XVIII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Mercoledì 5 dicembre 2018

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Grande Marta , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA PER LA PACE E LA STABILITÀ NEL MEDITERRANEO

Audizione di Paolo Quercia, Direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies (CENASS) e docente di studi strategici all'Università di Perugia.
Grande Marta , Presidente ... 3 
Quercia Paolo , Direttore del ... 3 
Grande Marta , Presidente ... 9 
Boldrini Laura (LeU)  ... 9 
Zóffili Eugenio (LEGA)  ... 11 
Formentini Paolo (LEGA)  ... 11 
Ehm Yana Chiara (M5S)  ... 12 
Quartapelle Procopio Lia (PD)  ... 13 
Grande Marta , Presidente ... 13 
Quercia Paolo , Direttore del ... 13 
Grande Marta , Presidente ... 16 
Quercia Paolo , Direttore del ... 16 
Grande Marta , Presidente ... 16

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Partito Democratico: PD;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Fratelli d'Italia: FdI;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo Italiani all'Estero-Sogno Italia: Misto-MAIE-SI;
Misto-Civica Popolare-AP-PSI-Area Civica: Misto-CP-A-PS-A;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-+Europa-Centro Democratico: Misto-+E-CD.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
MARTA GRANDE

  La seduta comincia alle 15.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di Paolo Quercia, Direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies (CENASS) e docente di studi strategici all'Università di Perugia.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla politica estera dell'Italia per la pace e la stabilità nel Mediterraneo, del professor Paolo Quercia, direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies e docente di studi strategici all'Università di Perugia.
  Saluto e ringrazio il professor Quercia per la sua disponibilità a prendere parte ai nostri lavori. Oltre a svolgere l'attività di docenza, il professor Quercia collabora dal 2001 con il Centro alti studi per la difesa come analista e direttore di ricerca presso il Centro militare di studi strategici per l'area dell'Europa sud-orientale e balcanica. Per il Ministero degli affari esteri, negli anni 2010 e 2011, ha svolto l'attività di consulenza, occupandosi tra le altre cose di Europa sud-orientale e balcanica nonché del Corno d'Africa. Ha svolto, inoltre, attività di consulenza per il Ministero dello sviluppo economico per l'attuazione delle legge n. 212 del 2000 e n. 84 del 2001, con particolare riferimento alla promozione di progetti di internazionalizzazione nella regione dei Balcani.
  Nel 2012 ha fondato assieme all'ambasciatore Mario Maiolini il Center for Near Abroad Stategic Studies, centro studi dedicato allo studio dell'estero vicino italiano ed europeo, di cui è direttore.
  Il CENASS è basato su un network di professionisti ed esperti del mondo delle relazioni internazionali, della diplomazia, della sicurezza, della geopolitica, del diritto e dell'economia che vogliono contribuire a costruire una conoscenza più approfondita dell'area del vicinato per produrre analisi a beneficio del processo decisionale italiano ed europeo nel campo della politica estera e di sicurezza.
  Tra le aree di interesse del CENASS, vi sono l'Europa sud-orientale balcanica, l'Europa danubiana, il Nord Africa, il Mediterraneo orientale, il Medio Oriente, la Penisola anatolica e il Caucaso, oltre che il Corno d'Africa.
  Tra i temi di approfondimento, ci sono le sanzioni economiche internazionali, la sicurezza marittima, il Mediterraneo allargato, la sicurezza internazionale.
  Prima di dare la parola al nostro ospite, chiedo ai colleghi relatori se vogliono intervenire o se magari si riservano di intervenire più tardi.
  Do allora la parola al professor Quercia affinché svolga il suo intervento.

