XVIII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 17 di Mercoledì 8 gennaio 2020

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Fassino Piero , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA PER LA PACE E LA STABILITÀ NEL MEDITERRANEO
Fassino Piero , Presidente ... 2 
Cavalieri Jean Paul , capo della missione in Libia dello ... 3 
Fassino Piero , Presidente ... 6 
Boldrini Laura (PD)  ... 6 
Ehm Yana Chiara (M5S)  ... 7 
Cavalieri Jean Paul , capo della missione in Libia dello ... 7 
Ehm Yana Chiara (M5S)  ... 7 
Migliore Gennaro (IV)  ... 8 
Formentini Paolo (LEGA)  ... 8 
Magi Riccardo (Misto-CD-RI-+E)  ... 8 
Fassino Piero , Presidente ... 8 
Romano Andrea (PD)  ... 8 
Fassino Piero , Presidente ... 8 
Cavalieri Jean Paul , capo della missione in Libia dello ... 8 
Fassino Piero , Presidente ... 12

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Partito Democratico: PD;
Fratelli d'Italia: FdI;
Italia Viva: IV;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Noi con l'Italia-USEI-Cambiamo!-Alleanza di Centro: Misto-NI-USEI-C!-AC;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Centro Democratico-Radicali Italiani-+Europa: Misto-CD-RI-+E;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE.

Testo del resoconto stenografico
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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
PIERO FASSINO

  La seduta comincia alle 13.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione sul canale della web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di Jean Paul Cavalieri, capo della missione in Libia dello United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di Jean Paul Cavalieri, capo della missione in Libia dello United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), accompagnato da una delegazione del medesimo UNHCR, composta da Roland Schilling, rappresentante regionale ad interim per l'Europa del Sud; Nagette Belgacem, senior regional protection coordinator; Federico Fossi, senior officer; e Andrea de Bonis, protection associate.
  Ringrazio naturalmente Cavalieri di essere qui. Prima di dargli la parola ed esprimere tutto il nostro sostegno e la solidarietà per un lavoro che Lei svolge in un teatro di una difficoltà estrema, grazie per tutto quello che fa l'UNHCR.
  L'UNHCR, come tutti sappiamo, è stato istituito il 14 dicembre 1950 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite con un mandato di tre anni, e celebrerà quest'anno il suo settantesimo anniversario, il che dimostra che il tema dei diritti umani è tuttora aperto e che, sotto molti cieli e molte terre, quei diritti fondamentali, che a noi paiono scontati e ovvi nel nostro Paese, sono spesso negati e oppressi.
  Andando direttamente al cuore dell'audizione, la nostra Commissione ha varato un'indagine conoscitiva sulla politica estera italiana nel Mediterraneo e le questioni più rilevanti che si manifestano nel teatro, e siamo particolarmente interessati a conoscere l'attività dell'UNHCR, le sue valutazioni sulla situazione sul campo e quali possono essere iniziative e azioni che possono essere utili a favorire una minore drammatizzazione dello scenario e anche a concorrere ad individuare obiettivi di soluzione ai conflitti in corso.
  L'UNHCR ha promosso, nel dicembre 2018, a Tripoli l'apertura del «Gathering and Departure Facility», gestito in collaborazione con il Ministero dell'Interno libico, con l'obiettivo di accogliere le persone più vulnerabili tra quelle fermate in mare dalla Guardia costiera libica, principalmente donne e minori non accompagnati, così da scongiurare che finiscano nei centri di detenzione, sovraffollati e inadatti – come sappiamo – ad ospitare persone fragili e ad appurare più in generale l'esistenza dei requisiti per ottenere la protezione internazionale. Gli accordi prevedono che da Tripoli i migranti possano essere trasferiti nei Paesi limitrofi e in seguito, una volta accolta la loro domanda, distribuiti nei Paesi terzi disposti ad accoglierli.
  L'UNHCR – questo è una questione che a noi interessa molto perché è un tema vivo del dibattito politico anche in Italia – ha più volte ribadito che le opzioni di reinsediamento continuano ad essere molto limitate, con un numero di posti disponibili a livello mondiale drammaticamente inferiore alle esigenze. La struttura dell'UNHCR a Tripoli presenta una condizione di grave Pag. 3sovraffollamento, ma sarà – credo – oggetto dell'audizione: a fronte di una capacità, per quanto ci risulta, di seicento persone, attualmente ne ospiterebbe circa mille. Quindi la situazione è ovviamente a livello di guardia, ed è diventata ancora più allarmante nelle ultime settimane in relazione all'offensiva del generale Haftar e alle vicende belliche connesse a quell'offensiva.
  L'audizione odierna ci consentirà, quindi, di avere un quadro aggiornato della situazione umanitaria, delle connesse criticità, di quali sono le misure che UNHCR adotta per farvi fronte e di come si possa, da parte dell'Italia, concorrere a sostenere l'attività dell'UNHCR in questa direzione.
  Direi ora di cominciare la nostra audizione, ringrazio ancora il dottor Cavalieri e gli do la parola.

