XVIII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 7 di Mercoledì 10 aprile 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Grande Marta , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA PER LA PACE E LA STABILITÀ NEL MEDITERRANEO
Grande Marta , Presidente ... 2 
Massolo Giampiero , presidente dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI) ... 2 
Grande Marta , Presidente ... 7 
Cabras Pino (M5S)  ... 7 
Formentini Paolo (LEGA)  ... 7 
Carelli Emilio (M5S)  ... 7 
Scalfarotto Ivan (PD)  ... 7 
Quartapelle Procopio Lia (PD)  ... 8 
Ehm Yana Chiara (M5S)  ... 8 
Lupi Maurizio (Misto-NcI-USEI)  ... 8 
Grande Marta , Presidente ... 8 
Massolo Giampiero , presidente dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI) ... 8 
Grande Marta , Presidente ... 12

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Partito Democratico: PD;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Fratelli d'Italia: FdI;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Civica Popolare-AP-PSI-Area Civica: Misto-CP-A-PS-A;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-+Europa-Centro Democratico: Misto-+E-CD;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
MARTA GRANDE

  La seduta comincia alle 10.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, nonché la trasmissione sul canale della web-tv della Camera dei deputati.

Audizione dell'Ambasciatore Giampiero Massolo, presidente dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla politica estera dell'Italia per la pace e la stabilità nel Mediterraneo, l'audizione dell'Ambasciatore Giampiero Massolo, presidente dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI).
  Saluto e ringrazio l'Ambasciatore Massolo, che è accompagnato dalla consigliera Cecilia Piccioni, per la sua disponibilità a prendere parte ai nostri lavori.
  L'ISPI, fondato nel 1934, è oggi riconosciuto tra i più prestigiosi think thank dedicati allo studio delle dinamiche internazionali ed è l'unico istituto italiano, e fra i pochissimi in Europa, ad affiancare all'attività di ricerca un significativo impegno nella formazione, nella convegnistica e nelle attività di analisi e orientamento sui rischi e sulle opportunità a livello mondiale per le imprese e le istituzioni.
  Tutta l'attività è caratterizzata da un approccio che coniuga l'analisi sociopolitica con quella economica e da un'estesa collaborazione con i principali think tank di tutto il mondo. Da anni l'ISPI promuove l'organizzazione della Conferenza internazionale MED, Mediterranean Dialogues, accreditato come il maggior foro globale di riflessione e dialogo sui processi politici che interessano l'area mediterranea, alla quale contribuiscono leader mondiali di primissimo piano e al più alto livello istituzionale. L'ultima edizione, che si è svolta a Roma dal 22 al 24 novembre 2018, ha visto la partecipazione di un'ampia delegazione della nostra Commissione.
  L'ISPI collabora ormai da numerosi anni con la Camera e con il Senato nell'ambito dell'Osservatorio sulla politica internazionale e in tale contesto trasmette un rapporto trimestrale sull'area del Mediterraneo allargato, la cui ultima edizione è disponibile sulla piattaforma GeoCom.
  L'Ambasciatore Massolo è presidente dell'ISPI da gennaio 2017. Durante la sua lunga carriera diplomatica ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali di prestigio, tra i quali quello di Segretario Generale della Farnesina e di Direttore Generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Da maggio 2016 l'Ambasciatore Massolo è presidente di Fincantieri Spa.
  Prima di dare la parola al nostro ospite, chiedo ai colleghi Formentini e Cabras se, in qualità di relatori, desiderino svolgere qualche considerazione introduttiva o rinviare tutto a dopo l'intervento dell'ambasciatore.
  Do la parola all'Ambasciatore Massolo per lo svolgimento della sua relazione.

  GIAMPIERO MASSOLO, presidente dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI). Grazie, presidente. Grazie, onorevoli membri della Commissione. Grazie Pag. 3anche per la presentazione che, nella sua apparente oggettività, in realtà conteneva delle espressioni molto gentili nei confronti di ISPI e della mia persona, per le quali ringrazio.
  Di mio, relativamente all'attività dell'ISPI, volevo solo menzionare che la prossima sessione della Conferenza MED Dialogues è già pianificata: avrà luogo il 5-7 dicembre di quest'anno e, come di consueto, sarà preceduta da una serie di conferenze pre-MED e poi, nei giorni della Conferenza, da alcune manifestazioni convegnistiche di preparazione. Ringrazio anche per la presenza e l'aiuto che la Commissione ha voluto dare nella precedente edizione e mi auguro e confido che anche nella prossima non mancherà.
  Per quanto mi riguarda, pensavo nell'audizione di oggi di fare la seguente cosa, cioè dare qualche cenno di tipo complessivo per quanto riguarda il possibile scenario e i possibili parametri di una politica italiana per la stabilità nel Mediterraneo, e poi magari lasciare agli interventi l'eventuale approfondimento di temi, crisi o situazioni in atto più specifici.
  Il Mediterraneo è un luogo dove forse più che in altri possiamo sperimentare quello che è attualmente la complessità delle crisi internazionali come ci si presentano. Mi spiego meglio: pensavamo di avere lasciato dietro alle nostre spalle la geopolitica, ma non è così, perché la valenza territoriale di alcune crisi ci è tornata con grande evidenza di fronte agli occhi. Adesso tendiamo a pensare che la globalizzazione si sia attenuata o che comunque siamo in una fase di deglobalizzazione e che la geopolitica sia tornata con grande prepotenza.
