origine africana, ma anche di rumeni, bulgari, italiani e altri. Ne stiamo accompagnando alcune in percorsi di inserimento lavorativo con grande fatica, ma le stiamo strappando da quella realtà.
  Dentro questa scarsa cultura imprenditoriale di questi areali, c'è anche l'altro elemento rappresentato dalle organizzazioni dei produttori. Le organizzazioni dei produttori sono quelle organizzazioni che, in base alla normativa europea, hanno l'obiettivo di aggregare gli agricoltori e di renderli più competitivi rispetto agli anelli superiori della filiera. Per fare questo ricevono dei fondi europei di programmazione, di promozione e altro. In molti casi, abbiamo riscontrato che queste sono «organizzazioni di carta», cioè organizzazioni di produttori che, invece di fare quel lavoro di accompagnamento e di tenere insieme la parte produttiva, in realtà intascano i soldi europei e basta. Questo è un elemento per noi importante.
  Segnalo, infine, sempre con riferimento al pomodoro, che la parte agricola del processo di lavorazione avviene in Puglia, mentre la parte della trasformazione non avviene in tale regione, fatta eccezione per una grande azienda, che è la Princes. La maggior parte della trasformazione avviene, infatti, in Campania, nel salernitano, perché storicamente il pomodoro veniva prodotto lì e nei luoghi in cui hanno sede le organizzazioni dei produttori. Abbiamo, quindi, due regioni che non si parlano tra loro e in una si svolge la parte della raccolta, mentre nell'altra avviene la trasformazione del prodotto. Questo è un tema a nostro avviso centrale.
  Poi c'è l'elemento molto rilevante della grande distribuzione organizzata che, a nostro avviso, ha un ruolo centrale nella dinamica dello sfruttamento del lavoro in agricoltura. Se vi chiedessi: «siete sicuri quando comprate una passata di pomodoro di non mangiare un prodotto raccolto da un lavoratore sfruttato?», la risposta sarebbe: «no». Tale risposta deriva dal fatto che, come per gli altri prodotti a scaffale, che sono considerati sempre più commodity, cioè prodotti indistinti, senza una propria specificità, il pomodoro, che è uno dei principali prodotti del made in Italy, si trova anche a 0,39 centesimi di euro, che è un prezzo che non copre neanche i costi di produzione.
  Se parlate con un trasformatore, con un produttore agricolo – non dico con un operaio o un bracciante – vi dirà che con quel prezzo non si sta dentro i costi di produzione. Ciò accade perché si tratta di prodotti «civetta» oggetto di promozioni attraverso le quali veniamo trascinati dentro al supermercato. Tornando a casa stasera, se aprite la cassetta della posta troverete il volantino con le promozioni; i 12 miliardi di volantini che vengono distribuiti all'anno sono l'innesco per far entrare i consumatori nel supermercato a comprare quel tipo di prodotto.
  Questo meccanismo sta dentro un sistema di filiera totalmente poco trasparente, per cui non sappiamo quello che stiamo comprando, quello che stiamo consumando. Per noi, quindi, anche la grande distribuzione ha un ruolo centrale nel fenomeno dello sfruttamento del lavoro.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Ciconte. Cedo la parola al dottor Davide Pati, membro della Presidenza nazionale di Libera.

  DAVIDE PATI, membro della Presidenza nazionale di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Grazie, presidente. Riteniamo importante che le Commissioni riunite Lavoro e Agricoltura abbiamo avviato Pag. 10 un'indagine conoscitiva sul fenomeno del caporalato in agricoltura. È un tema che riguarda la dignità e i diritti di tante persone, sia di amiche e amici migranti, sia di italiani ed europei. Ci sono tante zone del nostro Paese in cui quotidianamente questa dignità e questi diritti vengono calpestati.
  Libera è una rete nazionale di associazioni, di scuole, di cooperative, di realtà, di gruppi di giovani impegnati quotidianamente sui temi della prevenzione culturale contro il fenomeno mafioso della corruzione. Sul tema del caporalato la nostra rete associativa fa molto riferimento, naturalmente, a quelle realtà che già fanno parte della rete che sviluppa analisi, ricerche e denunce accurate. Molte di queste realtà sono rappresentate in questo tavolo, così come altre che operano nel nostro Paese. Rimandiamo alle loro ricerche, ai loro studi e ai loro rapporti e alle loro proposte.
  Mi sembra importante qui evidenziare alcuni aspetti. Innanzitutto, mi preme sottolineare l'importanza di mantenere alta l'attenzione sul tema dello sfruttamento del lavoro in agricoltura nel senso più ampio, quindi non soltanto sul tema dell'intermediazione, ma su quello più generale dello sfruttamento del lavoro in agricoltura, che deve rimanere centrale nell'azione del Governo e di questo Parlamento nonché delle amministrazioni, che poi hanno il compito di attuare concretamente le disposizioni normative. Mi riferisco, in particolar modo, alle amministrazioni statali e regionali. Tutti i livelli devono viaggiare alla stessa velocità perché possa davvero invertirsi una rotta che rischia già da qui ai prossimi mesi, alla prossima estate, di aggravare sempre di più la situazione in termini sia di problematiche relative alla salute delle persone, sia di trasporto, sia di insediamento sociale e abitativo dei lavoratori.
  Noi riteniamo che la legge n. 199 del 2016, come tanti soggetti hanno evidenziato da quando è stata introdotta, sia un provvedimento molto importante rispetto al quale non dobbiamo fare passi indietro. Questa legge non può essere in alcun modo indebolita, anzi deve essere attuata, perché è ancora monca in gran parte della sua attuazione.
  Tale intervento normativo ha funzionato sin dai primi giorni, dalle prime settimane, per quanto concerne la parte repressiva; penso soprattutto all'azione condotta dalle autorità giudiziarie competenti, dalle Forze di polizia e dai servizi ispettivi.
  Molto ancora c'è, invece, da fare sulla parte legata alla prevenzione, relativamente alla quale non mi soffermerò sugli aspetti sui quali già è stato detto da chi mi ha preceduto, con riferimento soprattutto all'attuazione della Rete nazionale e territoriale del lavoro agricolo di qualità e al funzionamento effettivo delle sue sezioni territoriali. Mi limito a osservare che queste sezioni hanno cominciato a funzionare solo in alcune parti del nostro Paese e, peraltro, non nella loro completezza. Penso poi alle realtà di Foggia e di Reggio Calabria e all'operatività dei Commissari straordinari i cui incarichi non sono stati più rinnovati.
  Faccio riferimento soprattutto agli strumenti di tutela dei lavoratori, in particolare a quelli relativi alla denuncia dei loro sfruttatori. Come rete nazionale accompagniamo tante persone alla denuncia delle situazioni di illegalità nel nostro Paese perché i lavoratori non devono essere lasciati soli. Ci sono tante organizzazioni – penso, naturalmente, a quelle sindacali – che si costituiscono anche parte civile nei processi per non lasciare soli quei lavoratori che diventano dei veri e propri testimoni. Il tema che si pone è quindi quello della vulnerabilità delle vittime e della necessità di garantire un adeguato sistema di protezione sociale che preveda il loro reinserimento lavorativo.
  Nel lungo e interminabile elenco di tutte le vittime innocenti delle mafie nel nostro Paese, letto ogni 21 marzo nella Giornata nazionale contro le mafie, ci sono anche tanti nomi di vittime del caporalato, che non possono non essere anche quelle vittime dello sfruttamento e della violenza criminale e mafiosa e della corruzione nel nostro Paese.
  Vi è l'esigenza di supportare quei meccanismi virtuosi e quelle sperimentazioni Pag. 11che nei territori sono state avviate. Penso al tanto lavoro fatto anche dalla Chiesa italiana, dalle Caritas, dal sindacato, dalle organizzazioni, alcune qui presenti. Bisogna sostenere e supportare questi percorsi di economia solidale, che guardano a quella filiera come ad una filiera che deve raggiungere obiettivi di giustizia sociale nel nostro Paese.
  È importante, quindi, rafforzare sempre di più i servizi ispettivi, incrementando gli sforzi già profusi, ma soprattutto rafforzare tutti gli strumenti di prevenzione che in larga parte non sono stati ancora attuati. Penso alle attività e agli obiettivi inseriti nel Protocollo sperimentale contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura, sottoscritto nel 2016 e non più rinnovato, che è fondamentale che siano raggiunti al più presto. Penso ai presidi medico-sanitari mobili, alla distribuzione dei viveri, dell'acqua potabile, all'attività di tutela e informazione dei lavoratori, all'importanza dell'animazione culturale nelle comunità in cui le persone sfruttate vivono, alcune in clandestinità, altre alla luce del sole.
  Come rete territoriale di tante realtà il nostro impegno è rivolto a fare in modo che la percezione della pericolosità sociale di questo fenomeno possa essere sempre più alta, perché non riguarda solo alcuni, ma la dignità e la tutela di un'intera comunità.
  Per questo vi ringrazio ancora per l'importanza del lavoro avviato, che auspichiamo possa essere utile anche al Governo, oltre che al Parlamento nel suo insieme, affinché si possano completare le riforme legislative avviate, ma soprattutto si possano introdurre strumenti per l'applicazione di quelle procedure di prevenzione che ancora mancano nel nostro Paese.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Pati.
  Do la parola alla dottoressa Giorgia Ceccarelli, che interviene per Oxfam Italia.