  JEAN PAUL CAVALIERI, capo della missione in Libia dello United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR). Grazie, presidente. È un grande onore per me essere qui con voi oggi. Mio nonno era italiano, di Aleatico in provincia di Pisa, è venuto in Francia tanti anni fa con suo padre. Allora la Toscana era una povera regione in Italia, adesso è una delle più ricche d'Europa. Credo che questa sia la bellezza dell'Europa. Mi dispiace, non parlo abbastanza bene l'italiano, pertanto continuo in francese.
  Grazie ancora per l'accoglienza. A nome dell'UNHCR vorrei ringraziare l'Italia, il popolo italiano, il governo e i parlamentari italiani per il sostegno che riceviamo da voi, per l'accoglienza con i voli umanitari che permettono di salvare le vite di rifugiati e per il supporto finanziario che riceviamo per i nostri programmi, ma anche per il sostegno strategico sul campo da parte della vostra Ambasciata a Tripoli, una delle poche Ambasciate europee ancora presenti e aperte, nel proteggere i rifugiati in collaborazione con il Ministero dell'Interno e degli Esteri libici. Noi attribuiamo la massima importanza a questo sostegno dell'Ambasciata italiana in Libia.
  Innanzitutto, prima di parlare della questione migratoria, vorrei presentare il contesto operativo. Se guardiamo la mappa della Libia, vedremo che c'è una forte pressione migratoria sulla Libia proveniente da Sud. Quando si parla di pressione migratoria, non si parla soltanto di migrazione economica ma anche mista, di rifugiati insieme a migranti economici, e della scarsa capacità della Libia di gestire queste frontiere a sud a causa del conflitto e delle grandi estensioni desertiche; ma c'è anche una pressione dal Nord, dall'Europa, che si aspetta che la Libia sia in grado di controllare le proprie frontiere. Poi c'è un conflitto armato all'interno del Paese, con l'offensiva del generale Haftar di aprile che ha causato 180 mila sfollati, che si aggiungono ai precedenti, raggiungendo la cifra di 340-350 mila sfollati interni. Questo è un aspetto importante e quando si incontrano i rappresentanti libici, bisogna riconoscere questa situazione, perché la Libia è impegnata in un conflitto armato che ha ucciso e causato lo sfollamento di libici e quindi ci sono pressioni quotidiane sulle autorità locali e anche sulle agenzie dell'ONU che lavorano in Libia. Abbiamo poi 650 mila lavoratori migranti che lavorano in Libia, perché la Libia è ancora oggi un Paese di destinazione per molti migranti economici provenienti dal Medio Oriente, dell'Africa del Nord e dell'Africa subsahariana che vengono in Libia per trovare un lavoro. Secondo l'Organizzazione internazionale per le migrazioni tre quarti di questi migranti lavorano in Libia e inviano delle rimesse nel loro Paese di origine. La maggior parte lavora in situazioni irregolari, in nero, ma sono comunque presenti nel Paese. Tra questi migranti ce ne sono anche alcuni che non sono soltanto migranti ma sono anche rifugiati, hanno bisogno quindi di protezione internazionale. Sono 43 mila quelli registrati all'UNHCR, molti sono a Tripoli, molti provengono dal Medio Oriente e altri dall'Africa subsahariana. Poi ci sono circa duemila richiedenti asilo che sono attualmente in detenzione. All'inizio dell'anno ce n'erano circa cinquemila in detenzione, ma questa cifra si è dimezzata nel 2019 a causa del conflitto e dell'incapacità delle autorità di gestire i centri di detenzione, non sono più in grado neanche di assicurare il cibo, per cui si lasciano le porte aperte e si Pag. 4lasciano andare via; ma anche grazie al lavoro che fa l'UNHCR, che cerca di portar via dai centri di detenzione questi rifugiati, ricollocandoli nei Paesi terzi. Quest'anno circa il 30 per cento delle persone presenti nei centri di detenzione sono state reinsediate in Paesi terzi, anche in Italia. Questo per quanto riguarda la popolazione in Libia.
  Per quanto riguarda le sfide operative che incontriamo, ci sono molti punti da sottolineare. Innanzitutto il conflitto che ci impedisce di avere accesso alle popolazioni là dove sono, a Bengasi per esempio, o nel Sud, dove ci sono moltissimi sfollati. I nostri movimenti sono molto limitati. Ci sono anche forti vincoli alla nostra attività, perché tutto lo staff delle Nazioni Unite è ridotto oggi a qualche decina di persone e noi dell'UNHCR da trenta che eravamo all'inizio siamo arrivati a sette-otto, oltre ai nostri colleghi libici. Anche per le altre Agenzie dell'ONU la presenza è molto limitata sul terreno, quindi il personale internazionale è insufficiente per gestire le sfide.
  Poi c'è da chiedersi che risultati darà il processo di Berlino. La struttura statale libica è molto debole a causa del conflitto e in genere a causa dei problemi della Libia causati dall'esistenza di fazioni diverse a livello locale, regionale, nazionale. Quando discutiamo con il Ministro dell'Interno, se poi parliamo con il Viceministro ricomincia un nuovo negoziato, perché c'è una struttura verticale ma anche una struttura orizzontale, per cui le persone mostrano fedeltà ai loro superiori ma anche alle tribù da cui provengono. Pertanto, anche nei Ministeri le persone sono presenti a seconda degli equilibri che esistono all'interno della Libia. Quindi la struttura non è sempre verticale, non è sempre chiaro capire qual è la catena di potere, di comando. Ci sono anche le milizie integrate nel corpus del Ministero dell'Interno. A noi viene rimproverato di collaborare con le milizie che gestiscono i centri di detenzione, ma queste persone sono di fatto i rappresentanti del Ministero dell'Interno, portano l'uniforme del Ministero, anche se localmente appartengono a delle milizie e spesso hanno anche degli interessi privati. La situazione è complessa e noi dobbiamo lavorare con quelli che vengono designati dalle autorità centrali come rappresentanti ufficiali. Sono rappresentanti del Ministero dell'Interno che combattono contro Haftar all'interno della loro milizia. La situazione è questa.
  C'è un'estrema politicizzazione della questione. Noi facciamo fronte a moltissime sfide umanitarie, dato il conflitto, e cerchiamo di concentrarci, anche per dare ascolto alla comunità internazionale ed ai media, sulle condizioni di detenzione in Libia. Spesso si ha l'impressione che i bisogni umanitari delle altre popolazioni siano trascurati, perché abbiamo moltissimi rifugiati nelle zone urbane, 40 mila, con situazioni molto complesse: ci sono donne che sono costrette a vendere il proprio corpo per poter sopravvivere; ci sono molti esempi anche di matrimoni precoci o di lavoro minorile. Quindi nelle zone urbane le situazioni sono gravissime, ma la comunità internazionale e i media sembrano interessarsi meno a questi aspetti.
  Poi ci sono gli sfollati. Anche il 20 per cento del nostro staff è «sfollato», perché si deve spostare ogni giorno attraversando dei checkpoint dove rischiano di avere un kalashnikov puntato alla tempia. I libici tra loro sono molto solidali e molto generosi, ma ci sono moltissime persone che passano attraverso le maglie della previdenza sociale libica e hanno bisogno di aiuto. Sembra che queste persone sfuggano all'attenzione internazionale rispetto a quelli che invece sono nei centri di detenzione, che naturalmente hanno bisogno della nostra attenzione, ma non a danno degli altri. La conseguenza è che spesso ci sono persone nelle zone urbane che pagano le guardie per essere ammesse in un centro di detenzione nella speranza che l'UNHCR possa identificarle, perché nei media si parla della ricollocazione da parte dell'UNHCR in altri Paesi. È pertanto necessaria una maggiore attenzione non soltanto sui rifugiati nei centri di detenzione, ma anche su quelli che vivono negli ambienti urbani al di fuori dei centri e sugli sfollati. Pag. 5
