XVIII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 20 di Martedì 18 febbraio 2020

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Fassino Piero , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA PER LA PACE E LA STABILITÀ NEL MEDITERRANEO
Fassino Piero , Presidente ... 3 
Stilli Silvia , rappresentante dell'Associazione delle ONG italiane (AOI) ... 3 
Fassino Piero , Presidente ... 4 
Annetti Francesca , rappresentante di ... 4 
Fassino Piero , Presidente ... 6 
Annetti Francesca , rappresentante di ... 6 
Fassino Piero , Presidente ... 6 
Masieri Ilaria , rappresentante di ... 6 
Fassino Piero , Presidente ... 7 
Masieri Ilaria , rappresentante di ... 7 
Fassino Piero , Presidente ... 7 
Masieri Ilaria , rappresentante di ... 7 
Fassino Piero , Presidente ... 8 
Pezzati Paolo , rappresentante di ... 8  ... 9 
Fassino Piero , Presidente ... 10 
Migliore Gennaro (IV)  ... 10 
Cabras Pino (M5S)  ... 11 
Quartapelle Procopio Lia (PD)  ... 12 
Masieri Ilaria , rappresentante di ... 12 
Stilli Silvia  ... 13 
Fassino Piero , Presidente ... 14 

ALLEGATO: Documentazione depositata dai rappresentanti di Oxfam Italia ... 16

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Partito Democratico: PD;
Fratelli d'Italia: FdI;
Italia Viva: IV;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Noi con l'Italia-USEI-Cambiamo!-Alleanza di Centro: Misto-NI-USEI-C!-AC;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Centro Democratico-Radicali Italiani-+Europa: Misto-CD-RI-+E;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
PIERO FASSINO

  La seduta comincia alle 12.30.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della Piattaforma delle ong italiane nel Mediterraneo e Medio Oriente.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Paolo Pezzati di Oxfam e abbiamo in collegamento da Gerusalemme Francesca Annetti di Educaid e Ilaria Masieri di Terre des Hommes. L'audizione costituisce un'occasione per una prima valutazione dell'impatto del cosiddetto «Piano per la pace per il Medio Oriente» di Trump nella regione. Ricordo che, in base al Piano, Israele potrebbe ammettere la valle del Giordano, abitata da circa 80 mila palestinesi e 10 mila israeliani, e la totalità degli insediamenti dove vivono oltre 400 mila israeliani, quasi il 30 per cento della Cisgiordania, cedendo in cambio il 14 per cento del territorio lungo il deserto del Negev, non distante dalla Striscia di Gaza.
  Uno Stato palestinese, secondo il Piano di Trump, potrà nascere tra quattro anni a condizioni alquanto stringenti in materia di stato di diritto, rispetto dei diritti umani, programmi scolastici, rinuncia al sostegno finanziario da parte dell'Autorità nazionale palestinese alle famiglie di terroristi uccisi e totale disarmo di Hamas. Sembrerebbero sussistere anche delle limitazioni per ciò che riguarda la gestione dei confini e delle risorse idriche e, sempre in questo Piano, Gerusalemme resterebbe nella sua interezza sotto l'esclusiva sovranità di Israele, anche se poi nel piano si fa riferimento a un'ipotetica capitale dello Stato palestinese in un quartiere di Gerusalemme Est o nei pressi, in particolare nella zona di Abu Dis. Com'era prevedibile il presidente dell'ANP Abu Mazen ha rigettato il Piano e ribadito l'impegno già ventilato più volte di abbandonare ogni cooperazione in materia di sicurezza fra la polizia palestinese e Israele. Nei termini di un rifiuto del Piano si sono pronunciati la gran parte dei Paesi arabi e in particolare i Ministri degli Esteri della Lega Araba che si sono riuniti qualche settimana fa.
  Questo è il quadro. Naturalmente è un quadro che si tratta di capire come evolverà. L'audizione che vogliamo svolgere oggi ci consentirà, da un lato, di conoscere evidentemente qual è l'attività e il lavoro delle ong che sono presenti nell'area a sostegno del processo di pace e dello sviluppo e, dall'altro, di raccogliere le loro valutazioni su questo processo di pace che viene presentato, che naturalmente rappresenta il contesto in cui si svolgerà nei prossimi mesi gran parte della discussione dell'agenda politica sul Medio Oriente.
  Possiamo quindi cominciare, dando la parola alla dottoressa Stilli. Siccome abbiamo quattro persone che devono intervenire, chiederei di essere concisi.

  SILVIA STILLI, rappresentante dell'Associazione delle ONG italiane (AOI). Grazie prima di tutto a voi. Sarò molto concisa, perché è bene che parlino le due colleghe, che peraltro devono anche andare ad alcune riunioni, e il collega presente in sala. Pag. 4Per quanto mi riguarda, vi introduco chi incontrate oggi: noi siamo una delegazione della Piattaforma delle ong italiane che operano in Medio Oriente e nel Mediterraneo. È nata ventisei anni fa. Si chiamava «Piattaforma Palestina» – molti di voi che sono qui oggi ci conoscono già da allora – ed ha ottanta organizzazioni aderenti, organizzazioni di vario genere, ong italiane; nessuna è mai stata espulsa da Israele, e questo ci tengo a dirlo sicuramente. Di queste organizzazioni alcune hanno anche appartenenze religiose, soprattutto di area cattolica: Terra Santa, altre organizzazioni di riferimento della FOCSIV, la più parte sono laiche.
  Operiamo in programmi finanziati dall'Unione Europea, dalle agenzie internazionali umanitarie, dall'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo e, in precedenza, dalla Direzione Generale per la cooperazione allo sviluppo. Sono programmi che vanno dall'umanitario allo sviluppo e alcuni di questi sono anche programmi negli anni rivolti sia alla componente palestinese sia alla componente israeliana del Paese. Siamo impegnati nel dialogo e nei confronti per la pace, da sempre.
  Siamo qui, come è stato ben spiegato nell'introduzione, perché oggi stiamo parlando del cosiddetto «Piano Trump», che ovviamente a noi preoccupa fortemente. Sono stati compiuti passi unilaterali dall'Amministrazione statunitense, senza precedenti, che a nostro parere minano pericolosamente la soluzione di molte questioni legate allo status permanente, come quello di Gerusalemme – appena menzionato – la definizione dei confini, il problema dell'acqua e il diritto al ritorno dei rifugiati. Dagli accordi di Oslo del ’93-’95 ad oggi, purtroppo, grandi passi avanti non sono stati fatti, nonostante fossero tante le speranze delle due parti che miravano e che mirano – ci auguriamo ancora – al dialogo. In mezzo, come tutti sappiamo, c'è la questione legata alla costruzione della barriera di separazione, iniziata nel 2002, che oltrepassa per l'85 per cento la linea verde dell'armistizio, l'avanzata dei coloni israeliani e quant'altro le colleghe e i colleghi diranno oggi.
  Alla fine dell'audizione vi presenteremo le nostre raccomandazioni, convinti sinceramente e disponibili ad avviare poi approfondimenti e dialoghi insieme. Informiamo di tutte le nostre azioni di advocacy il Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale. Ovviamente partecipiamo ai tavoli di programmazione delle iniziative e delle attività. Qui ci rivolgiamo ovviamente al Parlamento per rivolgerci poi anche attraverso il Parlamento al Governo. Io mi fermo qua.