  GIORGIA CECCARELLI, agricolture and food security policy advisor di Oxfam Italia. Grazie, presidente, e grazie a tutti voi, onorevoli, per quest'importantissima opportunità di confronto e anche per darci l'occasione di offrire un contributo, ognuno per le proprie sfere di competenza, su questo tema.
  Come Oxfam, quindi come organizzazione non governativa, lavoriamo da più di sessant'anni al fianco delle comunità rurali più povere, che, soprattutto nei Paesi più fragili, vivono di agricoltura, ma sono al contempo schiacciate da regole di mercato globali che fondamentalmente da decenni acuiscono le disparità, devastano il pianeta e affamano milioni di persone.
  Proprio per combattere questo sistema così iniquo di regole e per provare a cambiarle, da alcuni anni abbiamo moltiplicato i nostri sforzi per affiancare il lavoro sul campo con campagne di sensibilizzazione che, attraverso l'attivazione dei consumatori, spingano in modo innovativo il settore privato del comparto agroindustriale a competere non più su parametri meramente economici, quindi non solo sul fatturato e sui volumi di vendita, ma sui diritti umani, dunque sul rispetto, la promozione e la tutela dei diritti.
  Quello del caporalato – lo hanno spiegato bene gli interventi che mi hanno preceduto – è chiaramente un tema molto vasto, molto complesso, trasversale, che certo non si esaurisce nella disamina a valle dei meccanismi che portano allo sfruttamento dei lavoratori, e quindi nella dinamica produttori/lavoratori. Certamente si inserisce in un modello più ampio, in modelli economici e sociali che sono alla base degli attuali sistemi di produzione e di consumo.
  Caporalato e sfruttamento lavorativo, truffe e ricattabilità sociale non sono altro che il frutto inequivocabile di modelli di business in cui la logica del profitto predomina sui diritti, certamente quelli del lavoro, ma anche, e soprattutto, i diritti umani veri e propri. Lo dimostrano molto bene le innumerevoli indagini della magistratura e gli arresti avvenuti in seguito all'introduzione della legge n. 199 del 2016. Stiamo parlando di un meccanismo in cui il profitto viola i diritti umani ostacolando la realizzazione di diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla dignità dell'uomo e al suo essere libero. Pag. 12
  È, dunque, sul tema specifico tra imprese e diritti umani che oggi vorrei richiamare la vostra attenzione e anche un'eventuale azione parlamentare per una proposta finalizzata a introdurre nell'ordinamento legislativo italiano dei meccanismi di due diligence obbligatoria per le imprese.
  Come sapete, nel 2011 il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha adottato i princìpi guida per le imprese e i diritti umani. Questi princìpi guida si basano su tre pilastri, di cui il primo è quello per il quale lo Stato ha l'obbligo di proteggere i diritti umani adottando tutte le misure adeguate volte a tutelare le persone dalle violazioni dei diritti da parte delle imprese. Il secondo pilastro, forse ancora più importante, è quello che sancisce la specifica responsabilità delle imprese a tutelare i diritti umani nelle filiere agricole, e quindi ad attuare tutti quei processi di due diligence preventiva volti a prevenire e mitigare eventuali violazioni dei diritti umani che possono causare direttamente o indirettamente.
  In alcuni Paesi, questi princìpi guida hanno trovato spazio e sono stati convertiti in leggi inserite negli ordinamenti nazionali. In Italia, nel 2016 ci siamo dotati di un lodevole Piano di azione nazionale quinquennale, che inserisce tra le sue principali priorità – cito testualmente –: in primo luogo, «La promozione di processi di human rights due diligence, volta ad identificare, prevenire e mitigare i potenziali rischi, con particolare attenzione alle piccole e medie imprese» e, in secondo luogo: «Il contrasto al caporalato (soprattutto nel settore agricolo e delle costruzioni) e delle forme di sfruttamento, lavoro forzato, lavoro minorile, schiavitù e lavoro irregolare (...)».
  Ebbene, questo è sicuramente un primo passo, ma siamo altresì fortemente convinti che nessuna azione di contrasto al caporalato possa rivelarsi efficace se non è accompagnata dalla richiesta perentoria alle aziende di dotarsi di politiche strutturali sui diritti umani e di adottare tutti quei processi di due diligence volti a valutare e monitorare costantemente se il proprio modo di fare business stia causando o rischiando di causare delle violazioni fondamentali dei diritti dell'uomo. Vorrei, quindi, di nuovo attirare la vostra attenzione sul fatto di renderla obbligatoria e non soltanto di promuoverla. L'Italia può e deve farlo.
  Vi dirò di più. Nella nostra esperienza recente abbiamo toccato con mano quanto siano importanti questi meccanismi di human rights due diligence proprio per mettere le aziende di fronte alle proprie responsabilità. Abbiamo di recente pubblicato i risultati finali di una valutazione del rischio dei diritti umani che ci ha commissionato un'azienda importante del retailer finlandese, che ha deciso di investire in modo massiccio sulle proprie politiche dei diritti umani, a cominciare dalla filiera del pomodoro, che è strategica, perché oltre a dei supermercati, infatti, hanno anche una catena di ristoranti e di alberghi. E l'Italia è uno dei Paesi principali da cui loro si approvvigionano.
  Questo studio è stato condotto per sei mesi, da giugno a dicembre dello scorso anno, chiaramente con un approccio multistakeholder, in linea con i principali framework internazionali. Evidentemente, oltre ad accertare le violazioni principali nella filiera del pomodoro, soprattutto nel Sud d'Italia, che sono anche legate – va ribadito, e lo diceva bene Fabio Ciconte prima – alle politiche di accoglienza e alle politiche migratorie del nostro Paese, ha anche sancito una chiara responsabilità dell'azienda finlandese nel comprimere costantemente verso il basso i prezzi del prodotto acquistato.
  Negli ultimi cinque anni, l'azienda ha spinto il prezzo del pomodoro per il proprio private label, quindi per il proprio prodotto a marchio, del 15-25 per cento in termini reali, mentre ha spinto del 10-20 per cento verso il basso, sempre in termini reali, il prezzo del pomodoro industriale, quindi dei prodotti delle grandi industrie italiane.
  È chiaro che queste dinamiche hanno delle radici più profonde, che considerano anche la globalizzazione, la concorrenza nei mercati internazionali, ma anche la più bassa produttività del sistema produttivo Pag. 13italiano. È chiaro anche, però, che ciò dimostra che in un mercato così polarizzato, dove c'è una fortissima concentrazione del potere – va considerato, infatti, anche che l'azienda in questione agisce tramite centrali d'acquisto europee, quindi molto grandi, che possono contrattare dei volumi molto grandi di produzione – gli industriali italiani sono portati a competere al ribasso pur di stare sul mercato.
  Si conosce molto bene dove e come si riversa questa pressione a valle; quindi non ritorno su quanto hanno già spiegato, meglio di me, i miei colleghi, ma è importante continuare a ribadire con forza che la legge n. 199 del 2016 è stata fondamentale, che funziona laddove applicata, ma purtroppo copre solo l'ultimo miglio, soltanto la parte finale. Mancano tutti i meccanismi preventivi per cui questo sfruttamento dall'origine può essere affrancato.
  Di fronte a un quadro legislativo tendenzialmente parziale e al totale vuoto normativo in materia di impresa e diritti umani, risulta ancora più chiaro che alla fine l'onere della questione ricade sul consumatore finale e sulla sua sensibilità a interrogarsi su cosa ci sia dietro al prezzo di un prodotto. Naturalmente, parlo della sua sensibilità, perché, come evidenziato dai colleghi già intervenuti, il consumatore non ha alcuno strumento per districarsi davanti agli scaffali del supermercato e capire cosa sta acquistando e perché.
  Ancora una volta, allora, vi sollecito a conoscere e a indagare di più tutte le buone pratiche che sul nostro territorio si stanno sviluppando con forza per realizzare prodotti accessibili a tutti, magari con prezzi leggermente più alti di quelli che si trovano comunemente sullo scaffale. Dopo di me interverrà il vicepresidente di GOEL Bio, che vi racconterà dell'esperienza nella filiera degli agrumi in Calabria, ma mi permetto di citare anche, con riferimento alla filiera del pomodoro, Funky Tomato, che con un contratto di rete ha messo insieme tutti i vari pezzi della filiera, che insieme si sono assunti la responsabilità di portare ai consumatori un prodotto etico, giusto e a prezzi accessibili.
  Concludo proprio sulla questione del prezzo avanzando una nuova proposta per garantire ai consumatori una scelta più consapevole, e cioè quella di provare a verificare la possibilità di inserire anche il prezzo di origine pagato al produttore. In questo modo potranno vedere la differenza tra quanto è stato pagato all'origine e quanto stanno pagando loro e capire cosa c'è nel mezzo e in che modo premiare con l'acquisto la distribuzione più positiva e sostenibile.