  In realtà, sono vere entrambe le cose, perché una delle complessità delle crisi di oggi è che coesiste l'aspetto geopolitico più o meno tradizionale, aggravato, se possibile, da tutto quanto è ormai diventato una dimensione permanente delle relazioni internazionali, cioè gli spin-off positivi, ma purtroppo anche negativi della globalizzazione. Penso ad esempio ai flussi, che non sono necessariamente solo flussi di persone, ma anche flussi di finanziamenti di strana o comunque varia provenienza, di merci non necessariamente tutte legali, di armi e quant'altro.
  A questo evidentemente si aggiunge – anche questo come spin-off della globalizzazione – una fenomenologia di per sé positiva come la globalizzazione delle comunicazioni e dei messaggi politici, che però spesso viene usata per cercare di influire o di condizionare le situazioni.
  Questo mix di globalizzazione geopolitica è il campo di gioco del Mediterraneo. Cosa comporta questo come conseguenza immediata? Che non si può fare a meno, nelle singole politiche estere nazionali (e quella italiana non fa eccezione), anche approcciando singole aree geografiche, geopolitiche e geoeconomiche, di avere nei confronti di queste aree territorialmente limitate una visione globale, vale a dire inquadrarla in un ambito più complessivo.
  Questo porta a una ulteriore conseguenza, vale a dire rende riduttivo pensare, come talvolta è stato il caso in passato, che il Mediterraneo esaurisca tutta la nostra dimensione esterna. È importantissimo, ma non è tutta la nostra dimensione esterna. Talvolta, inoltre, si è portati a sopravvalutare il convincimento che noi siamo il Paese centrale nel Mediterraneo. Geografia a parte, noi siamo un Paese del Mediterraneo, non necessariamente il Paese centrale, e vado a spiegarmi fra un attimo.
  Per quanto riguarda l'idea della dimensione più complessiva, è chiaro che il Mediterraneo è l'anello più prossimo, quello di irradiazione più immediata del nostro interesse nazionale, ma è pur sempre il primo e soltanto il primo di altri anelli concentrici (almeno altri due), quindi è il più immediato cerchio del nostro interesse nazionale, della nostra politica estera. Quando parlo del Mediterraneo, mi riferisco a quella «L» rovesciata che parte da Trieste e scende giù per l'Adriatico, attraversa verso ovest il Mediterraneo, arriva ai confini del Marocco, ha le sue propaggini verso est, quindi Cipro e Medio Oriente.
  Anche questa «L» rovesciata sarebbe riduttiva se concepita così, se non contestualizzata in un'altra lettera dell'alfabeto, che è una specie di grande «Z», cioè la nostra «L» da Trieste a Rabat si inserisce Pag. 4in una grande «Z», che comincia in Marocco, attraversa tutto il Maghreb, percorre il canale di Suez, l'Egitto, l'Iran, l'Iraq, scende in diagonale attraverso l'Arabia Saudita, lo Yemen, il Corno d'Africa fino ad arrivare al Mali e poi ancora giù, al sud del Marocco (Senegal e quant'altro), riparte in orizzontale verso est, attraversando il Sahel, attraversando quella parte di Africa così nevralgica per traffici e migrazioni, e arriva a superare addirittura il cerchio ristretto di quello che è il Medio Oriente allargato, per lambire le propaggini dell'Afghanistan, del Pakistan e dell'India.
  Dico questo per dire anche fisicamente, plasticamente come l'interesse non si esaurisca in un bacino di mare, per quanto importante, ma vada inquadrato in maniera molto più ampia. Gli altri due cerchi sono evidentemente quelli del cerchio europeo e del cerchio transatlantico come spazio di sicurezza, di libero mercato, e poi nel cerchio ancora più ampio, che è quello del nostro stare nel mondo, quindi delle nostre responsabilità complessive di tipo multilaterale, che ci derivano dall'appartenere all'Organizzazione delle Nazioni Unite. Responsabilità che sono collettive, della comunità internazionale, e che certo la nostra appartenenza al Mediterraneo condiziona, ma di nuovo non esaurisce, visto che il fronte dell'opportunità, ma anche della minaccia e del rischio è ormai molto spostato in avanti anche geograficamente, o addirittura privo di confini, se pensiamo per esempio alla minaccia cibernetica.
  Il secondo aspetto che dicevo è l'idea un po’ illusoria, ma che talvolta si sente ripetere, dell'Italia come Paese centrale, come potenza determinante del Mediterraneo, questa illusione ottica che ci deriva dall'essere sempre primi nel medagliere dei Giochi del Mediterraneo, ma appena andiamo a fare il campionato europeo – non parliamo delle Olimpiadi – il nostro ranking scende rapidamente.
  Nell'area del Mediterraneo si scarica tutta una serie di tensioni importantissime, che ci passano spesso ampiamente sopra la testa e che riguardano essenzialmente gli ambiti seguenti. Parto dal macro per arrivare fino al micro, innanzitutto dal rapporto fra le grandi potenze. Gli Stati Uniti sembrano avere un interesse alla regione più episodico rispetto al passato, entrano ed escono, attenuano la loro presenza, «si pentono» e tornano in gioco, ma attualmente sono o sono percepiti in maniera crescente come portatori di interessi piuttosto settoriali, essenzialmente legati, nella regione come l'ho descritta prima, alle considerazioni di tipo securitario, all'antiterrorismo. Basti vedere per esempio quello che succede in Libia, con azioni puntuali, precise, tese a colpire singole persone, singole bande, per impedire che Al Qaeda o anche Daesh tornino a radicarsi su quei territori. A fronte di una percezione di un complessivo ritiro degli Stati Uniti, se non attraverso una partecipazione selettiva ed episodica, assistiamo ad un certo espandersi di tentativi di influenza e anche di presenza della Russia.