  PRESIDENTE. Bene, grazie, anche per la concisione. Do la parola dottoressa Annetti che è in collegamento. Prego dottoressa.

  FRANCESCA ANNETTI, rappresentante di Educaid. Salve e grazie mille per la disponibilità ad ascoltarci. Io sono Francesca Annetti. Sono qui in qualità di portavoce della Piattaforma Palestina in loco soprattutto per quanto riguarda la Striscia di Gaza, quindi vorrei aprirvi una finestra sulla Striscia di Gaza, non concentrandomi troppo sui dati, che troverete comunque nella memoria che abbiamo preparato e che è stata distribuita, ma vorrei far capire qual è la situazione che in questo momento è emersa nella Striscia di Gaza. Già nel 2012 OCHA, che è l'Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa della risposta alle emergenze umanitarie, ha previsto che Gaza sarebbe diventata invivibile prima del 2020, e ovviamente dal 2012 in poi molte cose sono successe, purtroppo non in meglio. Cosa significa vivere in un posto definito invivibile? Provate a pensare di essere nati in una striscia di terra che è lunga quarantuno chilometri e larga dai sei ai dodici e con voi ci sono altri due milioni di persone fra cui i due terzi sono rifugiati palestinesi che nel 1948 o nel 1967 sono scappati nella Striscia nella speranza di un futuro migliore per poi trovarsi intrappolati lì.
  La striscia è un pezzo di terra che in un'ora e mezza di macchina può essere percorso interamente e che però diventa l'area entro la quale due milioni di persone vivono interamente la propria vita, non Pag. 5potendone uscire. Immaginate di essere in questo posto e avere il mare davanti a voi tutti i giorni, ma non poterci nuotare, perché è troppo inquinato, o non poterci pescare perché a sedici miglia marine staziona perennemente la marina militare israeliana; oppure pensate di aprire l'acqua dei rubinetti e non poterla utilizzare perché è salata, quindi non utilizzabile a fini domestici. Un altro esempio può essere quello di volersi guardare un film o voler parlare – come stiamo facendo adesso noi via skype – con un amico, con un familiare o con un'altra organizzazione e non poterlo fare per queste criticità. Con questi esempi voglio far capire come qualsiasi gesto di vita quotidiana che a noi può sembrare semplice e banale, in realtà in questo caso diventi una sfida quotidiana.
  Immagino che nessuno di noi vorrebbe vivere in un posto così, ma per i gazawi non c'è possibilità di scelta, perché dopo il 2007, quindi dopo la presa del controllo della Striscia da parte di Hamas, Israele ha imposto un blocco terrestre, aereo e marittimo che ha trasformato la Striscia di fatto in una prigione a cielo aperto. Questa situazione è ulteriormente aggravata dalla chiusura del valico di Rafah da parte dell'Egitto e questo in particolare dopo la presa del potere di al-Sisi nel Paese vicino. Questa misura costituisce una punizione collettiva che è contraria al diritto internazionale, così come specificato dall'articolo 33 della Convenzione di Ginevra, e la popolazione gazawi ne è ingiustamente sottoposta. Oltretutto questa divisione aggrava ulteriormente la frammentazione della popolazione palestinese. Infatti ci sono intere generazioni ormai di gazawi che non hanno mai incontrato altri palestinesi che vengano dalla West Bank, da Gerusalemme o da Israele. Questo aggrava ulteriormente la frammentazione della popolazione e dell'identità della popolazione palestinese.
  Tutto questo è aggravato anche dal fatto che famiglie intere sono state divise all'interno di questi territori, in cui non è possibile una comunicazione. Credo sia molto importante anche riflettere sul fatto che quando, nel 2006, ci sono state le elezioni che hanno portato poi alla presa del potere di Hamas, circa il 75 per cento della popolazione gazawi non aveva raggiunto la maggiore età e quindi, di fatto, non ha votato per Hamas, ma tutt'oggi sconta le conseguenze del fatto che Hamas abbia preso il potere all'interno della Striscia. Quello che vogliamo dire è che di fatto la popolazione gazawi è schiacciata sia dalle sanzioni imposte da Israele, sia dal fortissimo controllo sociale messo in atto da Hamas, sia dalle estorsioni che l'Autorità palestinese frequentemente rivolge verso la Striscia a causa delle divisioni interne della leadership palestinese: un esempio è quello del taglio dei salari di tutti i dipendenti dell'Autorità palestinese all'interno della Striscia che ha ulteriormente aggravato la situazione economica. Di fatto sulla pelle della popolazione gazawi si sta giocando un gioco politico il cui unico effetto è l'incremento della sofferenza della popolazione e una negazione quasi totale dei suoi diritti. Al momento, purtroppo, non ci sono all'orizzonte grandi prospettive di miglioramento. Per questo nascere oggi a Gaza significa che un bambino ha forti restrizioni nell'accesso al diritto all'educazione. Il suo diritto al gioco e a un'infanzia serena è costantemente turbato da episodi di violenza molto gravi. Ci sono addirittura bambini che riescono a riconoscere se una bomba viene dal mare o dal cielo. Non credo che un bambino debba sapere questa differenza. Pensate che, secondo il Gaza Community Mental Health Programme, nel 2014 il 54 per cento dei minorenni soffriva già di stress post-traumatico. Questo è sicuramente molto grave. Nascere a Gaza significa che se poi diventi adolescente, non hai molte possibilità di miglioramento, perché molto probabilmente dalla Striscia non potrai uscire. Significa che se diventi un padre o una madre di famiglia molto probabilmente avrai grossissime difficoltà a mantenere quella tua famiglia, perché per esempio secondo OCHA nel 2017 oltre il 50 per cento della popolazione gazawi viveva sotto la soglia di povertà ed è interessante sottolineare che questo 50 per cento arriva con un incremento del 14 per cento in soli sei anni e questo dà veramente l'idea di quanto la situazione anche economica della Pag. 6Striscia di Gaza si sia deteriorata fortemente a causa del blocco israeliano che non permette l'entrata di merci. Nascere a Gaza significa anche...

  PRESIDENTE. Dottoressa, dovrebbe essere un po’ più concisa, perché abbiamo tempi contingentati.

