XVIII Legislatura

VII Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 6 di Mercoledì 15 gennaio 2020

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Gallo Luigi , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA IN MATERIA DI INNOVAZIONE DIDATTICA:

Audizione di Paolo Mottana, professore ordinario di filosofia dell'educazione e di ermeneutica della formazione e pratiche immaginali presso l'Università degli studi di Milano Bicocca; Michela Schenetti, professoressa associata di didattica generale e metodologia e didattica dell'attività motoria presso l'Università degli studi di Bologna; Gisella Langé, esperta di lingue straniere e internazionalizzazione; e Francesco Paolicelli, consulente opengov ed esperto di coding .
Gallo Luigi , Presidente ... 3 
Langé Gisella , esperta di lingue straniere e internazionalizzazione ... 3 
Gallo Luigi , Presidente ... 5 
Paolicelli Francesco , consulente ... 5 
Gallo Luigi , Presidente ... 8 
Mottana Paolo , professore ordinario di filosofia dell'educazione e di ermeneutica della formazione e pratiche immaginali presso l'Università degli Studi di Milano Bicocca ... 8 
Gallo Luigi , Presidente ... 10 
Schenetti Michela , professoressa associata di didattica generale e metodologia e didattica dell'attività motoria presso l'Università degli Studi di Bologna ... 10 
Gallo Luigi , Presidente ... 12 
Fusacchia Alessandro (Misto-CD-RI-+E)  ... 13 
Aprea Valentina (FI)  ... 14 
Latini Giorgia (LEGA)  ... 15 
Gallo Luigi , Presidente ... 16 
Ciampi Lucia (PD)  ... 16 
Melicchio Alessandro (M5S)  ... 17 
Gallo Luigi , Presidente ... 17 

Allegato 1: Documentazione depositata da Gisella Langé ... 18 

Allegato 2: Documentazione depositata da Paolo Mottana ... 36 

Allegato 3: Documentazione depositata da Francesco Paolicelli ... 42 

Allegato 4: Documentazione depositata da Michela Schenetti ... 69

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Partito Democratico: PD;
Fratelli d'Italia: FdI;
Italia Viva: IV;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Noi con l'Italia-USEI-Cambiamo!-Alleanza di Centro: Misto-NI-USEI-C!-AC;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Centro Democratico-Radicali Italiani-+Europa: Misto-CD-RI-+E;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
LUIGI GALLO

  La seduta comincia alle 14.40

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna è garantita anche dalla trasmissione in diretta sul canale web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di Paolo Mottana, professore ordinario di filosofia dell'educazione e di ermeneutica della formazione e pratiche immaginali presso l'Università degli studi di Milano Bicocca; Michela Schenetti, professoressa associata di didattica generale e metodologia e didattica dell'attività motoria presso l'Università degli studi di Bologna; Gisella Langé, esperta di lingue straniere e internazionalizzazione; e Francesco Paolicelli, consulente opengov ed esperto di coding .

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in materia di innovazione didattica, l'audizione di Paolo Mottana, professore ordinario di filosofia dell'educazione e di ermeneutica della formazione e pratiche immaginali presso l'Università degli Studi di Milano Bicocca; di Michela Schenetti, professoressa associata di didattica generale e metodologia e didattica dell'attività motoria presso l'Università degli Studi di Bologna; di Gisella Langé, esperta di lingue straniere e internazionalizzazione; e di Francesco Paolicelli, consulente Opengov ed esperto di coding. Saluto i nostri ospiti e li ringrazio della loro presenza.
  Come di consueto, darò la parola prima agli auditi, quindi ai colleghi che la chiederanno per porre questioni e, da ultimo, di nuovo agli auditi per le risposte ai chiarimenti richiesti. Partiamo dall'intervento di Gisella Langé, esperta di lingue straniere e internazionalizzazione, a cui do la parola.

  GISELLA LANGÉ, esperta di lingue straniere e internazionalizzazione. Grazie presidente per questo invito che permette di fare il punto su una delle emergenze del nostro sistema scolastico.
  Ho preparato una breve memoria con allegato che risulta agli atti. L'allegato è di particolare importanza perché è una nuova raccomandazione dell'Unione europea per un approccio globale all'insegnamento delle lingue.
  I punti su cui voglio intervenire però sono quelli che cercano di evidenziare il contesto legislativo-normativo del nostro sistema scolastico in ambito di lingue straniere. Metterò a fuoco l'innovazione metodologica più forte, quella che sta segnando un cambiamento all'interno delle modalità operative delle nostre scuole, la metodologia CLIL. Farò un appunto sulla formazione in servizio dei docenti che tragicamente è sempre molto sporadica e molto poco continua e, ovviamente, un piccolo accenno all'internazionalizzazione delle scuole, perché il processo di internazionalizzazione è quello che rafforza gli apprendimenti linguistici. Infine, alcune criticità e possibili soluzioni.
  Sul contesto legislativo-normativo l'Italia non è messa male, perché abbiamo potuto allineare tutti i nostri curriculi e i nostri regolamenti, indicazioni nazionali e linee guida al quadro comune europeo di riferimento e ai livelli che sono riconosciuti nel contesto internazionale e sono attivati in ambito anche di rilevazioni internazionali. Pag. 4 Ricordo a tutti che l'inglese è presente dalla prima classe della scuola primaria fino all'ultimo anno della scuola secondaria. Quindi i nostri studenti hanno tredici anni di lingua inglese. Una seconda lingua straniera è obbligatoria solo nella scuola di primo grado (scuola media) e una delle linee nuove dovrebbe essere quella di allargare maggiormente l'insegnamento di un'altra lingua straniera anche al settore della secondaria di secondo grado dove, in alcuni casi, è prevista. Nei licei linguistici si ha la presenza anche di tre lingue straniere. Ricordo a tutti che le lingue più importanti sono, in ordine: inglese, francese, spagnolo, tedesco. Tuttavia, cinese, russo, arabo, giapponese, sloveno e albanese sono offerti nelle nostre scuole secondarie di secondo grado, con un notevole incremento del cinese negli ultimi quattro o cinque anni, studiato in più di duecento scuole. Il russo è standardizzato su una sessantina di scuole, ma stiamo cercando anche in questo caso di intervenire al meglio.
  La metodologia CLIL è l'insegnamento di una materia o di contenuti in lingua straniera. È stato reso obbligatorio a partire dal 2014/15 dopo l'entrata in vigore della legge n. 53 del 2003 e i regolamenti del 2010. La scelta italiana per il docente CLIL è stata per il docente di discipline non linguistiche, quindi un docente di qualsiasi materia (matematica, scienze, fisica, informatica...). Ricordo che è una metodologia innovativa perché richiede alte competenze linguistiche e metodologico-didattiche, capacità di lavoro collaborativo, utilizzo delle nuove tecnologie. Il CLIL è presente in tutti gli ordini di scuola e l'Europa riconosce all'Italia un primato: quello di essere la nazione che ha introdotto ordinamentalmente il CLIL rendendolo obbligatorio nella scuola secondaria di secondo grado, nell'ultimo anno e nell'ultimo triennio dei licei.
  Grosso punto dolente è la formazione docenti che, per il CLIL in particolare, prevede un corso di perfezionamento universitario di venti crediti. Quattromila docenti hanno completato il percorso sino ad ora. Non è un numero sufficiente per i quindicimila di cui si avrebbe bisogno, però è un grosso passo avanti. La sporadicità dei corsi per lo sviluppo professionale dei docenti CLIL – e, soprattutto, la non attivazione di corsi per quelli di lingue – è un grosso problema da segnalare. E necessario, quindi, ampliare la loro formazione, soprattutto quella dei docenti della scuola primaria, nella quale il docente CLIL è il docente ideale per eccellenza, perché nella scuola primaria le competenze sono allargate.
  Internazionalizzazione della scuola. Anche qui, se non c'è un processo di internazionalizzazione, le lingue non si praticano e chi non pratica le lingue non migliora le competenze. Segnalo la positività di molte esperienze europee, così come le linee di indirizzo che sono state fatte a livello nazionale per spingere i ragazzi e gli insegnanti alla mobilità. Ricordo due elementi di estrema qualità: l'EsaBac (doppio esame di Stato per quattrocento scuole, trecentocinquanta licei e cinquanta tecnici, che offrono il diploma sia italiano che francese, con il raggiungimento di livelli in lingua e cultura notevoli) e il Cambridge che è una linea più volontaria e assolutamente non obbligatoria. I Cambridge courses sono diplomini in materia di storia, fisica e matematica in inglese. L'ultimo aspetto è quello del progetto «Certilingua» che vede più di trecento eccellenze dei nostri ragazzi che hanno due B2 e, in certi casi, addirittura un livello maggiore.
  Criticità. Sicuramente la necessità di mettere mano sulla raccomandazione che ho fornito come allegato, perché in questa raccomandazione vengono date alcune linee di sviluppo per i prossimi anni; senz'altro la necessità di formare i docenti della scuola dell'infanzia, che è completamente esclusa da qualsiasi piano di formazione e non ha ancora attivato alcuna linea per i suoi alunni.
  Il superamento della fase transitoria della metodologia CLIL è fondamentale in questo momento e soprattutto bisogna promuovere progetti di cooperazione internazionale che sono in parte iniziati con collaborazioni bilaterali quali, ad esempio, Italia-Stati Uniti, Italia-India, Italia-Giappone Pag. 5 e che dovrebbero essere aumentati. Infine, è necessario potenziare le competenze linguistiche. Se gli insegnanti non hanno occasione di formazione, non hanno occasione di pratica, non possono assolutamente migliorare quello che già sanno e migliorare la qualità.
  Indubbiamente la scuola primaria è il punto di partenza, perché è quella dove il ragazzo viene esposto per primo alle attività linguistiche, quindi alla sensibilizzazione linguistica.
  A mio avviso, è più che utile una legge per stanziare finanziamenti non solo per le lingue ma anche per altre emergenze: una legge che permetta di aprire una nuova finestra in ambito delle lingue e dell'internazionalizzazione aumenterebbe notevolmente il processo in atto che, pur debole, ha avuto in passato scelte a monte di notevole interesse.
  Ultima cosa che vorrei dire è che nel 2024 avremo la prima scadenza Global che è una rilevazione per la lingua inglese fatta da OCSE-PISA: è la prima rilevazione mondiale in ambito di competenze linguistiche. L'Italia non deve sfigurare, ma deve fare del suo meglio.