  Quella nei confronti dei mari caldi – non sto certo a spiegarlo alla Commissione affari esteri – è sicuramente una tendenza tradizionale allo sbocco da parte della Russia, e, qualsiasi sia il contesto o il teatro, questa pulsione tradizionale, che risponde all'interesse di evitare un isolamento planetario, evidentemente è assecondata dalla Russia, che usa in maniera crescente nel Mediterraneo lo strumento di accreditarsi come mediatore di situazioni, dove il mondo occidentale, Stati Uniti e Europa, oggettivamente non hanno sempre dato buona prova da questo punto di vista.
  Non va sottovalutato dal punto di vista della presenza, dell'influenza vestita spesso – talvolta con sostanza – di opportunità, il ruolo che la Cina sta esercitando in maniera crescente attraverso la ricerca di porti nel mare Mediterraneo, nonché nel continente africano, che del Mediterraneo è l'immediato retroterra.
  Sempre nella regione si scaricano, con conseguenze talvolta piuttosto nefaste, i rapporti inter-islamici: intanto la lotta per il predominio del mondo sunnita e dunque tra Paesi che hanno un'interpretazione più ortodossa e dunque più svincolata dalla politica, come adesso l'Arabia Saudita, l'Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, e Paesi che invece hanno dell'islam politico una concezione Pag. 5 più universalistica, più da pratica politica quotidiana, tornando a riproporre un collegamento tra governo e islam, come ad esempio la Turchia, il Qatar. Evidentemente, nel momento in cui la posta in palio è il futuro dell'islam politico, una contrapposizione di questo genere tende a riprodursi anche nei singoli scenari di crisi nazionale.
  Così pure, in maniera più ampia, occorre valutare la contrapposizione, in generale, tra chi professa la fede islamica e i laici che esistono nel bacino del Mediterraneo, anche questa una contrapposizione talvolta non pacifica, di cui vediamo le conseguenze nelle crisi aperte.
  Infine, andiamo appena dietro l'angolo per vedere l'influenza che esercita l'altro grande confronto del mondo islamico, che è quello fra le potenze sciite e le potenze sunnite: quella sì è la lotta per la vita, la lotta per la sopravvivenza e per l'egemonia nel mondo islamico, che contrappone l'Arabia Saudita e l'Iran attraverso un'infinità di proxies, di tramiti. Anche su questo, pur essendo non propriamente l'epicentro, il Mediterraneo è effettivamente destinato ad influire.
  Altro elemento che si scarica nello scacchiere è la perdurante attività e anche contrapposizione, quindi sviluppo e contrapposizione, cointeressenza e divergenza delle singole organizzazioni terroristiche, in particolare i due grandi ceppi: da un lato Al Qaeda con i suoi derivati più o meno locali, più o meno regionali, più o meno nazionali; dall'altro, Daesh. Non dimentichiamoci che Daesh è stata sconfitto nella sua ambizione, nel suo tentativo di farsi Stato, ma nel tentativo di essere presente, di confondersi fra la popolazione, di riorganizzarsi, non necessariamente per riprendersi uno Stato, ma per avere delle risorse proprie, anche nel solo tentativo di destabilizzare situazioni, di recare minaccia agli interessi occidentali Daesh è ben sveglio e presente, non possiamo sottovalutare questo tipo di minaccia.
  Vi è poi un terzo aspetto, collegato con la fine dell'estensione dell'ambizione territoriale di Daesh, è quello del ritorno dei foreign fighters. Noi siamo giustamente preoccupati del ritorno dei foreign fighters nei nostri Paesi in Europa, ma essi in grande maggioranza andranno potenzialmente a ristabilirsi nei Paesi della regione, a sud del Mediterraneo, con ciò stesso rappresentando per quelle società e per quegli assetti istituzionali, talvolta non propriamente consolidati e piuttosto friabili, dei potenti fattori di rischio e di destabilizzazione.
  È inutile sottolineare nella regione il problema dei flussi di ogni genere, ai quali accennavo prima: noi pensiamo prevalentemente alle persone, ma c'è molto altro e molto diversificato. Un ulteriore elemento di tensione è la difficoltà di uno sviluppo economico omogeneo, nel senso che tanto all'interno dei Paesi della regione quanto fra di loro si assiste sempre più ad una curiosa divaricazione, come se coesistessero due sistemi nettamente diversi.
  Da un lato, infatti, si registra uno sviluppo, un aggiornamento tecnologico, delle opinioni pubbliche, soprattutto nei Paesi del Maghreb più vicini al continente europeo: una forte dose di modernità, di imprenditorialità, di start-up, di tecnologia e anche di cultura abbastanza avanzata, e viceversa ampie zone di quegli stessi Paesi ancora assolutamente arretrate culturalmente, economicamente e socialmente, con assetti governativi che spesso stentano – l'Algeria da questo punto di vista ha uno sviluppo molto evidente – a stare al passo con le crescenti attese della popolazione, che si tentano di comprimere in nome della sicurezza e della ragion di Stato, ma nel XXI secolo sappiamo benissimo che oltre un certo limite non è possibile.
  Questa congerie di fattori è assolutamente troppo articolata e numerosa per dirci che siamo centrali: cioè siamo nel Mediterraneo, ma non necessariamente dobbiamo avere l'ambizione di essere centrali, o almeno di essere centrali da soli.