  FRANCESCA ANNETTI, rappresentante di Educaid. Arrivo alla fine, citando solamente il fatto che vivere dentro la Striscia significa sostanzialmente vivere una situazione di impotenza e di precarietà costanti. Vorrei solo citare che negli ultimi dodici anni ci sono stati tre attacchi su larga scala da parte israeliana, in cui è stato riconosciuto internazionalmente un uso spropositato della forza che ha ucciso milioni di civili all'interno della Striscia. Se ho tempo, vorrei solo leggere uno spaccato di una collega che ha scritto questa lettera durante l'ultimo attacco, in cui si ricorda come di fatto la popolazione gazawi non è una popolazione di terroristi, ma una popolazione di persone che vogliono semplicemente vivere una vita dignitosa e che stanno pagando il prezzo di un gioco politico. Vi lascio anche con le parole di un ragazzo italiano che dentro la Striscia ha vissuto e ci ha dato la vita, che è Vittorio Arrigoni, che finiva ogni suo intervento ricordandoci ed esortandoci a restare umani, ma pensiamo che se nel 2020 ancora esiste una prigione a cielo aperto come Gaza evidentemente abbiamo un po’ fallito rispetto al nostro essere umani. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie. Adesso dovrebbe essere lì con Lei la dottoressa Masieri, a cui do la parola, ricordando una certa concisione. Grazie.

  ILARIA MASIERI, rappresentante di Terre des Hommes Italia. Grazie. Scusatemi l'emozione. Vi ringrazio molto. Io sono Ilaria Masieri. Sono responsabile dei programmi di Terre des Hommes Italia in Palestina. Vorrei darvi un'istantanea di che cosa è oggi Gerusalemme Est, partendo dal documento che ovviamente abbiamo condiviso e distribuito.
  Attualmente a Gerusalemme Est vivono oltre 340 mila palestinesi che sono oltre un terzo degli abitanti della città, insieme a 200 mila coloni israeliani. Gerusalemme Est faceva parte dei Territori palestinesi occupati nel 1967, nonostante sia stata prima annessa unilateralmente allo Stato di Israele nel 1980 e poi separata fisicamente dalla sua periferia e dal resto della West Bank dal muro di separazione costruito a partire dal 2002. La posizione dell'Unione europea su Gerusalemme Est è chiara e inequivocabile. Gerusalemme Est è la capitale del futuro Stato di Palestina. Nonostante questo purtroppo la situazione che noi vediamo ogni giorno sul campo è profondamente diversa. Innanzitutto l'Autorità nazionale palestinese non può operare a Gerusalemme, quindi i palestinesi di Gerusalemme non hanno diritto a nessun tipo di rappresentanza politica. Non possono votare alle elezioni politiche in Israele. Non possono neanche candidarsi a sindaco della loro città. I 340 mila palestinesi di Gerusalemme Est sono di fatto apolidi. Non hanno alcuna nazionalità. Sono semplici residenti. Israele li tratta come degli stranieri, il cui stato civile può essere revocato in ogni momento e senza possibilità di appello. Devono continuamente dimostrare di abitare all'interno della città altrimenti perdono tutti i loro diritti e la possibilità stessa di entrarci, lavorarci, cercarsi lavoro, cure o qualsiasi tipo di servizio. I palestinesi di Gerusalemme pagano le tasse come tutti gli abitanti ebrei israeliani della città, ma non possono né costruire né ristrutturare le loro case, molte delle quali non sono neanche connesse alla rete idrica e fognaria.
  Dal 1967 ad oggi Israele ha espropriato oltre un terzo delle terre di Gerusalemme Est e vi ha costruito dodici colonie illegali riservate ad abitanti ebrei israeliani. L'esproprio di case palestinesi – lo vediamo ogni giorno sui quotidiani – è una pratica comune in tutti i quartieri di Gerusalemme Est. Al contrario i palestinesi non possono né acquistare una casa nella parte ovest della città, né reclamare la proprietà di quella abitazioni di Gerusalemme Ovest che appartenevano a famiglie palestinesi Pag. 7prima del 1948. Quindi ai palestinesi non resta che costruire senza permessi, andando incontro alla certezza che la loro casa sarà demolita. Secondo le Nazioni Unite, in questo momento sono oltre 100 mila i palestinesi le cui case sono a imminente rischio di demolizione e negli ultimi 15 anni le demolizioni hanno lasciato senza casa oltre 3 mila palestinesi, tra cui 1.700 bambini.
  Oltre a questo ci sono 140 mila palestinesi di Gerusalemme che sono stati di fatto disconnessi dalla loro città dal muro di separazione, perché abitano dentro i confini municipali ma fuori dalla parte cisgiordana del muro. Per loro i servizi non esistono. Le autorità israeliane non vi mettono piede. Non esiste manutenzione stradale e nemmeno la raccolta dei rifiuti. Scuole e ospedali sono praticamente assenti. Il ricongiungimento familiare è impossibile per tutti i palestinesi che abbiano un coniuge della Cisgiordania o della West Bank e questo si applica anche ai loro figli minorenni, per cui ci sono fra i 10 e i 14 mila bambini figli di genitori provenienti da aree diverse dei territori che non hanno nessun documento di identità.
  L'unico servizio che viene gestito direttamente da un'istituzione palestinese sono 53 scuole pubbliche gestite dal Direttorato per l'istruzione. Il Direttorato per l'istruzione è stato chiuso improvvisamente a novembre 2019 dalla polizia israeliana. Il direttore è stato arrestato e quindi in questo momento oltre 85 mila studenti e studentesse in età di obbligo scolastico si vedono fortemente limitato, quando non negato, il diritto all'istruzione per il prossimo anno scolastico. Ironicamente, il Direttorato è stato chiuso proprio nel giorno del trentesimo anniversario della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, che è probabilmente la più violata a Gerusalemme Est.
  Dal 2000 sono oltre 16.500 i bambini e le bambine palestinesi che sono stati arrestati dalle forze israeliane nei Territori occupati e uno studio del 2018 dimostra che i bambini di Gerusalemme sono nettamente i più colpiti. I dati sulle violazioni che i minori subiscono prima, durante e dopo la detenzione non lasciano spazio ad alcuna interpretazione. Si tratta di un uso sistematico di tortura, trattamenti crudeli, inumani o degradanti, proibiti dal diritto internazionale e dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, senza alcuna eccezione. Vorrei citarvi alcuni dati che sono presi dai rapporti di Unicef e di Defence for Children International, che riguardano la detenzione dei minori palestinesi: l'82 per cento subisce abusi o torture fisiche e verbali durante l'arresto e la detenzione; il 78 per cento non è adeguatamente informato sui propri diritti; l'89 per cento viene interrogato senza la presenza di un avvocato né di un genitore, né incontra un avvocato prima dell'interrogatorio; il 94 per cento firma la confessione in ebraico senza essere in grado di comprenderne il contenuto e senza che questo gli venga spiegato.
  Il sistema discriminatorio a cui da decenni i palestinesi di Gerusalemme sono soggetti non può essere tollerato – questo è evidente – e, in mancanza di una presa di posizione chiara da parte della comunità internazionale e anche – mi auspico – del Governo italiano in difesa dello status di Gerusalemme e contraria alla sua colonizzazione, annessione o qualsivoglia trasformazione, rischia di avere conseguenze irreversibili. Io vorrei chiudere con le parole di Hanan Asharawi, una parlamentare palestinese, che tempo fa disse questa frase: «i palestinesi sono l'unico popolo sulla terra a cui è chiesto di garantire la sicurezza degli occupanti, mentre Israele è l'unico Paese al mondo che esige di essere protetto dalle sue vittime». Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie. C'è stato probabilmente a un certo punto della sua esposizione un refuso, perché ha detto che Israele ha ucciso milioni di persone. È stato un errore...