  PRESIDENTE. Grazie, dottoressa Ceccarelli.
  Cominciamo allora con le esperienze positive. Darei la parola al dottor Gerhard Bantel, vicepresidente di GOEL-Gruppo Cooperativo.

  GERHARD BANTEL, vicepresidente di GOEL-Gruppo Cooperativo. Buongiorno a tutti. Per la precisione, io sono presidente di GOEL Bio, una delle società all'interno del gruppo GOEL, il cui presidente è Vincenzo Linarello.
  Noi ci troviamo in Calabria, esattamente nella Locride, e certamente abbiamo a che fare con le problematiche di cui stiamo parlando oggi quasi giornalmente. A un certo punto, ci siamo detti: non è possibile che si conosca la Locride soltanto come un posto negativo. Abbiamo detto: dobbiamo fare qualcosa affinché la Locride sia conosciuta anche per il positivo. E ci siamo messi insieme all'inizio a più di una decina di imprese sociali. In questo momento, siamo una quarantina di aziende e una decina di cooperative sociali, in tutto più o meno 300 persone che lavorano all'interno del sistema Goel.
  In fondo, non vogliamo far altro che organizzare la legalità. Se c'è chi organizza «l'altra parte», noi cerchiamo di organizzare la legalità e darci forza sotto questo profilo. Abbiamo visto che, soprattutto nel campo agricolo, i prezzi nella grande distribuzione, in particolare dei beni primari, come arance e altro, sono aumentati e continuano a salire, mentre il prezzo che riceve il produttore ha continuato a scendere. Dieci anni fa, un produttore della Pag. 14nostra zona prendeva intorno ai 20 centesimi di euro al chilo: oggi prende tra 5 e 10 centesimi di euro. Questo è il prezzo che riceve un produttore per le sue arance.
  È chiaro che in un contesto così non è possibile vivere e lavorare come dovrebbe essere. Ed è chiaro che tante aziende agricole erano costrette ad aprirsi, da un lato, al caporalato e, dall'altro, anche alla collusione con la ’ndrangheta. Questo è un dato di fatto.
  Noi ci siamo detti: vogliamo organizzare questi passaggi e vogliamo mettere insieme tutte quelle aziende virtuose, quelle che hanno avuto il coraggio di dire che vogliono prendere posizione contro tutto il mondo della ’ndrangheta e che vogliono schierarsi chiaramente a favore della legalità. Facendo dell'etica non soltanto una cosa bella a parole, ma anche efficace, perché alla fine le aziende la devono dimostrare operando sul mercato. Abbiamo agito ponendoci in questa prospettiva.
  Per prima cosa abbiamo voluto stabilire un protocollo etico, sulla base del quale decidere quali requisiti si devono possedere per diventare socio di GOEL Bio. Credo che abbiamo trovato un buon equilibrio tra diverse componenti. Un primo aspetto riguarda le indagini di prossimità che svolgiamo sui nostri candidati. Chi conosce la nostra terra, sa che la gente sa tutto; pertanto, se c'è qualcuno che vuole entrare in GOEL Bio e diventare socio, noi per prima cosa – faccio l'esempio di Roccella – chiediamo a cinque persone fidate di Roccella se conoscono quella determinata persona. Se una di queste cinque persone ha anche soltanto un minimo dubbio, dobbiamo chiedere informazioni ad altre cinque persone. Se poi c'è ancora un dubbio, quella determinata persona non entrerà a far parte di GOEL Bio. Questo è un primo step.
  Poi facciamo delle verifiche sugli amministratori, sugli azionisti, sui soci. Verifichiamo chi sono i clienti, chi sono i fornitori, quali attività svolge l'azienda e a chi sono rivolte. Questi sono passaggi importanti. Inoltre verifichiamo, ovviamente, anche i certificati antimafia e tutti gli altri documenti richiesti alle aziende.
  Abbiamo messo insieme così un protocollo e devo dire che l'abbiamo fatto a spese nostre, perché fare il protocollo ha un costo. Abbiamo potuto creare un brand che sul mercato regge, perché il prodotto venduto con il nostro brand non è soltanto biologico, ma è anche etico, e possiamo garantire a chi lo compra che non c'è dentro né la ’ndrangheta e né il lavoro nero.
  Abbiamo visto che il mercato è organizzato in modo particolare, un po’ come una clessidra. Ci sono tanti produttori e sotto ci sono anche tanti venditori, ma in mezzo ci sono pochi soggetti che fanno i commercianti. Abbiamo cercato di evitare tutta quella filiera complicata e abbiamo iniziato a trattare direttamente con la grande distribuzione.
  Il nostro punto di forza è proprio il protocollo etico, perché si è visto che funziona. Stiamo entrando sempre di più nella grande distribuzione nazionale, ma anche internazionale, e fortunatamente stiamo crescendo bene.
  Questo ha fatto sì che una trentina di aziende agricole che probabilmente avrebbero dovuto chiudere non hanno dovuto chiudere e che chi ha subìto attentati ha avuto la forza di andare avanti. Abbiamo iniziato ad attuare un sistema che chiamiamo «la festa della ripartenza». L'episodio più famoso si è verificato due-tre anni fa quando è stato compiuto un attentato contro un'azienda agricola per effetto del quale è saltato un capannone, è saltato il trattore e ci sono stati 100.000 euro di danni, proprio all'inizio della campagna degli agrumi. Abbiamo dato comunicazione di questo grave atto intimidatorio in modo molto chiaro a tutta la nazione, diffondendo la notizia sul web e attraverso il telegiornale. Si è creata una campagna di solidarietà molto efficace e siamo stati in grado di ricostruire il capannone in sette settimane, di ricomprare il trattore e di ripartire.
  Così facendo si è prodotto un effetto positivo perché chi ha compiuto l'attentato ha dovuto constatare che l'azienda che aveva danneggiato, mentre prima dell'attentato aveva un capannone vecchio, dopo ne ha Pag. 15avuto uno nuovo; prima aveva un trattore vecchio, dopo invece ne ha avuto uno nuovo; prima non vendeva niente, mentre da dopo l'attentato vende tutto.
  Questa legge va interrotta attraverso meccanismi diversi, perché quello che vediamo è l'imbroglio, che continua a produrre imbrogli e occorre, invece, creare legalità. Come è stato detto già prima, sicuramente uno dei fattori di pressione più grandi che pesa sugli agricoltori è proprio la pressione del prezzo: ciò significa che il più debole deve cedere. Il più debole è l'agricoltore e alla fine poi il bracciante agricolo. Se non interveniamo proprio sulla costruzione del prezzo, sarà difficile risolvere il problema del caporalato di cui stiamo parlando oggi.
  Come è già stato detto, noi proponiamo che il consumatore che si reca al supermercato abbia la possibilità di sapere quanto ha ricevuto il produttore del prodotto che lui si appresta ad acquistare. Oltre a esserci scritto che l'arancia costa 2,20 euro al chilo, deve esserci scritto anche che il produttore ha ricevuto 5 centesimi come prezzo di conferimento, perché è su questo aspetto che può intervenire il consumatore. Quando c'è la possibilità di scelta, c'è la forza del consumatore di compiere delle scelte che possono anche cambiare dei sistemi che oggi sono difficili da controllare.
  Concludo dicendo che i prezzi che abbiamo in GOEL Bio non sono prezzi strettamente di mercato, anche se chiaramente dobbiamo stare sul mercato, ma abbiamo costruito un prezzo trasparente. Questo significa che ci siamo messi insieme con gli agricoltori nostri soci e abbiamo chiesto loro di cosa avessero bisogno e abbiamo parlato anche con tutti gli intermediari, come quelli delle piattaforme di trasporto, per capire di cosa hanno bisogno loro, perché alla fine il prezzo deve essere trasparente, altrimenti accade sempre che l'ultimo, cioè colui che lavora per un anno per un prodotto, prende il 5-10 per cento del prezzo finale, il che non può essere etico.

