XVIII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 19 di Mercoledì 29 gennaio 2020

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Grande Marta , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA PER LA PACE E LA STABILITÀ NEL MEDITERRANEO

Audizione del direttore dell’ Institute for Global Studies (IGS), Nicola Pedde.
Grande Marta , Presidente ... 3 
Pedde Nicola , direttore dell’ ... 3 
Grande Marta , Presidente ... 9 
Boldrini Laura (PD)  ... 9 
Cabras Pino (M5S)  ... 10 
Migliore Gennaro (IV)  ... 10 
Formentini Paolo (LEGA)  ... 11 
Ehm Yana Chiara (M5S)  ... 11 
Grande Marta , Presidente ... 11 
Pedde Nicola , direttore dell’ ... 11 
Grande Marta , Presidente ... 15

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Partito Democratico: PD;
Fratelli d'Italia: FdI;
Italia Viva: IV;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Noi con l'Italia-USEI-Cambiamo!-Alleanza di Centro: Misto-NI-USEI-C!-AC;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Centro Democratico-Radicali Italiani-+Europa: Misto-CD-RI-+E;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
MARTA GRANDE

  La seduta comincia alle 14.15.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione sul canale della web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del direttore dell’ Institute for Global Studies (IGS), Nicola Pedde.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla politica estera dell'Italia per la pace e la stabilità nel Mediterraneo, l'audizione del professor Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies.
  Saluto e ringrazio per la sua disponibilità a prendere parte dei nostri lavori il professor Pedde.
  Ricordo che l’Institute for Global Studies è un centro di ricerca italiano indipendente costituito nel 2005, il cui principale scopo è quello di fornire impulso per una ricerca analitica e di contesto di elevato profilo nel settore delle relazioni internazionali, degli studi strategici e della sicurezza. Le attività di ricerca e analisi dell'Istituto sono condotte essenzialmente sul campo con un criterio di specializzazione geografica primariamente localizzato nel Medio Oriente, in Africa subsahariana e orientale. L'Istituto organizza e gestisce programmi di formazione specialistica post universitaria in collaborazione con enti pubblici e privati, caratterizzati dalla possibilità di svolgere i periodi di formazione sul campo. L'Istituto dispone poi di una propria casa editrice, pubblicando monografie e studi sui principali temi di interesse della propria attività di ricerca. La struttura editoriale gestisce, inoltre, alcune pubblicazioni periodiche, sia cartacee sia on line, favorendo in tal modo il dibattito pubblico e la partecipazione di esperti esterni.
  Il professor Pedde, oltre a dirigere la rivista Geopolitics of the Middle East, ha insegnato relazioni internazionali all'Università di Roma La Sapienza e alla John Cabot University di Roma; dal 2005 al 2017 ha inoltre diretto la ricerca sul Medio Oriente presso il Centro militare di studi strategici del Centro alti studi per la difesa del Ministero della difesa; è inoltre autore di numerosi saggi, tra cui «Iran 1979, la rivoluzione islamica» e «Geopolitica dell'energia».
  Sono lieta quindi di dare la parola al professor Pedde per il suo intervento.

  NICOLA PEDDE, direttore dell’Institute for Global Studies (IGS). Grazie, presidente, per l'invito graditissimo. Per quanto concerne l'oggetto del mio intervento, vorrei focalizzare l'attenzione sulle questioni relative a due Paesi e a due aree di primario interesse per la politica estera e di sicurezza della Repubblica italiana: da un lato, la Libia e il Nord Africa; dall'altro, l'Iran e la regione del Golfo Persico. Per quanto concerne la Libia, credo che sia evidente il momento di rinnovata tensione derivante dall'impossibilità di dare seguito all'impegno di una tregua tra le componenti sul terreno, quindi l'impossibilità di dare seguito a quella road map che solo pochi giorni fa è stata definita nella Conferenza di Berlino.
  Credo che sull'argomento sia opportuno segnalare come l'insieme degli interessi che ruotano ormai intorno alla crisi libica non possa essere considerato come il prodotto Pag. 4di un'espressione negoziata. Gli interessi che ruotano intorno alle due componenti principali del sistema politico libico sono espressione di un quadro regionale molto più ampio, con una serie di interessi purtroppo confliggenti che impediscono il perseguimento di qualsiasi obiettivo della comunità internazionale sul tema della pacificazione o, comunque, della stabilità per favorire il necessario processo di riconciliazione nazionale. In particolare, ci sono due forti interessi contrapposti, due componenti più o meno eterogenee che sostengono posizioni sul terreno molto ben definite: da una parte abbiamo il Governo di accordo nazionale (GNA) di Fāyez al-Sarrāj, quello riconosciuto dalla Comunità internazionale, che esce dalla Conferenza di Berlino fortemente indebolito e di fatto avviato ad una fase di transizione, che ha come sostenitori ufficialmente l'intera comunità internazionale, le Nazioni Unite, in realtà vede sul piano del sostegno diretto e degli interessi un quadro molto diverso e purtroppo molto più complesso, soprattutto nella capacità di sostenere le prerogative di questo Governo. Sicuramente l'Italia è stata, nel corso di questi anni – dal 2011 ad oggi – più vicina alla parte di Tripoli, alla componente politica dove storicamente sono localizzati anche la gran parte dei nostri interessi. Questa secondo me è una delle premesse necessarie in questa discussione. L'Italia non è un Paese super partes nella dimensione della crisi libica: noi abbiamo degli interessi molto precisi, interessi storici che si sono concretizzati attraverso una cooperazione di tipo politico ed economico, forti interessi sul piano energetico, ma non solo, quindi siamo un attore che ruota attorno alla dimensione della questione libica in modo non totalmente indipendente. Questa è una cosa che non costituisce, a mio avviso, in alcun modo un problema, non deve essere, anzi, oggetto di un'ambiguità da parte dell'Italia.
  Dall'altra parte ci sono una serie di interessi che coincidono in parte con la nostra visione, alcuni Paesi che condividono la nostra visione e sostengono il governo del GNA di Tripoli, ed altri che invece hanno apertamente o indirettamente sostenuto la componente che fa capo al parlamento di Tobruk, in modo particolare il Generale Khalīfa Haftar, a capo del cosiddetto esercito nazionale libico (LNA), che viene visto come l'attore forte della crisi libica, il dominus militare sul terreno, l'uomo con la capacità di ristabilire gli equilibri di forza. Equilibri che sono garantiti da un diretto sostegno internazionale che viene ottenuto dagli Emirati Arabi Uniti in modo particolare, dall'Egitto, ma ultimamente anche dalla Russia, che ha portato la componente del Generale Haftar ad avere una capacità operativa sul terreno chiaramente non paragonabile a quella delle forze del GNA di Tripoli, che a loro volta hanno ricevuto, in tempi più recenti, il sostegno della Turchia e, in modo meno diretto, da parte del Qatar.