  Se queste sono le premesse, lasciando spazio alle eventuali domande, in questa prospettiva, dal punto di vista di un analista, che quindi prescinde da valutazioni di tipo politico, quali potrebbero essere i parametri per una linea di politica estera italiana? Confesso che sono sempre stato un po’ disturbato dalla nozione, che spesso Pag. 6sento dire, dell'Italia come media potenza. Parliamoci con grande chiarezza: non esistono grandi potenze, medie potenze e piccole potenze, esistono due o tre grandi potenze – sicuramente due e una terza si candida – e poi esistono delle potenze. La differenza è che una grande potenza identifica il proprio interesse nazionale con tutti gli aspetti del variegato panorama internazionale: quindi l'interesse nazionale americano o l'interesse nazionale cinese è in tutto quanto succede al mondo. Le potenze dalla Germania in giù – diciamo così – hanno invece tutte degli interessi settoriali. Tutti questi Paesi, per quanto ricchi, grandi e potenti – lo stesso Brasile e la stessa India, che pure è in una fase di evoluzione – hanno degli interessi di tipo settoriale, identificano l'interesse nazionale con un settore, due settori, «x» settori.
  Qual è la differenza? La differenza è che una potenza consapevole si muove e contestualizza questi suoi interessi particolari in un contesto più generale, più ampio, in una visione complessiva, che è quella necessitata, come dicevo all'inizio, dagli sviluppi della comunità internazionale.
  Da questo punto di vista penso che l'Italia nella sua politica estera si gioverebbe dal notare come sta evolvendo la comunità internazionale, che sta muovendosi diciamo sempre più verso delle forme nuove di legittimazione internazionale multilaterale delle attività: l'idea di potersi muovere soltanto aspettando tutti i crismi di quella legalità tradizionale internazionale alla quale siamo stati abituati – una risoluzione dell'ONU, il cappello della NATO, il cappello di una delibera del Consiglio degli affari esteri o del Consiglio degli affari generali dell'Unione europea – che sono importanti fattori di legittimazione. L'attesa di questo rallenta l'attività e quindi provoca una situazione in cui gli altri si muovono e l'Italia resta al palo, gridando allo scandalo e all'intrusione ad ogni iniziativa altrui. Non sto esprimendo giudizi di valore, dico solo come funziona, e credo che bisognerebbe trarne una conseguenza in termini operativi.
  Una seconda conseguenza è che nessuno persegue meglio di noi stessi, con realismo ed efficacia, i nostri interessi nazionali, vale a dire gli interessi nazionali italiani vanno perseguiti prima di tutto da noi, prima di tutto da soli, mettendoci in condizioni di farlo, anche attraverso la ricerca di compagni di strada scelti non sempre e non necessariamente tra i più ovvi, e facendo un uso non sostitutivo dell'azione italiana, ma strumentale di quegli stessi organismi internazionali multilaterali, ai quali non possiamo chiedere di fare il nostro interesse nazionale per conto nostro.
  Un terzo elemento è avere chiara una definizione delle priorità dell'interesse nazionale. Tutta una serie di fattori dell'interesse nazionale sono oggettivi, ci derivano dallo stare in un luogo geografico piuttosto che in un altro, dalla nostra storia, dalla nostra cultura, dal nostro assetto istituzionale, ma molti altri interessi nazionali sono evidentemente tali e devono essere perseguiti dai singoli Governi, che ne fanno la sintesi e ne rispondono in Parlamento.
  Credo che vada definita con urgenza un'accurata gerarchia delle priorità, e mi pare che fra i primissimi posti in questa gerarchia debba esserci soprattutto la sicurezza, la difesa, l'idea che, prima ancora di pensare all'opportunità, sia opportuno pensare alla sicurezza, nell'attuale assetto di come la regione sta evolvendo e si sta assestando.
  Un'ulteriore conseguenza della visione globale di cui è opportuno dotarsi è di concepire il Mediterraneo non solo come un bacino, come un braccio di mare, ma di guardarlo sempre e costantemente nella sua propaggine africana e nella sua collocazione nel grande Medio Oriente. È in questo contesto più ampio che dobbiamo imparare a declinarlo e a declinare i nostri interessi e le nostre partnership, che possono essere talvolta anche non ovvie, perché non è un alleato, bensì un partner che ci dobbiamo scegliere di volta in volta.
  Infine, un ulteriore elemento importante è quello di non perdere di vista il nostro radicamento. Noi siamo un Paese dell'Occidente, non è solo la geografia a dircelo, e l'Occidente sta dalla parte dei laici. Credo che questa sia una presa d'atto, un parametro rilevante, che comporta delle Pag. 7conseguenze che sarebbe riduttivo proclamare solo a parole.
  Per quanto riguarda le opportunità, credo che dobbiamo crescentemente fare leva sul nostro modello economico nel rapporto con la sponda sud del Mediterraneo, che non è solo, ancorché di grande importanza, l'attività dell'ENI e il settore energetico, ma è anche un fare leva sulle nostre capacità in materia di infrastrutture, di trasporti, di dimensione di aziende medio-piccole, di filiere, di uso dello strumento culturale, molto più di quanto si sia fatto in passato. Anche nei Paesi del Mediterraneo c'è una domanda forte di Italia, di italiano, l'immagine del Paese è tale da consentire a chi lo voglia fare un uso virtuoso dello strumento della leva culturale italiana.