  PAOLO QUERCIA, Direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies (CENASS) e docente di studi strategici all'Università di Perugia. Rivolgo un saluto agli onorevoli presenti. Visto che l'oggetto di quest'indagine conoscitiva è estremamente ampio e complesso, mi riservo poi di mandare un documento un po’ più strutturato nei giorni seguenti, anche tenendo conto Pag. 4del dibattito che spero possa nascere. Vorrei, però, dare alcune impressioni di carattere generale, quindi da un punto di vista di una visione strategica, su come si posiziona l'Italia nel Mediterraneo in funzione dei cambiamenti davvero consistenti che vi stanno avvenendo. Saranno, quindi, considerazioni più macro, generali, ma mi sono riservato tre o quattro punti specifici su cui entrare un po’ più nel dettaglio.
  Il primo punto è che noi siamo abituati a usare categorie geopolitiche come Euromediterraneo, Mediterraneo, Mediterraneo allargato e altre categorie simili, che stanno iniziando ad uscire di scena. La mia sensazione, dal mio punto di vista, dalla mia attività, dai miei viaggi, è quella di utilizzo di categorie progressivamente superate dal corso degli eventi e da questo grande processo di globalizzazione delle relazioni internazionali.
  Sostanzialmente, anche se guardiamo i grandi classici autori sul Mediterraneo, vediamo che parlano di una regione che non c'è più, che in qualche modo abbiamo perduto dal punto di vista geopolitico, cioè come visione politica di quello che era il rapporto tra Europa e Paesi della sponda sud.
  Ricordiamoci che quello dell'Europa nel Mediterraneo era un ruolo baricentrico tra il Nord Africa, il Medio Oriente e l'Eurasia. Molte di queste cose sono iniziate a cambiare. Io parlo di un processo di destrutturazione di quest'ordine, che ovviamente non è avvenuto dal giorno alla notte, ma in un arco di circa un ventennio.
  Un po’ distratta dalla sua crescita, dalla sua ricchezza, dal suo benessere, ma anche forse da una visione un po’ troppo eurocentrica e progressiva della storia, come se la storia fosse stata diretta verso un modello di benessere eurocentrico, di diffusione eurocentrica, forse l'Europa ha tardato a costruire una visione geopolitica del Mediterraneo, cioè una visione dinamica e non statica, non una visione da fine della storia, ma una visione di attori che si muovevano in un contesto divenuto molto più fluido e attori che non erano solo di natura statuale, ma anche di natura privatistica, asimmetrica e di altra natura.
  Ritengo, poi, che un ruolo particolare in questo processo di destrutturazione del Medio Oriente, e quindi del Mediterraneo – penso che sia iniziato nel Medio Oriente il processo di destrutturazione del Mediterraneo – sia stato rappresentato dal conflitto iracheno del 2003, da quell'intervento militare e dal fallimento poi dello state building che lo ha seguito. Probabilmente, anche dal decennio precedente a quel conflitto, che ricordiamo già aveva una profondità particolare, si sono iniziate ad avviare delle onde sismiche geopolitiche che hanno modificato molte delle situazioni e incancrenito molti dei problemi che la regione viveva.
  Ormai, se facciamo una rapida carrellata di tutti i Paesi della regione, da quelli che consideravamo più virtuosi, come la Tunisia o il Marocco, a quelli alleati, come la Turchia, che eravamo soliti considerare un po’ il campione di democrazia del mondo islamico, cosa anch'essa poi mutata, ecco vediamo che, in termini di stabilità interna e di relazioni con i Paesi vicini, e addirittura di relazioni internazionali, tutti questi Paesi vivono in maniera importante processi di indebolimento o di destrutturazione del sistema regionale, con un'emersione sempre più forte di questioni sociali, economiche e anche identitarie irrisolte, che spesso poi trovano uno sbocco in forme di radicalismo politico o religioso o di altra natura.
  Le cause di questo fenomeno sono estremamente complesse, ma uno dei fallimenti forse è stato quello di non essere riusciti a far partire un'economia privata, delle economie che abbiano anche una capacità negli attori privati di creare ricchezza. Ovviamente, la ricchezza creata dai modelli di questi Paesi non è sufficiente a sostenere un tenore di vita in una popolazione in altissima crescita demografica, soprattutto quando c'è un accesso, sia di informazioni sia di spostamento, agli standard europei.