  Qui ruotano, nella definizione di questi interessi geopolitici regionali, due visioni contrapposte della definizione politica e della sicurezza in Nord Africa. In particolare, da una parte il sostegno dato al Generale Haftar dai Paesi che lo sostengono è sostanzialmente costruito attorno all'opposizione più totale in direzione del ruolo della Fratellanza musulmana nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa, in questo caso in modo particolare, trasformando in questo modo la Fratellanza musulmana in un'entità monolitica, in un unicum che avrebbe una capacità di tipo progettuale, di tipo militare tale da rendere la regione pericolosa per gli interessi degli attori che la combattono. Questa visione della Fratellanza musulmana onestamente cozza con l'immagine di quella che è diventata la Fratellanza musulmana nel corso degli ultimi dieci anni: l'esperienza fallimentare di governo in Egitto; l'intervento delle forze armate; la repressione sulla componente storica della Fratellanza musulmana in Egitto, fortemente criticata peraltro nella sua capacità dagli stessi egiziani, prima ancora che intervenisse l'esercito; la forte frammentazione della Fratellanza all'interno di dimensioni regionali molto diverse tra loro; non è possibile creare un termine di paragone tra gli elementi della Fratellanza musulmana libica, per esempio, quelli siriani o quelli egiziani, Pag. 5stiamo parlando di un'organizzazione estremamente eterogenea nella sua natura. Così come dare un giudizio sul profilo della pericolosità della Fratellanza musulmana sulla base dell'orientamento ideologico rischia di essere assolutamente inesatto, nel senso che certamente esistono all'interno della grande struttura della Fratellanza delle fazioni che hanno un profilo ideologico più radicale, più estremista, ma la gran parte della struttura è connotata da posizioni sicuramente diverse, più modeste anche dal punto di vista dell'ambizione politica. L'immagine della Fratellanza musulmana, tuttavia, viene trasformata nella narrativa di Haftar, nella narrativa di chi sostiene il governo dell'LNA in un unicum caratterizzato da una natura quasi jihadista. Quindi la narrativa che viene portata all'interno di questa componente, che è oggi dominante soprattutto sul piano dei media occidentali, è quella di un rischio evidente sul terreno portato dal supporto del governo di Tripoli alla formazione di jihadisti. Chiaramente si tratta di una visione funzionale agli interessi del generale Haftar, ed è però una visione che viene fortemente condivisa anche dai suoi sostenitori. È peraltro una visione che esce molto rafforzata, a mio avviso, dalla road map della Conferenza di Berlino.
  Invece, sul piano della realtà del nostro ambiente più diretto di riferimento, cioè la componente della Tripolitania, di Tripoli in modo particolare, a mio avviso è necessario segnalare come, al di là della componente ideologica, il vero controllo del territorio e la vera espressione del potere militare è affidata a milizie che rispondono ad un ordine molto più ampio di interessi rispetto a quello meramente religioso e ideologico: rispondono soprattutto agli interessi costruiti e consolidati, all'indomani della caduta del regime di Gheddafi, da piccole formazioni che si sono rese autonome sotto il profilo della capacità militare e della capacità del controllo del territorio, che oggi hanno chiaramente uno scarsissimo interesse, da una parte, a trovare una formula di sintesi complessiva sotto il profilo politico e, dall'altra, chiaramente cercano di individuare meccanismi per una continuità del loro ruolo attraverso una legittimazione, che può in questo momento derivare da questa autorità politica di riferimento comune: quella del GNA. Il GNA in realtà non ha un pieno controllo su queste milizie: ha un controllo meramente formale, e dal punto di vista dell'operatività credo che la fase di coesione che abbiamo visto in queste ultime settimane, in questi ultimi mesi sia dettata soprattutto e quasi esclusivamente dalla necessità di difesa del territorio in conseguenza di quello che è stato l'attacco sferrato dalle forze dell'LNA del Generale Haftar qualche mese fa. Un attacco che, peraltro, è arrivato un po’ a sorpresa anche dall'altra parte, poco prima di un'altra proposta di Conferenza nazionale che avrebbe sancito, in un certo qual modo, la consacrazione del ruolo del Generale Haftar come capo militare di una struttura unitaria della Libia.
  Questo credo che sia il problema. Il Generale Haftar ha velleità di comando politico, non vuole diventare il Ministro della difesa, vuole diventare il capo di uno Stato unitario libico, e questo è l'elemento di contrapposizione che chiaramente rende molto difficile la composizione degli interessi sul terreno.
  In subordine a questo, ma chiaramente di grande importanza per gli interessi della Repubblica italiana, noi non siamo nella linea di alleanza del Generale Haftar, quindi un consolidamento del potere dell'LNA vedrebbe sicuramente penalizzati gli interessi italiani, perché sarebbe comunque espressione di una filiera di interessi internazionali e domestici libici nella quale gli italiani onestamente non hanno molte carte da giocare, quindi potrebbe vedere fortemente penalizzata anche la capacità di esercitare un ruolo nell'immediato futuro.
  Il vero problema, quindi, nella definizione di questa crisi è quello di cercare di individuare un ruolo per la comunità internazionale, che sia capace di portare ad una soluzione, quantomeno sul piano militare, della fine dell'operazione militare sul terreno.
  Qui entriamo in un'ulteriore dinamica di problemi. Ambo le parti, tanto quella del Generale Haftar e dell'LNA, quanto la componente Pag. 6 del GNA non solo hanno violato la tregua in ogni modo possibile e immaginabile, ma soprattutto sono oggetto di un sostegno sul piano militare che viola sistematicamente l'embargo sugli armamenti, tanto dalla parte est quanto dalla parte ovest del Paese. Questa è una realtà con cui dobbiamo fare i conti. È una realtà peraltro ben nota da tempo, certificata dell'evidenza di queste continue forniture di armi e tecnologie. Non ultimo – e sta diventando uno degli elementi chiave di questo conflitto – la dotazione di droni con una capacità offensiva e, quindi, una capacità particolarmente significativa di avere un impatto sull'operatività delle forze sul terreno. Questa è la realtà con cui noi ci scontriamo oggi sul terreno. Da una parte la nostra componente – europea – ribadisce giustamente, in ogni sede internazionale, che il conflitto libico non può essere vinto o non può essere risolto attraverso il ricorso alla forza, allo strumento della guerra; dall'altra parte dobbiamo fare i conti con controparti che sostengono gli attori regionali coinvolti che la pensano in maniera totalmente diversa da noi, che utilizzano lo strumento militare nel modo più spregiudicato e diretto possibile. Il confronto sul terreno è purtroppo di tipo militare, è combattuto in modo convenzionale ed è questo il parametro che noi dobbiamo tenere in considerazione nella valutazione della crisi libica.
