XVIII Legislatura

IV Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 26 di Martedì 20 luglio 2021

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Rizzo Gianluca , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA PIANIFICAZIONE DEI SISTEMI DI DIFESA E SULLE PROSPETTIVE DELLA RICERCA TECNOLOGICA, DELLA PRODUZIONE E DEGLI INVESTIMENTI FUNZIONALI ALLE ESIGENZE DEL COMPARTO DIFESA:

Audizione del presidente del Centro Studi Internazionali (CESI), professor Andrea Margelletti.
Rizzo Gianluca , Presidente ... 2 
Margelletti Andrea  ... 2 
Rizzo Gianluca , Presidente ... 7 
Frailis Andrea (PD)  ... 7 
Rizzo Gianluca , Presidente ... 7 
Frusone Luca (M5S)  ... 7 
Rizzo Gianluca , Presidente ... 8 
Ferrari Roberto Paolo (LEGA)  ... 8 
Rizzo Gianluca , Presidente ... 9 
Tripodi Maria (FI)  ... 9 
Rizzo Gianluca , Presidente ... 9 
Margelletti Andrea , presidente del Centro Studi Internazionali (CESI) ... 9 
Rizzo Gianluca , Presidente ... 12

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Partito Democratico: PD;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Fratelli d'Italia: FdI;
Italia Viva: IV;
Coraggio Italia: CI;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-L'Alternativa c'è: Misto-L'A.C'È;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Noi con l'Italia-USEI-Rinascimento ADC: Misto-NcI-USEI-R-AC;
Misto-Facciamo Eco-Federazione dei Verdi: Misto-FE-FDV;
Misto-Azione-+Europa-Radicali Italiani: Misto-A-+E-RI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-MAIE-PSI: Misto-MAIE-PSI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIANLUCA RIZZO

  La seduta comincia alle 13.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la diretta sulla web-tv e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del presidente del Centro Studi Internazionali (CESI), professor Andrea Margelletti.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla pianificazione dei sistemi di difesa e sulle prospettive della ricerca tecnologica, della produzione e degli investimenti funzionali alle esigenze del comparto difesa, del presidente del Centro Studi Internazionali (CESI), professor Andrea Margelletti
  Saluto e do il benvenuto al professor Margelletti, accompagnato dal dottor Pierluigi Barberini, analista CESI desk Difesa, e alla dottoressa Alessia Paolillo, responsabile della comunicazione, che ringrazio per la partecipazione ai lavori della Commissione, ai colleghi presenti e ai colleghi che parteciperanno alla seduta secondo le modalità stabilite dalla Giunta per il Regolamento del 4 novembre 2020, ai quali rivolgo l'invito a tenere spenti i microfoni per consentire una corretta fruizione dell'audio.
  Ricordo che dopo l'intervento del nostro ospite darò la parola ai colleghi che intendano porre domande o svolgere osservazioni e, successivamente, il nostro ospite potrà rispondere alle domande poste. A tal proposito chiedo ai colleghi di far pervenire fin da adesso la propria richiesta di iscrizione a parlare al banco della Presidenza.
  Do, quindi, la parola al professor Andrea Margelletti, prego.

  ANDREA MARGELLETTI, presidente del Centro Studi Internazionali (CESI). Grazie, signor presidente. Onorevoli deputati, innanzitutto vi ringrazio per questo privilegio. Non è la mia prima volta, ma l'emozione è sempre più forte. Questa è la casa degli italiani e, quindi, ci entro sempre in punta di piedi, felice che vi siano rappresentanti così attenti a tematiche difficili e, in qualche misura, poco avvertite nello scenario nazionale come i temi della difesa.
  Cercherò di focalizzare il mio intervento su alcuni aspetti un po' meno convenzionali, ma chi come lei, presidente, mi conosce, sa che desidero sempre dare una prospettiva di un certo tipo; e la prospettiva è quella del futuro. Noi abbiamo spinto non soltanto gli italiani, ma anche a livello NATO – che è un po' l'alma mater del nostro sviluppo dottrinale militare – sul concetto di joint-ness, ovvero fare di tutto insieme, pur mantenendo le prerogative e le tradizioni che sono fondamentali per i militari.
  Lo scenario è molto cambiato. Sarebbe facile dire che gli scenari cambiano sempre e, oggettivamente, è così; ma non sono mai cambiati in maniera così radicale e profonda come negli ultimi dieci anni. Le cose sono cambiate perché nei secoli, per tradizione, noi avevamo lavorato su due scenari: quello terrestre e quello marittimo. A questi si aggiunse, con l'inizio della prima guerra mondiale, quello aereo. Infatti, Leonardo da Vinci gli aveva dato un'occhiata, Pag. 3ma dalla Prima guerra mondiale c'è stata un'industrializzazione dell'impiego delle forze aeree, prima come ricognizione e, poi, come bombardamento.
  Tradizionalmente la definizione di aria, mare e terra è quella che a noi è maggiormente congeniale. In realtà la tecnologia – che sarà il centro della mia discussione di oggi – è quella che ha cambiato completamente tutto e sta spazzando via tutto, portando a rapportarci con un qualcosa che prima, nel mondo della difesa così come nel mondo dell'industria, avevamo un po' messo da parte, ovvero il concetto etico; e nessuno meglio di voi, che siete onorevoli deputati, sa quanto questo abbia un peso.
  Adesso abbiamo quelle che si chiamano «operazioni multi-domain», le operazioni multi-dominio, che sono in una sfera fisica percepibile, una sfera assolutamente non fisica. Io non parlerò soltanto di cyber, perché sarebbe sbagliato. Infatti, è limitante oramai parlare soltanto di dominio cibernetico, bensì dobbiamo parlare di dominio virtuale ed è per questo che diventa tutto molto difficile, soprattutto per quanto riguarda Forze armate che non hanno risorse infinite. Ricordiamoci sempre che la stragrande maggioranza del budget della difesa è dedicato alla componente del personale e, quindi, quando si parla di capacità di ricerca e sviluppo e capacità di acquisizione i numeri sono ben diversi da quelli che possono apparire all'inizio.