  Un'altra sfida è la presenza delle ong, che spesso hanno dei problemi di sicurezza maggiori dei nostri, perché non dispongono di un apparato di sicurezza come quello delle Nazioni Unite e corrono rischi maggiori di noi. Poi la questione della liquidità per gli interventi, che è molto problematica, è un ostacolo ai programmi che mettiamo in atto.
  Al centro di tutte queste sfide ci sono comunque delle opportunità; ad esempio, paradossalmente, un maggior accesso ai centri di detenzione oggi rispetto al passato, perché le autorità che li gestiscono sono superate dagli eventi; il Ministero dell'Interno non ha i fondi necessari per i centri di detenzione, quindi si preferisce avere una maggiore presenza dell'ONU in tali centri per avere un aiuto. Cosa si intende per aiuto? L'UNHCR può avere accesso facilitato al centro di detenzione, ai rifugiati, ai richiedenti asilo e può eventualmente provvedere alla loro evacuazione al di fuori della Libia. Questo è un vantaggio. Siamo riusciti ad evacuare circa 2.400 persone, molte di più rispetto all'anno precedente.
  Un altro aspetto è che il conflitto ha interrotto il coordinamento che esisteva tra la Guardia costiera libica e il Ministero dell'Interno, quindi per la prima volta, da diversi anni, negli ultimi mesi vediamo salvataggi in mare che non sono seguiti sistematicamente dalla detenzione. Pertanto, il 30-35 per cento delle persone che sbarcano a terra sono lasciate al loro destino, non vengono più arrestate dalle forze del Ministero dell'Interno e messe nei centri di detenzione. Quindi queste persone arrivano negli ambienti urbani ed è più difficile raggiungerle, anche se bisognerebbe fare degli sforzi, bisognerebbe cogliere questa opportunità. Questo anche è un risultato del conflitto diretto che ha un po’ disorganizzato il coordinamento esistente tra la Guardia costiera e le forze del Ministero dell'Interno.
  Vediamo ora cosa abbiamo ottenuto in termini di risultati nel 2019. Tenuto conto di tutte le sfide che vi ho illustrato, abbiamo ottenuto dei buoni risultati. Il nostro obiettivo è essere presenti dove ci sono dei rifugiati, salvare delle vite in Libia, che è un Paese in guerra. Siamo riusciti a salvare il 30 per cento dei detenuti per trasferirli altrove attraverso il citato «Gathering and Departure Facility» (GDF), il centro di transito, e questo, rispetto alle percentuali in altri Paesi, è un risultato sostanziale. Poi abbiamo potuto aiutare, con il nostro programma urbano, circa diecimila persone fornendo aiuti medici. Sono persone che hanno malattie croniche oppure hanno bisogno di interventi operatori. Riusciamo comunque ad operare a Tripoli, nonostante tutti gli ostacoli, per cui abbiamo aiutato circa diecimila persone tra i rifugiati urbani, ovvero il 25% dei rifugiati urbani. Quelli che vengono nei nostri centri di assistenza possono avere accesso ai servizi medici forniti dai nostri partner.
  Poi c'è un altro programma molto importante, il programma di assistenza monetaria, in contanti, che ha raggiunto circa duemila persone, che rappresentano soltanto il 5 per cento della popolazione dei rifugiati urbani, quindi pochissimi, però è una parte di quelli che sono i più vulnerabili. Noi vorremmo incrementare questo programma il prossimo anno, perché questi aiuti finanziari consentono di trovare un alloggio, di nutrirsi, di sopravvivere in un ambiente ostile come Tripoli, ma anche altre città, perché i rifugiati registrati dall'UNHCR sono presenti in una quindicina di città libiche.
  Poi le circa 2500 persone allontanate dalla Libia, anche grazie al sostegno dell'Italia, che ha permesso questa linea diretta di evacuazione delle persone trasportate direttamente dalla Libia verso l'Italia senza passare per Paesi di transito, evacuazione che è stata assolutamente preziosa per la nostra attività.
  La situazione nel GDF è complessa. È un po’ limitativo avere mille persone nel centro che non sono idonee alla ricollocazione, ma è anche un'opportunità, perché sono persone che erano in detenzione, che sono state liberate dalle autorità, e questo è un buon risultato raggiunto anche grazie all'attività dell'UNHCR, dell'ONU, dell'Italia e degli altri Paesi. Quindi dobbiamo Pag. 6essere lieti di aver liberato queste persone, anche se il risultato è piuttosto limitato.
  Ma ora cosa ne facciamo di queste persone? Se il GDF resta un centro aperto, bisogna continuare l'impegno nei confronti di questi rifugiati. Oggi ci sono centinaia di persone, donne e minori, in detenzione, a rischio di abusi gravi, ma queste persone non possono essere spostate nel GDF, perché è occupato da altre persone che non possono essere ricollocate. È questo il problema. Ci sono persone vulnerabili che non sono state selezionate.
  Ci si chiede cosa ne facciamo di queste persone che sono ora nel GDF e come possiamo aiutarle. Sono dei rifugiati urbani che sono stati liberati, quindi fanno parte di quei quarantamila rifugiati, e non possiamo discriminarle positivamente rispetto a tutte le altre che sono ancora in zone urbane.
  C'è un'alternativa al GDF? È questa la sfida in Libia nel pieno di un conflitto armato. È stato un successo poter offrire un alloggio, anche grazie alla Mezzaluna Rossa, a Misurata con la creazione di un altro piccolo centro; sono stati necessari diversi mesi di negoziati per poter aprire questo centro, ma ci siamo riusciti e questo ha consentito l'evacuazione diretta, in alternativa all'evacuazione verso Paesi terzi, Ruanda e Niger in particolare. Pertanto anche questa è un'alternativa. Ma la capacità di aprire nuovi centri in un contesto di guerra – bisogna dirlo – è molto limitata, quindi dobbiamo cercare nuove alternative.
  Per concludere, vorrei parlarvi della strategia per il 2020. Noi continueremo le nostre attività volte a salvare delle vite in detenzione, anche se non riusciremo a salvare tutti quelli che vogliamo salvare, ma cercheremo di concentrarci anche sulle altre categorie, i rifugiati urbani, che sono, a livello di finanziamento e di attenzione della Comunità internazionale e dei media internazionali, ingiustamente dimenticati, che hanno i bisogni di cui abbiamo parlato prima; dobbiamo quindi concentrarci maggiormente su queste persone che vorrebbero restare in Libia, lavorare in Libia, e dobbiamo aiutarle a fare questa scelta, dobbiamo proteggerle. Dobbiamo farle regolarizzare, dare loro maggiori aiuti finanziari e trovare nuove opportunità in ambiente urbano.
  Due terzi delle evacuazioni dell'anno scorso hanno riguardato persone in detenzione e un terzo coloro non erano in detenzione; quest'anno vorremmo invertire questo rapporto: arrivare a metà e metà. La metà delle soluzioni sostenibili al di fuori della Libia dovrebbero andare a vantaggio dei rifugiati urbani che hanno bisogno anche loro di questo tipo di soluzione, forse anche più di alcuni rifugiati in detenzione. Questo è il nostro programma, quindi vogliamo un maggior aiuto finanziario a beneficio dei rifugiati urbani.
  Poi, sempre riguardo alla nostra strategia del 2020, per gli sfollati abbiamo un programma finanziato da noi, ma molti sfollati passano attraverso le maglie e sfuggono alla nostra attenzione, benché si tratti di persone molto vulnerabili che hanno ugualmente bisogno dell'aiuto della comunità internazionale e dell'ONU. Quindi occorre avere uno sguardo più equilibrato sugli sfollati interni.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Cavalieri. Ha chiesto la parola l'onorevole Boldrini.
  Ricordo che alle 14 c'è la discussione generale su Hong Kong in Aula, quindi abbiamo tempi stretti. Chiedo ai commissari di fare interventi molto brevi.