  Quali scenari quindi si aprono per l'Italia e per la comunità internazionale. Ipoteticamente moltissimi: dall'intervento militare alla soluzione politica. In realtà non credo che l'intervento militare sia uno strumento possibile né suggeribile, consigliabile alla comunità internazionale, soprattutto degli Stati europei. Io ritengo che uno degli strumenti su cui dovremmo lavorare con una certa efficacia come attori europei sia quello del rispetto dell'embargo; avere una capacità di enforcement sull'embargo delle armi in Libia che sia efficace e credibile, che renda effettivamente impossibile rifornire questo continuo circuito, che è il motore di questo meccanismo. Pensare di intervenire con forze di interposizione, peraltro, nel caso della posizione italiana, può essere un principio pericoloso, perché una forza di interposizione di fatto va a separare due entità contendenti, cosa che secondo me è molto difficile da poter fare in questo momento sul terreno nella dinamica complessiva della crisi libica. È un fronte molto esteso ed è un fronte, soprattutto, che non si presta secondo me alla gestione di un'operazione militare tradizionale sotto il profilo dell'interposizione o comunque del peace-enforcement. Sotto il profilo politico ci sono delle azioni che sono purtroppo limitate e credo che l'unica cosa che in questo momento sia possibile fare, è quella di cercare di impedire che la componente della violenza, la componente del combattimento sia quella attraverso la quale gli interessi delle due fazioni riescono a definire sul terreno i rapporti di forza. Questa è purtroppo la situazione nella quale il Paese e la comunità internazionale si trova a dover gestire la crisi libica, che purtroppo non potrà uscire, se non attraverso una soluzione della crisi militare.
  Un ultimo commento sulla questione della narrativa e del rischio terrorismo. Credo che a margine della Conferenza di Berlino e di questa capacità della narrativa dell'LNA di imporsi in modo prepotente, soprattutto sul piano mediatico in questo momento, ci sia il forte rischio in questa fase di leggere in maniera errata alcuni dei dati che vengono rilanciati dalla stampa circa la partecipazione di unità militari o paramilitari che combattono su due fronti. Alcune di queste informazioni, a mio avviso, tendono ad esagerare enormemente tanto i numeri quanto la portata delle organizzazioni che stanno effettivamente partecipando alle operazioni sul terreno. L'obiettivo dichiarato da una parte, sicuramente da quella del Generale Haftar, è quello di dimostrare che qualsiasi sostegno alla parte del GNA comporta il rischio di vedere una massa enorme di combattenti, soprattutto di origine siriana, jihadisti di organizzazioni come Jabhat al-Nusra e altre formazioni jihadiste del conflitto siriano, transitare sul territorio libico per poi entrare sul territorio italiano. Su questo io presterei una particolare attenzione nel valutare l'esattezza e la concretezza delle Pag. 7informazioni che vengono rilanciate dalla stampa e alimentate da circuiti di informazioni, che spesso e volentieri hanno difficoltà a dare numeri, cifre e quote esatte. Qualche giorno fa ci sono stati articoli che parlavano di 8.500 combattenti di Jabhat al-Nusra in arrivo: Jabhat al-Nusra, al vertice della sua capacità in Siria, credo che non contasse più di 3.500 di combattenti. Da questo punto di vista c'è un pericolo enorme nel giudicare l'alea di rischio connessa a questi numeri e a questo tipo di minaccia del possibile ingresso sul territorio europeo, italiano in modo particolare. Quindi sul piano della narrativa c'è questa forte capacità di evidenziare una serie di elementi, che tuttavia a mio avviso devono essere oggetto di una attentissima verifica e soprattutto di una convalida.
  Sul piano della Libia concluderei con questo e utilizzerei gli ultimi minuti a mia disposizione per fare un breve commento sulla questione relativa all'Iran. Come ben sapete, c'è stata un’escalation, un'accelerazione della crisi nei rapporti tra Stati Uniti e Iran soprattutto a partire dai primi giorni di quest'anno; un’escalation che, tuttavia, credo non faccia mistero del fatto di essere oggetto più di una politica negoziale, per quanto paradossale possa sembrare, che non di una reale volontà di arrivare all’escalation militare. Le sanzioni secondarie americane imposte a seguito del pull out degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare stanno colpendo duramente l'Iran, che, soprattutto sul piano economico, ha una evidente difficoltà nel poter sostenere l’export petrolifero, che è calato al di sotto dei duecentomila barili al giorno, quando, secondo le valutazioni iraniane, le quote minime di soddisfazione del PIL sono intorno al milione e duecentomila barili: quindi siamo a un milione, e probabilmente anche più di un milione, al di sotto di queste quote. Dunque l'economia è stata di certo duramente colpita.
  Dal punto di vista della tenuta governativa c'è una capacità in questo momento di mantenere sotto controllo l'inflazione attraverso una forte capacità di erogazione sul piano delle valute straniere, che comunque non è inesauribile, non potrà durare in eterno sul piano della capacità iraniana.