  Il mondo oramai è sostanzialmente diviso in due tematiche: da una parte il ritorno del conflitto peer to peer, cioè l'eventuale conflitto con le nazioni grandi, con le nazioni che sono simili a noi e, in particolare, qui vi è la problematica della Russia (ricordiamoci che la Russia è intervenuta sia in Crimea che in Ucraina in maniera estremamente intelligente, utilizzando una serie di strumenti particolarmente innovativi) e, dall'altra, le operazioni nei confronti di minacce meno evidenti, ma non necessariamente meno pericolose come, ad esempio, la minaccia del terrorismo.
  Qui già abbiamo la definizione per un Paese che ha un posizionamento molto netto all'interno del mondo e, in particolare, nel mondo occidentale tra Russia, Cina e l'avversario che si sta sviluppando in maniera sempre più forte nell'Africa subsahariana.
  Noi avremo una ridda di problemi molto rilevanti da quest'area del mondo, prima di tutto perché non abbiamo ancora compreso l'impatto che avrà su alcuni Paesi africani lo sviluppo delle megalopoli, ovvero delle città con 18 milioni di abitanti, con la creazione di periferie immense, con l'emorragia di forza lavoro che continuerà ad arrivare verso l'Europa e con la capacità dei Governi di controllare, forse, una parte di quelle città, lasciando però ad altri il controllo immenso delle campagne. Questo è un problema che noi dovremmo affrontare, perché più si abbandonano le campagne senza un processo di industrializzazione forte, maggiore è il grado di povertà che si viene a creare e ancora più ampio è il grado di attrattiva che chi ha il denaro ha nei confronti di chi è passato dall'essere un contadino a essere un cittadino urbano con pochissime possibilità.
  Teniamo sempre conto che buona parte di coloro che arrivano sono persone che sono in età da lavoro. Per questo motivo continuo a sostenere che il vero problema, anche come minaccia, non sia non farli arrivare, ma non farli partire. Credo che l'attenzione del nostro Paese all'Africa subsahariana debba essere infinitamente più ampio e che debba superare il concetto di proteggere soltanto gli interessi. In qualche misura ho la sensazione che altri nostri alleati europei continuano, invece, ad avere una visione più di interesse nazionale e specifico su alcuni argomenti come, ad esempio, l'approvvigionamento di risorse per l'industria nucleare piuttosto che fare un'attività di democracy building, per cui ci vuole tempo e denaro, ma sicuramente questa è la necessità.
  Dall'altra parte dobbiamo renderci conto che se noi vogliamo continuare a lavorare ed essere centrali nella NATO, è vero che nella NATO uno conta uno, ma continuo ad avere la sensazione che gli Stati Uniti contino un filo di più dell'Islanda o del Lussemburgo, con tutto il rispetto per gli islandesi e per i lussemburghesi. Inoltre, dato che il mantra americano sarà per i prossimiPag. 4 25 anni il rapporto con la Cina, ho la sensazione che l'Italia dovrebbe cominciare a porsi questo problema, che non è soltanto un problema di posizionamento – noi siamo con gli americani, quindi non è motivo di dialogo di discussione –, ma il punto vero fondamentale è che noi peseremo all'interno di alleanza strutturate tanto più quanto peseremo nel rapporto che abbiamo con gli americani nell'area pacifica. Gli inglesi e tante altre nazioni, tra cui la Germania, che non mi pare una grande nazione oceanica, però evidentemente ha una visione a lungo termine, si stanno attrezzando per avere una presenza militare fissa in Asia. Non che questo cambi il valore delle cose, ma permette agli Stati Uniti di poter dire: «Sappiamo di poter contare su un alleato di riferimento».
  In ultimo, vorrei dire una cosa – poi arriverò subito ai sistemi – sul problema della minaccia ibrida, della quale tanto si parla. L'ultima guerra ottocentesca, forse, è stata l'operazione Desert Storm del 1991, in cui un Presidente ha detto ai propri vertici delle Forze armate: «Di che cosa avete bisogno? Quali sono le risorse di cui abbisognate? Io ve le darò». Dopodiché le cose sono completamente cambiate.
  La minaccia ibrida non è soltanto la minaccia di persone che non indossano l'uniforme, ma è soprattutto il fatto che prima di partire per un'operazione militare, che – nessuno lo sa meglio di voi – è all'interno di un quadro politico, è necessario mettere in conto, oggi più che mai, le attività di propaganda che il nostro avversario è in grado di porre in essere all'interno del nostro territorio nazionale per due scopi: da una parte, per allargare eventuali faglie di differenza tra alleati e, dall'altra, per togliere supporto alla nascita di una coalizione.
  È quanto mai opportuno – questo bisogna dirlo senza ipocrisia, ma con onestà – dotarsi a livello NATO e a livello nazionale di strumenti di contronarrativa che possano efficacemente opporsi a questo tipo di minaccia, perché un'operazione militare senza supporto non può partire, non può essere condotta e non può andare avanti. Per fare questo occorre non improvvisare sul momento, ma organizzarsi con strumenti che siano assolutamente adeguati.
  Noi continuiamo a parlare di cyber defense – mi rendo conto che è molto politically correct, – ma non esiste soltanto la defense. Noi abbiamo visto migliaia e migliaia di persone in piazza per festeggiare la vittoria meritata dell'Italia agli Europei, ma non vinci un campionato soltanto come Nereo Rocco, alzando un muro di terzini, perché prima o poi inevitabilmente ti fanno gol.