  LAURA BOLDRINI. Grazie, presidente. Ringrazio il rappresentante dell'UNHCR per la Libia e la delegazione dell'ufficio italiano.
  Io vorrei qualche ragguaglio ulteriore in merito alla situazione, che è molto work in progress, perché con la guerra in Libia immagino che adesso la situazione degli sfollati interni per esempio cambierà: ce ne saranno molti di più, se ci sarà l'assedio continuato o un inasprimento del conflitto su Tripoli da parte di Haftar. Quindi è uno scenario che non può che peggiorare, e immagino che l'ufficio dell'UNHCR abbia fatto un piano d'emergenza per fronteggiare la situazione, sia in merito agli sfollati libici che già esistono e che potrebbero Pag. 7aumentare di numero sia in merito alla popolazione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo.
  Lei ci ha detto che il «resettlement» di fatto non ha portato ai risultati auspicati, io vorrei capire a che cosa Lei attribuisce la responsabilità del fatto che per il «resettlement» – i trasferimenti dei titolari di protezione internazionale verso altri Paesi una volta che l'UNHCR ha fatto il primo screening – non ci sia più disponibilità da parte dei Paesi terzi.
  Poi vorrei qualche delucidazione sui centri di detenzione: abbiamo appreso dai rapporti UNHCR, ma anche dai rapporti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nonché dalle inchieste fatte dai giornalisti della stampa internazionale, che sono dei luoghi dove c'è una sistematica violazione dei diritti fondamentali; noi sappiamo che le Nazioni Unite hanno chiesto la chiusura di quei luoghi e il trasferimento di chi c'è dentro altrove: se questa è la policy – chiudere quei centri – quale miglior momento di ora? Adesso come adesso le persone chiuse nei centri di detenzione rischiano di morire sotto i bombardamenti, come è già accaduto. Quindi mi chiedo se l'UNHCR abbia fatto un programma in merito alla tempistica della chiusura di questi centri, in merito alle procedure da seguire: verranno chiusi, non verranno chiusi? Se verranno chiusi, che cosa succederà delle seimila persone? Avete abbastanza fondi per dare indennità per l'affitto, risorse per dare un «piano B» ai rifugiati in modo che possano trovare alternative? State lavorando sull'evacuazione umanitaria di queste persone? Portarle fuori, in altri Paesi in modo da non lasciarle vagare in un Paese in guerra? Perché adesso siamo in un contesto di guerra.
  Vorrei avere da Lei ragguagli in merito a come voi pensate di agire sui centri di detenzione e sulle alternative da mettere in atto.