  Dall'altra parte c'è una strategia di relazione con l'Iran da parte degli Stati Uniti che è caratterizzata, nel corso di questa Amministrazione presidenziale, da un andamento quantomeno controverso. Sicuramente da una parte c'è una visione legata al presidente Trump, quindi alla Casa Bianca, che è quella di esercitare, attraverso la cosiddetta «strategia della massima pressione», una forte azione politica e di tensione militare sul Paese per portarlo nuovamente al tavolo negoziale con toni chiaramente più malleabili. Dall'altra, c'è la struttura istituzionale dell'Amministrazione che ha presentato una serie di mutamenti nel corso del recente passato, devo dire quasi unica nel suo genere nella storia delle Amministrazioni americane, quantomeno nell'ultimo mezzo secolo. Siamo passati da figure come quelle di Tillerson, di Mattis, rispettivamente al Dipartimento di Stato e al Dipartimento della Difesa, che hanno tenuto a bada l'animosità della Casa Bianca e cercato di impedire l’escalation, a fasi invece fortemente radicalizzate soprattutto nel periodo di compresenza del National Security Advisor, Bolton, e del Segretario di Stato Pompeo. Questo periodo sembra avviarsi verso una conclusione della fase forse più attiva sotto il profilo della radicalizzazione dello scontro, però chiaramente questa accelerazione, soprattutto ai primi di gennaio con l'uccisione del Generale Soleimani, di cui io scrivevo in un articolo pochi giorni dopo la sua morte, non credo che sarebbe mai stata approvata dal Pentagono se il generale Mattis fosse stato ancora al vertice del Dipartimento della Difesa. Il Generale Soleimani, per quanto potesse essere il peggior nemico degli Stati Uniti e di Israele, era forse la componente più razionale con cui gli americani avessero mai interagito all'interno del sistema della difesa iraniana nel corso degli ultimi anni; il Generale Soleimani aveva personalmente mantenuto una serie di rapporti informali con gli Stati Uniti nella definizione di una serie di accordi che avevano garantito, in modo del tutto informale, la sicurezza in alcune regioni del Pag. 8Medio Oriente, in modo particolare in Iraq, all'indomani dell'emergere del fenomeno del sedicente Stato islamico. Peraltro, il Generale Soleimani era una figura molto particolare anche all'interno dell'apparato della difesa iraniana: era inviso allo stesso vertice del sistema della difesa, era più uomo di prima generazione, quindi una sorta di attore antisistema anche all'interno dell'apparato militare iraniano. Quindi la sua eliminazione mi lascia perplesso sul piano dell'interesse da parte degli Stati Uniti di ottenere un vantaggio operativo sul terreno.
  Al di là di questo, è chiaro ormai che la reazione iraniana sia stata portata a termine secondo modalità che hanno avuto come obiettivo quello di non provocare vittime tra il personale americano delle basi colpite ad al-Anbar e nella regione del Kurdistan, quindi per evitare di superare quella linea rossa che avrebbe innescato un conflitto a catena nella regione. Posizione che è stata fortunatamente, pienamente recepita dagli americani, che hanno apertamente parlato di de-escalation con l'Iran. Quindi in questo momento siamo nella paradossale situazione di due attori che sono arrivati ad un passo da un vero e proprio conflitto, ma che hanno come volontà prima quella di individuare un piano negoziale per la definizione di un nuovo accordo sul programma nucleare, che possa essere speso politicamente dall'amministrazione Trump come un accordo che cancelli l'esperienza Obama, l'esperienza della precedente Amministrazione e vada a riconquistare una posizione di visibilità per l'attuale Presidenza. Io non credo che il Presidente Trump abbia capacità di ottenere nulla di più di un nuovo Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), che, così come era stato così concepito, era già un risultato molto importante, molto articolato anche sotto il profilo tecnico-amministrativo.
  È interessante notare come da parte iraniana ci siano aperture moderate sul piano della durata, quindi probabilmente quello potrebbe diventare l'incentivo di un nuovo negoziato, ovvero prolungare la durata di un accordo sul nucleare in modo anche da dare ulteriori garanzie a Israele circa la tenuta dell'impegno iraniano. Dall'altra parte è chiaro invece il forte interesse dell'Iran a risolvere la crisi economica, ma ci sono una serie di linee rosse che sono imperative per le autorità di governo iraniane. La prima di queste linee rosse è quella di impedire che questo nuovo accordo sia presentato come una vittoria della politica delle sanzioni, una vittoria dell'imposizione della strategia della massima pressione da parte degli americani. È su questo che in questo momento si costruisce il rapporto bilaterale tra i due Paesi. Il vero problema, a mio modo di vedere, è che manca completamente, tanto da parte americana quanto da parte iraniana, la capacità tecnico-politica di costruire il terreno negoziale, il contesto in cui l'accordo può trovare forma e spazio.
  Non dimentichiamoci che l'accordo del JCPOA è partito in epoca ben precedente alla sua firma, e fu avviato grazie all'attivo ruolo dell'Oman, con il defunto sultano Qābūs, che fu uno dei principali promotori di questo accordo, addirittura quando ancora alla Presidenza dell'Iran c'era Mahmud Ahmadinejad, che ha portato poi, attraverso una fase negoziale abbastanza complessa, alla definizione dell'accordo siglato nel 2015. Sembra mancare questa capacità, tanto sul piano dell'Amministrazione americana quanto sul piano dell'Amministrazione iraniana, dove ci sono posizioni convergenti sempre più conflittuali: il 21 febbraio avremo le elezioni parlamentari in Iran e, contestualmente, le elezioni ad interim per l'Assemblea degli esperti. Io credo che all'indomani delle elezioni ci si possa aspettare un netto peggioramento sotto il profilo della posizione ideologica sul piano parlamentare in Iran. Credo che le componenti più conservatrici avranno facilmente la capacità di conquistare la maggioranza parlamentare.
  È vero che non è un sistema partitico, bensì un sistema di fazioni che poi si riaggrega politicamente dopo le elezioni, quindi dovremo aspettare l'esito delle elezioni per capire come queste fazioni decideranno effettivamente di organizzarsi, però sicuramente il piano della narrativa conservatrice e gli esponenti di area conservatrice Pag. 9 avranno, a mio avviso, una maggiore capacità nella conquista dei seggi parlamentari.
  Unica nota forse positiva da segnalare sul piano regionale è un calo della tensione con gli attori regionali del Golfo, in modo particolare con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che all'indomani dei fatti ben noti degli attacchi alle navi petroliere all'interno e all'esterno di Hormuz, e poi l'attacco alle infrastrutture petrolifere di Saudi Aramco sul territorio saudita, hanno avviato un processo negoziale abbastanza intenso con l'Iran, con una serie di incontri che hanno stemperato fortemente la tensione tra i Paesi nella regione. Non cambierà la percezione reciproca tra i Paesi, ma sicuramente questo ha fortemente stemperato il clima di tensione nella regione, cosa che presumibilmente dovrebbe interessare anche la posizione del Qatar. Quindi ciò potrebbe gradualmente favorire un reingresso del Qatar nella comunità degli Stati regionali, se non a pieno titolo, quantomeno in chiave parziale con rapporti bilaterali, in prima battuta presumibilmente con l'Arabia Saudita.
  Questo clima di distensione sta producendo risultati – sia pur parziali – positivi anche sul piano del conflitto in Yemen, dove la posizione degli Emirati Arabi Uniti sul piano politico sembra essere prevalente in questo momento, favorendo soprattutto quelle forze politiche che hanno, nel corso degli ultimi mesi, spinto molto non solo sulla fine del conflitto ma soprattutto sulla partizione de facto del Paese in due aree distinte. Cosa che potrebbe diventare una realtà, qualora questi equilibri sul terreno dovessero poi andarsi a concretizzare sul piano degli accordi politici.