  Noi dovremmo pensare anche a strumenti che siano in grado di essere altrettanto efficaci non solo nella defense, ma anche nell'offense, perché altrimenti dobbiamo dare per scontato che, inevitabilmente, prima o poi ci faremo male. È come stare davanti al mare e sperare di non bagnarsi, ignorando l'esistenza delle maree: prima o poi la marea ti fa bagnare i piedi.
  Quando prima parlavo di etica mi riferivo soprattutto a un fatto. Noi siamo abituati a pensare in termini di soldati o soldatesse, come sono fortunatamente arrivate da qualche anno nelle nostre Forze armate; ma così non è più e così non sarà più.
  Dobbiamo avere il coraggio di dire che entro dieci anni lo scenario militare vedrà fisicamente le Forze armate infinitamente meno rilevanti di quanto lo sono oggi e una delle ragioni per la quale lo saranno è presente in questa stanza: siete voi, che siete parte del problema, ma contestualmente siete anche parte dalla soluzione.
  La perdita di vite umane, che è sempre inaccettabile, anche in guerra, è diventata più inaccettabile che mai e la gestione dei caduti, la gestione delle vittime, è diventata qualcosa poco comprensibile se non ci adeguiamo con la contronarrativa da un certo punto di vista.
  Noi abbiamo il trend futuro ed è per questo che sono particolarmente lieto di parlarvi, perché sono un po' preoccupato dal punto di vista della dottrina e di cosa noi concepiamo. Ad esempio, voi rischiate di poter essere soltanto dei notai: vengo qui, ho questo programma militare, voi lo valutate, timbriamo, diamo il bollino e andiamo avanti. Forse questa dottrina andava Pag. 5bene qualche anno fa, ma non è più così, perché dobbiamo renderci conto che il futuro dei conflitti è un futuro dove l'uomo sarà infinitamente meno presente, se non in alcuni scenari, con le forze speciali che, avendo una qualificazione, una capacità, una preparazione e una duttilità che altri reparti oggettivamente non hanno, potranno supplire al fatto di non inviare migliaia di soldati, perché saranno una risorsa assolutamente preziosa. L'Arma dei carabinieri continuerà a essere una risorsa preziosa nel progetto di creare sicurezza all'interno dei Paesi e, a mio avviso, la speranza è che possa ulteriormente fare un passo in avanti nel supporto alle operazioni di pace, mantenendo la specificità di quello che loro sono bravi a fare.
  In questo scenario, diventato complesso, noi non possiamo più parlare come parlavamo un tempo di divisione tra difesa ed esteri; non possiamo più dire che quando la diplomazia fallisce, entrano i soldati, perché ormai non è più così in nessun Paese del mondo. Adesso dobbiamo considerare tutti e tre i player: difesa, esteri e intelligence. Non immaginare che l'intelligence possa diventare un player altrettanto importante di una Forza armata, dandogli un ruolo anche più ampio, vuol dire avere un problema di miopia, perché noi giochiamo ormai sugli scenari del dove the fog of war è sempre più impegnativa.
  Noi ci troviamo di fronte al fatto che tra pochissimi anni i sistemi unmanned saranno effettivamente presenti. Conoscete meglio di me lo sviluppo tecnologico, basta vedere con quale frequenza cambiamo i nostri telefonini e quanto un telefonino sia diverso da una generazione all'altra, da un anno all'altro. Pensate tutto questo sui sistemi ad alta tecnologia.
  Pensiamo soltanto alla capacità di colpire molteplici obiettivi, selezionandoli tramite un algoritmo, che è infinitamente più veloce di noi, con la capacità di machine learning, ovvero di autoapprendimento, senza l'intervento di una persona e, soprattutto, senza il rischio che qualcuno venga catturato o ucciso. Sono i cosiddetti «droni killer»: possiamo dargli un nome più elegante, però questo è il futuro.
  Lì c'è scritto «Wi-Fi» – non dico la password –, e siamo connessi. Tutti noi viviamo interconnessi e oltre il 90 per cento del traffico della rete mondiale, che è quella che ci fa vivere o che ci permette di mandare un messaggio WhatsApp per dire «Sto arrivando in ritardo» o «Arrivo in anticipo» (la guerra moderna entra non soltanto nello scenario delle dinamiche tra nazioni, ma entra sempre più nella pervasività del singolo individuo) passa nei cavi sottomarini. Possiamo immaginare che una grande nazione mediterranea come la nostra debba proteggere degli interessi sott'acqua? Possiamo immaginare che intelligence e operazioni di combattimento possono essere svolti da sistemi remoti a centinaia e centinaia di metri sott'acqua attraverso i sistemi che sono UAV (unmanned aerial vehicle) subacquei. Hanno dei nomi assolutamente terribili e sto cercando di italianizzare quanto più possibile.
  Questo è il futuro che ci troveremo davanti dopodomani. Di fronte a questo noi abbiamo ancora una concezione antica che ci fa dire: «Ci serve questo sistema o quest'altro e, quindi, dobbiamo finanziare questo sistema piuttosto che l'altro». Ma non è più così, perché dobbiamo smettere di pensare in termini di quantità e cominciare a esprimere capacità.
  È ovvio che per esprimere capacità occorre che voi diciate cosa devono fare le Forze armate e, sulla base di questo, di cosa devono dotarsi, ma la cosa fondamentale è che noi siamo abituati a fare molto bene una serie di cose. Infatti, dal 1982 abbiamo una sorta di costanza di operazioni di supporto alla pace che si svolgono con i nostri uomini e le nostre donne e lo facciamo molto bene. Tuttavia, rimango turbato, ad esempio, quando vedo grandi realtà come quella britannica e quella americana in particolare – due realtà a noi assolutamente vicine – che fanno una revisione profonda e intima, anche con delle conseguenze non irrilevanti del proprio strumento militare.