  YANA CHIARA EHM. Ringrazio per questa illustrazione e anch'io ho qualche breve domanda.
  La prima riguarda la parte del memorandum Italia-Libia redatto nel 2017, attualmente in fase di rinnovo con modifiche che, a mio parere, sono assolutamente necessarie affinché si riesca ad avere una maggior efficacia e anche un maggior rispetto dei diritti fondamentali, di cui l'Italia chiede l'attuazione. Quindi, in questo ambito, chiederei a voi quali potrebbero essere i punti fondamentali da inserire in questo rinnovo del memorandum Italia-Libia.
  Seconda domanda. Abbiamo parlato in generale sui vari progetti, le varie azioni fatte, stiamo parlando attualmente di un Paese che ha visto un cambiamento di scenario abbastanza importante: un Paese che attualmente è in guerra, stiamo parlando quindi di numeri che potrebbero variare da un momento all'altro e anche in questo caso probabilmente c'è necessità di azioni molto più forti, molto più concrete relativamente alla protezione dei rifugiati ed eventuali evacuazioni. Avete parlato anche della questione di evacuazioni in altri Paesi: io ricordo personalmente di aver seguito l'ultima verso il Ruanda, che riguardava cinquecento persone. La domanda che mi pongo, però, è la seguente: in questi casi vengono previste delle garanzie minime nei Paesi terzi affinché si rispettino i diritti umani? Quando parliamo di evacuazioni, parliamo soltanto di evacuazioni verso Paesi terzi o anche di rimpatri?
  Ultimissima cosa: mi piacerebbe avere una vostra opinione sui canali umanitari europei, su cui la nostra viceministra Del Re sta spingendo molto, provando ad attuarli, al fine di avere una risposta più concreta nell'ambito comunitario.