  Ecco che allora tutto ciò si inquadra in una profonda e grave crisi della statualità. Questo penso che sia un punto chiave. Stiamo assistendo in tutta la regione praticamente a una crisi del modello di Stato post-coloniale. Abbiamo avuto in piedi per Pag. 5decenni dei sistemi, spesso anche delle leadership, spesso anche gli stessi leader, per periodi molto lunghi, che hanno portato avanti, in una fase storica precisa, che era quella della decolonizzazione, un determinato modello di sviluppo, a tratti autoritario, a tratti statalista, basato anche su una forma di conflitto con l'Occidente attraverso la decolonizzazione.
  Questo ciclo di vita di questa forma di statualità sta volgendo al termine. Non ha retto alle sfide. Era un ciclo di modernità imperfetta, a mio avviso, perché molte delle sfide della modernità non erano state centrate, e si è trovato, senza aver completato il processo di modernizzazione delle società e dei Paesi, a essere immerso invece nella globalizzazione, che invece è caratterizzata da forti caratteri di post-modernità.
  Questo salto così rapido e così turbolento ha creato numerosi problemi di stabilità interna, alcuni dei quali – questa è la mia personale opinione – acuiti anche da forme un po’ forse troppo avventurose di esportazione della democrazia, se vogliamo così chiamarla, o di regime change, ma poco rispettoso della ownership locale. Questo ha molto aggravato alcune criticità strutturali di questi Stati post-coloniali.
  Quello che è importante da un punto di equilibri, però – vogliamo parlare del Mediterraneo, non dei singoli Paesi – è che questi processi hanno creato dei vulnus in quello che era l'Euromediterraneo, vulnus che non sono stati percepiti, non sono stati curati, e si sono allargati, creando un vuoto geopolitico, dove molto spesso queste statualità imperfette e autoritarie venivano a essere non più sufficientemente al passo con i tempi.
  Io credo che poi la crisi migratoria che abbiamo visto in maniera molto forte, molto dirompente, negli ultimi anni, in realtà abbia origini molto più profonde in questi processi, che sono decennali, che si sono messi in moto quanto meno dagli anni Ottanta e dai decenni successivi. Sostanzialmente, bisogna capire che queste sono delle valvole di sfogo di un ribellismo sociale ed economico per la mancanza di delivery da parte degli Stati e delle autorità di beni, valori e occasioni di sviluppo che la globalizzazione avrebbe dovuto portare in tutte le aree del mondo, specialmente quelle più vicine all'Europa.
  Questo processo di indebolimento degli Stati e di ribellismo dal basso, che poi spesso trova la via di fuga delle migrazioni, è stato anche rafforzato dall'emersione di attori privati organizzati, molto forti, molto più agili degli Stati nel capire i processi e anche nel costruire una propria strategia opportunistica. Tra questi attori, ci sono strutture criminali transnazionali molto forti, così come gruppi jihadisti, che hanno però una matrice a volte molto più simile a quella di cartelli criminali che a quelle di vere e proprie organizzazioni ideologiche. Tutto ciò ha contribuito ad aprire una partita, un gioco sulle spoglie di questa sovranità che veniva messa in discussione.
  Mi sono un po’ soffermato su quest'aspetto, perché credo che sia poco ricordato come uno dei grandi problemi strutturali che abbiamo di fronte sia quello della statualità. Se non si affronta questo problema e quello del suo efficientamento, quest'area, frazionandosi progressivamente, diventerà uno spazio di conquiste e di lotta di attori proxy di natura non statuale, che però a loro volta sono strumentalizzati da grandi players globali, che li utilizzano per produrre ulteriore instabilità.
  Credo che il Mediterraneo e le regioni che vi si bagnano, particolarmente del sud e del sud-est, stiano affrontando quest'enorme sfida di essere un terreno di conquista, dove la conquista segue l'instabilità. Adesso, abbiamo una fase di instabilità e di debolezza degli Stati, a cui seguiranno poi fasi di conquista di quello che rimarrà, che molto probabilmente non produrranno ulteriori elementi di stabilità.