  Sul fatto che abbiamo uno strumento militare sostanzialmente in linea con quello che sappiamo fare, dico: «Siamo così certi che quello che sappiamo fare sia quello che Pag. 6dovremo fare?». Io oggettivamente ho qualche dubbio. Vedo un'assenza di dibattito sugli aspetti dottrinali e sugli aspetti di quello che è il futuro, che non è soltanto unmanned o manned, e rischiamo di essere tremendamente arretrati.
  I conflitti del passato si sono sempre basati su tre pilastri. Il primo è quello degli interessi: si ha la necessità di conseguire un vantaggio e, quindi, si utilizza lo strumento militare per conseguire un vantaggio. Poi è arrivata una seconda variabile: la variabile geografica, per cui sono posizionato in un determinato luogo fisico e ho la necessità di ampliare le mie risorse. Pensiamo soltanto a quanto hanno goduto del proprio isolamento gli Stati Uniti che nel XVIII e nel XIX secolo hanno potuto avviare una straordinaria rivoluzione industriale, a quanto la Gran Bretagna abbia utilizzato la capacità marittima per ampliare e far diventare strategico un Paese che aveva pochissime risorse e come la Francia in qualche maniera, guardando nel versante sud del Mediterraneo, nell'Africa più profonda, abbia trovato quello che necessitava per diventare un impero, e la Germania con gli imperi centrali. La geografia, dopo gli interessi, è sempre stata un aspetto centrale: io sono qui e questo è il mio luogo di riferimento.
  Dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo scoperto tutti la geopolitica: l'appartenenza a un ambito non necessariamente correlato a una fisicità di nazione, bensì a una serie di interessi. Questa è la ragione per la quale siamo stati per vent'anni in Afghanistan, per quanto l'Afghanistan non sia confinante con Trieste o con Ventimiglia, perché l'Afghanistan rientrava all'interno degli interessi geopolitici del nostro Paese.
  In poche parole, questo vuol dire, onorevoli deputati, che se tu appartenevi a un club, ti facevano stare nel club lo stesso, perché non era necessario avere il Leopard 2 o l'M1 Abrams per stare all'interno della NATO, ma potevi anche avere il Leopard 1, perché all'interno di quel quadro avevi una tua utilità.
  Gli interessi, la geografia e la geopolitica sono stati spazzati via e lo saranno definitivamente nell'arco di cinque anni, che sono un attimo, perché il futuro è la tecnologia.
  Noi stiamo acquistando dei sistemi modernissimi, concettualmente in una qualche maniera già vecchi, come l'F-35. Non che gli F-35 non vadano bene, ma sono mezzi che ci permetteranno di cooperare insieme alle altre forze alleate, la cosiddetta «interoperabilità».
  Questi aerei nel futuro non avranno più senso. Non sono gli F-35 in sé a non avere senso, ma è il concetto dell'F-35, o quello di radar o di missili che fanno attività cooperativa – speriamo presto di avere un ombrello di difesa missilistica con la nostra Marina militare –, perché ormai la tecnologia dirà: «O operiamo come un'unica entità o sei completamente fuori».
  Il punto fondamentale è che fra poco a dire chi sta attorno al tavolo non saranno più gli interessi, non sarà più la posizione geografica e non sarà più l'interesse geopolitico. Il futuro è l'integrazione totale dei sistemi, passare dall'Internet of the thinks all'Internet of military thinks e anche su questo dobbiamo avere il coraggio di dire che, forse, dovremmo anche un po' scuotere l'albero dell'industria, perché anche l'industria dovrebbe recuperare quella capacità di immaginare che aveva qualche anno fa e non soltanto dare quello che noi gli chiediamo, perché quello che noi chiediamo forse non è giusto che ce lo diano e forse è anche sbagliato, perché è vecchio.
  Quello che vorrei sottolineare è che siamo di fronte a un bivio. Pensiamo soltanto al fatto che – fortunatamente, pur nella disgrazia – noi abbiamo avuto un numero di caduti diverso da altre nazioni e non perché i nostri soldati sono stati impegnati di meno, ma perché uno vede un soldato dell'Esercito italiano e lo compara con un soldato di un altro esercito europeo. Non facciamo paragoni e non diciamo le nazioni, ma è sconfortante.
  Fortunatamente abbiamo un sistema che funziona, ma questo sistema è destinato a morire completamente ed è destinato a morire anche l'approccio politico a tutto questo: occorre essere in grado di integrarsi come plug-in in maniera totalizzante in un sistema di alleanze che possono esserePag. 7 strutturate o non strutturate e non portare il proprio valore aggiunto, ma l'integrazione massiccia e totale. Utilizzando una frase che purtroppo si cita spesso – ve ne chiedo venia –, se non avremo un cambio di paradigma nell'approccio all'acquisizione dei sistemi e all'approccio dottrinale di quali dovranno essere le Forze armate del passato, noi avremo le migliori Forze armate al mondo per fare qualcosa che non serve più a nessuno; e questo renderebbe il peso del nostro Paese assolutamente irrilevante.
  Sono sicuro che le nostre Forze armate sappiano questo e sono certo che voi avete la sensibilità per respingere questa cosa, però bisogna rendersi conto che la tecnologia è così veloce che non ci permette i tempi che siamo abituati ad avere.
  Poche settimane fa, in una battaglia a simulatore, uno strumento di intelligenza artificiale ha battuto 5 a 0 un istruttore di volo americano. Naturalmente noi ci poniamo il problema etico: quanto possiamo derogare all'uomo che vuole avere il controllo fino in fondo?
  La realtà dei fatti è che quando desideriamo vincere, o non avere perdite, o semplicemente non essere sconfitti, non abbiamo altra possibilità che scegliere quella più veloce, quella più efficace, perché anche recenti esperimenti hanno dimostrato come i sistemi robotici sul campo di battaglia funzionino molto male non perché il sistema funziona male, ma perché l'interazione costante del soldato col sistema robotico lo rallenta.