  PRESIDENTE. La parola ora a Francesco Paolicelli, consulente Opengov ed esperto di coding.

  FRANCESCO PAOLICELLI, consulente Opengov ed esperto di coding. Grazie, presidente. Io destabilizzo l'approccio classico. Parliamo di innovazione didattica e vorrei fare un salto nel passato: gli spazi. Se vogliamo parlare di innovazione didattica, dobbiamo ripercorrere molto velocemente la disposizione delle aule nelle nostre scuole. A suo tempo, la grande innovazione didattica fu il fatto che le sedie non erano più attaccate come banchi alla scrivania. Un'altra innovazione didattica fu la sostituzione del calamaio con la BIC.
  Non pensiamo al digitale come a qualche cosa che sta distruggendo il mondo. La tecnologia ha sempre impattato nella scuola, però il problema è che le scuole moderne sono molto simili a quelle del passato, perché il metodo trasmissivo della conoscenza è rimasto frontale. Quando si è parlato di digitalizzazione, le performance migliori sono state quelle di elettrificazione della scuola: LIM, monitor, qualche tablet, ma non si è impattato sulla didattica della scuola. Quindi, sostanzialmente, non abbiamo avuto gli effetti che avremmo voluto.
  Questi sono esempi che già oggi esistono nelle realtà italiane. In alto a sinistra, nella slide, vedete l'istituto Majorana di Brindisi e l'istituto di Mantova, che sono molto simili negli approcci alle nazioni con un sistema educativo più evoluto rispetto al nostro: la Finlandia, per esempio, e l'America. Non è soltanto una questione estetica: è una questione funzionale al tipo di didattica. Nell'istituto Majorana di Brindisi, come vedete, si svolge – come si dice in gergo – una lezione di classe capovolta: ai ragazzi si danno alcune indicazioni di massima delle cose da approfondire; i ragazzi le approfondiscono a casa, secondo l'indicazione fornita dal docente, le discutono in classe in gruppi di tre o quattro persone. Quindi sono abituati a dialogare tra di loro e a confrontarsi, acquisendo anche un metodo per essere un cittadino più consapevole davanti a un qualsiasi argomento. A turno, poi, ciascuno dei ragazzi fa da rapporteur di quel tavolo, raccontando all'insegnante quello che è emerso. L'insegnante cambia completamente il suo ruolo, non è più una trasmissione di conoscenza, ma un coordinatore di risorse umane. Molto più complicato ovviamente, ma decisamente molto più stimolante per l'insegnante e per i ragazzi.
  Ci sono tantissimi casi in Italia di questi esempi. È chiaro che in America si ha una fortissima correlazione con l'università o con i centri di ricerca; cose del genere sono fatte con il MIT di Boston che ha istituito un vero e proprio camp con insegnanti, scienziati, informatici che costruiscono i giocattoli e i sistemi educativi per i bambini della fascia più bassa; addirittura hanno chiamato il gruppo kindergarten, a significare quello che abbiamo noi in Italia: un metodo montessoriano 2.0, uno «scoprire facendo».
  Quanto agli strumenti, alcuni sono completamente gratuiti, ma bisogna vedere come Pag. 6vengono somministrati ai ragazzi. Il Piano nazionale scuola digitale ha dato una forte accelerazione a processi che prima avvenivano fuori dalla scuola. Si parlava di coding e di making esclusivamente in ambienti extrascolastici, come completamento dell'offerta. Oggi ci sono tantissime scuole che in Italia forniscono questo ulteriore argomento – voi lo sapete meglio di me, avete approvato un decreto-legge sul coding, quindi avete approfondito l'argomento – ma la metodologia didattica si chiama «creative learning»: è assolutamente bandito il termine «insegnamento», si usa il termine «apprendimento», che è qualche cosa di attivo che riguarda anche l'insegnante, il quale non dà una soluzione preconfezionata a quel problema specifico ma, insieme ai ragazzi, trova alcune soluzioni e spesso, con la loro creatività, si trovano soluzioni molto più efficaci. Poi subentra la parte tecnologica, che però è sempre a servizio dell'uomo. Già nella scuola dell'infanzia, che è l'ideale per lavorare in gruppo, c'è un apprendimento di gruppo, c'è la creatività, c'è la scoperta: nulla di tutto ciò va a sostituire la carta, va semplicemente ad affiancare e a completare l'offerta didattica.
  La cosa complessa è la formazione dei docenti. Cito alcuni punti di riferimento stellari, a mio avviso, nell'ambito italiano: sono normalissimi insegnanti di scuola media o scuola primaria che, per prima cosa, fanno togliere i banchi, mettersi a terra e lavorano con i ragazzi. Non è solo tecnologia, è anche carta e penna, per sviluppare il pensiero computazionale. Poi vediamo qual è la codifica di questo pensiero. Il re che ha portato l'Italia ai massimi livelli internazionali, perché non so se sapete che l'Italia è ai primi posti al mondo per il coding in ambito scolastico, almeno come adesione agli eventi, è il professor Bogliolo che ha usato una metodologia mista di trasferimento di queste tecniche, usando il MOOC, tramite l'Università di Urbino, quindi formazione a distanza. L'Italia ha partecipato a tutti i code week: è lui l'ambasciatore europeo del code week, ed è italiano, quindi ci fa fare una bella figura anche in Europa. Ma quello su cui vorrei far soffermare la vostra attenzione è che tutto questo mondo non si sviluppa in ambienti formali del MIUR: si sviluppa fuori. Di questi gruppi Facebook fanno parte diciottomila, ventiquattromila insegnanti che si confrontano – hanno una grande sete di confronto e di apprendimento – ma non riescono a soddisfare questo loro desiderio all'interno dei canali istituzionali. Perciò, la domanda c'è, forse dobbiamo tarare meglio l'offerta, nonostante il grande lavoro del Piano nazionale della scuola digitale.
  Ora abbiamo un esempio di didattica inclusiva per un bambino disabile. Si è usato il coding e alcune strumentazioni digitali per cambiare le slide di una recita (una recita fatta sulla «Gabbianella e il gatto» di Sepulveda), dove il bambino era parte integrante nella regia della recita, perché cambiava con un pulsante gli sfondi disegnati dagli altri ragazzi. È stata coinvolta tutta la classe e lui ha potuto partecipare in forma attiva grazie a un software che si chiama «Scratch», che l'insegnante di sostegno ha usato gratuitamente insieme ai genitori.