  Comunque questa è l'espressione di un forte ruolo del Crown Prince degli Emirati Arabi Uniti, Mohamed bin Zayed, che ha giocato un ruolo molto forte anche nella definizione di questi equilibri.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre questioni o formulare osservazioni.

  LAURA BOLDRINI. Grazie, presidente. Ringrazio il professore per averci dato questo quadro.
  Ho diverse domande. Lei ha parlato di Fratellanza musulmana in Egitto e della percezione che di questa componente politico-militare si ha in altri contesti geografici, come la Libia; io vorrei capire la Sua posizione, visto che Lei è uno studioso di questo questa materia, in merito all'impatto che il colpo di Stato ebbe ai danni della Fratellanza musulmana e come l'attuale presidente al-Sisi abbia messo in atto un piano, un vero e proprio colpo di Stato contro la volontà del suo stesso popolo. Quindi mi piacerebbe avere da Lei un'interpretazione di come questo colpo di Stato abbia avuto delle ripercussioni. Noi sappiamo che in Egitto c'è una sistematica violazione dei diritti umani, sappiamo che nelle prigioni ci sono persone senza processo, sparizioni sistematiche: la sorte del povero Regeni purtroppo è toccata a tanti e sta riguardando molti sindacalisti. Tutti i sindacalisti non di regime sono finiti dentro. Vorrei una elaborazione in merito a cosa ha significato liberarsi della Fratellanza musulmana, anche con sostegni esterni, in questo Paese.
  Lei ha parlato della Libia e delle possibili soluzioni a questo conflitto, quindi è scettico sul peace-enforcement, mentre dice che l'unico ambito probabilmente realistico per intervenire è quello del rispetto dell'embargo delle armi: vorrei avere qualche dettaglio in più, come Lei immagina la possibile evoluzione. Nel dibattito pubblico e politico si è parlato anche di EUNAVFORMED Sophia: Sophia sì/Sophia no, cambiamo i terms of reference di Sophia... Basterebbe questo e, se no, che cos'altro?
  Lei ci ha messi in guardia dalla propaganda dei numeri, io sono assolutamente d'accordo, perché ogni volta che si è parlato della Libia, da quando venne defenestrato e poi ucciso Gheddafi, c'è la guerra dei numeri. I servizi di intelligence libici hanno sempre fatto questa forma di terrorismo: «ne arriveranno cinquecentomila, ne arriveranno ottocentomila», poi ci sono gli infiltrati. Anche in questo caso vorrei avere da Lei un quadro in merito alla Pag. 10guerra di propaganda, che è una delle guerre più efficaci ai tempi nostri.
  Invece, andando in Iran, Lei ha parlato di distensione con vari attori regionali, questo non può che farci piacere, però non ha menzionato l'aumento di tensione con l'Iraq. Noi abbiamo visto in queste settimane, in questi mesi le piazze irachene piene di decine, centinaia di migliaia di giovani, abbiamo udito in questa Commissione anche una rappresentanza di attivisti per i diritti umani, di piazza Tahrir, quello che rappresenta oggi e che sono oggi le forze di sicurezza, perché questo è un grande punto interrogativo: chi si ribella al regime vuole uscire dall'assetto confessionale della spartizione sunniti-sciiti-curdi e vuole un Paese libero possibilmente, laddove – a detta di questi attivisti – oramai c'è stata l'abdicazione del regime alle milizie sciite per tutto quello che è ordine pubblico; e lì Soleimani – Lei mi insegna – aveva un ruolo da svolgere, era l'ideatore della rivoluzione fuori dei confini e dunque attraverso queste milizie capaci di penetrare movimenti e Governi come quello iracheno che, dopo la caduta di Saddam, con la messa al bando dei sunniti, è stato sempre di orientamento sciita. Quindi vorrei un'elaborazione un po’ più articolata sul ruolo che queste milizie esercitano nella regione e, in particolare, nella situazione irachena che ad oggi a me sembra meriti di essere attenzionata, specialmente in un'aula come questa.

  PINO CABRAS. In Libia c'è una guerra di tipo diverso, c'è una profonda frammentazione, non si identifica un fronte; gli strumenti a disposizione anche delle potenze, che pure agiscono per procura, sono limitati, non possono intervenire con il classico intervento di terra, non riescono neanche a dominare le pulsioni di potere o di conquista, parziali e frammentate, dei gruppi che influenzano in modo molto frammentato anche questo. Quale possibilità c'è di ricostruire una soluzione militare all'interno di una soluzione politica per la guerra in Libia? Qual è la Sua impressione?
  Ci sono dei luoghi in cui una soluzione anche militare si è imposta: penso alla Siria, in cui la frammentazione di quel territorio ha avuto, per dinamiche istituzionali, per legami e alleanze internazionali, una soluzione in cui è stato decisivo l'intervento dell'aviazione russa, più altri apporti logistici. In Libia la vedo più complicata, quindi è importante capire se ci sono ambiti o se quel territorio è destinato ad un'ulteriore frammentazione, sapendo che l'Italia dal punto di vista militare non è attrezzata sufficientemente per una sfida di questo tipo, per il momento.

  GENNARO MIGLIORE. Grazie, professore, per la sua esauriente trattazione di due argomenti molto delicati.
  Anch'io ho alcune domande per approfondire le informazioni che Lei ci ha fornito. In primo luogo su quella che Lei ha definito la «narrazione dell'influenza della Fratellanza musulmana» che, anche a mio giudizio, non può essere considerato un monolite, quindi non una definitiva interpretazione di un'influenza che, in realtà, si estrinseca in molti versi per quello che viene chiamato l'Islam politico, tant'è che un punto di riferimento essenziale della Fratellanza musulmana è proprio il Presidente Erdoğan.
  In relazione all'influenza della Turchia Lei ha detto giustamente ci sono degli interessi strutturali da parte dell'Italia, anche storici, che vanno presidiati, e io ovviamente non posso che essere d'accordo, però il tema dell'influenza turca a sostegno e, per certi versi, dando indicazioni molto perentorie anche alla GNA, in particolare ad al-Sarraj, rappresenta per noi un motivo di altrettanta preoccupazione per quanto riguarda la lesione degli interessi legittimi, in particolare a seguito anche dell'accordo di cooperazione marittima, cosiddetta, che ha investito anche le nostre basi e le nostre attività di carattere esplorativo ed estrattivo nella traiettoria che veniva individuata. Questa la prima domanda.