  Per questo ritengo che sia importante fare investimenti ora in questo settore, perché altrimenti saremo costretti a comprare quello che troviamo sul mercato. E quello che troviamo sul mercato non necessariamente potrà essere perfettamente attinente a quelli che sono gli interessi nazionali, la sovranità nazionale e il diritto ad avere tutte le chiavi di accesso.
  Vi ringrazio per l'attenzione. Spero di non avervi tediato troppo. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, professore, per la sua ampia ed esaustiva relazione, anche attraverso un excursus storico del processo tecnologico evolutivo e una disamina dei principi etici di cui si è parlato. Sicuramente è una relazione che dà vita a degli spunti molto interessanti per i commissari che sono impegnati nell'indagine conoscitiva in oggetto. Chiedo ai colleghi se intendono intervenire. Il collega Frailis, prego.

  ANDREA FRAILIS. Grazie, presidente. Vorrei esprimere il mio ringraziamento al professor Margelletti per la sua relazione e la sua presenza, anche perché ha introdotto degli spunti di grande interesse, soprattutto per quanto riguarda due paradigmi. Lei ha parlato di futuro, professore, ma soprattutto ha parlato di tempi, che non sono più compatibili con i nostri comportamenti del passato.
  Nella nostra Commissione, almeno per quel che ricordo, il confronto e la convergenza tra le diverse forze politiche sono sempre stati ampi. Lei ha detto che bisogna fare alla svelta, soprattutto perché una revisione profonda dello strumento militare è necessaria affinché questo strumento militare sia al passo con i tempi e ha anche detto che bisogna scuotere l'albero delle industrie militari.
  Il Governo attuale, che è un Governo di larga coalizione, ha detto fin da subito che la prospettiva è quella di un atlantismo, di un multilateralismo; quindi, da questo punto di vista non abbiamo niente da temere. Però le chiedo: siccome ci sono sensibilità diverse all'interno di questo Governo, il fatto che queste sensibilità diverse si manifestino in taluni aspetti, e non soltanto negli aspetti della Difesa, può essere un problema per quei tempi da rispettare?

  PRESIDENTE. Grazie, onorevole Frailis. L'onorevole Frusone, prego.

  LUCA FRUSONE. Innanzitutto ringrazio il professore, che oggi ci ha tenuto qui incollati alle sedie. Sono praticamente d'accordo con tutto quello che ha detto. In realtà anche qui in Commissione abbiamo sollevato più volte questo problema – non solo per le tempistiche con cui a volte arrivano alcuni atti del Governo, ma anche proprio per i concetti che questi atti alcune Pag. 8volte portano – di poter approvare qualcosa che sia già vecchio. Questo è un problema di cui siamo consapevoli. Però credo che, in realtà, la situazione sia ancora più complessa, e non voglio difendere il decisore politico. Solo nei prossimi dieci anni, ma forse anche per più tempo, avremo una convivenza fra le esigenze del futuro e le esigenze del presente.
  Concordo con tutto quanto lei ha parlato riguardo alla Cina, alla cyber, alla subacquea, con i cavi sottomarini; e difficilmente qualcuno può essere in contrasto con queste idee. Però al tempo stesso vediamo come il nostro Paese stesso abbia delle esigenze che potremmo definire «classiche», come la questione del Nord Africa, dove l'aspetto tecnologico si fa sentire di meno. Certo, come diceva prima, pilotaggio remoto e altri tipi di tecnologie aiutano, però per risolvere determinate questioni dobbiamo utilizzare ancora i vecchi strumenti della diplomazia; non che dobbiamo andare domani con gli scarponi sul terreno, però dove la presenza umana è ancora molto importante.
  Noi ci ritroveremo – mi metto nei panni del decisore politico – a dover da una parte rincorrere il futuro e non farci trovare impreparati, ma allo stesso tempo ci vengono sottoposte delle richieste che ovviamente drenano risorse a quell'aspetto del futuro che lei ha spiegato in maniera egregia. Ci sarà un grosso problema, dovuto sia un po' alle risorse che vengono messe in campo sia a questa doppia avversità contemporanea, anche se stiamo parlando del futuro. Il rischio non dico di fare la scelta sbagliata – perché magari non ci sono nemmeno scelte sbagliate – ma di non fare tutte le scelte giuste, che è diverso dal fare la scelta sbagliata, lo vedo importante. Quindi, chiedo se possiamo approfondire questo aspetto. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, onorevole Frusone. Ha chiesto di intervenire l'onorevole Ferrari. Prego, collega.

  ROBERTO PAOLO FERRARI. La ringrazio, presidente. Anch'io mi associo ai ringraziamenti dei colleghi al professor Margelletti per l'importante contributo che oggi ha portato a questa Commissione. Mi allaccio ad alcuni elementi che ha toccato durante la sua relazione, tra cui quello su cui si fonda tutto il suo ragionamento circa l'orientamento allo sviluppo della tecnologia, per via del fatto che la nostra società non può più sopportare il numero di perdite che in un conflitto convenzionale sarebbero state accettabili fino ancora a cinquant'anni fa o poco più.
  Il numero delle vittime del recente conflitto in Afghanistan, le vittime degli Stati Uniti, per non dire le vittime del nostro contingente, paragonate a un'epoca passata, probabilmente erano le vittime che si contavano in un solo scontro del passato. Da qui l'orientamento a investire sulla tecnologia, sulla strumentazione che preveda o il controllo remoto da parte del soldato, oppure, come ha ventilato poi nella parte conclusiva del suo intervento, addirittura concedere quasi totalmente all'intelligenza artificiale un'autonomia di fare scelte operative sul terreno. Un po' questo ragionamento sinceramente inquieta, senza rievocare la filmografia apocalittica, l'Armageddon o altre situazioni.