  Se saliamo di ordine e di grado, quindi andiamo alle scuole superiori, vorrei farvi notare alcune esperienze che paradossalmente sono più conosciute nell'ambito della Funzione pubblica e meno del MIUR, pur essendo fatta da scuole. Sono correlazioni fatte, ad esempio, tra l'Amministrazione comunale di Galatone e un Istituto superiore che ha fatto un'alternanza scuola/lavoro (all'epoca si chiamava ancora così), dove i ragazzi hanno imparato a rilasciare i dati aperti, gli open data della propria amministrazione. Ne hanno approfittato per censire le masserie storiche, i luoghi di attività commerciali, hanno imparato anche a fare mappe digitali, hanno costruito un’app su Telegram (sistema di messaggistica che tutti utilizziamo) e hanno costruito insieme al Comune il portale open data del Comune che ha avuto un immenso risparmio di soldi, perché ha fatto un semplice accordo a basso costo. Così i ragazzi hanno imparato che cosa vuol dire stare dietro la scrivania di un Comune; hanno conosciuto le problematiche di un'amministrazione pubblica, al di là del semplice Pag. 7approccio «c'è un buco, ripariamo quel buco». Hanno imparato che cosa ci vuole per cambiare un territorio e quali sono le azioni amministrative. Questa cosa è andata avanti, hanno costruito una centralina per la rilevazione delle polveri sottili (PM10) che hanno donato al proprio Comune, dove non ne esisteva una. Ieri è stata fatta una delibera comunale che prevede per sei ragazzi di questo istituto, appena diplomati, il coinvolgimento nella redazione del PUMS (Piano urbano della mobilità sostenibile), per la costruzione delle centraline per monitorare il traffico della città.
  Vedete l'evoluzione: siamo partiti da contaminazioni tra enti, tra soggetti che sul territorio possono fare una sinergia con alcuni professori, come il professor De Rosa che ha deciso di uscire dagli schemi. Stessa cosa è stata replicata a Francavilla Fontana. Questo è il caso di Nocera Inferiore: questo è il professor Scalzullo (scuole medie) che ha costruito alcune mappe con le fotografie storiche della città prima del terremoto, perché i ragazzi oggi non hanno idea di che cos'era quella città prima, vedono un cumulo di macerie o luoghi completamente rasi al suolo. Ha ricostruito le memorie andando ad intervistare gli anziani, prendendo i video, mettendoli su YouTube, insegnando a fare le mappe digitali, realizzando, alla fine, un percorso anche di valorizzazione del patrimonio culturale del territorio, materiale e immateriale.
  Vado velocemente avanti. Questa è l'esperienza patrocinata dalla Società Dante Alighieri italiana. Questa è un po’ ardita: i ragazzi studiano la Divina Commedia su una chat, su un’app dove c'è tutta la Divina Commedia. Scelgono un canto e una terzina e cercano su internet quello che quella terzina secondo loro oggi rappresenta. L'insegnante ha scoperto che esistono, molti insegnanti italiani non lo sapevano, sinfonie di Liszt fatte e quadri di Bukowski fatti per la Divina Commedia, esistono tantissime cose che nella letteratura italiana classica non hanno avuto modo di approfondire. Lo hanno approfondito grazie ai ragazzi, perché hanno fatto voli creativi andando a vedere altrove il significato della Divina Commedia, rendendola di nuovo appetibile, per loro e per il docente.
  Questi sono alcuni esempi che, secondo me, andrebbero finalizzati all'interno dell'Agenda 2030 dello sviluppo sostenibile. Il Comune di Fiumicino ha fatto un accordo con cinque scuole per avere orti comunitari. A Livorno, invece, ormai da tanti anni esiste il mercato contadino dell’«orto in condotta»: tutte le scuole di Livorno, due giorni all'anno, si scambiano quello che hanno prodotto nel loro orto botanico, e approfondiscono concetti che riguardano l'ambiente, l'internazionalizzazione del tipo di piante, che cosa coltivare, eccetera.
  Ancora un altro esempio di quanto dicevo prima: gli insegnanti hanno una grandissima sete di confronto e di apprendimento tra pari: in provincia di Brindisi è stato istituito un meeting dove mille docenti sono riusciti ad incontrarsi partendo da un gruppo Facebook, quindi senza soldi, con un'organizzazione dal basso per confrontarsi su quarantacinque argomenti che hanno scelto. È stato un apprendimento tra pari, non c'era un esperto che spiegava, ma c'era un docente che finalmente aveva il palco per poter raccontare quello che faceva in classe; quindi è stato fortemente motivante per loro.
  Mi permetto di fornire alcuni spunti conclusivi. Quello che emerge è che ci sono due criticità. La prima è che molti dirigenti scolastici sono scollegati rispetto alla didattica, non sanno quali sono le esigenze dei propri docenti: quando un docente chiede qualcosa, non riescono a capirne l'importanza. Quindi, a mio avviso, a costi veramente irrisori, potenziando il Piano nazionale della scuola digitale si potrebbe fare una formazione specifica per i dirigenti scolastici, magari centralizzata a Roma, per far ricevere a tutti un'indicazione unica, con sistemi più massivi. Quello che secondo me è importante sottolineare è che spesso – lo dice chi lavora in trincea – le indicazioni politiche che emergono sulle grandi riforme e sui grandi decreti legislativi, non arrivano alla base. Arriva la comunicazione sui giornali, ma non la visione del Parlamento su questi argomenti. Questo è un problema di comunicazione, presidente. Le Pag. 8comunità educanti, se vogliamo usare un termine caro, devono cambiare un po’ il paradigma.
  Questa è una effigie del XVI secolo, è il concetto di cultura, di conoscenza esclusiva in mano ai gesuiti: la conoscenza è un fluido che tramite un imbuto si mette nella testa del corsista, per trasferire il sapere. Cultura del sapere e non per pensare. Credo che occorra cambiare il paradigma, per non pensare più ai ragazzi come secchi da riempire, ma come fiammelle da accendere, parafrasando Plutarco.

  PRESIDENTE. Do ora la parola al professor Paolo Mottana.