  La seconda domanda è invece relativa alla presenza effettiva di jihadisti all'interno della Libia. Io penso che ci sia una narrativa enfatizzata rispetto al fatto che siano pronti per venire in Italia. Questo onestamente lo considero sempre un pericolo presente, ma a me sembra – leggendo le informazioni non della stampa ma delle fonti ONU, in particolare dell'ufficio drugs Pag. 11and crime e dell'ufficio counter-terrorism – che l'attività di insediamento del possibile nuovo Stato islamico nella zona del Sahel – sia nella dizione dello Stato islamico del Gran Sahara sia per quanto riguarda quella della Western Africa, in particolare l'influenza di Boko Haram – sia reale. Ci sono alcune organizzazioni terroristiche, come al-Murabitun, che hanno delle derivazioni sia in Libia sia in Mali, e in particolare il loro progetto è quello di insediare uno Stato islamico, così come era avvenuto al confine tra Siria e Iraq: che cosa vuol dire questo in relazione agli attori in questo momento in campo? Che sono, da un lato Haftar, il nazionalista Haftar, appoggiato dall'Egitto e ovviamente sotto la supervisione russa; dall'altro, il versante tripolitino. Sulla base di queste considerazioni occorre anche capire il ruolo di Misurata, perché dopo il ritiro da Sirte – e quindi il via libera all'occupazione di Sirte da parte di Haftar – non si comprende se è ancora alleata di al-Sarraj oppure sta giocando un ruolo diverso. Per non parlare delle tribù del Sud. Questa è la seconda domanda.
  La terza domanda invece riguarda la preoccupazione che c'è in generale nella zona del Sahel, perché dopo l'attentato del 12 dicembre in Niger, dove non c'è stata un'autobomba ma un assalto che ha fatto molti morti ed è stato il più grave attentato in quella regione negli ultimi anni, penso che la questione dell'integrità territoriale e della penetrazione di queste forze jihadiste sia un tema che ci preoccupa non solamente nella ventilata ipotesi di un traghettamento in Italia, ma soprattutto per quello che riguarda il consolidamento e il coordinamento di queste forze terroristiche.
  Infine una sola considerazione, ritenendomi più che soddisfatto per quanto riguarda l'Iran, circa la sua valutazione sulla più recente delle notizie: il cosiddetto «piano Trump» per la Palestina, che in realtà è già stato rifiutato: in particolare, in questo caso Hamas ha legami con la Fratellanza musulmana, ma occorre valutare anche lo schieramento dei vari attori regionali, Arabia Saudita e così via.

  PAOLO FORMENTINI. Due domande velocissime. Sull’enforcement dell'embargo in Libia si è detto che dovrebbe avere un ruolo attivo l'Unione europea, ma qual è questo ruolo attivo – già è stato accennato prima, si è parlato di missione Sophia – non avendo una politica estera e ovviamente non avendo di fatto una forza militare? Questa è la prima domanda.
  La seconda domanda invece riguarda l'Iran. Sapendola esperto delle vicende iraniane, uno dei massimi esperti italiani, Le chiederei che evoluzione vede all'interno del clero iraniano tra la parte che vuole un intervento più attivo in politica e chi invece ha una posizione più defilata.

  YANA CHIARA EHM. Abbiamo parlato prima, brevemente, del trasferimento di combattenti siriani in Libia e una recente notizia, ma non meno preoccupante, è il reclutamento e l'utilizzo di migranti presenti sul territorio libico, in special modo sudanesi per l'utilizzo della lingua araba, che quindi hanno la scelta di rimanere a tempo indeterminato nei centri di detenzione oppure di andare a combattere al fronte.
  Questo pone un'altra questione anche per l'Italia, quella che ci vede in questo momento anche parte di un memorandum che dobbiamo rinnovare e a quali condizioni. Questo a mio avviso non è da sottovalutare, perché si tratta di una violazione abbastanza forte dei diritti umani, quindi anche di questa scelta che in entrambi i casi è un lose-lose per i migranti presenti.

  PRESIDENTE. Non ci sono altri interventi, pertanto do la parola al professor Pedde per la replica.

  NICOLA PEDDE, direttore dell’Institute for Global Studies (IGS). Grazie, presidente. Per quanto riguarda le questioni relative alla Fratellanza musulmana, sicuramente l'intervento dell'esercito egiziano, quindi il colpo di Stato che ha portato alla conclusione dell'esperienza del governo Morsi, è stata devastante sul piano regionale, perché ha innanzitutto creato un alone di solidarietà intorno ad un Governo che stava già crollando. Pag. 12
  Il Governo del presidente Morsi, quando è intervenuto l'esercito, era in una fase di gravissima crisi e i suoi stessi elettori erano ormai per strada protestando per una caduta del governo: si erano lamentati in modo particolare per l'incapacità dimostrata dalla Fratellanza musulmana di dare seguito alle più elementari azioni di tipo politico, dimostrando come tutta la nomea della Fratellanza musulmana, tutto questo enorme potere che gli veniva attribuito nell'immaginario collettivo, soprattutto dai vertici militari del Paese, fosse in realtà da valutare e calibrare sulla base della realtà. La Fratellanza musulmana era una organizzazione molto grande, ma come tante altre, aveva problemi interni di governabilità e di capacità che sono risultati evidenti nel momento in cui il Governo del presidente Morsi ha iniziato a muovere i suoi passi. Governo che, secondo me, ha avuto molta responsabilità sul piano dell'incapacità, della corruzione. Noi invece abbiamo subito una forte narrativa mediatica sul fatto dell'islamizzazione dell'Egitto attraverso il ruolo della Fratellanza musulmana.
  Se andiamo a vedere l'evento della Costituzione non è che fosse così diverso da quello della precedente Carta e da quello che è diventato poi, quindi anche qui c'è un impatto forte della narrativa: leggere gli eventi a seconda della forza dominante che, sul piano internazionale, canalizza la narrativa. E la narrativa sulla Fratellanza musulmana purtroppo è sempre quella di una struttura islamista con tendenze radicali. Invece è un insieme talmente vasto, talmente disomogeneo, talmente articolato al suo interno e talmente differente di Paese in Paese, che porre in relazione la Fratellanza musulmana su un piano globale è un esercizio che, a mio avviso, rischia di portare a degli errori di valutazione macroscopici.