  Quello che appare analiticamente come proponibile è un approccio integrato alla regione da parte di un Paese che sappia consapevolmente coniugare al tempo stesso la dimensione geopolitica e la dimensione globale. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie molte per questa introduzione.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  PINO CABRAS. Nella prima parte di questa audizione c'è un elemento che mi ha colpito e coincide con una considerazione che faccio da tempo, ovvero il fatto che il perseguimento degli interessi nazionali dell'Italia non può essere demandato ad altri, dobbiamo essere attivi in prima persona, senza lamentarci se gli altri fanno i loro interessi e lo fanno anche in modi spregiudicati.
  Mi chiedo fin dove possa spingersi la spregiudicatezza dell'interesse italiano nel Mediterraneo, perché possiamo notare che tutti giocano su più scacchieri in modi spesso apparentemente contraddittori, quasi triplogiochisti. Penso alla Turchia, che ha una serie di alleanze variabili molto particolari, molto differenziate caso per caso.
  I «nemici» o comunque gli avversari strategici non lo sono sempre, non lo sono su tutti gli scenari, in certi casi sono alleati, e anche la gestione della crisi libica da parte di diverse potenze interessate vede alleanze che smentiscono le contrapposizioni che ci sono su altri scenari.
  Per l'Italia è possibile giocare su più scacchieri in questo modo? A volte l'accusa che viene fatta all'Italia non viene rivolta ad altri Paesi, cioè la capacità di muoversi su più ambiti con relativa spregiudicatezza, che poi spregiudicato vuol dire anche privo di pregiudizi, nel senso di ragionare concretamente sugli scenari in campo. Ci sono margini per una proattività dell'Italia sullo scenario mediterraneo?

  PAOLO FORMENTINI. Innanzitutto grazie mille perché è un quadro veramente interessante, dettagliato ed è un contributo prezioso.
  Non si è parlato molto di Libia, della quale però necessariamente dobbiamo discutere. Si è parlato invece tanto di interesse nazionale, quindi qual è oggi la priorità dell'interesse nazionale dell'Italia sulla Libia e quali le possibili evoluzioni?

  EMILIO CARELLI. Ringrazio anch'io per la qualità dell'analisi e anch'io volevo puntare il dito sulla Libia. Quale lettura e quale analisi dà della crisi libica in corso?
  In quel quadro di priorità che Lei indicava (in primis, la sicurezza nazionale), a suo parere rientra anche la Libia? In che modo e cosa potrebbe fare l'Italia per risolvere la questione libica secondo Lei?

  IVAN SCALFAROTTO. Saluto l'Ambasciatore e anche l'Ambasciatrice Piccioni, che ho piacere di rivedere perché li ho incontrati entrambi molte volte nella mia vita precedente.
  Anch'io vorrei tornare sulla Libia, perché evidentemente è l'elefante nella stanza, e, dato che ho molto apprezzato l'ultima parte della sua esposizione, mi faceva piacere avere un suo commento su come ce la siamo un po’ sfangata in questo ultimo periodo rispetto alla Libia. Siamo infatti partiti con grandi ambizioni, l'indizione di una grande conferenza multinazionale, organizzazioni internazionali, una cosa molto grande. Ma poi in realtà l'impressione netta Pag. 8è stata di una nostra completa afasia durante eventi estremamente importanti, visibili, che erano sotto gli occhi del mondo: mentre si manifestava una situazione di tipo parabellico, se non bellico, l'Italia sembrava completamente silente e dispersa rispetto a uno scacchiere nel quale invece i nostri interessi sono molto forti. Quindi Le chiedo se secondo Lei questo perseguimento degli interessi nazionali si sia realizzato o se invece il Governo italiano, e l'Italia in senso più ampio, non abbia perso un'occasione anche per piantare un paletto, per manifestare un protagonismo che ha annunciato, ma che poi nei fatti non si è visto.
  Grazie.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Ringrazio molto l'Ambasciatore soprattutto per il passaggio sull'interesse nazionale, che so essere un suo cruccio e una sua linea di ragionamento da tanti anni. Lei ha usato la parola «consapevole», dicendo che le potenze consapevoli si rendono conto di cosa succede nel mondo, del loro posto nel mondo e di come tutelare l'interesse nazionale. Troppo spesso io ho l'impressione che l'Italia sia una potenza inconsapevole, cioè che troppe volte ci prefiggiamo degli obiettivi che non riguardano l'interesse nazionale più stretto, oppure pensiamo di avere un peso superiore al nostro peso reale o degli strumenti superiori ai nostri strumenti reali. Lei condivide questa idea che siamo un Paese più inconsapevole di altri? Se sì, qual è la ragione dell'inconsapevolezza?

  YANA CHIARA EHM. Ringrazio anch'io l'Ambasciatore per questa introduzione molto esaustiva e aggiungo soltanto una domanda altrettanto importante sulla questione di Daesh. Sono stati fatti recentemente e anche frequentemente slogan sulla sconfitta di Daesh: credo invece che si debba focalizzare l'attenzione sul fatto che Daesh ancora non è sconfitto, lo vediamo negli avvenimenti in Libia degli ultimi giorni, dove Daesh ha rivendicato alcuni attacchi, come anche la presenza ancora di sacche potenti nella regione irachena, nella regione curda, sulla quale ho avuto modo di confrontarmi qualche giorno fa. Le chiederei quindi un approfondimento sulla parte riguardante Daesh.

  MAURIZIO LUPI. Ringrazio anch'io e credo che l'opportunità di avere l'autorevolezza dell'Ambasciatore e dell'ISPI possa darci un doppio aiuto. Non ripeto la domanda sulla Libia, perché ovviamente è condivisa da tutti, ma riprendo l'osservazione dell'onorevole Quartapelle Procopio, perché ritengo che il ruolo consapevole o inconsapevole dell'Italia sia dato dalla sua posizione geografica e dal fatto che l'Italia può e deve essere per l'Occidente il punto di presidio, di guida, di dialogo e di interlocuzione nel Mediterraneo con tutti i Paesi che vi si affacciano.