  PAOLO MOTTANA, professore ordinario di filosofia dell'educazione e di ermeneutica della formazione e pratiche immaginali presso l'Università degli Studi di Milano Bicocca. Grazie, presidente. Ringrazio chi mi ha invitato, sono onorato di poter portare un contributo su questo tema che, da tanti anni, costituisce l'oggetto della mia ricerca, del mio lavoro e della mia formazione.
  Mi piacerebbe provare ad attirare l'attenzione di chi governa le sorti dei nostri processi educativi su alcuni aspetti che mi stanno particolarmente a cuore e che credo dovrebbero essere al centro di qualsiasi politica più che di innovazione educativa, di considerazione educativa, di attenzione nei confronti dei problemi dell'educazione.
  La prima questione, quella centrale, è che credo sia venuta l'ora, quando si parla di educazione, di educazione dei bambini e dei ragazzi, di avere in mente loro, innanzitutto, e non la loro destinazione professionale nel mondo del lavoro. Credo che chiunque si occupi di educazione o si preoccupi di educazione, anche semplicemente come genitore, come fratello, come persona umana di fronte a un cucciolo d'uomo, la prima questione che si dovrebbe porre è come renderlo felice di essere qua. Temo che le politiche educative che da sempre – perché non è certo una novità – sono state apprestate per i nostri cuccioli d'uomo, abbiano a cuore tutto, tranne che la loro felicità. Almeno durante quella stagione. Si preoccupano di un'ipotetica felicità futura, che spesso fanno coincidere con l'idea di essere inseriti all'interno del mondo del lavoro, come se questa – e noi tutti lo sappiamo bene – fosse veramente la realizzazione di se stessi. Sarebbe bello ogni tanto – anche solo nelle premesse che spesso si sentono utilizzare riguardo ai temi dell'educazione – che si potesse parlare guardando i bambini e i ragazzi, avendoli nella mente, nel cuore, nella pancia, riuscendo in qualche modo a immaginare di essere nei loro panni, come lo siamo stati. Noi eravamo anche più «educastrati» di loro, ma sicuramente in quegli anni abbiamo tutti patito molto. Abbiamo patito nel corpo, nelle emozioni, nell'immaginazione, nella creatività, come continua purtroppo ad accadere anche in una società che si dice progredita. Ma questa è una considerazione puramente generale.
  Sarebbe bello ogni tanto leggere in un programma politico che la prima preoccupazione è quella di far trascorrere ai nostri cuccioli d'uomo alcuni anni in cui vivano intensamente la loro infanzia, la loro adolescenza, non costretti a rimanere rinchiusi in luoghi che sono tutt'altro che ospitali, non sotto la minaccia di sanzioni, di punizioni e di valutazioni, non condizionati da un sistema normativo che certo loro non hanno scelto, non avendo nemmeno scelto di essere al mondo. Ma questa è una premessa di carattere filosofico generale.
  La seconda questione che voglio porre alla vostra attenzione è più inerente e, ai miei occhi almeno, banale, ma che purtroppo ha poco riscontro nelle politiche educative: il fatto che, se vogliamo parlare seriamente di formazione e di apprendimento, forse dovremmo porci il problema di quella cosa che si chiama esperienza. Ora, tutto c'è nelle nostre scuole tranne che esperienza. Le nostre scuole sono costruite in maniera tale da scindere le diverse parti della persona, sia quella del docente ma, molto peggio, quella del discente, e di far prevalere – in una maniera direi unilaterale – la sua testa, il suo cervello su tutto il resto della sua persona fisica, ma anche di quella psichica.
  Sappiamo tutti che un'esperienza è qualcosa nella quale siamo coinvolti integralmente. Pag. 9 L'esperienza non è quella cosa di cui parlano a volte certi pedagogisti che corrisponde al «learning by doing» (una locuzione che è andata molto di moda in certi anni), non è legata necessariamente al fare; si possono avere meravigliose esperienze anche stando immobili e non facendo nulla, per esempio ascoltando un brano di musica, meditando, oppure semplicemente riposandosi. Esperienza significa essere lì, interamente, in quello che sta accadendo. Mi chiedo come mai tante teste abbiano pensato di educazione e di formazione, ma ancora oggi l'educazione che noi proponiamo a livello pubblico sia così largamente mancante di esperienze e, anzi, facciamo di tutto per evitare che si trasformi in esperienze. Quindi non dobbiamo stupirci che l'apprendimento, che solo dall'esperienza arriva, sia così scarso e fallimentare. Nessuno impara qualcosa di cui non fa esperienza, a cui non partecipa integralmente con il suo corpo, la sua mente, le sue emozioni, le sue intuizioni, la sua immaginazione. Invece costringiamo i nostri bambini e i nostri ragazzi a stare in luoghi dove sono costretti (e già la costrizione è un ottimo elemento per fugare la possibilità di un'autentica esperienza) a fare cose che non li interessa (seconda condizione che nella maggior parte dei casi fuga la possibilità di un'esperienza) e che non li coinvolge partecipativamente (terza condizione che determina la fuga dell'esperienza).
  Credo che dovremmo cominciare ad immaginare un'educazione e una formazione che metta al centro il concetto di esperienza, e su questo mi piacerebbe poter dare una serie di idee che in otto minuti non posso dare, ma sulle quali – vi assicuro – ho parecchie ipotesi.
  La terza questione, ma tutte queste questioni ovviamente sono collegate fra di loro, è che credo sia venuto il momento – perdonatemi se uso ancora una volta questa espressione: per me sempre sarebbe dovuto venire questo momento, ma purtroppo non accade – di pensare forse ad accogliere nuovamente nel corpo della vita sociale una parte della popolazione che abbiamo deciso di escludere da essa: i bambini e gli adolescenti. Come sapete, siamo una delle poche popolazioni, da quando esiste questo pianeta, che ha deciso di mettere i bambini e i ragazzi fuori dalla sua comunità. Li abbiamo internati dentro questi luoghi separati dalla vita sociale, che sono le scuole e, di fatto, non viviamo mai insieme a loro. Gli unici privilegiati che lo possono fare sono gli insegnanti e gli educatori. Molto spesso neppure le famiglie condividono molto tempo con i loro figli, perché ovviamente gli uni stanno al lavoro e gli altri stanno a scuola. Ora credo, e ho cercato di esprimerlo in diverse pubblicazioni in questi ultimi anni, che sia venuto il momento che la società riaccolga nel suo tessuto vivente bambini e ragazzi, perché, ciascuno secondo le sue capacità, all'interno di quel tessuto vivente impari, ovvero quello della realtà, quello dei quartieri, del territorio. Molto dipende da noi, perché siamo noi che abbiamo organizzato una società che non è in grado di ospitare neppure il movimento autonomo dei bambini e dei ragazzi nel suo seno: di questo dovremmo scandalizzarci! Dobbiamo ricostruire le condizioni perché i bambini e i ragazzi tornino ad abitare il mondo. In primo luogo perché ne hanno bisogno; hanno bisogno di essere liberati da questa prigionia così duratura e così massiccia nella quale versano per lunghissimi anni, per poter di nuovo vivere all'aria aperta, innanzitutto, e a contatto con situazioni vere, reali, non situazioni artificiose come quelle che costruisce la scuola su curricoli del tutto improbabili rispetto alle loro aspettative e alle loro potenzialità. Hanno bisogno di partecipare alla vita, di essere visti, di essere riconosciuti, di avere un loro punto di vista, di poter sperimentare la realtà nelle sue infinite sfaccettature e a noi adulti spetta il compito di organizzare la realtà in maniera tale che sia nelle condizioni di poterli ospitare.
  Se qualcuno fosse interessato, ci sono le pubblicazioni e ci sono anch'io che posso rispondere su tutti i dettagli di questa operazione che stiamo cercando di attivare in alcune realtà, che peraltro è un'espansione di un'idea di didattica attiva, di una didattica all'aria aperta, nella quale questa costrizione concentrazionaria nei luoghi dell'educazione Pag. 10 viene meno e dove il luogo dell'esperienza è il mondo. La scuola, anche se io preferirei chiamarla in un altro modo, il luogo dove ci si ritrae dopo aver fatto esperienza per elaborare l'esperienza come in una sorta di alambicco alchemico, diventa soltanto un aspetto subalterno rispetto alla primarietà dell'esperienza vissuta nel mondo. Vi assicuro che bambini e ragazzi sono capaci di vivere esperienze nel mondo, ma anche di dare un contributo al mondo. Ci siamo espropriati della possibilità di avere il loro contributo, il loro sguardo, i loro occhi, le loro orecchie, la loro sensibilità. I ragazzi sono molto bravi a fare un'infinità di cose e noi li abbiamo messi nelle condizioni di non poter dare questo contributo fino a non si sa bene quale età, sperando poi che diventino cittadini del mondo rimanendo per anni e anni in cattività. È una cosa piuttosto bizzarra, non vi pare?
  In conclusione, perché le cose essenziali che volevo dire sono queste, mi aspetterei, davvero con un grande desiderio e una grande ansia, che chi si occupa di educazione, posto che abbia una vaga idea di che cosa si tratti, si ponga queste domande, si ponga la domanda di chi sono i bambini e i ragazzi, che tipo di soggetti sono e che cosa davvero noi che li abbiamo messi al mondo dobbiamo corrispondere loro affinché diventino cittadini del nostro mondo, di cui abbiamo tutte le responsabilità peraltro. In secondo luogo, che cosa sia l'apprendimento, perché continuiamo a ruotare intorno a questa questione dell'apprendimento e poi apprestiamo luoghi totalmente inadatti a una qualsiasi esperienza di apprendimento: sono i più inadatti in assoluto. Meglio lasciarli liberi, piuttosto che chiuderli lì dentro, perché almeno un'esperienza incidentale – come dicono autorevoli studiosi – potrà forse creare le condizioni di un apprendimento un po’ più significativo di quello che vivono in luoghi dove sono costretti a stare. In terzo luogo, la necessità che hanno di vivere accanto a noi, non separati da noi, dentro la società, non separati dalla società, all'aperto e non al chiuso, così come noi abbiamo l'esigenza di averli con noi. Pensate a quanto perdiamo in termini di bellezza, di spontaneità, di calore, di sguardo attento e ancora non preso dall'ansia del produrre che solo bambini e ragazzi possono avere e possono aiutarci a ritrovare, se solo li riammettessimo all'interno delle nostre comunità. Queste sono le cose che mi sembrava giusto dire.