  PRESIDENTE. Do la parola a Giuseppe Pugliese per il consiglio direttivo di SOS Rosarno.

  GIUSEPPE PUGLIESE, socio fondatore e componente del Consiglio Direttivo SOS Rosarno. Grazie, presidente, onorevoli deputate e deputati e a tutti i convenuti.
  Vengo dalla piana di Gioia Tauro, da un posto che si chiama Rosarno, tristemente famoso, balzato agli onori delle cronache nel 2010, sebbene vantasse un certo pedigree anche prima. La piana di Gioia Tauro è una delle tre grandi pianure della Calabria, la seconda per estensione, un territorio prevalentemente vocato alla produzione di ulivi, agrumi e kiwi, caratterizzato da diverse contraddizioni e da una presenza massiccia della criminalità organizzata. Ricordiamo che siamo nella provincia di Reggio Calabria.
  Io faccio parte di una piccola associazione di produttori, di lavoratori, immigrati e non, artigiani, musicisti, spiantati, disoccupati, precari, eccetera. È un'associazione molto piccola. Se io sono qua in questo momento, questo ci fa pensare prima di tutto a una cosa: non sono qua per la realtà dell'associazione e della Campagna SOS Rosarno, ma sono qua per il contesto.
  Cosa voglio dire? Noi abbiamo inventato l'acqua calda, facciamo quello che voi avete ritenuto importante per invitarci qua, perché vendiamo quello che produciamo a un certo prezzo. Questo è centrale per quello che riguarda la nostra analisi.
  Permettetemi anche una considerazione, che non è assolutamente retorica: la nostra associazione rappresenta un'esperienza rivoluzionaria ed è triste che sia considerato rivoluzionario ciò che, invece, dovrebbe essere normale. Infatti, lavorare con un contratto e rispettare la legge – abbiamo sentito parlare molto di legalità questa mattina – non deve essere una cosa rivoluzionaria, ma deve essere una cosa normale. Abbiamo scoperto l'acqua calda perché tutti sono pagati per quello che dice la legge semplicemente perché vendiamo quello che produciamo a un prezzo giusto.
  Dopo questa premessa, mi viene da fare un'altra considerazione sull'obiettivo del contrasto al caporalato. Non è una domanda provocatoria, ma è una riflessione che noi abbiamo elaborato, che è stata frutto di analisi e che vogliamo condividere Pag. 16con voi. Il contrasto al caporalato è inteso come contrasto al caporale, come persona che materialmente mette in atto l'intermediazione illecita del lavoro, in questo caso in agricoltura, o deve essere uno strumento per contrastare lo sfruttamento dei lavoratori? Potrebbe sembrare la stessa cosa, ma riteniamo che non sia la stessa cosa, soprattutto con l'iniziale impianto e approccio della legge sul caporalato.
  C'è una lettura molto importante e consistente che attribuisce il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori a un sistema di agromafie, quasi a pensare che il caporale sia il male di tutti i mali. Io uso una metafora un po’ forte, però mi serve per far capire quello che voglio dire. Dal nostro punto di vista il caporale sta allo sfruttamento dei lavoratori come lo spacciatore che troviamo nelle nostre piazze, spesso tossicodipendente anch'egli, sta al traffico di stupefacenti. Non pensiamo che il caporale sia il responsabile principale dello sfruttamento dei lavoratori, così come non pensiamo ovviamente che lo spacciatore sia colui che controlla il traffico degli stupefacenti. Il traffico degli stupefacenti è controllato dalle mafie fino a prova contraria.
  Se proprio ci piacciono questi termini militareschi e vogliamo usare il termine «caporale», cominciamo a chiederci se oltre ai caporali esistono anche dei superiori in grado, marescialli, colonnelli e anche generali. Abbiamo apprezzato molto lo studio, pubblicato su Internazionale, fatto dal dottor Ciconte.
  Facciamo un attimo un passo indietro. Possiamo veramente immaginare che lo sfruttamento dei lavoratori sia da inquadrare in quell'ottica, soltanto come una responsabilità delle agromafie, e non magari nella complicata trasformazione dell'agricoltura e della società in senso capitalista, per esempio?
  Rosarno una volta era «Americhicchia», la piccola America. A Rosarno negli anni Settanta arrivavano gli immigrati, non dall'Africa, ma da Carate Brianza, dal Veneto, perché in quegli anni a Rosarno si lavorava e c'erano soldi. Rosarno era un posto ricco, aveva due cinema, aveva centri di aggregazione culturale e sociale, aveva una discoteca. Uno dei nostri soci è figlio di genitori immigrati da Carate Brianza negli anni Settanta. Piano piano «Americhicchia» è diventata quella che oggi tutti conosciamo, dove sono avvenuti quei fatti che hanno comportato, non solo le parole chiare e nette da parte dell'allora Presidente della Repubblica, ma anche la protesta di uno Stato straniero, la visita di un console degli Stati Uniti, la visita di delegazioni parlamentari europee e nazionali in quei giorni. Anche la Commissione Schengen venne in quei giorni. C'è stata una lettura di quei fatti che ovviamente non ha aiutato nessuno a capire quello che è successo a Rosarno.
  Uso un'altra espressione: «guerra tra poveri». Premetto che io sto facendo delle analisi, non sto giustificando niente, ma sto cercando di rappresentarvi il sistema, che noi abbiamo analizzato, con cui si arriva allo sfruttamento dei lavoratori. Cosa si intende per «guerra tra poveri»? Parlo di agrumi perché noi ci troviamo in un territorio di agrumi, dove prevalentemente si coltivano le clementine che rappresentano il prodotto di eccellenza della Calabria.
  La matematica e la calcolatrice ci devono dare il senso di quello che facciamo e di quello che diciamo. Ebbene, se oggi il prezzo pagato ai produttori è quello che è – adesso vi do alcuni dati, così si capisce di cosa stiamo parlando – questo significa che un produttore ha sostanzialmente tre possibilità. La prima è abbandonare la produzione. La seconda, purtroppo, è sperare nell'esproprio, perché se la terra non rende, allora è da augurarsi che se la prenda lo Stato. La terza è risparmiare sui costi di gestione.
  Qual è il costo più facile sul quale si può intervenire e risparmiare? È quello del lavoro, della manodopera, perché innanzitutto è fornita da persone che nel 99 per cento dei casi sono immigrati, quindi di origine straniera, che hanno un disperato bisogno di lavorare. Questo disperato bisogno di lavorare è collegato anche al diritto potenziale di rimanere legalmente sul territorio italiano, perché c'è una legge che collega il diritto a rimanere legalmente sul territorio esclusivamente a un contratto di Pag. 17lavoro oppure a un lavoro dipendente. Immaginate quanto una persona in queste condizioni possa essere ricattabile!
  Noi pensiamo che, oltre alla continua e lenta trasformazione dell'agricoltura e della società, come ho detto prima, in termini capitalistici, c'è anche un problema di approccio repressivo e poliziesco nei confronti delle migrazioni. È un dato di fatto: più tu rendi fragile una persona, meno questa persona si sforzerà di contrastare la lesione di un suo diritto.
  Voglio dire questo. Se c'è, ad esempio, un immigrato irregolare che comunque lavora – non possiamo negare che lavora – non potendo lavorare sulla base di un contratto, se qualcuno lo fa lavorare e non lo paga quanto dovrebbe, l'immigrato non andrà mai a denunciare il fatto, perché per ottenere il pagamento di tre, quattro o cinque giornate di lavoro rischierebbe qualcosa di molto più grande.
  Mi chiedo anche un'altra cosa: come pensiamo di risolvere veramente il problema dello sfruttamento dei lavoratori? Incarcerando tutti i caporali e magari tutti i datori di lavoro che si avvalgono della loro collaborazione, che saranno almeno diverse migliaia, penso decine di migliaia? Forse bisognerebbe ragionare su una trasformazione della società e dell'agricoltura, anche in termini di economia solidale, ad esempio.
  Mi avvio alla conclusione. La questione del prezzo dal nostro punto di vista è centrale. Vi faccio un esempio. Io parlo di prodotti bio, ovvero di clementine e arance bio, perché è quello che noi produciamo. Nel 2016-2017 ai produttori sono state pagate, in media, 34 centesimi al chilo; nel 2017-2018 40 centesimi al chilo, nel 2018-2019 probabilmente 30-32 centesimi al chilo le clementine e le arance da 24 a 26 centesimi.
  Noi paghiamo prezzi molto più alti: con il nostro progetto al produttore di clementine diamo 80 centesimi al chilo e il prezzo che pratichiamo noi è molto più basso, per lo stesso identico prodotto, di quello che si trova in qualsiasi supermercato della grande distribuzione o in un negozio bio. Le clementine di Calabria IGP bio vengono vendute sui banchi della grande distribuzione a 2,50 euro al chilo. Eppure è un dato di fatto – e sfido chiunque a smentirmi su questo – che per quelle clementine i produttori, nelle migliori delle annate, non hanno preso più di 40 centesimi al chilo.
  Noi qualche anno fa, insieme a gruppi di acquisto solidale, spazi sociali e nostri sostenitori sparsi in tutta Italia, abbiamo rivolto una semplice domanda a un'importante centrale di acquisto, a un grossissimo marchio della grande distribuzione organizzata. Non cito il marchio per una questione di delicatezza, però andando a fare una ricerca su Internet si trovano i nostri comunicati e anche le domande che abbiamo rivolto. Noi abbiamo fatto una sola richiesta – il presidente di GOEL Bio mi ha preceduto su questo – ossia quella di indicare, nel cartellino che legge il consumatore, accanto al prezzo di vendita, il cosiddetto «prezzo sorgente». In questo modo un consumatore che acquista un chilo di clementine e sa che le sta pagando 2,50 euro al chilo, può sapere anche quanto ha percepito il produttore per quelle clementine. È il cosiddetto «prezzo sorgente», al netto di tutte le intermediazioni.
  Noi riteniamo che chi vende un prodotto debba essere responsabile di tutta la filiera. La filiera, invece, è un mondo sconosciuto di cui si conoscono soltanto due elementi: il prezzo che uno paga quando va a comprare un prodotto e il prezzo pagato al produttore, perché lo dice il produttore. Tutto quello che c'è nel mezzo, i vari passaggi, le varie intermediazioni sono una selva oscura, un enorme buco nero; soltanto gli addetti ai lavori conoscono questi dati.
  Ovviamente alla domanda che noi facemmo a questo importante marchio della GDO non fu data risposta. Questo è un argomento delicatissimo perché non si sa quali interessi si vanno a toccare quando si parla del prezzo sorgente, ma di sicuro a chi in qualche modo controlla od opprime la filiera nei territori questa cosa non piace assolutamente. Invece, sarebbe un elemento dirompente. Questa sarebbe la vera rivoluzione, non il fatto che noi diamo 80 centesimi al produttore e ci possiamo permettere Pag. 18 il lusso di pagare quasi 55 euro al giorno, dei quali 46 euro lordi vanno al lavoratore e 12-13 euro sono di contributi.
  Perché lo facciamo? Perché abbiamo scoperto l'acqua calda? Perché vendiamo a 1,80 euro le clementine e non a 40 centesimi e, quindi, possiamo pagare la lavorazione 30 centesimi, possiamo pagare la raccolta 12-13-14 centesimi, e soprattutto possiamo non dire a nessuno che deve lavorare velocemente e possiamo fare la raccolta come prevede la legge. Infatti, la legge prevede sei ore e quaranta minuti di lavoro e per raccolta si intende soltanto la presa del frutto e la messa in cassetta, quindi niente trasporto con le cassette e nessun altra operazione. Solo per questo, per sei ore e quaranta minuti di lavoro, dal 1° aprile del 2019 sono 46 euro lordi a giornata più 12-13 euro di contributi.
  Io, nel ringraziarvi, voglio ricordare quello che secondo noi è il tema centrale, altrimenti sarà o un cane che si morde la coda o l'ennesima guerra tra poveri, che non saremo mai capaci di disinnescare. Devo fare anche una constatazione amara: noi parliamo di questo made in Italy, che è un fiore all'occhiello per il nostro Paese, ma è anche una grossa ipocrisia, perché noi sappiamo benissimo che il tanto sbandierato made in Italy è macchiato dal sangue dei lavoratori che raccolgono quei frutti del made in Italy. Se non si interviene sul prezzo, non si uscirà mai da questa cosa. Noi possiamo arrestare migliaia e migliaia di persone, possiamo sequestrare tonnellate di pomodori nei campi o di arance, possiamo avviare istruttorie, spendere soldi per le procure, per i tribunali, ma non otterremo assolutamente niente, perché ci sarà sempre qualcuno che per stare a galla sarà costretto a sfruttare qualcun altro. Non è una giustificazione, è un'analisi.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
DELLA XIII COMMISSIONE
FILIPPO GALLINELLA