  ILARIA MASIERI, rappresentante di Terre des Hommes Italia. Come?

  PRESIDENTE. Comunque era chiarissimo che fosse un refuso.

  ILARIA MASIERI, rappresentante di Terre des Hommes Italia. Sono migliaia.

Pag. 8

  PRESIDENTE. Non c'è problema. Do la parola adesso al dottor Pezzati, rappresentante di Oxfam in Italia.

  PAOLO PEZZATI, rappresentante di Oxfam Italia. Grazie presidente. Buongiorno a tutti. Sono Paolo Pezzati, policy advisor di Oxfam Italia per le crisi umanitarie. Mi occupo essenzialmente delle crisi mediorientali e anche nordafricane, in Libia particolarmente. Oxfam è presente nei Territori occupati dal 1950, ha un ufficio dal 1980 ed è presente sia a Gerusalemme Est sia in Cisgiordania sia a Gaza. Ho preparato delle slides per andare più velocemente. Per quanto riguarda la Cisgiordania gli accordi di Oslo ce la lasciano divisa in tre aree: l'area A, l'area B e l'area C. L'area A è quella dove l'Autorità palestinese ha il massimo controllo, ma non totale, sia sul settore civile che di sicurezza; l'area B è l'area dove l'Autorità palestinese ha il controllo civile ma non sulla sicurezza, che compete al governo israeliano; l'area C è dove Israele mantiene il pieno controllo civile e della sicurezza. L'area C è il 60 per cento della Cisgiordania.
  La storia della Cisgiordania è la storia di una lenta ma progressiva annessione di fatto. Proveremo poi a dire come questa progressiva annessione di fatto si sia svolta. Tale annessione si è sviluppata violando – abbiamo già sentito anche negli interventi delle colleghe – la Convenzione di Ginevra, risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sentenze della Corte di giustizia internazionale. È stata una mossa a tenaglia quella partita dal ’67, che vede come strumenti principali gli investimenti per supportare le esigenze dei coloni, cioè costruendo nuove comunità, nuovi insediamenti e le infrastrutture, cioè reti elettriche, idriche e strade, di cui tra l'altro 35 chilometri sono totalmente interdetti ai palestinesi, e i sistemi di sicurezza. Cosa ha comportato questo? Che dal ’93 ad oggi si è quadruplicato il numero dei coloni, è stata estesa alle colonie l'applicazione della legislazione interna israeliana, mentre i palestinesi sono tuttora sottoposti al diritto militare israeliano.
  Altra mossa riguarda la dichiarazione di aree definite o militari chiuse o riserve naturali o aree archeologiche. Proprio un mese fa il Ministro della Difesa ha annunciato sette nuove riserve naturali e l'ampliamento di dodici già esistenti, tutte in Area C. Un tale numero comprendente migliaia di ettari non era mai stato annunciato dal Governo israeliano. Poi ci sono le demolizioni, che hanno un impatto devastante nella vita delle persone, con un trend che è di nuovo in crescita dal 2017: decine di migliaia di persone hanno subito nel solo 2019 le conseguenze di demolizioni di cisterne, reti idriche, strade agricole, rifugi per animali, strutture commerciali.
  Dall'altra parte l’Israeli Civil Administration dal 2009 al 2016 ha rilasciato solamente 66 permessi su una richiesta di 3.365, cioè meno del 2 per cento. C'è inoltre una grave limitazione alla libertà di movimento attraverso delle barriere fisiche. Ci sono 92 check-point. Ci sono stati durante il 2019 seicento blocchi stradali, 708 chilometri di barriera di separazione, di cui – lo abbiamo sentito – l'85 per cento nel territorio palestinese. Ci sono quindi gravissime conseguenze su istruzione, salute ed economia, in questo momento aggravate dal recente bando all’export di prodotti agricoli palestinesi in un momento chiave per l'agricoltura palestinese, ovvero prima del ramadan. Sono già dieci giorni e non sappiamo se questo bando all’export continuerà ancora a lungo.
  Poi c'è un altro punto che è la violazione del principio di sovranità dei popoli sotto occupazione sulle risorse naturali dei Territori occupati. Israele controlla l'80 per cento delle risorse idriche, destinandone ai palestinesi solo il 20 per cento. 600 mila coloni consumano sei volte la quantità di acqua rispetto ai tre milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Per quanto riguarda la giustizia – è stato accennato anche dalla collega – ci sono 5 mila prigionieri politici nelle carceri israeliane: centottanta sono minorenni e ventisei hanno meno di sedici anni. Israele è l'unico Paese che giudica i minori in prima istanza in un tribunale militare. Questo è il quadro che si pone nelle tre zone dei Territori occupati palestinesi alla vigilia della discussione sul «deal of the century».Pag. 9Noi stiamo per uscire come Oxfam con un rapporto sulla crescita delle violenze da parte dei coloni nei confronti dei palestinesi e vorrei proiettare un video di pochi secondi circa un'esperienza che ci è capitata pochi giorni fa.

[proiezione di un video]