  PRESIDENTE. Do ora la parola alla professoressa Michela Schenetti.

  MICHELA SCHENETTI, professoressa associata di didattica generale e metodologia e didattica dell'attività motoria presso l'Università degli Studi di Bologna. Grazie, presidente. Ringrazio molto la Commissione per avermi dato l'opportunità di essere qui a portare riflessioni dal lavoro di ricerca, di studi e di formazione di questi anni. Ringrazio anche i colleghi che siedono qui con me – abbiamo tutti letto un filo rosso tra i discorsi che stiamo portando avanti – e che, prima di me, hanno sottolineato l'importanza dell'internazionalizzazione e il fatto che siamo tutti cittadini del mondo, ma che per essere tali, i nostri bambini e ragazzi devono poter agire attivamente nel presente e vedere riconosciuto il loro bisogno e diritto di fare un'esperienza creativa, che richiami all'immaginazione e che sia profondamente connessa all'apprendimento. Proprio per questa ragione, la mia decisione è stata quella di mettere agli atti un documento dal titolo «Il primato dello spazio nell'innovazione didattica e nell’empowerment dell'insegnante», perché quello che vorrei fare è raccontarvi una delle sperimentazioni che si sono avviate negli anni, con l'istituzione di una rete nazionale pubblica delle scuole all'aperto, di cui avete già audito la dirigente capofila, una rete di scuole che ha iniziato a considerare il «fuori della scuola» come ambiente di apprendimento, per cercare di capire che cosa può portare la scuola tradizionale.
  Lascio al documento che vi ho consegnato tutto il compito di farvi capire le profonde connessioni con l'analisi internazionale e nazionale sul tema e, soprattutto, con gli esiti di ricerca. Io mi prendo questo tempo per cercare di discutere insieme a Pag. 11voi quelli che possono essere i vantaggi che si hanno nel considerare l'ambiente esterno alla scuola come ambiente di apprendimento, come sosteneva e ha approfondito il professor Mottana. Ho letto con molta attenzione il programma che ci avete inviato, che riporta e ci richiama alla realizzazione degli obiettivi legati allo sviluppo sostenibile. Parto da qui per dire che innanzitutto, se lo scenario è quello dell'educazione alla sostenibilità, la ricerca internazionale ci racconta quanto non sia sufficiente educare sull'ambiente, fornire conoscenze e informazioni per fare in modo che le nuove generazioni e, con loro, le famiglie e gli insegnanti di riferimento si attivino per fare qualcosa per quell'ambiente, se non si dà loro l'opportunità di sviluppare un vissuto profondo con quell'ambiente che gli viene chiesto di rispettare e di cui prendersi cura. Ma anche perché il fare scuola fuori spinge ad interrogarsi sul senso del fare scuola oggi, un fare scuola che è ancorato e richiede di rivedere e di ricontestualizzare le radici teoriche e culturali: pensiamo all'attivismo pedagogico su cui si basano tutte le didattiche attive e innovative, e pensiamo a chi ci ha raccontato (tantissimi studiosi) quanto riportare gli studenti, i bambini all'interno del mondo possa essere significativo, proprio per contestualizzare e dare un senso agli apprendimenti. Ma, nello stesso tempo, andare fuori permette alla didattica, sia essa generale o disciplinare, di aggiornare lo sguardo sui bambini e tenere in considerazione i loro sviluppi evolutivi e di uscire da quella condizione di pressione che gli insegnanti ci raccontano essere data da una scuola che chiede di essere sempre più performativa. Come già è stato sottolineato, si rischia di non vedere più il bisogno dei bambini che entrano nelle nostre classi e, di converso, abbiamo ben chiari i dati che ci rimandano l'Organizzazione mondiale della sanità e le ricerche internazionali, che descrivono un'infanzia sempre più fragile, sempre più sola, con problemi di sovrappeso, obesità con le poche opportunità di stare all'aperto a contatto con gli altri. La scuola non può fingere di non sapere queste cose e continuare a proseguire, perché poi parliamo di «live skill», parliamo della necessità di mettere il bambino in relazione con se stesso prima di tutto, con gli altri e ancora con il mondo. Quindi, fare didattica all'aperto: le scuole all'aperto, che promuovono la didattica tra il dentro e il fuori, quindi non stando totalmente fuori, colgono l'occasione per dimostrare e raccontare una cosa molto importante ai ragazzi: che i saperi sono situati, non sono frammentati. Restituiscono, quindi, un'idea complessa di conoscenza, promuovono l'esperienza diretta, promuovono il movimento e ridanno un valore al corpo del bambino, tutte variabili esplicitamente connesse con il processo di apprendimento. Quindi le scuole all'aperto hanno assolutamente a che fare con il curricolo per competenze, con la valutazione formativa, con i compiti autentici; ma fanno anche tesoro delle neuroscienze, quindi mettono alla base di qualsiasi apprendimento l'importanza di emozioni positive e che ci sia motivazione di interesse per apprendere.
  Sono naturalmente in perfetta sintonia con le raccomandazioni europee e con le indicazioni nazionali ministeriali del 2012 e dei nuovi scenari del 2018. Tuttavia, se li conosciamo bene, dovremmo dire, lavorando nella scuola, che spesso rimangono nelle soffitte di molti istituti scolastici, forse perché, se è vero che rappresentano l'idea di scuola in coerenza con un'idea di sviluppo sostenibile, è anche vero che necessitano ancora di percorsi di formazione per gli insegnanti che riescano a renderle attive e significative nella quotidianità, riuscendo a mettere da parte quell'idea di programma che spesso tende a coincidere con la scelta dei libri di testo.
  Agire sugli spazi è molto importante perché non è neutrale. Ce lo spiegava anche il collega Paolicelli. Nello stesso tempo è come se avesse un effetto domino, perché abitare spazi fuori dalle aule scolastiche, che sia il giardino scolastico, che sia il territorio, che sia spostarsi, richiede una revisione dei tempi, richiede all'insegnante di esercitare spirito critico nella scelta di quali contenuti proporre, quando proporli e quali metodologie usare. Così, di converso, richiede soprattutto alle insegnanti Pag. 12di cambiare una postura, di mettersi molto più in connessione con l'altro da sé, con i bambini, con i ragazzi e con la classe che non con il proprio sapere, perché il rischio che corriamo è che una scuola che mette al centro i contenuti o metodologie specifiche richiede all'insegnante di essere molto più in relazione con il proprio contenuto disciplinare che non con gli attori, gli interlocutori di questo apprendimento.
  Sulle competenze dell'insegnante credo che si giochi l'aspetto veramente più interessante, perché in questi ultimi anni ho visto insegnanti smarriti all'idea di uscire, insegnanti che non si sentivano adeguati nell'accompagnare fuori dalle aule i bambini, perché non si sentivano competenti. Ho visto insegnanti che hanno realizzato quanto quello che c'è fuori dalla scuola spesso non sia adeguatamente conosciuto da loro stessi. Abbiamo lasciato fuori dalle nostre vite la natura per così tanto tempo, da non conoscere, per esempio, se pensiamo ai contesti naturali, la maggior parte delle specie differenti che vi si contraddistinguono. Ma questa postura dell'insegnante è estremamente interessante, se sostenuta dal punto di vista della formazione, perché mette l'insegnante nella disposizione di colui che è ancora all'interno di un processo di apprendimento, che apprende con il bambino e riscopre le modalità e le procedure dell'imparare ad imparare.
  Una cosa ancora più interessante è che nell'ambito delle mie ricerche ho provato a indagare anche il tema della correlazione tra fonti di stress da lavoro nelle professioni educative e scolastiche e i vissuti dell'adulto impegnati in una didattica all'aperto. I risultati sono stati molto interessanti, perché gli esiti mettono in evidenza come l'abitare fuori dalla scuola per fare scuola con continuità possa svolgere un'azione preventiva su alcuni fattori che sono considerati di base per la prevenzione del burnout e che quindi ci riconsegnano un dato molto interessante.
  Per tutte queste ragioni mi sento di dire che, quando si parla di innovazione e didattica, non necessariamente si debba fare riferimento al tempo veloce, al mettere in campo qualcosa che è necessariamente nuova. Sicuramente in questi anni è stato fatto tanto lavoro dal punto di vista dell'innovazione e vediamo quanto le competenze digitali caratterizzino la nostra vita. L'idea è che quanto più aumenta l'uso delle tecnologie a casa, a scuola per le nuove generazioni, quanto più sia importante che bambini, ragazzi e insegnanti abbiano la possibilità, con continuità e per lo stesso quantitativo di tempo, di abitare contesti di apprendimento ricchi e complessi, in cui fare un'esperienza completa, globale e complessa, perché questo permette di avere non solo un'idea più complessa di educazione, ma di agire attivamente in questo senso. Nelle scuole in generale, quelle all'aperto in particolare, occorrono però insegnanti in grado di conoscere i processi di apprendimento dei propri interlocutori, che conoscano strumenti e linguaggi e che sappiano usare anche gli strumenti di auto-osservazione. Il ruolo della politica e dell'università in questa direzione è cruciale, perché per rendere possibile questa innovazione occorre assolutamente investire sulla formazione, e quello che porto qui oggi è un'esperienza di ricerca/formazione triennale. L'approccio della ricerca/formazione nasce all'interno di un centro di ricerca universitario nazionale che mira proprio a sostenere le scuole in modelli di innovazione didattica, facendo ricerca con le scuole, con l'obiettivo di aumentare l’empowerment professionale.
  Concludo. Nel 2015 il Ministero ha adottato con grande successo il Piano nazionale per la scuola digitale. Sono state stanziate molte somme di denaro per andare a costruire ambienti digitali. Forse il 2020 può essere una bella occasione per proseguire nella direzione di un'innovazione didattica che consideri il digitale e il naturale non in antitesi tra loro, ma che abbia uno sguardo molto complesso rispetto all'educazione che richiede esperienze plurali che abbiano lo spazio e il tempo delle esperienze, quindi quello della meta-riflessione. E siamo pronti – io di certo – per un Piano nazionale delle scuole naturali o delle scuole dell'esperienza.

  PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi che hanno dato un contributo importante, anche Pag. 13 bibliografico e di ricerca, che risulta agli atti.
  Mi rivolgo ai commissari. Questa indagine conoscitiva tende verso la fine, quindi dovrà definire alcune conclusioni e voglio cogliere questo incontro per sottolineare un aspetto specifico che è stato sollevato: la diffusione ai cittadini e non più solo al corpo docente di quali siano le pratiche riconosciute dalla ricerca e dall'università. Questo è un tema che a mio avviso deve entrare nel dibattito attraverso la televisione pubblica, le trasmissioni pubbliche, ma anche attraverso altre modalità che la Commissione vorrà sviluppare su questo fronte. Ciò per contrastare quel grosso problema di una legislazione che dà indicazioni e di una realtà che non le raccoglie nella completa forma in cui sono nate, perché arrivano frantumate o, in alcuni casi, non arrivano affatto.
  Do ora la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre questioni o formulare osservazioni.

  ALESSANDRO FUSACCHIA. Grazie, presidente. Ci tengo a ringraziare gli auditi. Riflettendo un po’ su quello che ha appena detto il presidente, ritengo che una delle domande centrali che ci stiamo facendo nel corso delle audizioni sia come si possa fare per passare da una marea, per fortuna, di fantastiche storie, di fantastiche realtà, di fantastiche eccezioni a qualcosa che diventi la nuova regola e che quindi sia sistemico. Quindi, il ragionamento su come far sì che non solo diventi sistemico dentro la scuola, ma che questi bambini, ragazzi e studenti diventino, più o meno consapevolmente, agenti di cambiamento quando tornano a casa, è un elemento centrale. Altrimenti la maggioranza degli umori attorno alla classe, attorno alla scuola resta quella novecentesca, ci piaccia o meno. Quindi, la domanda da un milione di euro è sempre come eventualmente tradurre tutto questo in qualche cosa che non sia solo lucidità e visione di chi dirige un Ministero, ma anche normativi, pur sapendo che questo è un Paese che fatica a fare leggi, perché si è abituato solo a fare emendamenti. Scrivere una legge parte, nella migliore delle ipotesi, dal primo articolo, dalla definizione del perimetro del problema e dell'oggetto di cui ci si deve occupare; e già qui, secondo me, rischiamo di perderci all'articolo 1. Stante questa premessa rispetto al fatto che normare su certe questioni non basta e non risolve il problema, c'è qualche cosa su cui è utile intervenire, a livello sistemico, attraverso lo strumento classico che ha a disposizione il legislatore in un Paese democratico, che si chiama fare le leggi.
  Il secondo punto che – anche se con aspetti diversi avete toccato un po’ tutti e che, secondo me, è centrale – torna in maniera prepotente è la questione dello spazio. Soprattutto perché – penso anche all'istruzione che abbiamo avuto negli ultimi venti o trent'anni – siamo cresciuti con una scuola che ti abitua molto, come anche la famiglia (è proprio l’imprinting culturale che abbiamo, non credo solo in Italia, tra l'altro) a tenere il più possibile sotto controllo lo spazio, tanto ti puoi distrarre con il tempo. Dovremmo un po’ ribaltare questo: l'idea è aiutare, attraverso processi di innovazione, a trasmettere il senso della crescita e della maturazione nei confronti dei ragazzi e delle ragazze e a farli rilassare sul fatto che lo spazio ormai è una variabile che non esiste più e che questo ha delle implicazioni rispetto alla loro capacità di fare esperienze fuori dalla scuola, in altre città, in altri Paesi, anche rispetto al fatto che stanno crescendo in un mondo in cui lo spazio, per definizione, ha cambiato natura.
  Un'altra parola che ho ritrovato e che ritorna nei vostri interventi è quella dell'esperienza. Se parliamo di innovazione – non voglio essere così drastico da dire che non ci sia sapere che non sia trasmesso in un certo modo anche più classico – l'investimento sul fatto che i ragazzi acquisiscano consapevolezza di sé, conoscenze, nozioni, anche attraverso esperienze, è fondamentale. Guardo la professoressa Langé, stiamo parlando delle lingue: uno ci può mettere in una classe tutto il tempo che vuole, ma ad un certo punto deve prendere un aereo o un treno, andare in un altro Paese e impararla. Sono un fondamentalista dell'idea che noi, non solo perché lo spazio europeo per me ha un valore, per Pag. 14questi ragazzi dovremmo investire massicciamente risorse finanziarie per permettere loro, in tutti gli ordini e gradi di scuola, di fare esperienze da un'altra parte. Non solo perché si impara una lingua, ma perché si impara tutto facendo un'esperienza da un'altra parte. Quindi vorrei condividere con voi questo pensiero ed eventualmente chiedervi, a seconda della quantità di risorse anche economiche di cui il Paese dispone in certi momenti della storia, su che tipo di esperienze fuori dalla classe, se ne doveste scegliere una, investireste. Per esperienze intendo qualcosa di più significativo che non tre ore il pomeriggio per andare a fare cose, anche belle e significative. Intendo esperienze che scardinano il meccanismo classico per cui il ragazzo la mattina si sveglia, va a scuola e poi fa l'esperienza anche fuori dalla scuola. Non parlo di questo, parlo proprio di esperienze di periodi lunghi, significativi. Vorrei sapere se voi avete contezza di alcuni percorsi specifici o avete proposte su questo, perché credo che questo sia l'investimento da fare sulla scuola italiana.