  PRESIDENTE. Do la parola, per l'associazione No CAP, al dottor Angelo Raffaele Consoli.

  ANGELO RAFFAELE CONSOLI, responsabile dell'ufficio esteri dell'Associazione No CAP. Grazie, presidente. Grazie a tutti i deputati e le deputate che hanno voluto consultarci.
  Credo che questo problema del caporalato sia molto importante anche per la politica. La legge n. 199 del 2016 lo ha dimostrato. A me tocca l'ingrato compito oggi di sostituire Yvan Sagnet, che è il presidente della rete No CAP, di cui io sono fondatore con lui e con tanti altri. Yvan è stato protagonista della battaglia contro lo schiavismo a Nardò nel 2011, che ha cominciato a far parlare seriamente di caporalato. In conseguenza di quella battaglia è nato il processo denominato SABR presso la procura di Lecce, che ha determinato in primo grado la condanna a oltre undici anni, sulla base della legislazione sulla riduzione in schiavitù – all'epoca non c'era una legge sul caporalato – di caporali e datori di lavoro. Purtroppo, in secondo grado è arrivato un segnale devastante dalla Corte d'appello perché sono stati assolti tutti gli imputati, perché hanno commesso qualcosa che non era punibile in quanto non c'era ancora la legge sul caporalato. Speriamo che questo segnale devastante venga mitigato dalla Corte di Cassazione.
  Tuttavia, il processo SABR è stato uno spartiacque in questo Paese, perché ha fatto improvvisamente rendere conto a milioni di italiani che in Italia c'è lo schiavismo. Chiamiamo le cose col loro nome. Io non voglio parlare di caporalato, parliamo di schiavismo. Yvan Sagnet parla sempre schiavismo e ha scritto due libri su questo.
  Un altro risultato a cui la lotta di Yvan e di No CAP hanno contribuito è stato accendere i fari sulla necessità di una fattispecie legislativa specifica e, quindi, sulla legge n. 199.
  È stupefacente vedere come le nostre critiche a questa legge, quindi le proposte da portare a queste Commissioni riunite, si possono sovrapporre fisicamente a quello che ha detto Bilongo della rete Placido Rizzotto e a quello che hanno detto Terra! Onlus, Sos Rosarno, Libera e Oxfam, anzi comincio a pensare che ci si dovrebbe mettere insieme, proporre un unico documento Pag. 19 e presentarlo alla politica, perché ci darebbe molta più forza e forse aiuterebbe i decisori politici ad andare nella direzione giusta e alla velocità giusta per fare le cose giuste.
  Non mi dilungherò sulla necessità di campagne di sensibilizzazione e di pubblicità della Rete del lavoro agricolo di qualità e sulla necessità di avere una chiarezza sugli scaffali dei supermercati sulla struttura del prezzo. Noi come No CAP abbiamo inventato una matrice multicriteri che abbiamo già cominciato ad applicare con alcune aziende volenterose, per promuovere le aziende virtuose anziché denunciare le aziende non virtuose. La matrice No CAP si compone chiaramente dell'elemento etica del lavoro, però si compone anche di tanti altri elementi che rendono competitiva un'impresa agricola e non, come l'energia, i rifiuti, la filiera corta, il valore aggiunto nella trasformazione, il trattamento etico degli animali.
  Nel documento che noi produrremo alla fine e che siamo disponibili a mettere a disposizione di tutti possiamo magari dare qualche delucidazione in più su questo tentativo di promuovere la tracciabilità e la virtuosità dei prodotti agricoli.
  Quello su cui vorremmo insistere di più, però, è la necessità di creare un meccanismo di protezione per chi denuncia. Su questo aspetto la legge n. 199 è estremamente lacunosa, come credo abbiano detto anche l'amica di Oxfam e l'amico di Libera. Bisogna cominciare a pensare a un meccanismo di protezione sul tipo di quello previsto per i dissociati e i pentiti delle organizzazioni criminali. Noi abbiamo visto con Yvan che è stato il testimone principale nel processo SABR, che i ragazzi che hanno il coraggio di denunciare subiscono pressioni e minacce da parte del sistema mafioso che c'è intorno ai caporali, ma anche da parte dei caporali, che sono insostenibili e incontenibili. Non tutti hanno il coraggio che hanno avuto Yvan e altri suoi fratelli di ergersi di fronte a questo sistema mafioso. Di conseguenza, è molto importante che sia lo Stato a farsi carico di questo, facendo entrare in un programma di protezione i ragazzi che hanno il coraggio di denunciare questa situazione, staccandoli dai ghetti nei quali sono a contatto quotidiano con i caporali.