  Abbiamo visto come non gestire o gestire male i rapporti o la politica internazionale del Mediterraneo abbia creato danni, e la Libia ne è un esempio.
  Quel territorio ha continue evoluzioni istituzionali: oggi abbiamo l'Algeria e si sta sottovalutando quanto sta accadendo in quel Paese, non ricordandoci quello che è stato la Primavera araba in passato, cioè si saluta con soddisfazione il fatto che possa mettersi in moto un processo di evoluzione istituzionale, non sapendo che in quei luoghi non è detto che quel processo crei più stabilità di quella attuale. L'Algeria è sempre stata un punto di presidio importante, anche nei confronti del terrorismo, quindi allargando dalla Libia il ragionamento su tutti i Paesi della fascia mediterranea mi piacerebbe capire come si stia osservando l'evoluzione complessiva.
  Lì abbiamo il confine con la Libia e il tema della Tunisia, tutto quello che sta accadendo nell'evoluzione istituzionale e nei Governi di questi Paesi: come può svolgersi il ruolo dell'Italia, come può dare stabilità a una instabilità? In particolare sull'Algeria vorrei sapere se state monitorando quello che sta accadendo in quel Paese.

  PRESIDENTE. Do la parola all'Ambasciatore Massolo per la replica.

  GIAMPIERO MASSOLO, presidente dell'Istituto per gli studi di politica internazionale Pag. 9 (ISPI). Grazie, presidente. Intanto su questo gruppo di domande, che ha forse come parola chiave la parola consapevolezza, l'altro giorno mi è capitato di presentare il libro di Massimo Franco su Andreotti e una cosa che dice giustamente Franco in quel libro è che Andreotti non capì che a un certo punto era caduto un muro.
  Dico questo perché non sempre in Italia noi abbiamo questo senso della storia, nel senso che prima, quando esisteva la Guerra fredda, noi tutti nuotavamo nelle acque confortevoli di uno stabilimento balneare, vale a dire eravamo buoni per definizione, per il solo fatto di appartenere ad un'alleanza, e c'erano poi dei cattivi per definizione, per il solo fatto di appartenere all'alleanza contrapposta. Questo faceva sì che si poteva fare quello che tecnicamente si chiama il free riding senza pagarne le conseguenze in termini di reputazione internazionale.
  Mi spiego meglio. Nel momento in cui hai appaltato totalmente quella parte maggioritaria del tuo interesse nazionale che è la sicurezza, il diritto di avvalersi di un certo range di opportunità per il solo fatto di appartenere ad un mondo, per il resto ti puoi comportare seguendo l'istinto e l'interesse immediato. Questo ha fatto sì che per anni – Andreotti ne è stato interprete magistrale, figlio di quell'epoca – abbiamo fatto una politica estera improntata a quello che con una punta di sorriso chiamo il teorema Mattei-Valletta: cioè tutta la nostra politica estera era incentrata sull'esigenza importantissima, che abbiamo tuttora, di assicurare la nostra sicurezza energetica (Mattei) e sull'esigenza di trovare mercati di sbocco (Valletta, che in piena guerra fredda conclude con la Russia sovietica un accordo che motorizza l'Unione sovietica).
  Questo perché non c'era bisogno di pensare a null'altro, il resto lo facevano le condizioni internazionali. Caduto il muro, è venuto un Papa, Giovanni Paolo II, che non smussava le contrapposizioni, ma anzi le accentuava, e, in linea con lo spirito del tempo, voleva che l'altra parte soccombesse – a modo suo, ovviamente, non dal punto di vista militare – e questo si è verificato fino al punto che qualcuno ha detto «è finita la storia».
  Lì, però, qualche aggiustamento lo devi fare: la contrapposizione esiste, i buoni per definizione non ci sono più, i cattivi per definizione non ci sono più, quindi il tuo interesse nazionale non si può limitare al perseguimento immediato della tua pulsione infantile di volere il gelato, che è legittima, ma devi contestualizzare questo tuo volere il gelato con la dieta. Qual è la dieta? È l'esigenza di reinventare, di crisi in crisi, la solidarietà alleata, l'appartenenza all'Occidente.
  Questo parametro indusse nel 1999 il Governo dell'epoca a partecipare all'azione militare contro la Serbia e anni dopo indusse al riconoscimento del Kosovo fuori dal quadro tradizionale di una legittimità internazionale riconosciuta dall'ONU, ma solo perché partecipavamo ad un concerto delle grandi potenze che si chiamava «Quint». Tutto questo venne fatto in nome di una solidarietà alleata, di una solidarietà occidentale, non più dal punto di vista del tuo interesse immediato, che non poteva più essere perseguito senza essere temperato da questo contesto più ampio, che qualcuno vive come limitativo, ma è comunque parte del nostro stare nel mondo.