  VALENTINA APREA. Grazie, presidente. Anch'io ringrazio gli auditi. In particolare devo ringraziare l'ispettrice Gisella Langé, che ho avuto la fortuna di conoscere già nella mia esperienza governativa, quindi molto tempo fa, perché grazie a lei – credo – sono trascorsi «solo» undici anni nell'applicazione del CLIL dal 2003 al 2014. Ed è un tempo pazzesco. Il Ministero, di cui vorrei poter dire tutto il male possibile, perché agisce molto più da freno che da acceleratore, avrebbe fatto dormire la norma del CLIL che noi, nel 2003, con Letizia Moratti, avevamo immaginato solo per l'ultimo anno, mentre abbiamo capito che il CLIL dovremmo inserirlo fin dalla scuola dell'infanzia. Se fosse dipeso solo dal Ministero, eccezion fatta per l'ispettrice Langé, non avrebbe avuto applicazione neanche nel 2014, e forse oggi qui avremmo interrogato il Ministero sull'applicazione della norma del 2003.
  Parto da questo paradosso per far venir fuori il tema che l'innovazione didattica non è cercata, non è voluta. Anzi c'è chi frena e si accontenta di avere le eccellenze. L'ispettrice Langé ha avuto poco tempo. Ho avuto modo di risentirla poco tempo fa, quando ho dovuto affrontare la ricerca per un libro di cui parlerò fra un minuto («La scuola dei centennials»), e lei mi ha aggiornato su tutta una serie di esperienze bellissime che riguardano il cinese, il giapponese, il russo e tutto quello che fa parte dell'internazionalizzazione, oltre che dello studio delle lingue europee che ci servono per la cittadinanza europea. Sapete che ci sono scuole che sarebbero già pronte a fare anche questo allargamento nello studio delle lingue e il Ministero frena? Ancora adesso, nel 2020, il Ministero mette il limite alle scuole che chiedono di sperimentare lo studio di più lingue. Credo che sia una cosa veramente pazzesca! Qui siamo tutti d'accordo: il Ministero non deve fare più queste cose! Questo è un problema, perché anche le scuole che sono già pronte, perché si organizzano orizzontalmente e non verticalmente, alla fine vengono bloccate.
  Intanto ringrazio per tutto il lavoro fatto per l'internazionalizzazione e per le lingue. Quanto al 2024, spaventiamoci! Creiamo l'allarme, perché noi in scienze, italiano, lingua madre, e matematica già andiamo malissimo, figuriamoci quando l'OCSE verrà a misurarci i livelli della competenza in inglese! So che l'INVALSI ha iniziato, attraverso le rilevazioni che per fortuna hanno fatto, a misurare e a fare certificazioni che spingono ad una maggiore competenza dell'inglese, soprattutto nei ragazzi più grandi; ma dire che i nostri ragazzi dopo tredici anni di istruzione conoscano l'inglese, è ancora una bugia. Lanciamo l'allarme. Grazie per avercelo ricordato. Però non accadrà la stessa cosa dal 2020 al 2030. Se abbiamo potuto permetterci dieci anni per implementare lo studio della lingua e il CLIL, dal 2020 al 2030 scordiamocelo, perché o ci muoviamo velocemente, oppure saranno i ragazzi che arriveranno a scuola con l'inglese che avranno già imparato attraverso internet o altro.
  Stessa cosa per tutti gli altri interventi, a partire dal coding. Chi mi conosce sa – la Commissione sicuramente – che credo che dobbiamo rendere al più presto obbligatoria la quarta abilità di base: dopo, leggere, Pag. 15scrivere e fare di conto, il coding. Fatto questo passaggio, tutto verrà di conseguenza, perché se il nostro Ministero non lo rende obbligatorio – abbiamo visto che con il CLIL, con la lingua straniera, ci sono voluti undici anni – i ragazzi faranno la loro formazione tecnologica da centennials, a prescindere da quello che faranno a scuola.
  Ci sono eccellenze verticali? Sì. È un Paese di eccellenze verticali: ci sono zone, realtà e scuole che l'hanno, per esempio, nell'inglese, come anche nel coding. Siamo riusciti a portare quest'anno, per la prima volta, al BETT di Londra una scuola italiana (l'Istituto comprensivo statale Giuseppe Ungaretti di Melzo), che presenterà il proprio modo di fare scuola insieme a una scuola londinese, a una scuola olandese e a una scuola tedesca, che vengono definite «scuole che indicano la strada». Una scuola è un'eccellenza sicuramente: ne sono felice, ma, da legislatori italiani e da decisori politici per la nazione, non si può pensare che abbiamo risolto portando in Europa, di fronte al mondo, nell'evento internazionale Apple, una scuola italiana.
  Per passare dalle eccellenze verticali alle eccellenze di sistema e a un modo di cambiare lo spazio – oggi insisto su questo concetto, non voglio essere particolarmente cattiva – i docenti, ma anche il Ministero, devono cambiare. Il fatto che ci sia una formazione parallela e che le scuole eccellenti e innovative si siano organizzate per proprio conto, da un certo punto di vista è un fatto positivo, ma poi si scontrano con il muro delle indicazioni formali. Quindi occorre assolutamente cambiare rotta anche qui.
  Siccome non ci può essere apprendimento, se non c'è azione – ha ragione il professore, oppure la professoressa quando parla di sviluppo sostenibile al di fuori dell'aula –, oggi le tecnologie consentono di apprendere molto anche al di fuori dell'aula, della situazione tradizionale, canonica. Tuttavia, anche questa va legittimata, perché oggi se ne parla come di casi eccezionali, non è la norma: le amministrazioni comunali, che devono attrezzare e costruire scuole, continuano a comprare banchi, sedie, lavagne, facendo un investimento pubblico, secondo i canoni del Novecento. Bisognerebbe veramente fare una lezione non solo ai genitori, che sono molto tradizionalisti nell'educazione, conservatori: lo dice chi viene dall'opposizione e quindi da una forza che in genere viene definita di conservatori. Però, attenzione! Tutti in educazione sono conservatori, soprattutto gli opinion leader, quelli che scrivono sui giornali «indietro tutta»; quindi è un fatto culturale, ha ragione il Presidente: qui manca la cultura dell'innovazione. Non basta indicare di conoscere l'innovazione, va fatta un'operazione culturale sulla formazione, perché se no, se cambia tutto il mondo e la scuola rimane uguale, non andiamo da nessuna parte. Quindi grazie per le indicazioni.
  Credo che nell'università, nel Ministero o nelle realtà che sono svincolate dai sistemi istituzionali bisogna veramente favorire questa cultura. Noi lo faremo con l'indagine che abbiamo fortemente voluto, ci sarà un rapporto che presenteremo alla nazione, ma devo dire che si fa ancora fatica. I colleghi che sono qui, che non sono della scuola, quando vi sentono parlare, giustamente si chiedono «noi che facciamo nelle nostre scuole?». Un mio collega, che è anche sindaco, chiede «come facciamo a trovare un equilibrio tra quello che c'è veramente e quello che invece ci dovrebbe essere?». Dobbiamo quindi ancora fare tanta strada. Grazie per l'aiuto che ci avete offerto.