  L'intervento dell'esercito quindi è stato molto negativo sotto questo profilo, perché ha impedito proprio l'avvio di quel ciclo virtuoso che sarebbe nato dalla crisi del governo Morsi, e che avrebbe avviato un processo secondo me molto forte di consolidamento della rinnovata capacità politica egiziana, che avrebbe visto probabilmente la Fratellanza musulmana passare all'opposizione dopo pochi mesi, e avviare così un processo di democratizzazione che invece è mancato completamente e drammaticamente con l'intervento dell'esercito.
  Secondo me il vero problema, oggi, nella gestione della Fratellanza musulmana nella regione, soprattutto da parte degli attori che la combattono in Libia – ma anche in Siria e in altri Paesi – è che c'è una visione assolutamente manichea sulla questione relativa alla Fratellanza musulmana, soprattutto all'interno delle monarchie del Golfo. L'elemento che ha fatto da spartiacque in questa crisi, all'indomani degli eventi in Egitto, è stata proprio la crisi libica del 2011, quando il Qatar è intervenuto direttamente in Libia all'interno di un processo di crisi già in atto, ma favorendo la caduta del governo libico, dell'amministrazione di Gheddafi attraverso una fortissima azione esterna, che ha visto anche la partecipazione della Fratellanza musulmana. Il Qatar ha perseguito per lungo tempo l'idea di favorire l'emergere di una forma di islamismo politico che riteneva essere compatibile con la propria natura istituzionale e politica, quindi come un sistema che potesse di fatto integrarsi all'interno del tessuto regionale anche con le monarchie del Golfo. Questa è stata vista, invece, come una minaccia esistenziale soprattutto dagli Emirati Arabi Uniti, per certi versi anche dai sauditi, anche se in misura minore. Sicuramente era più ostile alla Fratellanza musulmana il precedente sovrano, mentre l'attuale, bin Salman, e il figlio Crown Prince, bin Zayed, hanno una visione più pragmatica sulla Fratellanza musulmana.
  Chi ha veramente un profilo di chiusura totale nei confronti della Fratellanza sono oggi gli Emirati Arabi Uniti. Il principio in base al quale questa chiusura, questa forte visione conflittuale nei confronti della Fratellanza musulmana continua a persistere, secondo me, nasce dal fatto che la Fratellanza musulmana, così come l'apparato di Governo iraniano, lungi dal definirli come sistemi democratici, tantomeno secondo quelli che sono i nostri parametri europei e occidentali, sono sistemi partecipativi che Pag. 13rigenerano le élite del basso, quindi sono i cosiddetti sistemi bottom-up: quelli che riescono a favorire una partecipazione, una rigenerazione delle élite creando questo sistema partecipativo che, all'interno di strutture rigide che non sono in alcun modo poi prettamente democratiche, hanno un carattere totalmente diverso rispetto alla rigidità dei sistemi top-down, i sistemi a calata verticale, i sistemi monarchici per eccellenza che operavano un trasferimento del potere sulla base del lignaggio familiare o comunque, come nel caso per esempio dell'Oman, attraverso dei procedimenti interni al sistema della famiglia regnante. Questo scontro ha dato vita a questo conflitto molto forte nella regione, che però diventa veramente difficile da poter gestire sul piano dei rapporti con le nostre controparti regionali, perché queste, soprattutto gli Emirati, considerano la Fratellanza musulmana una minaccia esistenziale, una minaccia che deve essere in qualsiasi modo eliminata dalla regione, perché, in un modo o nell'altro, porta una minaccia gravissima alla sicurezza e alla continuità dei modelli che esprimono le monarchie.
  È qui che secondo me la comunità internazionale si dovrebbe inserire prepotentemente, invece non lo fa. E uno dei principali problemi del non inserirsi prepotentemente in questo dibattito è che stiamo parlando purtroppo con i principali finanziatori dell'industria militare internazionale: questo è un po’ l'elemento purtroppo controverso del rapporto della comunità internazionale con la regione. Questo rapporto è fortemente sbilanciato in direzione degli interessi industriali, quindi in direzione di ambiguità che, in un modo o nell'altro, porteranno i nodi al pettine molto presto sul piano della politica.
  Sul piano dell'embargo e sul come fare enforcement ci sono diversi strumenti: l'onorevole Boldrini citava la missione Sophia che sarebbe un ottimo strumento portato a compimento soprattutto nella sua terza fase, che purtroppo non è mai entrata in funzione; ci sono secondo me delle necessità ulteriori, perché un enforcement dell'embargo dovrebbe venire anche attraverso una forte capacità di controllo degli spazi aerei della Libia. Nel corso dell'ultima settimana – sono dati di fonte aperta – ci sono un numero di voli, di entrambi gli schieramenti – non sto accusando uno dei due in modo particolare – sugli aeroporti dell'est e dell'ovest libico che hanno chiaramente avuto lo scopo di rifornire di armi, tecnologia, apparati e pezzi di ricambio le due fazioni in lotta. Sono voli che ci passano sotto il naso e che dovrebbero essere parte, invece, di una politica di enforcement molto forte. Poi c'è una componente politica: bisogna denunciare l'embargo. Questo è il ruolo delle Nazioni Unite. Qui dovremmo dare un forte contributo di potenziamento all'azione delle Nazioni Unite, soprattutto nel denunciare la violazione dell'embargo e ciò che accade in conseguenza di questo.
  Una cosa che porto all'attenzione di questa Commissione è il fatto di come l'attacco di Haftar alla componente del GNA a Tripoli sia stato sferrato proprio nel giorno in cui il Segretario Generale delle Nazioni Unite era in visita a Tripoli. È stata un'umiliazione per le Nazioni Unite, è stata veramente una manovra che la comunità internazionale avrebbe dovuto denunciare con vigore, invece è stato l'avvio di una campagna militare, tuttora in corso, che purtroppo non sembra avere esiti particolari, se non attraverso la capacità degli attori stranieri. Le due parti sono essenzialmente in equilibrio tra loro e senza questa forte componente esterna sarà difficile poter vedere un risultato sul piano dell'azione militare.