  Però, prima di arrivare lì, il nostro Paese per poter competere a livello internazionale – l'ha detto lei – senza scomodare i colleghi del MEF, deve investire direttamente risorse attraverso la propria industria; un'industria nazionale che, fortunatamente, ad oggi è ancora un'industria che può competere sui mercati internazionali. Ma occorre sottolineare un altro elemento: il tempo vola; è uno schioccare di dita.
  Noi abbiamo risorse destinate agli investimenti e anche alla parte addestrativa, molto limitate rispetto al totale complessivo. Quel famoso rapporto rispetto alle risorse messe per il personale non è rispettato. Questa Commissione, oltre a condurre questa indagine conoscitiva, sta discutendo le proposte di legge sulla revisione dello strumento militare, quindi la revisione della legge n. 244 del 2012, ridefinendo i numeri del reclutamento. Il focus, quindi, è sul soldato, sull'uomo; e la direzione è quella di dire che probabilmente con questi numeri attuali, quelli disegnati dalla legge Pag. 9n. 244, non siamo in grado di fare nei contesti internazionali tutto quello che ad oggi, magari, la politica chiede.
  Le chiedo se crede che il ragionamento di andare ancora in questa direzione può essere corretto. Al contrario, nel caso in cui dicessimo che possiamo ridurre i numeri del personale, le chiedo se abbiamo la capacità e la forza di investire le risorse necessarie per colmare il vuoto che si crea con la tecnologia. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, onorevole Ferrari. Ha chiesto di intervenire l'onorevole Maria Tripodi. Prego.

  MARIA TRIPODI. Grazie, presidente. Ringrazio anch'io il professor Margelletti per l'esaustiva relazione. In realtà, mi vorrei soffermare su due cose. Una riguarda la nostra politica estera e l'altra riguarda l'industria nazionale della Difesa. Gliele riassumo facendogli una sola di domanda: secondo lei, il peso dell'industria nazionale della Difesa quali ricadute può avere sulla politica estera, in un frangente caratterizzato da un grande evoluzione in quello che è definito il «Mediterraneo allargato»? La ringrazio.

  PRESIDENTE. Grazie, onorevole Tripodi. Do, dunque, la parola al nostro ospite per la replica. Prego, professore.

  ANDREA MARGELLETTI, presidente del Centro Studi Internazionali (CESI). Tutte ottime domande. Io lo dico sempre ai miei studenti: «Non ci sono pessime domande, ci sono soltanto risposte inadeguate». Spero che le mie non lo siano.
  Onorevole Frailis, l'anno scorso, proprio in questi giorni, mi sono sposato e pochi mesi dopo ho organizzato insieme a mia moglie il mio funerale, perché il COVID mi aveva portato a organizzare il mio funerale. Le posso assicurare che non esiste nessuno in questa stanza che più di me crede nel futuro. Il futuro è assolutamente determinante. Io ci credo e, mi creda, io non vivo più il presente; io vivo il mio futuro.
  Ho il privilegio di servire il Ministero della difesa da diversi anni. Attualmente, sono il consigliere del Ministro Guerini, un uomo perbene. Sembra una cosa scontata, ma non lo è più. Riguardo alle sensibilità diverse, abbiamo un problema derivante non dalla fine della Seconda guerra mondiale, ma un problema preunitario.
  Cavour mandò i bersaglieri in Crimea dicendo: «Che non si faccia male nessuno». Le regole di ingaggio erano un problema già allora. E spesso la politica, in Italia, sceglie la strada del multilateralismo per non assumersi delle proprie responsabilità. Il ragionamento della politica è: «Se non possiamo andare tutti insieme in gita, non andiamo in gita». Ma non è così. Se io ho le risorse, ho il weekend libero, ho la macchina col pieno di benzina, vado in gita lo stesso.
  Io non sono un sovranista, come molti sanno, o un vecchio liberale, ma mi considero assolutamente un patriota, e credo che in questa vecchia parola non ci sia nulla di male. Essere un patriota non vuol dire però che voglio giocare la partita soltanto del mio amato tricolore, ma sapere più o meno da che parte stiamo. Non da che parte stiamo perché è sempre stata così. La politica è l'arte del possibile; per quale ragione dobbiamo essere per forza sempre con uno e non spostarci? La NATO e l'Unione europea rappresentano per noi una casa. Questo non vuol dire che non si possa, su alcuni aspetti, cercare di cogliere opportunità da altre parti; ma sono opportunità, onorevole, non è un matrimonio.
  Quello della difficoltà del dibattito sull'interesse nazionale è uno dei problemi più complessi, ma ripeto, anche in questo caso, voi ne siete pienamente consci e protagonisti. Interesse nazionale non è del Governo Draghi, o del Governo Conte I o II, o dei mille Governi che poi verranno negli anni a venire. L'interesse nazionale è a parte. Il Governo in carica sceglie una strada per arrivare all'interesse nazionale che non è necessariamente condivisa dall'opposizione. Ma sempre quello è l'obiettivo finale. Noi, invece, abbiamo un po' di problemi sull'individuazione dell'interesse nazionale.Pag. 10
  Il nostro mondo è un mondo occidentale, tant'è vero che ritengo che dovremmo fare una riflessione sull'avere una presenza militare fissa; in particolare nella Marina, nel Pacifico, perché il conflitto futuro sarà quello della Cina. Ci può piacere o non piacere, ma indiscutibilmente, prima o poi, tra Stati Uniti e Cina si arriverà a uno scontro fisico cinetico, perché gli «imperi» non se ne vanno in punta di piedi come Gloria Swanson sul viale del tramonto; e non mi pare che gli Stati Uniti siano intenzionati, in quella che è la loro area del benessere – cioè l'area indopacifica, come la chiamano strategicamente gli americani – a cedere completamente tutto alla Cina. Questo non vuol dire che non si debba fare business; non vuol dire che bisogna avere un atteggiamento da mormoni, con tutto il rispetto dei mormoni, ed essere chiusi di fronte a tradizioni del dialogo nazionale. Però è bene che ci chiariamo.