  JEAN PAUL CAVALIERI, capo della missione in Libia dello United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR). La terza domanda?

  YANA CHIARA EHM. Sui canali umanitari europei: la domanda che mi pongo è se questa effettivamente può essere una risposta concreta, pratica, sempre in considerazione del fatto che stiamo parlando di un Paese in guerra, oppure se questa potrebbe essere una risposta limitata e sarebbero necessarie altre misure.

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  GENNARO MIGLIORE. L'UNHCR ha relazioni sia con le autorità locali sia con quelle centrali: qual è lo stato delle relazioni e quali assicurazioni garantisce l'autorità a Bengasi, ovvero Haftar?
  La seconda domanda è relativa alla vostra valutazione su un tema molto controverso che fa parte ovviamente del memorandum Italia-Libia, cioè se l'UNHCR considera la Libia un porto sicuro sulla base delle sue valutazioni, pur sapendo che quella espressione è autodefinita dai Paesi. Quale è la vostra valutazione in merito.
  La terza domanda è relativa ai meccanismi di salvaguardia delle persone in questo momento detenute. Mi associo a quanto richiesto dalla collega Boldrini: quali sono le tempistiche e le modalità di evacuazione delle persone, in questo momento possibili obiettivi di azioni militari nei campi di detenzione.

  PAOLO FORMENTINI. Mi riallaccio alla domanda dell'onorevole Migliore, che ha chiesto quale sia la collaborazione dell'UNHCR nelle zone occupate, governate dalle truppe di Haftar; qual è la vostra attività, perché, guardando la cartina che ci avete fornito, sembra che sia scarsa la presenza.
  Vedete più drammatica la situazione nelle zone controllate da Haftar o nelle zone di Tripoli?

  RICCARDO MAGI. L'abbiamo ascoltata giustamente sottolineare la situazione degli sfollati interni e la necessità di intensificare gli interventi rivolti ad essi. Vorrei chiedere, dal vostro punto di osservazione e di lavoro, qual è la situazione dei cittadini libici che tentano di lasciare il Paese. Quindi, se c'è – come immagino che ci sia – un aumento di cittadini libici che tentano di lasciare il Paese, e in quali condizioni questo avvenga e a che tipo di situazioni dia luogo.
  Questo, dal nostro punto di vista, ha un'importanza anche rispetto agli accordi che il nostro Paese ha stretto con il Governo di accordo nazionale della Libia, perché si possono creare situazioni, da un punto di vista giuridico e del diritto internazionale, che creano delle valutazioni ulteriori da fare.

  PRESIDENTE. L'ultima questione si riconnette a domande di altri colleghi. Nel dibattito sulle vicende migratorie, in particolare della Libia, soprattutto nel dibattito giornalistico e politico emerge spesso la suggestione del perché non ci sono dei campi dell'UNHCR in Libia; vorrei che rendesse evidenti quali sono le criticità, le difficoltà e gli ostacoli a questa cosa in modo tale che questo argomento, che viene evocato continuamente, lo si evochi non in termini generici o propagandistici.
  C'è ancora l'onorevole Romano, prego.