  PRESIDENTE. La ringrazio, anche perché alle 13.00 la Commissione Lavoro deve riunirsi.

  ANGELO RAFFAELE CONSOLI, responsabile dell'ufficio esteri dell'Associazione No CAP. Mi avvio alla conclusione. Yvan ha avuto il merito di essere uno studente di ingegneria quando si trovò a lavorare sotto caporale a Nardò e, quindi, fece due conti. È da lì che partì la rivolta. Questi due conti sono ancora oggi importanti per capire le dinamiche di formazione del prezzo, nella logica e nell'economia schiavistica in agricoltura, e non soltanto in quel settore, perché c'è schiavismo anche nei servizi, a cominciare dai call center.
  Per un cassone di tre quintali, come ci dice Yvan, al lavoratore venivano corrisposti 3,5 euro. I lavoratori al massimo riuscivano a fare otto cassoni in una giornata di lavoro di dieci ore, sotto il sole cocente a 40 gradi, quindi un lavoratore al massimo riusciva a percepire 28 euro, dai quali venivano decurtati 5 euro per il trasporto e altri 5 euro per l'acqua, un panino, eccetera. Insomma, al lavoratore alla fine rimanevano 15 euro. Al caporale per ogni cassone andavano circa 50 euro, quindi sugli otto cassoni riempiti da ogni lavoratore il caporale percepiva 400 euro. Se aveva otto-dieci lavoratori, quel caporale in una giornata guadagnava 4.000 euro. Al produttore andavano 270 euro per cassone, quindi sugli otto cassoni 2.160 euro.
  Vi riporto un calcolo approssimativo sulla grande distribuzione organizzata, cioè su quel prodotto poi trasformato e venduto nella grande distribuzione organizzata, senza stare a calcolare tutti i costi di trasporto, trasformazione, eccetera, perché comunque sono degli ordini di grandezza importanti per capire la dimensione del problema della formazione del prezzo dei prodotti nell'economia agricola schiavista. Nella grande distribuzione organizzata il lavoro di un cassone rendeva tra i 18.000 e i 30.000 euro e il lavoro di una giornata fra i 144.000 e i 240.000 euro. Pag. 20
  Margini per intervenire ce ne sono già in queste cifre, quindi forse è bene cominciare a pensare anche in che modo trasferire reddito verso i lavoratori già alla base, nelle tariffe di giornata, eliminato il fattore caporale, per combattere contro una tendenza, che non è soltanto dell'agricoltura, che è quella di sminuire l'elemento lavoro a semplice variabile economica del processo produttivo. La seconda rivoluzione industriale e l'era del petrolio hanno prodotto infatti la disumanizzazione del lavoro e lo hanno fatto diventare una variabile economica che più bassa è e più si pensa che tutti stiano meglio, e ciò ha giustificato comportamenti schiavistici.
  Con questo ho concluso e ringrazio ancora una volta le Commissioni per la loro attenzione.

  PRESIDENTE. Grazie a voi per essere intervenuti. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MARZIO LIUNI. Vi ringrazio del vostro utile intervento. È un argomento molto complicato. I tempi non sono mai sufficienti, la discussione potrebbe andare avanti per ore, perché chiaramente il problema del caporalato è di difficilissima risoluzione. Ben venga la legge che è stata approvata e ben vengano gli eventuali correttivi con i quali e insieme potremmo tentare di migliorarla.
  A me sembra che abbiate evidenziato una serie di problemi. Tento di elencarli. Più che domande sono riflessioni a voce alta. Il primo sono i lavoratori invisibili. La prima riflessione, su cui il rappresentante della Sos Rosarno mi ha già dato una mezza risposta, è che molti di questi lavoratori invisibili sono anche persone che sono in Italia in maniera irregolare. Allora faccio una domanda: quanti di questi lavoratori invisibili sono anche irregolari?
  In secondo luogo, noi stiamo già lavorando sull'etichettatura, per dare sempre più informazioni al consumatore, però purtroppo non possiamo scaricare sul consumatore la risoluzione del problema per mille motivi. Già oggi sul mercato ci sono prodotti bio o comunque prodotti di alta qualità che hanno un prezzo totalmente diverso dal prezzo di mercato – non dico che sia giusto – che si trova di base al supermercato. Purtroppo, il consumatore ha varie fasce di reddito. Io che ho la fortuna di fare il deputato e ho un reddito importante posso andarmi a comprare le clementine bio o comunque analizzo l'etichetta, verifico che il costo che viene dato al produttore è basso, per cui faccio tutti i ragionamenti conseguenti, ma chi prende 1.200 euro pagati regolarmente con il contratto di lavoro – credetemi – non ha la fortuna di poter fare tutti questi ragionamenti, deve purtroppo arrangiarsi con quello che ha. Questo è l'altro problema. Forse è facile indicare sull'etichetta tutti questi dati, ma non so se questa possa essere la soluzione.
  L'esempio che abbiamo è proprio la responsabilità del consumatore. Vorrei spezzare una lancia a favore dell'agricoltura italiana, che oggi abbiamo disegnato come il male assoluto, magari al Sud, e la cosa mi dispiace. Tutti noi siamo consumatori. Io ho sentito prima ragionamenti del tipo: «Quando prendiamo i pomodori, la latta della salsa, pensiamo a chi ha lavorato e che dietro c'è lo sfruttamento?» Alcuni sì, però anche tutti voi non so se avete fatto un ragionamento. Tutti noi abbiamo in mano un telefono. Io ho guardato i vostri, quasi tutti sono di ultima generazione, per cui hanno un costo elevato, ma credo che nessuno di noi abbia fatto il ragionamento che in Congo vengono sfruttate persone per il coltan, questa sabbia nera che serve per le batterie. Nessuno di noi ha fatto questo ragionamento, altrimenti nessuno di noi avrebbe in mano questo cellulare. La riflessione vale anche per le scarpe e per i vestiti.
  Il problema è quindi molto ampio e complesso. Mettetevi anche da questa parte, dalla parte di chi deve provare a trovare una soluzione. Voi avete fatto una fotografia del fenomeno che è utilissima per noi. Il problema è: qual è la soluzione? L'etichetta? Speriamo, è la cosa più facile del mondo, forse, perché poi ci sono i vincoli imposti dalla normativa dell'Unione europea Pag. 21 per cui l'etichetta non va bene all'Unione europea, che è un mercato particolare.
  Più che rivolgere domande, ho svolto delle riflessioni, perché per rispondere a queste cose ci vogliono sette ore e capisco che per voi diventa complicato. Magari, se ci invierete un vostro contributo scritto, potremo fare un ragionamento su questi aspetti, altrimenti veramente non riusciamo ad uscirne.
  Il problema è proprio questo: qual è la soluzione? Quali correttivi possiamo apportare alla legge? Io penso tra l'altro che la legge sia fatta già discretamente bene, il problema è attuare i controlli e fare tutte queste cose. Inoltre, noi lo facciamo solo nel nostro Paese. È chiaro che poi il mercato segue altre dinamiche, perché noi possiamo anche fare tutte le cose bene e mettere sul mercato le fragole – guardo il mio amico della Basilicata – a un prezzo giusto, ma poi arrivano le fragole dal Portogallo a un prezzo completamente diverso.