  Questo fa sì che il primo limite della spregiudicatezza è la consapevolezza in merito a quale mondo apparteniamo, cioè l'Occidente: è una nozione che attualmente il primo a mettere in dubbio è, per paradosso, il Presidente degli Stati Uniti, ma questo è l'Occidente che abbiamo e al quale apparteniamo; quelli sono gli alleati, nessuno ci vieta poi di avere tutta una serie di partners, anzi è doveroso avere tutta una serie di partners, come dicevo nel mio intervento introduttivo non necessariamente ovvi, ma essendo consapevoli di dove partiamo, perché quello tempera ed è la differenza fra il fare politica estera, quindi perseguire l'interesse nazionale in modo efficace attraverso un efficace sistema di alleanze, e fare free riding, vale a dire smarcarsi sistematicamente da un quadro di riferimento occidentale, che rende chi lo Pag. 10fa poco credibile e poco autorevole sulla scena internazionale.
  La consapevolezza o inconsapevolezza di questo è a sua volta figlia di un portato storico, della cultura di un Paese, del suo sistema istituzionale, della sua storia, ma chiaramente la consapevolezza nasce anche negli esseri umani con l'esperienza ed è figlia della propria educazione, di chi ti ha fatto da padre e madre, e l'Italia è ancora in tempo per acquisirla: da analista mi sembra che non sempre questa consapevolezza ci sia.
  Possiamo parlare a lungo della dialettica fra il termine consapevolezza e il termine responsabilità, perché è chiaro che, nel momento in cui la consapevolezza è netta e pura, la conseguenza in termini di responsabilità, di cui parlavo prima, e quindi l'attitudine ad assumersi responsabilità in proprio, è altrettanto chiara ed evidente.
  In questa stessa aula, nel corso di un'audizione nella legislatura precedente, dissi in maniera molto franca che mi sembrava che gli sviluppi internazionali andassero verso una crescente esigenza di assunzione di responsabilità in proprio da parte dei Paesi, quindi non delega, ma attitudine ad assumere la responsabilità in proprio, e che questo avrebbe comportato non solo l'esigenza di prendere decisioni non agevoli pena l'irrilevanza, ma anche l'esigenza da parte dei governi e dei parlamenti di spiegare all'opinione pubblica perché una certa decisione vada presa quando essa apparentemente non fa l'interesse immediato del Paese che la prende.
  Rispondo rapidamente alle due domande precise dell'onorevole Ehm a proposito di Daesh. Certo che non è sconfitto, Daesh ha una capacità mimetica formidabile, è figlio di un portato di situazioni, talvolta errori, contrapposizioni, uso spregiudicato di proxies l'uno contro l'altro, esportazione di destabilizzazione in Paesi, ma è assolutamente chiaro quello che dice lei, cioè ne sentiamo e ne sentiremo parlare.
  Da questo punto di vista sono preoccupato dal ritorno dei foreign fighters, dall'idea che ci possano essere delle azioni di terrorismo tradizionale nei Paesi occidentali, che sono un obiettivo molto pagante; sono molto preoccupato anche della destabilizzazione suscettibile di avvenire in quegli stessi Paesi della regione che sono oggetto dell'audizione di oggi.
  Quanto all'evoluzione complessiva, dicevo prima che abbiamo una responsabilità nei confronti della regione in quanto tale, ma abbiamo una responsabilità che da un lato non dobbiamo sopravvalutare, perché non possiamo esercitare in proprio, per il solo fatto di essere geograficamente al centro del Mediterraneo, perché al centro del Mediterraneo c'è ben altro rispetto all'Italia pura e semplice, ma dobbiamo esercitare scegliendoci dei compagni di strada e non dimenticando da dove veniamo.
  Questa è una responsabilità fatta di alleanze politiche, di institution building, di modello culturale, di esportazione di modello economico, di non riluttanza al momento opportuno dal ricorrere anche allo strumento militare. Non vi stupirà che lo dica, perché è il portato di tutto quello che sono andato dicendo fino adesso.
  La Libia fondamentalmente è un fallimento collettivo della comunità internazionale. La comunità internazionale non è riuscita a trovare in Libia una formula di gestione della crisi e ha fatto – lo dico di nuovo tecnicamente e non dal punta di vista valoriale – un investimento eccessivo nello strumento multilaterale.
  Mi spiego meglio: risolvere la crisi libica non si può senza le Nazioni Unite, ma nel momento in cui le Nazioni Unite negoziano un accordo, quello di Skhirat, che non tutti firmano, a quel punto quello non è più l'accordo delle Nazioni Unite, è un accordo di chi lo vuole riconoscere, un accordo dei willings, e in quel momento la comunità internazionale doveva cambiare modello e il modello che personalmente e anche pubblicamente avevo cercato di spingere era il modello Kosovo.
  In Kosovo esisteva certamente un rappresentante del Segretario Generale delle Nazioni Unite, che era un ex presidente finlandese e si chiamava Ahtisaari, però Ahtisaari era costantemente spalleggiato e direi quasi guidato da un gruppo di potenze, la «Quint», fatto da Stati Uniti, Pag. 11Regno Unito, Francia, Germania e Italia, alle quali si univa di volta in volta, in singole riunioni specifiche, la Russia – non si poteva risolvere una crisi balcanica senza la Russia – e quel gruppo era una specie di steering committee che guidava lo sforzo dell'ONU e con risultati buoni.
  In Libia abbiamo investito nell'ONU senza appoggiarlo, con il risultato che i Paesi si sono scaricati di responsabilità e l'ONU è stata caricata di una responsabilità che senza i Paesi non poteva assolutamente assumersi.
  Quale poteva essere questo modello? In Libia ci sono tre piani. C'è un piano intra-libico, cioè i libici storicamente non sono mai andati d'accordo sulla formula istituzionale, cioè su come doveva essere questa Libia (federale, unitaria, devono essere due, devono essere tre). Il secondo aspetto sul quale non sono mai andati d'accordo è sulla divisione dei proventi delle risorse petrolifere, delle risorse energetiche. Un terzo aspetto sul quale non sono andati mai d'accordo è chi controlla realmente i territori, al di là delle istituzioni. Questi tre elementi sono deflagrati dopo la fine del coperchio del regime gheddafiano e tuttora è quello che è in atto.