  I russi in Italia non vengono da amici, ma noi, d'altra parte, non andiamo in Russia da amici. Quello che è successo nella vicenda dello spionaggio è un fatto assolutamente normale, che non ci deve stupire. Lo fanno i cinesi, ma lo facciamo anche noi nei Paesi dove abbiamo le risorse, le capacità e le opportunità per farlo. Il nostro mondo è un mondo occidentale. Questo non vuol dire che non si debba avere un dialogo con la Russia o con la Cina. Accidenti, se occorre averlo. Ma all'interno di un perimetro non di quello che ci dicono di fare perché sono i nostri alleati, ma di quello che noi siamo. Spero di avere risposto alla domanda.
  Onorevole Frusone, proprio all'inizio avevo detto che ci troviamo, in Italia, di fronte a un doppio avversario: quello di altissima tecnologia, cioè il peer-to-peer, cioè dotarsi di forze e risorse che siano in grado di affrontare sviluppi tecnologici velocissimi e molto aggressivi e quello dei rischi di conflittualità con azioni importanti. Ricordiamoci quello che ha fatto la Russia in Siria. Le capacità che ha espresso all'inizio, noi come NATO ce le siamo dimenticate. Quindi dobbiamo anche renderci conto che stiamo affrontando qualcuno che non è soltanto addestrato, ma che le cose le fa.
  Dall'altra parte il futuro della criticità, a mio avviso – parlo non a nome del Ministro Guerini, ma come presidente del Centro Studi Internazionali – è quello dell'Africa subsahariana, sulla quale se fossi in voi non dormirei la notte, perché vi posso assicurare che la questione migratoria non è neanche la punta dell'iceberg. L'iceberg è infinito, è enorme. Noi abbiamo bisogno di un mix di forze che non possono essere ricondotte al concetto di forze leggere, forze pesanti, forze medie, forze intermedie e quant'altro, ma che sono forze ritagliate su quella che è la mission. Noi dobbiamo definire quali sono gli interessi nazionali e, a questo punto, le Forze armate faranno quello che gli inglesi chiamano shaping delle forze.
  Poi possiamo anche far finta di dimenticarci dell'Africa subsahariana, anche se nell'Africa subsahariana ci dovremo andare. Ci può piacere o non piacere, ma quello è il futuro. E ci devi andare con le persone, perché in quel contesto quello che conta non è la distruzione dell'ecosistema digitale dell'avversario, ma è creare empatia con le persone che vivono in slums di 15 milioni di abitanti e far sì che queste persone possano immaginare un futuro diverso.
  Io ritengo che dovremmo avere uno strumento militare in una qualche maniera simile a Giano Bifronte, cioè una componente estremamente tecnologizzata e una componente mista; perché gli inglesi, che fanno la guerra da un po' di tempo, in alcuni reparti delle Forze armate hanno iniezioni di civili. Non militarizzati, non con l'uniforme, ma civili, che assicurano, per esempio sulla brigata che si occupa di information warfare o PSAIO, un'expertise diversa. Allora noi dovremmo prima di tutto immaginare quali sono i nostri interessi, ma soprattutto immaginare che gli strumenti che adesso abbiamo, forse, sono strumenti che stanno diventando molto rapidamente obsoleti.
  Le risorse. Io sono genovese, le risorse non sono mai abbastanza. È anche vero, però, che le risorse le decidete voi. Se noi Pag. 11non vogliamo trovarci in una situazione dove, mentre prima eravamo accettati al tavolo perché avevamo interessi comuni, posizioni geografiche affini e geopoliticamente coerenti, adesso il rischio è che ci dicano: «No, grazie, non vi vogliamo». E non essere presente a determinati tavoli ha una ricaduta non sull'industria della Difesa, che è di grande capacità, non sulle Forze armate, ma una diretta ricaduta sul mondo del lavoro. Sarebbe il caso di discutere – mi auguro ci sia l'occasione – dell'implementazione dei rapporti tra i cluster industriali delle varie regioni d'Italia e l'industria della Difesa, per avere un'interazione maggiore tra coloro che pensano e immaginano, e coloro che fanno grande produzione.
  Noi dobbiamo porci anche il problema del lavoro, che non può essere risolto soltanto con modalità di tamponi. Dobbiamo immaginare che ci sia uno sviluppo economico dietro la ricerca. La ricerca militare ha portato a questo. Questa è una penna a sfera. La penna a sfera è stata inventata per distruggere con maggiore efficacia la Germania, perché i bombardieri americani e britannici non erano pressurizzati, e quindi le stilografiche perdevano inchiostro e macchiavano le mappe dei navigatori, che non sapevano più dire al pilota dove andare a bombardare. Non esiste il duale, esiste la tecnologia. Si è fatto un discorso negli ultimi anni sul duale. La mia posizione è nota e non la vorrei ribadire. Io credo che esista la tecnologia e l'applicazione della tecnologia a una serie di settori. Noi abbiamo bisogno di più risorse, ma questo – credetemi – è solo una parte, perché negli anni abbiamo anche speso tanto male i soldi. Se noi definiamo prima di tutto che cosa vogliamo fare e poi ci mettiamo una serie di risorse, questo secondo me ci permetterà, onorevole Frusone, di rimanere al tavolo; altrimenti, li vedremo da lontano.