  DAVIDE TRIPIEDI. Ringrazio tutti gli auditi. Vorrei fare anch'io una riflessione sull'inquadramento della figura del caporale: il caporale è colui che sfrutta e basta, che schiavizza e che rende il lavoratore privo della propria dignità, o anche chi compra da queste aziende che schiavizzano? Mi domando: nei casi in cui la giustizia ha incastrato i caporali, chi comprava la frutta da quei caporali? Riusciamo a verificare se andando a colpire anche le aziende che comprano da persone che sfruttano il lavoro si può arrestare il fenomeno? Secondo me dovremmo pensare anche di fermare chi compra certi prodotti, perché a mio avviso non è accettabile.
  Vi chiedo inoltre se avete pensato a un marchio con cui contrassegnare i prodotti che non provengono da lavoratori sfruttati? Secondo voi pensare a un marchio del genere e colpire le aziende che sfruttano questi lavoratori può essere il frutto di una buona e sana azione? Potrebbero essere strumenti applicabili laddove c'è sfruttamento per cercare di incastrare questi soggetti che sfruttano la carne viva delle persone?

  ANTONIO VISCOMI. Farò pochissime domande in modo sintetico, per cercare di guadagnare tempo per le vostre risposte più che per le nostre elaborazioni.
  La prima cosa che mi preme è ringraziare tutti gli auditi di aver messo in evidenza la correlazione tra mercato e lavoro, tra mercato e lavoro agricolo e prestazioni di lavoro in agricoltura, perché guardare al caporalato significa guardare anzitutto al sistema in cui il caporalato stesso si inserisce, anche se questo sistema presenta delle macchie oscure, come in alcune realtà territoriali.
  Per quanto mi riguarda, da calabrese, ringrazio i calabresi, perché stanno favorendo un processo di maturità organizzativa dell'agricoltura in Calabria. Lottare contro il caporalato non vuol dire presentare un'immagine distorta del Mezzogiorno, ma semmai contribuire a migliorare la qualità della produzione del settore agricolo nel Mezzogiorno e non soltanto.
  Detto questo in via generale, consentitemi però tre domande in particolare. La prima domanda riguarda la correlazione tra invisibilità e irregolarità. Sappiamo bene che nel nostro Paese abbiamo una norma di legge di fondo, reiterata nel corso del tempo, per la quale il permesso di soggiorno è condizionato a una procedura di ingresso per verificare la disponibilità o l'indisponibilità di manodopera presente sul territorio nazionale, che è il grande equivoco della disciplina sull'immigrazione e direi anche la grande ipocrisia della disciplina sull'immigrazione.
  Io mi chiedo e vi chiedo se non sia il caso di togliere il velo di questa ipocrisia dalla legge sull'immigrazione e riconoscere che una persona che sta in Italia e che lavora in Italia non ha necessità di recuperare tutta la procedura per l'ingresso in Italia in modo regolare, ma può essere immediatamente riconosciuta. È stata già fatta tante volte questa procedura in passato, l'hanno chiamata «regolarizzazione». Questo ha comportato il riconoscimento di una quantità di persone comunque presenti sul territorio dello Stato. Mi chiedo se non sia, invece, il caso di riconoscere una procedura ordinaria per cui il soggetto irregolare Pag. 22 che dimostri di lavorare può ottenere il permesso di soggiorno in modo regolare.
  Certamente capisco che lo spirito dei tempi non aiuta, visto che il decreto sicurezza tende a rendere la presenza degli irregolari ancora più invisibile, come la sentenza di Bologna ha cercato di evidenziare all'universo mondo.
  La seconda domanda che vi vorrei porre è la seguente: qual è la vostra impressione della Rete del lavoro agricolo di qualità e degli strumenti che sono stati finora pensati per migliorare e riqualificare dal punto di vista organizzativo e operativo il sistema dell'agricoltura e delle imprese agricole? Infatti, il problema della debolezza delle imprese agricole nasce, per quanto è a mia conoscenza, da una certa debolezza organizzativa e, quindi, finanziaria, economica e operativa. La superficie agricola utile media di una nostra impresa agricola è di 4 ettari, mentre quella di un'impresa europea è di 24 ettari, quindi abbiamo un problema oggettivo da questo punto di vista.
  Mi chiedo e vi chiedo: la Rete del lavoro agricolo di qualità sta funzionando o non sta funzionando? Se non sta funzionando, dove dobbiamo mettere le mani su questa questione?
  Vengo alla terza e ultima domanda. Il protocollo di verifica etica per i produttori di GOEL Bio è una conquista enorme, a mio avviso, e non è nata da un giorno all'altro nella storia di GOEL Bio e dei rapporti con i produttori di agrumi di Rosarno, ma ha una storia lunga. Mi chiedo: abbiamo letto tutti questo protocollo? Abbiamo visto che nel protocollo sono previste visite ispettive a sorpresa, cioè quello che dovrebbe fare lo Stato, l'amministrazione pubblica?
  Da questo punto di vista, apprezzando in modo totale e pieno questo protocollo di verifica etica per i produttori di GOEL Bio, vorrei chiedere in modo particolare a GOEL Bio se in qualche misura non si sentono di sostituirsi a un'attività ispettiva che dovrebbe essere fatta dalle prefetture, dagli ispettorati, dalla ASL e che forse andrebbe ricostruita. Infatti, l'attività di verifica non dovrebbe essere una mera attività ispettiva, ma, come abbiamo sempre detto in qualunque settore economico, non soltanto nel mondo dell'agricoltura, le ispezioni dovrebbero anzitutto accompagnare le imprese.
  Non ricordo chi fra di voi parlava di agevolare le norme promozionali anziché le norme punitive. Da questo punto di vista, il protocollo di verifica etica sta funzionando o non sta funzionando?

  SUSANNA CENNI. Più che rivolgere delle domande vorrei fare una considerazione di carattere generale, perché ho trovato davvero di grande interesse le audizioni di questa mattina e, quindi, vi ringrazio molto per il contributo che ci avete portato. Poi ovviamente il compito passa anche un po’ a noi, perché è la politica che deve provare a trovare le soluzioni.
  Mi sono soffermata soprattutto su alcuni concetti. Gli ultimi auditi hanno fatto un'affermazione secondo me molto importante, dicendo che con un altro sistema e con un altro modo di fare produzione, commercializzazione e vendita del prodotto, e quindi anche gestione del lavoro in agricoltura, si possono comunque avere i margini per mettere sul mercato un prodotto a un prezzo equo, senza sacrificare nessuno. Questa per me è la sintesi fondamentale di quello che ho sentito oggi, soprattutto ascoltando le esperienze positive, che noi definiamo «virtuose», ma che dovrebbero essere in qualche modo la normalità.
  Mi pare di poter ricavare sostanzialmente questo dal vostro ragionamento: il fenomeno del caporalato si sconfigge attivando pienamente due gambe. Una gamba è rappresentata dalla legge sul caporalato. Io non ho ascoltato critiche all'articolato; quello che viene chiesto è di applicare la legge, soprattutto nella parte della Rete del lavoro di qualità, di cui il collega adesso riprendeva i contenuti. L'altra gamba è quella della filiera e dei prezzi, ed è una filiera che non necessariamente può stare dentro la legge sul caporalato, ma che si può sviluppare anche con altre leggi, forse in parte anche con alcune delle questioni di cui la Commissione Agricoltura discuterà Pag. 23nel successivo punto all'ordine del giorno dell'odierna seduta.
  Io non ritengo impossibile per noi lavorare su questi temi. Certamente non è così automatico che la politica risolva i problemi, ma indubbiamente abbiamo la possibilità di lavorare sulle due gambe su cui possiamo far camminare un'azione più forte di contrasto e anche su una valorizzazione diversa del prodotto e del lavoro agricolo che c'è intorno al prodotto stesso. Vorrei capire se questa può essere una sintesi possibile dei vostri ragionamenti.