  Su questo aspetto si è sovrapposto il conflitto fra chi soffia sul fuoco dall'esterno nella lotta di preminenza fra i due diversi tipi di islam sunnita, quelli che lo vogliono più laico e più staccato dal governo, e quelli che vogliono un futuro per l'islam politico, essendo i secondi essenzialmente la Turchia e il Qatar, essendo i primi essenzialmente gli Emirati, l'Egitto e adesso sempre più l'Arabia Saudita. Come si sono combattuti? Si sono combattuti per proxy, cioè soffiando sul fuoco delle fazioni locali e approfittando di quelli che in termini somali si sarebbero detti signori della guerra, che sono le importanti città come Misurata e Zintan, che sono le varie fazioni e i vari potentati di controllo del territorio.
  Poi c'è un terzo livello superiore che è il conflitto fra le potenze, che sono europee. È legittimo che la Francia persegua il suo interesse energetico e il suo interesse di una certa dose di influenza in Libia, che è la porta di quell'Africa del Sahel, di quell'Africa vera che è un formidabile bacino di influenza per la Francia. Quindi non c'è assolutamente nulla di strano che la Francia persegua una politica di influenza in Libia. Anche se adesso apparentemente BP ed ENI sono arrivati ad una qualche forma di intesa, è vero che anche e il Regno Unito, prima di avere altro tipo di distrazioni, è stato interessato alle concessioni petrolifere in Libia; la Russia per le ragioni che dicevo in precedenza; gli Stati Uniti, scottati dall'esperienza di Hillary Clinton dell'Ambasciatore ucciso a Bengasi, essenzialmente in funzione antiterrorismo e anti integralismo, quindi con compiti di sicurezza. Tuttavia, c'è questo livello soprastante di contrapposizione.
  La comunità internazionale avrebbe dovuto trovare una modalità di gestione, un meccanismo dei seguiti delle riunioni internazionali, che senza tale meccanismo era inutile indire. Le conferenze di Macron a Parigi e del Governo italiano a Palermo sono legittime, andavano fatte, ma andavano fatte cercando di farle sfociare in un meccanismo di gestione dei seguiti.
  Tale meccanismo non c'è, cioè nessuno ha fatto un'intensa attività bilaterale e poi multilaterale che consentisse di mettere insieme chi conta sul territorio: non l'assemblea plenaria di tutti i libici, che sarebbe come una dieta polacca, dove tutti avevano il veto e non si faceva mai niente, ma dei libici significativi, le potenze che soffiano sul fuoco da fuori e la corresponsabilizzazione degli esterni, del livello superiore.
  Da questo punto di vista quello che sta succedendo oggi è molto significativo. Haftar, con non pochi sostegni, ma anche con una politica spregiudicata sul terreno che gli ha consentito di acquisire il consenso, specie nel sud, di molti soggetti e di molti gruppi, si è mosso nel tentativo, in primo luogo, di conquistare, e sarebbe stato uno sviluppo per lui significativo anche se, essendo un divisivo, non avrebbe comunque garantito la pace per la Libia; in secondo luogo, nel tentativo di evitare che la già convocata Conferenza di Gadames del 14-16 aprile, ora sconvocata, producesse dei risultati che si sarebbe trovato nell'inevitabile Pag. 12 necessità di avallare e che, di fatto, lo subordinavano al potere politico, cosa che, controllando importanti pezzi del territorio in Libia, non avrebbe voluto e neanche potuto fare.
  Se si è mosso, anche se non è riuscito finora e non mi sembra probabile che riesca, significa però che ha avuto la percezione che un gruppo di potenze lo appoggiasse dall'interno e dall'esterno. Questo ha fatto sì che tutti i gruppi invece più filoislamici si compattassero e si contrapponessero, anche questi consapevoli di non essere figli di nessuno, cioè di avere un backing visibile e invisibile, perlomeno uguale in termini di potenza all'altro.
  Cosa può succedere? Certo, se gli scontri continuano, la situazione rischia oggettivamente di scappare di mano. La Libia non è nota per essere terra di guerre civili, però indubbiamente se la contrapposizione continua, questo rischio c'è, così come c'è – è la cosa che mi sembra più probabile – la prospettiva di uno stallo più lungo, che secondo me dovrebbe offrire lo spunto per tornare a tessere la tela del dialogo, che sarà difficile, lunga, in prospettiva, ma è proprio lì dove vedo lo spazio per l'Italia.
  Questo spazio deve, in primo luogo, prescindere da un investimento eccessivo nell'Organizzazione delle Nazioni Unite; in secondo luogo, deve portare all'assunzione di responsabilità politiche precise nei confronti di Paesi tra i quali occorre mediare per portarli allo stesso tavolo; in terzo luogo, ci vuole un'attività con chi conta sul terreno in Libia; infine, occorre un'attività tecnico-diplomatica intensa, assidua, quotidiana, non ci si può più limitare ad enunciare un principio e poi pensare che lo fa Salameh. L'attività a cui stiamo assistendo ora in Libia ne è prova credo evidentissima. In inglese si dice wake up call. Speriamo che qualcuno si svegli.

  PRESIDENTE. Ringrazio nuovamente l'ambasciatore Massolo per la Sua disponibilità e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 11.10.