  PAOLO PEZZATI, rappresentante di Oxfam Italia. Mi dispiace. Comunque tanto la presentazione è agli atti, quindi il link è permanente. Era l'inaugurazione di una serra, dove proprio noi stavamo piantando insieme ai nostri partner palestinesi delle piante e inauguravamo questa zona verde e la nostra organizzazione è stata attaccata da coloni che abitano lì vicino e sono scesi. È arrivata la polizia israeliana e ha allontanato i coloni, che hanno danneggiato tutte le macchine presenti. Ovviamente non fa vivere il momento, che invece è stato possibile catturare attraverso i video. Rappresenta poi la quotidianità, l'atmosfera che le persone che vivono nell'area C sperimentano quotidianamente. In tre anni ci sono stati più di 650 attacchi dei coloni nei confronti dei palestinesi alle proprietà private, alle persone, alle auto, alle moschee e alle chiese, quindi la situazione da due anni a questa parte sta peggiorando. Si sta registrando un aumento delle violenze da parte dei coloni, che sentono serpeggiare nei loro confronti un clima di impunità da un paio d'anni a questa parte. Sono stati più di 9.500 gli alberi di ulivo vandalizzati e di fronte a tutto questo solamente il 5 per cento dei palestinesi presenta denuncia alle autorità israeliane, perché dicono: «Come possiamo noi presentare denuncia, quando il nostro avversario è il giudice stesso?». Questo è un tema che ci parla anche proprio della giustizia, di come il tema dell'occupazione è vissuto a 360 gradi anche nell'esercizio della giustizia.
  Chiudo, leggendo le nostre raccomandazioni. Gli accordi di Oslo portavano con sé una serie di fondate aspettative sia per i palestinesi sia per gli israeliani, ma il lascito permanente del processo di Oslo è la cronicizzazione dell'occupazione militare dei territori palestinesi che dura da ormai cinquantadue anni, corredata da continue violazioni del diritto internazionale nella totale impunità: violazione dei diritti umani, limitazione degli spazi di vita civile in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Con la presentazione del «deal of the century» degli Stati Uniti lo scorso gennaio, l'Amministrazione Trump ha compiuto passi unilaterali senza precedenti che minano pericolosamente la soluzione di molte questioni legate allo status permanente: ad esempio lo status di Gerusalemme, la definizione dei confini, il problema dell'acqua, il diritto al ritorno dei rifugiati.
  Si esprime inoltre profonda preoccupazione per la recente tendenza di diversi Governi europei a equiparare antisemitismo e antisionismo, rischiando di confondere due concetti profondamente diversi e assolutamente non sovrapponibili. Mai più di adesso è necessario trarre dal passato insegnamenti di vitale importanza e soffermarsi nell'analisi di cosa non ha funzionato negli Accordi di Oslo.
  Chiediamo quindi al Parlamento di incardinare una discussione che porti all'adozione di un testo che nella sua parte dispositiva impegni il Governo a: avere un ruolo attivo nella proposta, assieme ad altri membri della comunità internazionale, di un nuovo processo di pace che tenga realmente conto di quelli che sono stati i principali elementi che hanno determinato il fallimento di Oslo e che quindi contenga termini di riferimento precisi, i cui fondamenti siano chiaramente specificati e radicati nel diritto internazionale, nel diritto internazionale umanitario e nelle leggi internazionali sui diritti umani; un approccio multilaterale e il coinvolgimento di parti terze, specificato e stabilito nei dettagli, con meccanismi di controllo e responsabilizzazione, scadenze chiare con precise conseguenze e responsabilità in caso di mancata attuazione degli obblighi da parte dei soggetti in conflitto; flessibilità, adattabilità, meccanismi di aggiustamento inseriti in tutti i futuri accordi relativi al periodo ad interim per garantire la continua e scrupolosa osservanza del diritto internazionale; inclusività, attraverso un processo di pace realmente inclusivo nei confronti delle Pag. 10donne e dei giovani della società civile e che rispecchi l'impegno della comunità internazionale verso le donne. Poi si chiede di impegnare il Governo a: favorire un processo di dialogo per la riconciliazione tra le autorità di Gaza e Cisgiordania; intraprendere le dovute iniziative diplomatiche sia nei confronti del Governo di Israele sia nei confronti dell'Autorità palestinese, affinché si giunga a future elezioni nei Territori occupati palestinesi, compresa Gerusalemme Est; riaffermare pubblicamente e in ottemperanza all'articolo 1 delle Convenzioni di Ginevra e adottare tutte le misure necessarie per far sì che tutte le parti rispettino le proprie obbligazioni ai sensi del diritto internazionale umanitario; riaffermare pubblicamente e adottare in concerto con gli altri Stati membri tutte le iniziative possibili volte a dare seguito alle recenti dichiarazioni UE dove si ribadisce che tutti gli insediamenti nel Territorio palestinese occupato sono illegali ai sensi del diritto internazionale e rappresentano un grave ostacolo al raggiungimento della soluzione a due Stati e a una pace giusta, duratura e globale; richiedere pubblicamente la rimozione del blocco della Striscia di Gaza e fare in modo che i bisogni del popolo sotto occupazione siano soddisfatti conformemente al diritto internazionale. Devono essere eliminate anche tutte le restrizioni alle libertà di movimento e di accesso imposte a tutti i Territori palestinesi occupati, ivi inclusa Gerusalemme Est; attivare immediatamente, qualora non fosse stato già fatto nel frattempo, canali bilaterali e multilaterali perché il diritto all'istruzione sia garantito in tutti i Territori e in particolare affinché il Direttorato per l'istruzione di Gerusalemme venga immediatamente riaperto. Il diritto all'istruzione è un diritto fondamentale e le scuole devono essere luoghi di pace per godere della protezione loro garantita dal diritto internazionale; sostenere un maggiore impegno economico-finanziario a favore della cooperazione allo sviluppo e all'aiuto umanitario per rispondere ai bisogni crescenti della popolazione palestinese. Infine si fa appello ai membri del Parlamento affinché si vigili e si prevengano eventuali tentativi di adozione di testi finalizzati all'equiparazione della critica al sionismo con l'antisemitismo, come sta accadendo altrove. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie di queste vostre informazioni. Ovviamente questo è un documento che voi depositate, poi la Commissione Affari esteri valuterà come tenerne conto. Ci sono interventi? Prego, collega Migliore.

  GENNARO MIGLIORE. Grazie presidente. Io vorrei fare solo alcune considerazioni, anche perché i report che ci sono stati forniti si basano su elementi fattuali, quindi sarà occasione da parte nostra anche di ulteriore riflessione. Io conosco abbastanza la situazione palestinese, anche per esserci stato in diverse occasioni durante la mia vita. Il punto politico che secondo me dovrà essere centrale nel corso dei prossimi mesi, siccome sappiamo perfettamente che questa situazione si protrae da decenni, è come riavviare un processo di pace.
  Dal mio punto di vista il processo di pace, di riconciliazione e di affermazione dei diritti delle due parti parte essenzialmente con il piede sbagliato attraverso una forzatura unilaterale voluta da Trump. Io non penso che quello sia uno strumento neanche lontanamente utilizzabile per arrivare a una soluzione. Penso che il lavoro che fanno le organizzazioni internazionali si sia rivelato molto scadente nel corso di questi anni, perché a fronte di una serie di dichiarazioni di principio non si sono mai determinate le vere condizioni per riaprire quella che fu la stagione più densa di speranze, cioè quella degli Accordi di Oslo; quindi bisognerebbe intervenire anche dal punto di vista della nostra diplomazia per cercare di riaprire uno spiraglio, anche coinvolgendo pienamente l'Unione europea.
  Mi preme sottolineare, prendendo atto delle posizioni che sono state qui espresse anche dal documento, che la sofferenza del popolo palestinese va certamente considerata come un elemento da cui partire quando si parla di vittime, ma dal punto di Pag. 11vista della politica europea e di alcuni soggetti europei io non condivido la frase – questo ci tengo a dirlo – che dice che l'antisionismo e l'antisemitismo sono due argomenti completamente diversi. Non è così. È vero che sono due cose distinte, ma molti antisemiti utilizzano l'antisionismo per mascherare il loro antisemitismo. Questo lo dico in maniera chiara. Io non ho mai cambiato posizione rispetto alle questioni che riguardano i temi di Israele e Palestina e quindi ritengo che ogni cedimento culturale su questo punto – non tanto per la risoluzione di un problema e di una questione gigantesca come quella in quel territorio, ma in Europa e in generale nei Paesi coinvolti nella discussione politica – sia non condivisibile. Lo dico in maniera quanto più esplicita possibile, sapendo che bisogna essere molto più attenti rispetto alle violazioni che sistematicamente vengono realizzate e anche ovviamente avendo ben presente che il diritto all'esistenza dello Stato di Israele non può essere messo in discussione, come invece in alcune dichiarazioni e nello statuto stesso di alcuni partiti viene fatto di costantemente e non viene mai aggiornato.