  L'ultima domanda è quella dell'onorevole Tripodi: il peso dell'industria e le ricadute in politica estera. Io credo che se vendi conti; credo che la Coca Cola sia una grande azienda perché vende una valanga di bottigliette; e credo anche che se una cosa, anche di altissima qualità, nel banco del supermercato noi non la vediamo non la compriamo, per la semplice ragione che non ne conosciamo l'esistenza.
  Ora, l'industria nazionale – penso anche all'automotive – per lunga e consolidata tradizione, è molto legata al cliente nazionale; poi magari si dimentica d'essere italiana e porta le sedi all'estero per altre ragioni. Ma io credo che se noi utilizzeremo l'industria della Difesa – che, ripeto, è tecnologia, è PIL, non è schioppi, coltelli e bombe a mano, ma è prodotto interno lordo – come strumento politico noi aiuteremo i cluster delle varie regioni ad aumentare il loro livello di conoscenza e far sì che un ragazzo che ha una laurea importante non abbia l'umiliazione di aspettare due euro che uno gli dà sul pianerottolo perché ti ha portato la pizza come rider, cosa tristissima, o che debba andare all'estero per fare qualcosa che potrebbe benissimo fare a casa sua.
  Credo che l'industria della Difesa nazionale debba anche un po' scollarsi dal concetto di «nasco per dare al cliente nazionale» e debba essere più aggressiva, come lo sono tante altre aziende aggressive, dicendo: «Investo di più in ricerca, e non perché mi avete dato solo i soldi voi». C'è bisogno che anche l'industria nazionale sia più flessibile, più veloce e investa più in se stessa. Se noi avremo questo, sicuramente noi avremo un Paese che continuerà a essere un Paese moderno in linea con i nostri interessi, ma soprattutto con quello che noi vogliamo essere. Altrimenti, il driver attuale è quello dello sviluppo tecnologico che definirà le alleanze. Se noi non avremo questo che veramente è il Sistema Paese, dal pubblico al privato, che non è importante ma è fondamentale, allo Stato e alla politica, allora la posizione geopolitica italiana, la posizione geografica italiana, la posizione degli interessi italiani diventeranno assolutamente irrilevanti sullo scenario internazionale.
  Sottolineo l'investire in tecnologia per sistemi a mano e per colmare il gap di personale. C'è una vecchia discussione riguardo al fatto che sia meglio avere tanti uomini poco equipaggiati o pochi uomini perfettamente equipaggiati; come le navi: Pag. 12una nave non può essere ovunque. Allora noi non possiamo scegliere di essere in tutti i mari del mondo a difendere i nostri interessi se non diamo alla Marina un sufficiente numero di navi, o un sufficiente numero di velivoli all'Aeronautica, per coprire quelli che sono gli interessi.
  Non credo che i sistemi unmanned vadano a coprire buchi di personale. Credo che i sistemi a unmanned terrestri, aeree e navali possano fare cose che le persone non fanno, e possano ricoprire ruoli che in questo momento sono scoperti o che non sono ancora previsti, e che possiamo grazie al livello tecnologico immaginare di poter avere.
  Per quanto riguarda i numeri, io ero consigliere del Ministro della difesa, Giampaolo Di Paola, durante la riforma Di Paola. Non credo che ci sia un numero giusto: 100 mila, 200 mila, 500 mila, un milione di persone. Credo che il numero giusto sia in base a quello che noi gli chiediamo di fare. È ovvio che se alle Forze armate chiediamo di fare le missioni...
  Evito di parlare al Ministero della difesa della patria, perché non arriva nessuno alla soglia di Gorizia e compagnia bella. Ma se noi chiediamo all'Esercito di fare da Esercito – cito l'Esercito per citare naturalmente una Forza armata per tutte – da Protezione civile, da Sistema sanitario alternativo, cioè pulire le strade, fare la difesa della città con strade sicure, se chiediamo a una Forza armata di fare quello per le quali esistono e sono pagate anche altre realtà, quella Forza armata dirà che ha bisogno di molte più persone e molte più risorse.
  Io non credo che il problema sia se l'Esercito debba raccogliere i rifiuti o lavorare nella Terra dei fuochi. Credo che a farlo debbano essere quelli che sono pagati per farlo, che non è l'Esercito italiano. Allora il problema non è se l'Esercito è in grado di farlo; il problema è: facciamo lavorare quelli per i quali abbiamo fatto investimenti perché lo facciano. Io personalmente ritengo che sarebbe opportuno avere un numero di unità perfettamente organizzate e perfettamente pronte per operare. Se invece il problema è la massa, allora dobbiamo accettare il fatto che ci siano unità non perfettamente equipaggiate per tutto il full spectrum operation.
  Il punto non sono tanto le risorse; il punto vero è che noi dovremmo fare un ragionamento su quello che il Parlamento, quello che il Paese chiede alle Forze armate. Non si può chiedere alle Forze armate di difendere l'ultima barca di pescatori se non hanno le navi per farlo, perché altrimenti siamo costretti a mandare delle navi che sono sovradimensionate e che hanno dei costi di gestione infiniti. La vera domanda è: le Forze armate italiane, voi avete deciso che cosa gli volete far fare? Non le chiedo una risposta, ma l'opportunità unmanned è un'opportunità di compiti ulteriori. Io francamente non mi sentirei serenissimo con dei carri armati o cose remote che mi passano sotto casa. Sono più felice se vedo i miei amati Carabinieri o le Forze armate. Credo che il punto fondamentale sia quello che noi dovremmo decidere che cosa deve fare il Paese, quali sono i livelli di ambizione, e allora a quel punto scegliamo i numeri. Grazie.

  PRESIDENTE. Io non ho altre richieste di intervento. Pertanto rinnovo il ringraziamento al professor Margelletti per il suo contributo e per la disponibilità. Saluto e ringrazio anche la dottoressa Paolilli e il dottor Barberini e tutti gli intervenuti, e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14.10.