  GIORGIA LATINI. Grazie, Presidente. Ringrazio anch'io gli auditi per essere qui a illuminarci con le loro testimonianze.
  Sono molto contenta che con questa indagine conoscitiva finalmente si parli di futuro e di speranza in un nuovo modello educativo, perché il fallimento del vecchio modello scolastico è sotto gli occhi di tutti e non possiamo più far finta di niente. Questo è un dato di fatto, perché tutte le vostre testimonianze sono andate in questa direzione. Un esempio su tutti: i miei colleghi hanno parlato delle lingue straniere, questo è un esempio del fallimento del nostro modello scolastico dove si insegnano per ore lingue straniere parlando della sintassi, Pag. 16 delle varie strutturazioni, però poi non si fa esperienza. Come diceva il professor Mottana, l'esperienza è alla base dello sviluppo del bambino; e senza esperienza, anch'io sono d'accordo, non andiamo da nessuna parte.
  Come anche diceva la professoressa Schenetti, la formazione degli insegnanti è alla base della rivoluzione del sistema e del modello educativo. Purtroppo oggi ci troviamo ancora con troppi insegnanti che stanno lì solamente per lo stipendio e, quando mancano la passione e l'amore di trasmettere un messaggio formativo, evolutivo, alle nuove generazioni si danno messaggi sbagliati. Se non si trasmette quella passione, se non si crea quella curiosità per far sprigionare la voglia di apprendere, di fare domande e di crescere, i ragazzi finiscono per studiare solamente perché si sentono costretti, perché aspettano quella specifica interrogazione per prendere quel voto e poi non vedono l'ora di scordarsi quello che hanno imparato, perché hanno sofferto questo tempo dedicato allo studio, che viene visto come un obbligo. Invece quello che secondo me dovrebbe esserci in un nuovo modello educativo è proprio quello di dare un impulso che emozioni e appassioni le nuove generazioni alla curiosità di conoscere per poi migliorarsi.
  Gli insegnanti che oggi danno la maggiore importanza al loro programma di studi, avendo come unico obiettivo quello di riempire i cervelli dei nostri ragazzi di nozioni, dovrebbero cambiare questa linea e vedere in queste nuove generazioni cosa c'è, cosa possono dare, come possono tirare fuori i loro talenti, perché poi ognuno è diverso. Quindi, per cambiare completamente questo approccio educativo, ritengo che iniziare già in questa Commissione un dialogo sia un punto di partenza importantissimo. Quindi ringrazio nuovamente i nostri ospiti. Considero questo solo un primo approccio, perché per costruire un nuovo modello educativo c'è bisogno di approfondire, di essere coordinati e di creare una sinergia tra più parti che remano nella stessa direzione.

  PRESIDENTE. Considerando i tempi, credo non ci sarà possibilità di replica, però avremo la possibilità di raccogliere le vostre risposte formali contenenti eventuali indicazioni per il documento finale. Alcune le avete già date in fase di audizione, altre potrebbero costituire repliche alle richieste dei commissari. Adesso interverranno Ciampi per il Partito Democratico e Melicchio per il MoVimento 5 Stelle, così abbiamo ascoltato tutte le componenti della Commissione.

  LUCIA CIAMPI. Grazie, presidente. Ringrazio gli auditi per il contributo. Voglio partire da una nota di attualità relativamente alla scuola, non tanto come si vorrebbe che fosse quanto alla scuola come è. Non userei il termine di «fallimento» ma di «superamento», perché la scuola è fatta di persone, di risorse umane, di risorse economiche che si spendono e si sono spese: vite intere di insegnanti che con grande passione hanno dedicato la loro vita non a inculcare, a inserire nei cervelli dei ragazzi le nozioni, come la collega Latini ha testé affermato, ma con amore hanno cercato di educare, a trarre fuori da loro quei talenti che devono essere scoperti con strumenti adeguati e, possibilmente, con l'innovazione didattica. È vero che gli insegnanti hanno bisogno di essere formati, ma molto spesso, molto più di quanto non immaginano coloro che non operano nella scuola, sono appassionati e capaci di far scoccare la scintilla dell'interesse verso il sapere, verso la conquista di quel famoso senso critico che renderà i ragazzi, da grandi, liberi di pensare.
  Fatta questa premessa, mi voglio concentrare su due categorie fondamentali dell'innovazione didattica, di cui voi siete stati portatori nelle vostre relazioni: i luoghi e i tempi. I luoghi dell'apprendimento, non dell'insegnamento, possono essere luoghi chiusi e aperti in maniera assolutamente complementare, l'uno non esclude l'altro. I luoghi chiusi però devono essere adeguati all'apprendimento. Noi legislatori dobbiamo assolutamente puntare al miglioramento del luogo dell'apprendimento: da qui le nostre battaglie e le nostre richieste di risorse da investire nell'edilizia scolastica. Non mi perdo ulteriormente su questo, ma è fondamentale che i luoghi siano non Pag. 17angusti, che siano ampi, che siano colorati, pieni di luce, che siano assolutamente dinamici, con possibili utilizzi polivalenti. L'altro spazio è quello aperto, e lo spazio aperto più radicale è quello fuori, come ci diceva così autorevolmente la nostra ospite. Oltre a questo, c'è anche lo spazio digitale, e anche questo è complementare, non è assolutamente antagonista. Sono tutti strumenti che servono in collaborazione con i tempi – altra categoria dell'innovazione didattica – che non devono essere rigidi, ma che devono obbedire alle esigenze dell'apprendimento.
  Contro il conservatorismo che, di fatto, c'è da sempre nell'accettare l'innovazione didattica, che ha sempre bisogno di una spinta forte da parte del personale insegnante più sensibile e/o anche soprattutto dei dirigenti scolastici, vorrei sapere quali esperienze possono essere portate alla nostra attenzione per superare le preoccupazioni dei dirigenti, per esempio rispetto alle responsabilità. Le lingue si studiano bene fuori, si va all'estero; ai bambini si può insegnare in un bosco, in un giardino, fuori, all'aperto. Siccome anch'io sono stata un sindaco, so bene quali sono le resistenze dei dirigenti scolastici e dei genitori che hanno paura della pioggia, del freddo, hanno paura che i bambini si facciano male e i dirigenti sono sempre trattenuti dalla paura della responsabilità. In questa Commissione dovremmo anche affrontare questo tema spinoso delle responsabilità dei dirigenti: vorrei sapere la vostra opinione relativamente a questo.

  ALESSANDRO MELICCHIO. Grazie, presidente. Intervengo solo per ringraziare gli ospiti per i contributi ricchi di tanti spunti.
  Vorrei soffermarmi su un'affermazione del professor Paolicelli a riguardo del fatto che l'innovazione didattica spesso o troppo spesso si traduce in semplice acquisto di nuovo materiale tecnologico, senza poi essere seguito da una vera innovazione della didattica. Si faceva l'esempio delle sedie attaccate o staccate dal banco, ma che poi rimangono nella stessa disposizione all'interno della classe. Voglio citare il boom dell'acquisto delle LIM che vengono però troppo spesso utilizzate come una comune lavagna di ardesia. Faccio questa riflessione e un invito ai colleghi: molto probabilmente dovremo spendere maggiori risorse verso una formazione dei docenti nell'informazione e nella didattica. Non solo: cito l'esempio del recente decreto Istruzione nel quale, grazie alla collega Aprea, abbiamo approvato un obbligo di formazione dei docenti per l'accesso ai concorsi in merito al coding, ma anche lo spunto che dava il Presidente in apertura di audizione, relativamente al coinvolgimento dell'informazione generalista per diffondere questa nuova filosofia anche al cittadino comune.

  PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi per i contributi, i commissari presenti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.

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ALLEGATO 1

Documentazione depositata da Gisella Langé

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ALLEGATO 2

Documentazione depositata da Paolo Mottana

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ALLEGATO 3

Documentazione depositata da Francesco Paolicelli

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ALLEGATO 4

Documentazione depositata da Michela Schenetti

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