  PINO CABRAS. Per parlare di questo tema io riscontro una difficoltà oggettiva a cui dovremo prima o poi porre rimedio nelle discussioni specifiche della Commissione Affari esteri. Bisogna fare discussioni in cui entra il tema della geografia, con una cartina davanti. Altrimenti è difficile anche descrivere quello che sta accadendo. Se noi guardiamo la cartina dei Territori occupati palestinesi in questo momento, a cosa sono ridotti e qual è l'area su cui esercita un'effettiva autorità l'Autorità nazionale palestinese, noi vediamo una sorta di arcipelago. Non è un territorio continuo, dove si ha una continuità funzionale, un'effettiva capacità di esercizio del potere di uno Stato da parte delle autorità che lo esercitano e nemmeno quello di una regione amministrativa, ma abbiamo tante isole – stiamo parlando di decine di isole – separate completamente dalle altre e devono attraversare dei confini che sono controllati da uno Stato che impone una sua legge, che è in contrasto con la legge locale e con la possibilità amministrativa. Cosa voglio dire con questo? Che l'accordo recente fra Netanyahu e Trump – lo chiama «accordo del secolo», ma è un accordo che non prevede un pezzo di popolazione enorme che dovrebbe essere coinvolto – è un accordo fra due leader politici che hanno scelto sulla pelle di un'intera popolazione. Prevede il perpetuarsi di questo sistema, di questa geografia assurda su cui non può sorgere alcuno Stato palestinese. Non può funzionare mai, non in quei termini. Non stanno proponendo uno Stato, una comunità, ma una dispersione di tante comunità, un limone spremuto che non ha più le risorse per poter funzionare; pertanto, un piano come quello che viene proposto è foriero di altri cent'anni di guerra.
  È perciò in pericolo la pace in Medio Oriente e lo dobbiamo affermare con forza, oltre che essere in pericolo i diritti già conculcati della popolazione palestinese; e qua vorrei fare un'annotazione polemica rispetto all'attenzione spasmodica che viene dedicata in questi giorni alle violazioni dei diritti umani, ad esempio, in Egitto: per carità, facciamo pure un richiamo importante ai doveri dello Stato egiziano, però c'è una cosa molto più ingombrante come questa che avviene in Terra Santa e che sta aggravandosi sempre di più, e sta diventando il grande problema del Medio Oriente. Non può nascere nessuna situazione pacifica da una così potente mancanza di giustizia.
  Vorrei chiudere sulla questione del sionismo: ovviamente quando una contrarietà al sionismo è una maschera per l'antisemitismo, è una cosa che deve far scattare tutti gli alert possibili e immaginabili. Quindi vanno smascherate queste cose, possibilmente combattute con forza, però attenzione a non consentire una critica profonda al sionismo reale. Un tempo si parlava di socialismo e socialismo reale. In un certo senso il sionismo reale di questo periodo è una negazione di certe fasi del sionismo storico. È stato interamente egemonizzato da una destra di tipo nazionalista, ottocentesca; non è più un progetto evoluto che si apre al ventunesimo secolo. È sostenuto da un apparato di pubbliche Pag. 12relazioni del ventunesimo secolo, ma è un progetto molto regressivo, etnicista, tant'è vero che da parte di Israele c'è questa dichiarazione di «Israele come Stato ebraico». Ecco, questa cosa è in contraddizione con un principio laico di contemperanza, di convivenza di più popoli, di più etnie all'interno di uno Stato. Quindi la critica al sionismo reale deve essere possibile. Questa è una precondizione per poter ragionare laicamente del futuro di quella terra così importante per l'umanità e per tutti quanti.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Io mi scuso, per un impegno precedente ho sentito solo una parte della relazione, ma volevo ringraziare per la disponibilità delle varie associazioni a essere presenti in Commissione Affari esteri per illustrare una cosa della quale non dobbiamo dimenticarci, che è effettivamente la difficoltà in cui vivono quotidianamente centinaia di migliaia di cittadini palestinesi nel loro Stato.
  Mi associo molto a quanto diceva il collega Migliore. Il diritto di critica sulle politiche dello Stato di Israele non deve, però, in alcun modo cancellare, da un lato, le ragioni storiche immediate dell'esistenza dello Stato di Israele e, dall'altro lato, il diritto ad esistere dello Stato di Israele. Detto questo, il fatto che ci siano continue violazioni dei diritti fondamentali dei cittadini palestinesi è, a mio giudizio, una delle ragioni per le quali oggi Israele mette più a repentaglio anche una propria esistenza pacifica e una propria influenza pacifica nella regione.
  Detto questo, io ho una domanda di carattere specifico rispetto alle ong, alle associazioni che sono qui presenti oggi. Non sono solo i cittadini palestinesi a vivere in condizioni di diritti negati, ma anche le associazioni e le ong che si occupano della condizione dei cittadini palestinesi nei Territori, soprattutto a Gaza, che da anni è sempre di più messa in discussione.
  Noi siamo italiani e questa è la Commissione Affari esteri, e credo che da parte vostra possono venire dei suggerimenti utili sul tipo di interventi che l'Italia può fare a sostegno degli operatori umanitari e di cooperazione in quei territori, perché è importantissimo che il nostro Paese continui a sostenere un certo tipo di presenza e un certo tipo di iniziative in Cisgiordania, ed eventualmente anche a Gaza. Ricordo la vicenda molto nota a questa Commissione, che si è interessata tantissimo, per esempio, della «Scuola di gomme», ma non c'è solo quella vicenda, che è simbolica di una situazione più generale di difficoltà ad operare delle associazioni e delle ong.