  ANDREA ROMANO. Grazie, presidente. Per ricollegarmi alla sua considerazione, presidente, e anche a quella del collega Magi, un aspetto specifico della discussione parlamentare italiana relativa agli accordi con la Libia riguarda la Guardia costiera libica, in particolare le procedure che questa segue per quanto attiene alla «gestione» delle persone che cercano di lasciare la Libia. Lei ha fatto un riferimento nella sua introduzione alla Guardia costiera, alle relazioni tra Guardia costiera e Ministero dell'Interno; noi ci troveremo da qui a breve, in Parlamento, a ridiscutere gli accordi con la Libia, e tradizionalmente il tema più delicato è proprio quello della Guardia costiera, come si comporta, se rispetta i livelli minimi di garanzia dei diritti umani oppure no: qual è la sua valutazione su questo aspetto specifico relativamente alla Guardia costiera libica.

  PRESIDENTE. Lascio la parola al dottor Cavalieri per le repliche.

  JEAN PAUL CAVALIERI, capo della missione in Libia dello United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR). Grazie. Cercherò di rispondere alla prima domanda sui Paesi di reinsediamento, come mai così pochi posti. È terribile per noi entrare in un centro di detenzione, quando ci sono cinquecento rifugiati e cento posti: prendiamo le donne, i bambini, le famiglie e poi ci dispiace, qualche uomo, ma non si Pag. 9può prendere tutti. Questo va spiegato ed è tremendo, perché rimangono escluse quattrocento persone. Se guardiamo le cifre, i reinsediati che siamo riusciti ad evacuare dalla Libia nel 2019 rispetto alla popolazione dei rifugiati rappresentano quasi il 5 per cento del totale. A livello mondiale il fabbisogno di reinserimento dell'UNHCR è pari a 1,25 milioni di persone, mentre i posti disponibili sono 55 mila: meno dell'1 per cento. Nel caso libico, dunque, siamo al di sopra, anche se ci spezza il cuore di non poter far uscire tutti dai centri di detenzione.
  Di nuovo devo ringraziare l'Italia per la generosità mostrata con i suoi voli umanitari. È molto importante quello che fa l'Italia. Ci si batte affinché altri Paesi si ispirino a questa modalità dei voli umanitari diretti, perché elimina la burocrazia e riduce i tempi di attesa.
  Seconda domanda, qual è il piano. Il piano è di chiudere i centri di detenzione dove ci sono duemila rifugiati e, quando parliamo con il Ministro dell'Interno, ci dice «abbiamo ottocentomila migranti in Libia che lavorano, di cui l'economia libica ha bisogno, il tasso di criminalità è pari praticamente a zero tra quei migranti, la Libia è aperta, eppure ha una reputazione così cattiva a causa di duemila persone in detenzione. Noi libici dobbiamo trovare una soluzione, e forse la soluzione è di lasciarli uscire». E io mi compiaccio. Il Ministro dell'Interno dice «UNHCR, OIM, Nazioni Unite, aiutateci». Noi rispondiamo «aprite le porte e l'UNHCR, l'ONU cercheranno di accogliere queste persone in ambiente urbano con i nostri programmi di assistenza». Certo non è facile. Abbiamo una capacità di disbrigo delle pratiche di cinquanta al giorno, quindi le liberazioni devono avvenire gradualmente. Abbiamo chiesto di selezionare i centri di detenzione più problematici a causa della violazione dei diritti al loro interno e della vicinanza alle linee di fronte. Questi sono piani che sono sul tavolo del Governo. Ma poi c'è un problema legislativo, perché il Governo dovrebbe cambiare le proprie leggi per aprire i centri di detenzione. Credo però che si stia continuando a lavorare su questa base. Negli ultimi tre mesi, si sono visti due centri di detenzione in cui le autorità hanno aperto direttamente le porte, hanno fatto uscire la gente, a volte in coordinamento con noi, a volte no, ma credo che la discussione debba seguitare con il Ministro dell'Interno e quello della Giustizia per trovare alternative alla detenzione.
  Sempre sulla seconda domanda sul memorandum d'intesa che si sta negoziando con la Libia, per noi dell'UNHCR il problema principale della detenzione e delle intercettazioni in mare è che tutti i Paesi sono sovrani, tutti hanno diritto a sorvegliare le proprie frontiere; il problema in Libia è quello che succede dopo gli arresti, dopo le intercettazioni. Quello che è importante è quanto vuol fare il Ministero dell'Interno, e l'UNHCR e l'ONU cercano di contribuire. Ci sono due aspetti problematici nei centri di detenzione: le loro condizioni all'interno con l'accesso dei trafficanti, in certi centri ci sono condizioni spaventose; l'altro problema è il carattere indefinito della detenzione, l'assenza del controllo giudiziario. È su questi due punti che bisogna agire, perché tutti i Paesi hanno diritto a controllare le proprie frontiere, ad avere procedure amministrative nei confronti dei migranti in situazioni irregolari, ciò che però la Libia deve istituire è una «giudiziarizzazione» del processo, cioè deve coinvolgere nel processo il Ministero della Giustizia. Ne abbiamo già discusso parecchio con il Ministro della Giustizia e intendiamo tenere una riunione di lavoro con lo stesso Ministro, il procuratore generale, il Ministro degli Esteri per vedere in che modo si riesce a ripristinare un controllo giudiziario. I rifugiati non vogliono affatto andare in prigione, sono scappati da persecuzioni, quindi occorre una procedura giudiziaria.
  La seconda cosa è cercare di tutelare coloro che devono essere trattenuti, proteggerli dagli abusi quantomeno. Il Governo ascolta questo discorso, ma nella quotidianità sta conducendo una guerra, che è portata avanti da milizie che gestiscono anche i centri di detenzione, ed esiste una buona volontà da parte del Governo che però si scontra con dei limiti. Il Governo Pag. 10 ha bisogno delle milizie per guerreggiare contro Haftar, queste milizie gestiscono i centri di detenzione, in alcuni dei quali ci sono gravi violazioni dei diritti umani. Ecco qual è il limite della nostra azione.
  Per concludere con il memorandum d'intesa: la Guardia costiera lo fa in tutto il mondo di intercettare in mare, si tratta di vedere cosa succede dopo: fare in modo che chi è intercettato abbia accesso a un controllo giudiziario, come ovunque nel mondo. È su questo che bisogna insistere. Il Governo libico stesso si rende conto di questa necessità.
  Quanto ai diritti umani in Ruanda, si tratta di un Paese che accoglie molti rifugiati, come anche il Niger; ciò che ci si aspetta da questi due Paesi è che abbiano dei centri di transito. Sono soggetti ad afflussi diretti di rifugiati e sono anche abbastanza generosi direi, come molti altri Paesi africani, e l'UNHCR e altre agenzie ONU sono nel Ruanda e nel Niger per lavorare su programmi di accoglienza diretta dei rifugiati.
  È vero, non c'è solo l'evacuazione come soluzione nel tempo ma anche il rimpatrio volontario, come fa l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, o il ritorno in altri Paesi d'accoglienza. Molti profughi sono passati dal Ciad, dal Sudan, dall'Etiopia, ci hanno trascorso mesi o anche anni nei campi profughi. È un'opzione che noi stiamo cercando di esplorare sistematicamente per farli uscire dai centri di detenzione. Chiediamo loro: «vorreste tornare nel vostro primo Paese d'accoglienza, nel primo Paese d'asilo?», e a volte, anche se le condizioni di detenzione sono difficili, loro dicono «no! Preferisco rimanere in prigione piuttosto che tornare in quel Paese d'accoglienza!». Perché se lì la vita è tremenda? Perché spesso hanno pagato dei contrabbandieri con un obbligo di risultato, ovvero il trafficante li aspetta all'uscita per metterli sul prossimo battello in partenza. Sanno di avere più biglietti in mano in funzione del pacchetto che hanno comprato, quindi è complicato. Con quello che si vede in detenzione, la prima volta che un rifugiato mi ha detto «non ci voglio tornare in quel Paese», mentre si trattava di salvargli la vita, sono rimasto sorpreso; ma questa persona stava aspettando il momento in cui la sua famiglia avrebbe pagato per farlo uscire e là c'era un trafficante che lo aspettava per metterlo su una barca.
  La situazione non è bianca o nera, è complessa, ma questo non ci deve impedire di studiare altre possibili soluzioni, se le persone vogliono usufruire di questa scelta di ritorno nel Paese di primo asilo.