  I numeri della propaganda. Come dicevo prima, sono purtroppo elementi pericolosi perché la narrativa è quella che alla fine ha la capacità di influenzare le scelte politiche, l'opinione pubblica; l'abbiamo visto ormai da molti anni: con la diffusione dei social media purtroppo c'è una esasperazione di questo fenomeno, e sulla Libia purtroppo assistiamo quotidianamente alla diffusione di informazioni palesemente false o che prendono spunti di verità, ma minimali, non in grado di rappresentare una minaccia sul terreno e vengono trasformati in una minaccia imminente per la sicurezza, anche nazionale, del nostro Paese. Pag. 14
  Una breve considerazione per quanto riguarda l'Iraq. A mio avviso la protesta irachena, al pari di quella libanese, è una protesta assolutamente spontanea, acefala, antisistema. È una protesta che si dirige in prima battuta esclusivamente contro le forze di Governo, ritenute corrotte, incapaci di garantire qualsiasi tipo di risultato sul piano economico e nella gestione dei servizi. È una protesta che riguarda tutto lo spettro politico e confessionale dell'Iraq, che non si limita a criticare un partito piuttosto che un altro. Così come in Libano, dove la protesta interessa tutta la compagine di Governo, si inserisce all'interno di questa protesta, ma è accessoria, una forte rivendicazione contro le ingerenze straniere che, nel caso specifico dell'Iraq, sono chiaramente fortissime da parte dell'Iran, ma c'è anche la componente della presenza delle forze statunitensi che alimenta altre componenti politiche nella protesta, ma queste sono comunque forme accessorie di protesta a quello che è invece il cuore del sentimento rivoluzionario locale. Così come in Libano.
  C'è da dire che la gran parte delle forze politiche, sia libanesi sia irachene, sta cavalcando con vigore la questione delle ingerenze straniere e del nazionalismo tout court in funzione proprio della continuità del loro ruolo: cercare di enfatizzare il ruolo delle componenti straniere per continuare a proporre modelli politici – come quelli per esempio dell'attuale premier in Libano o di quello che doveva essere il premier già dimissionario in Iraq – che vanno a proporre la costituzione di Governi che vengono sistematicamente rifiutati dalla piazza, sistematicamente rigettati, e questo può portare ad una pericolosa escalation. Abbiamo visto in Libano: l'approvazione della legge di bilancio due giorni fa ha provocato un'ulteriore ondata di violenza, che può chiaramente portare ad una degenerazione del sistema.
  La crisi libanese è in questo momento gestita dal tentativo soprattutto di due componenti politiche – quella dell'Hezbollah filoiraniana che comunque è un partito libanese a tutti gli effetti, e quella delle componenti cristiano-maronite – di mantenere in piedi un Governo che non gode in alcun modo del sostegno dell'opinione pubblica, soprattutto dei manifestanti.
  Sul piano della capacità di risolvere militarmente la crisi in Libia, non credo che ci sia questa possibilità, è troppo frammentata. Per rispondere in parte anche alle altre domande, la componente securitaria della Libia è affidata a milizie, che stanno anche perdendo la componente identitaria sul piano delle katibe o delle tribù, e si stanno raggruppando più per interessi di tipo criminale o per interesse meramente di controllo del territorio. Quindi ricomporre questo tipo di interessi, come abbiamo già visto nel caso della crisi somala nel corso degli ultimi trent'anni, diventa molto difficile, se non attraverso una capacità di reintegrazione di queste strutture – per quanto sia doloroso ammetterlo politicamente – all'interno del processo politico. Quindi il disarmo deve passare attraverso una legittimazione e un riconoscimento, che purtroppo si scontra spesso con la difficoltà di dover riconoscere delle componenti ostili e legittimarle, invece, come componenti di forza.
  Il ruolo della Turchia è sicuramente preoccupante in questo momento, soprattutto per la politica regionale della stessa, con particolare riferimento al quadro degli accordi con la Libia sulla questione della zona di interesse economico esclusivo. E, se paradossalmente la Turchia in questo momento mantiene un'azione che è in un certo qual modo allineata con gli interessi del nostro Paese, nella circostanza in cui dovesse mutare la situazione, e una coalizione internazionale dovesse riuscire a promuovere una più incisiva azione sotto il profilo della legalità e del diritto internazionale, la Turchia rischia di diventare il peggior nemico che possiamo avere sul terreno, trasformando quindi un attore da potenziale alleato in peggior nemico.
  Sul profilo del jihadismo io sono molto scettico sui numeri. Sicuramente ci sono delle formazioni che hanno delle identità più radicali, ma sul profilo di un reale radicalismo nella parte nord della Libia ho un profilo di scetticismo legato quantomeno ai numeri. Sicuramente è diverso il Pag. 15discorso del Sahel, quella è un'altra questione, ed è lì che secondo me noi dovremmo porre dei confini di interesse nazionale. Il Sahel è un'area troppo estesa per la nostra capacità e noi dovremmo limitare alla Libia forse una capacità di controllo di questi flussi e di queste ingerenze, chiaramente dando manforte alla comunità internazionale, ma senza espandere quello che si chiama tecnicamente un «overstretching» delle capacità su aree geografiche difficili da controllare per i nostri alleati, figuriamoci per un Paese come il nostro.
  Ultimissimo commento sull'Iran. La componente della teocrazia è ormai residuale in Iran. Ci sono due generazioni che mantengono l'assetto del potere in Iran: la prima, quella dei rivoluzionari, dei teocratici ormai è ridotta nei numeri veramente ai minimi termini; sono rimasti, rispetto all'epoca rivoluzionaria, meno di dieci le figure di riferimento della teocrazia. Una generazione che non ha prodotto una sua seconda generazione interna, quindi non c'è una seconda generazione teocratica. E la seconda generazione del potere viene invece dai ranghi di quell'universo creato durante la guerra intorno ai pasdaran (i guerrieri della rivoluzione), che attraverso la smilitarizzazione e il reinserimento di questi uomini all'interno della struttura amministrativa, politica e industriale, hanno creato l'ossatura che oggi gestisce di fatto il Paese. Quindi anche qui la narrativa della stampa, quando parliamo di «repubblica dei mullah», «repubblica degli ayatollah», in realtà sono la minoranza oggi nel sistema di potere politico del Paese. La componente più forte, più strutturata è oggi una componente non clericale, con tutto ciò che ne consegue in termini di capacità, di passaggio delle consegne e quant'altro. Basti pensare a quello che potrà diventare il nodo da sciogliere dell'elezione di una ipotetica terza guida, qualora l'attuale guida Khamenei dovesse venire meno. Chiaramente una seconda generazione non clericale non può esprimere al suo interno una figura di leadership caratterizzata da un profilo clericale. È qui che si consuma il difficile equilibrio della transizione generazionale, ed è qui che oggi gestiamo la fase più difficoltosa di transizione del potere politico in Iran. Credo di dovermi fermare.

  PRESIDENTE. Sì, necessariamente per questioni di tempo, altrimenti saremmo potuti andare avanti ancora – penso – una buona mezz'oretta con le risposte e le ulteriori domande.
  Ringrazio il professor Pedde per il suo contributo e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.20.