  PAOLO PARENTELA. Parlerò solo pochi secondi, perché molte domande sono già state poste dai colleghi che mi hanno preceduto. Innanzitutto vorrei ringraziare gli auditi, in particolare quelli che lavorano nella mia regione, perché, oltre al loro lavoro, danno anche un esempio e dare l'esempio in Calabria è un segnale molto importante, soprattutto per chi vuole scommettere sulla nostra terra, e quindi non vuole lasciarla.
  Faccio solo una piccola considerazione. È chiaro che, al di là della legge esistente che abbiamo approvato nella scorsa legislatura, bisogna lavorare sull'applicazione di quella normativa e renderla ancora più concreta. È chiaro che bisogna lavorare anche per ripulire la filiera, che oggi risulta molto sporca – in alcuni casi, chiaramente – e renderla sempre più corta e sempre più trasparente. È altrettanto chiaro che bisogna anche lavorare nell'ambito degli accordi internazionali, perché se le arance che vengono dal Marocco vengono fatte a un costo di produzione ancora più basso rispetto a quello dell'Italia, con pratiche sleali dal punto di vista dell'ambiente, in quanto lì utilizzano trattamenti fitosanitari che sono vietati in Europa, è ovvio che non risolviamo il problema a 360 gradi. Pertanto, ci deve essere un impegno anche per quanto riguarda gli accordi internazionali che sono stati sottoscritti in Europa. È evidente che il faro della politica deve essere appunto il rispetto dell'ambiente, della salute e del mondo del lavoro.

  ANTONELLA INCERTI. Per i ristretti margini di tempo che abbiamo a disposizione, mi limito ad una sola domanda. Siccome la Rete del lavoro agricolo di qualità funziona relativamente e ci avete dato anche dei dati abbastanza sconfortanti, vi chiedo se ci sono dei meccanismi di premialità nei confronti di queste imprese.

  PRESIDENTE. Considerato che sono state svolte riflessioni complesse, credo che nei pochi minuti che sono costretto a darvi non potrete rispondere a tutte le riflessioni. Vi invitiamo, pertanto, a inviarci un documento, in modo tale che potremo distribuirlo. Se ci sono rapidi commenti, vi do la parola per la replica.

  JEAN RENÉ BILONGO, responsabile dell'Osservatorio Placido Rizzotto. Molto velocemente, inizio dalla domanda sul funzionamento o meno della Rete del lavoro agricolo di qualità. L'attuazione delle sezioni territoriali della Rete del lavoro agricolo di qualità è stata demandata all'INPS, ma l'INPS temporeggia. L'INPS ritiene sia un onere in più, un gravame per la sua attività, quindi non è molto stimolato a declinarla sul territorio. Tuttavia, c'è un esempio di una realtà territoriale nella quale l'INPS ha caldeggiato e voluto fortemente il funzionamento della Rete del lavoro agricolo di qualità sul proprio territorio: quindi è una questione di volontà o di mancanza di volontà da parte dell'INPS.
  La Rete quindi potrebbe funzionare molto bene. Da quando in Emilia Romagna hanno associato l'iscrizione alla Rete a un incremento del punteggio nell'ambito del PSR le iscrizioni stanno aumentando all'inverosimile.
  Chi è il caporale? Credo che qui bisogna fare un po’ di chiarezza. Il caporale è una figura intermedia. Noi abbiamo una legge che riconosce la responsabilità in solido dell'imprenditore agricolo che si avvale del caporale sfruttando i lavoratori che si trovano in stato di bisogno. Ci sono degli indici dello sfruttamento che sono molto chiari e sono indicati nella legge, quindi non mi ci soffermerò.
  Rispetto al fatto che la dinamica dello sfruttamento sia globale e che, quindi, riguarderebbe anche noi che abbiamo questi Pag. 24telefoni di ultima generazione perché il coltan è estratto dai bambini in Congo, con tutto il rispetto, penso che sia un accostamento improprio, un accostamento ossimorico. Noi abbiamo dei giovani italiani in Australia sfruttati alle stesse condizioni dei migranti e degli invisibili in generale in Italia. Ogni volta che si è posto il problema dei giovani italiani all'estero, anche per motivi di studio, ci sono sempre state delle urla in giro per il Paese, delle condanne rispetto alla condizione di sfruttamento, ma dietro la nostra casa cosa succede? Non mi soffermo su questo.
  Per la coltura del cacao, nei Paesi che producono cacao, è vietato il ricorso al lavoro sfruttato, c'è un codice etico ed è vietato lo sfruttamento dei bambini. Spiegatemi per quale motivo un ragazzo che viene da uno di quei Paesi, in cui non si può sfruttare nessuno, arriva in un Paese del primo mondo, l'ultramondo, e si ritrova sfruttato come se fossimo nella Capua del 300 avanti Cristo. Non è accettabile questo!
  Dico un'ultima cosa su invisibilità e irregolarità. Anche in questo caso l'accostamento è improprio. C'è un tasso molto elevato di «profughizzazione» del lavoro in agricoltura. I richiedenti asilo che si trovano nel nostro Paese si trovano in una condizione deleteria tale che non hanno il dovuto accompagnamento per il loro inserimento e la loro inclusione nel tessuto sociale, economico e civile e devono avvalersi di questi sotterfugi e di questi paraventi per poter sopravvivere. Nella loro condizione, nel loro stato di bisogno, vengono sfruttati come bestie.
  Al contempo, gli ultimi numeri del Viminale ci dicono che ci sono soltanto 90.000 irregolari in Italia. Nel 2015 in Italia si sono persi 150.000 permessi di soggiorno, come effetto spasmodico della crisi economica. Non potendo dimostrare di avere un reddito sufficiente, non potendo dimostrare di avere un rapporto di lavoro in corso, 150.000 persone, con le famiglie a seguito – per chi ne ha – hanno perso i titoli di soggiorno. Se la matematica non è un'opinione, dove sono andate a finire queste 150.000 persone con famiglie a seguito? Sono quelle che ritroviamo nelle campagne. Molto spesso, se uno fa un giro nelle nostre campagne, si stupirà di incontrare dei lavoratori che si esprimono con un forte accento bergamasco, veneto, milanese o di Sesto San Giovanni. Alla domanda «Come ti ritrovi qui in queste condizioni?» rispondono: «Ho perso il lavoro. Io lavoravo nell'industria o lavoravo nelle costruzioni, ho perso il lavoro e ho usufruito degli ammortizzatori per un po’ di tempo. Dal momento in cui decadono anche quei sussidi, non posso più rinnovare il permesso di soggiorno».
  Ritornando sulla questione del coltan, se i bambini del Congo sono sfruttati per permetterci di avere i telefonini, chiediamoci al contempo perché è stato fatto il processo di Kimberley. Se non ci fosse stato il processo di Kimberley, le guerre in Sierra Leone sarebbero tuttora in corso. Anche per una questione di antropologia giuridica di questo Paese, noi non possiamo guardare a quello che non va, che si sta allargando in modo metastatico, dicendo: «tanto è così». Dobbiamo cercare di recuperare...

  (Interventi fuori microfono)

  PRESIDENTE. Faccio osservare all'audito che quello dell'onorevole Liuni voleva essere semplicemente un esempio di come tante questioni sfuggano alla riflessione del consumatore al momento dell'acquisto. Possiamo tornare, per favore, all'argomento?

  JEAN RENÉ BILONGO, responsabile dell'Osservatorio Placido Rizzotto. Se mi permette, tra gli invisibili ci sono tanti cittadini italiani. Basta andare alle 4 del mattino nel nord barese e vedrà centinaia di autobus. Non sono turisti, sono braccianti agricoli che vanno a lavoro, esattamente come Paola Clemente che ha perso il lavoro in condizioni di sfruttamento e di caporalato.

  PRESIDENTE. Devo chiudere l'audizione, perché siamo già andati oltre il tempo a disposizione. Vi ringrazio per i contributi. Sono temi sicuramente importanti e sensibili. Io credo che ci siano tanti argomenti che convergono su questo tema. Noi come Pag. 25Commissioni riunite dovremmo trovare una soluzione per combattere un fenomeno che tutti noi cerchiamo di contrastare.
  La riflessione sulla responsabilità del consumatore è una questione importante che in qualche modo dovremmo affrontare, ma non vorrei che fosse strumentalizzata in alcun modo.
  Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal Milan Center for Food Law and Policy, da GOEL Bio e dall'Associazione NO CAP (vedi allegati).
  Dichiaro quindi conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 13.05.

Pag. 26

ALLEGATO 1

Pag. 27

Pag. 28

Pag. 29

Pag. 30

Pag. 31

ALLEGATO 2

Pag. 32

Pag. 33

Pag. 34

Pag. 35

ALLEGATO 3

Pag. 36

Pag. 37