  ILARIA MASIERI, rappresentante di Terre des Hommes Italia. Scusate abbiamo un po’ perso l'ultimo intervento perché il collegamento non era perfetto, ma intanto ringrazio degli interventi. Vorrei rispondere al primo intervento dell'onorevole Migliore, se possibile, puntualizzando perché noi abbiamo deciso di inserire nelle nostre richieste l'attenzione a non confondere antisemitismo e antisionismo. Scusatemi, ma non mi ricapiterà mai più e vorrei poter chiarire la nostra posizione.
  Allora, innanzitutto che cos'è l'antisemitismo, l'antisemitismo inteso nei confronti degli ebrei soltanto? È innanzitutto un falso etimologico. I popoli semiti sono quei popoli che per la Bibbia ebraica – è scritto nella Genesi – vengono da Sem, figlio di Noè, che alla morte del padre ereditò quella parte del regno che era il Medio Oriente. Questo fa di molti popoli, inclusi buona parte dei popoli arabi, popoli semiti. Quindi direi che è un'etimologia profondamente diversa da come viene oggi stilato l'atto che dovrebbe probabilmente essere sostituito con antiebraismo, o antigiudaismo, e anche se mi dite che contiene una serie di popoli dall'Iraq fino al Corno d'Africa, esclude di fatto gli ebrei aschenaziti, e tutti coloro che oggi confessano la religione ebraica.
  L'antisionismo invece è l'opposizione ad un movimento politico che rivendica la legittimità di uno Stato ebraico, e di questo vorrei ringraziare molto il deputato Cabras per avere chiarito e citato la legge sulla nazione del 2018, dove si stabilisce che Israele è lo Stato degli ebrei. Qui vorrei dare la parola brevissimamente a Gideon Levy, giornalista israeliano che vive sotto Pag. 13scorta per le minacce di morte che riceve dalla destra ebraica. Gideon Levy, a proposito della legge del 2018, ha scritto: «Se lo Stato è ebraico, non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico perché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell'origine etnica». Quindi – e concludo – noi non chiediamo assolutamente, o non mettiamo in alcun modo in discussione, la legittima esistenza dello Stato di Israele. Chiediamo che Israele non continui ad essere impunito di fronte al diritto internazionale. Il diritto internazionale, lo sapete meglio di me, voi che siete i rappresentanti più alti della Repubblica, viene da una storia tragica ed è stato compilato affinché le tragedie dei due conflitti mondiali non si ripetessero. Noi chiediamo semplicemente che il diritto internazionale venga rispettato in Israele e in Palestina come nel resto del mondo. Grazie.

  SILVIA STILLI. In realtà più che conclusioni, riprendo così. Mi ero mi ero già detta che l'avrei fatto, riprendo l'intervento dell'onorevole Quartapelle Procopio. Intanto, Ilaria, io mi auguro che non sia vero, che magari un giorno tu farai la deputata, – permettimelo – perché penso non succeda spesso di dover dire che questo Paese ha un'ottima società civile tra i giovani, che è molto attiva nel nome della pace e della democrazia. Peraltro, siccome io sono un'attempata di questo mondo, ho visto vari Governi e Paesi, e in questo Paese ho visto lavorare moltissimo, come sappiamo in diplomazia così come nel dialogo, con la diplomazia popolare della società civile per la pace in quelle aree, in quelle zone.
  Allora sì, per noi è molto difficile operare in serenità e in sicurezza, lo potrebbero dire loro e lo dico io in sintesi oggi. Prima di tutto lo è per le persone che lavorano a Gaza nelle organizzazioni non governative, che sono costrette a stare un giorno soltanto a Gaza per seguire progetti. Possono entrare la mattina e uscire la sera e non possono rimanere a Gaza, non è permesso questo. Quindi da un lato voi capite anche che ricevere accuse poi di non avere un controllo reale della gestione del progetto – che comunque viene effettuata, viene garantita e viene fatta – quando non c'è questa possibilità di rimanere lì, è alquanto problematico. E comunque, come abbiamo sentito dagli interventi, la conoscenza delle zone dove operano, l'hanno perfettamente, ma non è solamente questo.
  Io sono direttore di ARCS, l'ong dell'ARCI – oltre che essere portavoce della AOI, sono anche questo – e alcuni di voi sanno perfettamente quanto Tom Benetollo, defunto presidente dell'ARCI, ha fatto insieme anche ai parlamentari italiani perché il dialogo con Israele e Palestina fosse nelle priorità del nostro intervento. Ebbene, attualmente la mia ong può operare solamente con progettazione europea in quell'area, perché non abbiamo avuto il rinnovo da parte di Israele della possibilità di avere personale italiano nell'area, e per quanto riguarda il regolamento dell'Agenzia italiana della cooperazione allo sviluppo, se non si ha quel permesso, quella tipologia di registrazione non si può operare. Noi, ovviamente, in modo molto gandhiano continuiamo a chiedere al governo israeliano quale sia il motivo – forse ce lo possiamo anche immaginare – anche non aderendo per esempio a campagne come «boicottaggio, disinvestimento e sanzioni» (BDS) o altre, ma semplicemente per il nostro passato sul dialogo.
  Chiudo, perché ci tengo moltissimo, dicendo che in questi giorni in piazza a Tel Aviv ho visto che finalmente ci sono di nuovo delle manifestazioni che tengono dentro palestinesi e israeliani, probabilmente giovani, ma è anche vero che tutto quel mondo israeliano, non solo intellettuale ma attivista per il dialogo e per il pacifismo – qualcuno è stato citato – in questo momento è veramente a rischio, in pericolo. Quindi quando ci viene domandato – per esempio, uno dei quesiti per il rinnovo del riconoscimento e della registrazione in Israele che è arrivata alla mia ong – «Ma voi lavorate anche con gli israeliani?», abbiamo molta attenzione a dire con chi lavoriamo, tra virgolette. Perché non vorremmo che questo poi fosse preso di mira ovviamente dal Governo israeliano. Quindi, sì, ringrazio l'onorevole Quartapelle Procopio per averlo sottolineato. Abbiamo un Pag. 14dialogo aperto – e veniamo al Governo, ponendolo quindi a voi parlamentari – ormai da più di due anni con la Farnesina perché si riesca a trovare la soluzione alla nostra operatività, che però – chiudo, ahimè, con una nota dolente – non riguarda solamente la Palestina, dal momento che abbiamo una restrizione di operatività anche in altre aree del Medio Oriente e in Africa. Grazie.