  Rapporti con le autorità di Bengasi. Nel 2019 l'UNHCR a Bengasi ha aperto un hub, un ufficio collettivo delle Agenzie dell'ONU; abbiamo in corso un'operazione con molti sfollati nell'est, non solo a Bengasi, ma anche nel sud, in tutte le zone controllate dall'esercito nazionale di liberazione. Purtroppo, dopo l'attentato del 18 agosto che è costato la vita a tre persone del personale ONU a Bengasi, abbiamo dovuto ridurre la presenza internazionale, che attualmente è pari a zero. Ora cercheremo di tornarci, c'è dello staff locale, delle ong partner con staff locale. Abbiamo contatti con le autorità di Bengasi, con le autorità locali, con i sindaci ed è coordinandoci con loro che attuiamo i nostri progetti, soprattutto per rimettere in piedi le infrastrutture sociali, scuole e ospedali per gli sfollati.
  La Libia è un luogo sicuro? No. La Libia non è un porto sicuro di sbarco: è un Paese in guerra; è un Paese in cui c'è un rischio, quando si sbarca ci si può ritrovare, senza nessuna procedura, in un centro di detenzione. In molti centri di detenzione la situazione è catastrofica in termini di standard e di rispetto dei diritti umani. Quindi la posizione dell'UNHCR è stata e rimane che la Libia non è un porto sicuro per gli sbarchi e non è un porto in cui le navi europee dovrebbero sbarcare profughi o migranti.
  L'UNHCR nelle zone occupate da Haftar. Ho detto che siamo presenti, ma in modo ridotto, nelle zone occupate o sotto il controllo del generale Haftar; siamo presenti attraverso i partner e continueremo ad esserlo. Il principale problema di accesso è dovuto al terrorismo, non è tanto il conflitto in sé e per sé, che sia a Tripoli o altrove. A Sebha, zona contesa tra i due, Pag. 11più spesso sotto il controllo di Haftar, il più grosso pericolo per noi è il terrorismo, è il sedicente Stato islamico. Ma anche a Tripoli, prima di essere vittime collaterali di un conflitto, noi vediamo come fonte principale di rischio il terrorismo. È questo che ci blocca.
  C'è stato un afflusso di libici fuori dalla Libia? Sì, specie in Tunisia, ma è un afflusso limitato. Abbiamo notato – e il nostro ufficio potrà lavorare sulle cifre – come al tempo della rivoluzione del 2011 coloro che arrivano in Tunisia – dove abbiamo una base – sono persone abbastanza benestanti, alcuni hanno già interessi, hanno appartamenti, hanno affari in Tunisia, non è qualcuno che arriva davanti all'UNHCR privo di tutto, come invece i profughi subsahariani. È un afflusso pressoché invisibile sul piano umanitario, almeno per adesso.
  In che modo l'UNHCR potrebbe organizzare campi di accoglienza in Libia. Non è possibile per due motivi. Anzitutto per via della guerra che fa sì che l'accesso sia limitatissimo. Abbiamo provato, non dobbiamo smettere di provare, siamo contenti di avercela fatta a Misurata, ma, se guardiamo all'esperienza del nostro centro di transito, l'accesso è concesso dal Ministero dell'Interno: sono loro che fanno entrare persone che, secondo i nostri criteri, non avrebbero titolo ad andare a finire in un centro di transito, perché non sono eleggibili per l'evacuazione. Ciò nonostante, per vari motivi, questa gente entra.
  L'UNHCR può lavorare solo se si tratta di un centro aperto, gestito dalle autorità. Abbiamo proposto alle autorità di trasformare alcuni centri di detenzione in centri aperti gestiti dalle autorità, in cui l'UNHCR e le altre Agenzie ONU si recano solo a certe condizioni: libertà di accesso, libertà di circolazione dei richiedenti asilo e dei migranti e garanzia dell'integrità delle procedure, perché ci sono problemi di corruzione. Può sempre capitare in un contesto bellico.
  Ciò su cui ci impegniamo di più è che, al di là dei centri aperti, bisogna aprire i centri di detenzione per accogliere queste persone in una situazione urbana. Tripoli è un luogo sicuro? Non lo è, non è ideale, Tripoli non è tutta la Libia peraltro.
  La realtà libica è complessa. Abbiamo centinaia di migliaia di migranti che vivono e lavorano in Libia, ventimila rifugiati che vivono e lavorano a Tripoli e non vogliono attraversare il Mediterraneo. Anche questa è una realtà libica. Si può sperare che tutti siano liberati, che l'UNHCR continui a cercare soluzioni fuori dalla Libia per i più vulnerabili, i più in pericolo, offrendo assistenza urbana agli altri assieme ai nostri partner ONU.
  Quanto alla valutazione della Guardia costiera libica, anche qui bisogna essere sfumati: ci sono tanti problemi. Quando le persone sono intercettate, il rischio è che siano consegnate alla guardia del Ministero dell'Interno e che vadano a finire nei centri di detenzione dove i loro diritti saranno violati. Nella Guardia costiera libica ci sono persone che sono nella lista delle sanzioni dell'ONU, ci sono stati rapporti che dicono che è stato fatto uso di violenza irragionevole, quando sono stati fermati i barconi.
  D'altra parte, noi lavoriamo con la Guardia di frontiera e la Guardia costiera, siamo lì al punto di sbarco. Quando arrivano, spesso si tratta di vite umane salvate, non solo di intercettazione, è ricerca e salvataggio in mare: sarebbero morti, se non fosse intervenuta la Guardia costiera libica. Molti nella Guardia costiera sono semplici impiegati del Governo che vogliono fare bene il loro lavoro, non sono trafficanti, hanno voglia di cooperare con l'UNHCR e anche di cooperare a livello bilaterale o multilaterale per fare meglio il loro lavoro. La situazione, quindi, è sfumata. Si deve continuare ad essere intransigenti sui criteri di cooperazione con la Guardia costiera e la Guardia di frontiera, e anche nelle richieste al Governo libico, per tutelare chi è intercettato da eventuali rischi, e in quel perimetro si deve continuare a lavorare e considerare anche – e questa è responsabilità anche dei Paesi europei e della comunità internazionale – che c'è un elenco di trafficanti. Sono pochi i trafficanti noti in Europa che sono perseguiti, a pochissimi sono congelati i conti in banca, sequestrati i beni e le proprietà, quindi Pag. 12anche lì forse c'è qualcosa di più da fare da parte dei Paesi membri della comunità internazionale nei confronti di quelle persone chiaramente identificate come trafficanti o complici di trafficanti e che sono rappresentanti delle autorità libiche. Su questo bisogna essere intransigenti e fare uso di tutte le armi che gli Stati democratici europei e altri hanno a disposizione.
  Direi anche, per concludere, che la situazione libica non è solo una dimensione bilaterale Libia-Europa: ci devono essere più soluzioni non solo in Libia, ma anche nei Paesi che precedono la Libia, affinché coloro che si trovano nei campi profughi in Ciad, in Etiopia, abbiano più occasioni di lavoro in quei Paesi attraverso programmi di cooperazione e più possibilità di essere reinsediati in Paesi terzi, a partire da quei campi, per non essere tentati di passare dalla Libia. Poi chiedere conto dei loro misfatti ai Paesi di origine. I profughi in detenzione in Libia non sono vittime del riscaldamento climatico, non cadono dal cielo: spesso negli articoli dei giornali, che poi sono molto critici nei nostri confronti, si dimentica la fonte. Fanno bene a criticarci, ma dimenticano la causa del problema: ci sono dei Paesi di origine che commettono massicce violazioni dei diritti umani nei confronti dei loro cittadini. Di questo non si parla. Come se fosse naturale questo flusso umano di profughi, di vittime che, quando li incontriamo, non sono arrabbiati con l'Europa, sono arrabbiati con i loro Paesi d'origine, perché le ricchezze del Paese sono confiscate da una élite al governo, perché c'è una dittatura contro di loro, perché si violano i loro diritti umani, e questa è una responsabilità della comunità internazionale. Quando si guarda alla questione migratoria occorre un approccio olistico, ci sono Paesi di destinazione e Paesi di transito come la Libia, ci sono Paesi di primo asilo, ma poi ci sono anche i Paesi di origine e anche questi devono essere chiamati a rendere conto della tragedia che impongono alla loro popolazione.

  PRESIDENTE. Grazie. Lei ci ha dipinto uno scenario molto critico e complesso, ma comunque tutto ciò che Lei sta facendo è davvero essenziale, quindi Le assicuro tutta la solidarietà e l'appoggio del nostro Paese e del nostro Parlamento, e tutto quanto sarà in nostro potere di fare per aiutarvi siamo disposti a farlo. Grazie ancora.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14.