  PRESIDENTE. Va bene. Possiamo chiudere la nostra discussione. Ritengo che sarebbe utile che esaminaste il documento che la Commissione Affari esteri produsse nella sedicesima legislatura in esito a un'indagine conoscitiva sull'antisemitismo: un corposo dossier che affronta anche le questioni del sionismo, eccetera. Quindi è una documentazione che può essere utile per fare una discussione che sia vera e fondata. Adesso qui non abbiamo il tempo per avere questa discussione, ma io ricordo che il sionismo nasce come movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico. Nasce così, e quindi tutta la storia del movimento sionista è una storia che accompagna la lunga battaglia che, dalla fine dell'Ottocento fino al 1948, il popolo ebraico ha condotto per vedere riconosciuta la possibilità di avere un'identità statuale nella quale riconoscersi. Dopodiché, sappiamo tutti che l'atto legislativo con cui si è definito recentemente «Israele stato ebraico» è contestato, ed è contestato anche dentro Israele, come è stato ricordato. Quindi è evidente che poi nello sviluppo politico ci sono molte cose che vanno affrontate e vanno esaminate con cura. Il punto, però, che non può essere ignorato è che la contestazione, sia nella forma dell'antisemitismo sia nella forma dell'antisionismo, è spesso la contestazione a Israele nel suo diritto ad esistere. Questo è il punto: Israele è l'unico Stato nei confronti del quale, quando si critica il Governo d'Israele, in realtà, immediatamente c'è un transfer che porta a criticare lo Stato in quanto tale. È questo che non funziona. Io ho non ho nessun dubbio a criticare Netanyahu, ma nel momento in cui critico Netanyahu, so che critico un Governo, così come ci può essere chi invece lo sostiene. Non trasferisco la critica a un Governo sullo Stato, perché non lo facciamo per nessun'altra realtà statuale; su Israele c'è continuamente questo equivoco. Questo è un punto che bisogna avere chiaro.
  In ogni caso, non voglio entrare nel merito di molte questioni addotte, però una cosa è certa: questa vicenda si trascina dal 1948, e sono quindi passate più di settant'anni. Per una lunga prima fase, noi abbiamo avuto tra il 1948 e il 1991, anno della conferenza di Madrid, una fase nella quale ciascuno negava il diritto dell'altro. Questa è la storia del 1948-1991. Tanto è vero che tra il 1948 e il 1991 noi abbiamo avuto cinque guerre: 1948, 1956, 1967, 1973 e 1982.
  Con Madrid si è svoltato: da Madrid in avanti, fino ad Oslo, ciascuno ha riconosciuto che il diritto dell'altro era legittimo come il proprio, e questa è stata la svolta. Si è negoziato un processo di pace fino ai colloqui di Oslo e agli Accordi di Washington. Quel processo di pace era molto anomalo dal punto di vista «di come si fanno le paci», passatemi questa espressione. Perché è un trattato di pace affidato nella sua implementazione al verificarsi progressivo di condizioni: un processo di pace impostato gradualmente, in cui l'acquisizione di ogni tappa crea le condizioni per passare alla tappa successiva, sul presupposto che il tempo lavorasse per la pace, e il tempo determinasse il maturare di condizioni di fiducia che in partenza non erano tutte date. La verità? È successo il contrario. Il passare del tempo non ha favorito il maturare di un processo graduale di maggiore fiducia, ma ha logorato il processo di pace, ha fatto crescere via via una condizione di logoramento del processo stesso e quindi di sfiducia.
  Guardate, non c'è nessuna pace che si fa se non c'è la fiducia, è il prerequisito di qualsiasi pace. Io ricordo – mi occupo di questa vicenda dal 1978, quindi da una vita – che in uno dei tanti viaggi che feci – ricordo questo perché è significativo – nel 2004 – era la prima intifada – incontrai Nabil Shaat, che è la vera mente palestinese, quello che ha fatto gli Accordi di Oslo e di Washington, e gli dissi: «Va be’, ma che cosa succede?», e lui mi rispose con una frase secca, ma chiara: «la mia generazione ha creduto in una pace a cui i nostri figli non credono più». Chiaro. Frase terribile. Pag. 15
  Noi abbiamo avuto un continuo e progressivo logorarsi del processo, tanto è vero che gli accordi di Washington ebbero difficoltà a essere implementati; si provò a fare un nuovo accordo nel 2002, a Camp David, e non si riuscì. Si tentò con Annapolis nel 2007, e non si riuscì. E poi da Annapolis ad oggi si è bloccato tutto ed è un décalage continuo e costante fino alla proposta di oggi di Trump, che ha le caratteristiche che ricordava Cabras, è la proposta sostanzialmente di un «bantustand», di un territorio polverizzato, secondo le caratteristiche che Cabras ricordava, e che difficilmente può essere riconosciuto come un'entità territoriale che ha una continuità tale da configurare la possibilità di implementare uno Stato.
  Detto questo, come molti, penso che questo piano sia irrealistico e non realizzabile; penso anche, però, che i palestinesi sono di fronte a un grandissimo dilemma, e non vorrei trovarmi nei loro panni. Dire di no dopo aver detto tanti no precedenti, sperando domani di avere una pace migliore, che è una illusione. Da Oslo ad oggi tutte le proposte che sono venute in campo sono proposte che hanno via via ridotto la dimensione dello Stato palestinese; non credo realistico pensare che questa tendenza si inverta. Quindi i palestinesi sono di fronte a un dilemma: dire no sapendo che il dire no probabilmente allontana ancora di più qualsiasi prospettiva di avere un proprio Stato; o dire di sì ad una proposta, pur negoziandola e cercando di migliorarla naturalmente, che però non placherà e non taciterà almeno un settore della società palestinese, e quindi non risolverà il problema dell'irredentismo palestinese. Quindi è un dilemma drammatico in tutte e due i casi.
  Questo dilemma può essere sciolto ancora in un modo ancora diverso, che io vedo avanzare, e cioè che ormai nei giovani palestinesi comincia a farsi strada un'idea molto più radicale. Lasciamo perdere lo Stato palestinese, accettiamo che tutto questo territorio diventi Stato israeliano e noi faremo la battaglia nello Stato israeliano per i nostri diritti; e non a caso chi sostiene questo evoca Mandela. È significativo.
  Quindi è una situazione drammatica, molto lontana, se posso permettermi, dalle proposte che voi avanzate nel vostro testo, che sono tutte in linea di principio giuste, ma non mi pare ci sia nessuna condizione concreta politica oggi, perché la comunità internazionale sia in grado di mettere in campo un processo che realizza quelle condizioni. Siamo in uno stadio molto più minimo purtroppo. Quindi non ho la soluzione, ripeto, la dirigenza palestinese è in una condizione davvero drammatica, perché si trova di fronte a un dilemma che in ogni caso non è soddisfacente, quale che sia la scelta che dovesse fare, e probabilmente non consente di acquisire quella stabilità e quella pace che sarebbe necessaria in quel territorio. Quindi la situazione è molto complicata, molto difficile, in ogni caso non bisogna rassegnarsi mai. Pertanto è giusto – e questo lo condivido – sollecitare la comunità internazionale ad assumersi le sue responsabilità e a provare ad agire. Però, segnalo che una comunità internazionale che volesse promuovere e concorrere ad una soluzione di pace ha bisogno di un prerequisito: un grado di coesione e di unità. Nel momento in cui Trump fa quella proposta, che gran parte della comunità internazionale non condivide, ivi compresa l'Unione Europea, manca un requisito di coesione di unità che consenta alla comunità internazionale di mettere in campo un processo tale da favorire la ripresa di un percorso di pace. Quindi a me pare che la situazione sia molto grave e francamente esposta a tantissimi altri pericoli.
  Vi ringrazio molto, anche per la documentazione, che sarà pubblicata in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato), e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 13.35.

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