  Qui mi sembra che l'iniziativa strategica un po’ sia stata perduta. Una capacità di valutazione e di intervento è stata perduta a più livelli. In particolare, parlando di Mediterraneo, c'è anche la questione dello spazio marittimo. Il mare ha delle sue dinamiche, delle sue logiche, dei suoi meccanismi di equilibrio molto particolari, basati sia su degli accordi tra Stati, ma anche su delle consuetudini, ed è un misto tra sovranità degli Stati e laissez faire, diritto Pag. 6un po’ anarchico di spostamento attraverso i continenti.
  Ecco che il mare, anche il mare Mediterraneo, sta vivendo questa fase di crescente anarchia e criminalizzazione degli spazi marittimi. Assistiamo a un proliferare di attori che ridiscutono le regole, che erano regole prevalentemente di origine statuale, su come, chi e in che modo si può utilizzare il mare, le sue risorse, e si può utilizzare il mare per creare instabilità o portare conflitti in altre regioni. Avevamo visto fuori dall'Europa la questione della pirateria somala: se gli Stati falliscono o sono incapaci di controllare le coste, il tempo che l'instabilità si trasferisce nel mare è necessariamente breve.
  Ecco che declino dell'Euromediterraneo, il concetto con cui ho iniziato questa mia relazione, vuol dire che l'Europa perde questo rapporto privilegiato e in qualche modo ordinato, pur con una serie di conflitti o una serie di sfide allo sviluppo: ma erano sfide e conflitti di un altro ordine, cioè si inserivano all'interno di una conflittualità tradizionale e di un sistema internazionale tradizionale, che credo sia comunque interesse dell'Europa mantenere.
  Affinché l'Europa abbia questa percezione della profondità delle sfide, i Paesi mediterranei dell'Europa devono averla. Devo dire che i Paesi mediterranei dell'Europa non sempre sono i pionieri di questa «rieuropeizzazione» dello spazio mediterraneo.
  Il Mediterraneo è un valore di per sé, perché è uno spazio delle civiltà, è lo spazio del dialogo tra i popoli, del dialogo tra le religioni, è uno spazio dei conflitti, quindi è uno spazio estremamente sensibile dal punto di vista strategico. È anche, però, uno spazio in cui vi sono importanti aspetti energetici nazionali, in quanto è la regione su cui, o per trasporto o per attività di esportazioni, l'Italia ha una importante sicurezza energetica in gioco, specialmente nel Mediterraneo orientale.
  Questo era il mio quadro generale, che vorrei approfondire attraverso tre o quattro punti specifici prima di concludere il mio intervento.
  I dossier sul tema Mediterraneo sono enormi. Andiamo dalla debolezza degli Stati alle guerre civili, al rapporto tra i grandi attori internazionali, ma io vorrei concentrarmi su quattro punti, non perché siano più importanti di altri, ma forse perché possono essere considerati un po’ all'ordine del giorno.
  Il primo è la questione libica. Credo che la Conferenza di Palermo sia stata un successo importante dell'Italia e del Governo. È stata un'iniziativa opportuna, non perché abbia poi prodotto un cambiamento importante e si siano firmati o concordati punti sostanziali tra gli attori, ma perché testimonia una ripresa di iniziativa multilaterale dell'Italia su questo dossier, su cui anche per motivi non inerenti alla nostra volontà avevamo perduto l'iniziativa. Il fatto che sia stata ripresa con questa Conferenza di Palermo credo che debba essere comunemente giudicata una questione positiva, però non basta. Non basta nel senso che qui dobbiamo fare lo sforzo successivo. L'attività multilaterale prosegue, le Nazioni Unite si stanno adoperando, come è stato anche annunciato a Palermo, per un seguito che si dovrà tenere in Libia, perché è giusto che queste conferenze si tengano nei Paesi oggetto dei problemi.
  Abbiamo visto per vent'anni la comunità internazionale occuparsi della Somalia dal Kenya o da Paesi limitrofi, dove c'era tutto uno spostare gli attori del Paese in altri contesti giudicati sicuri. È giusto avere i piedi in Libia, nella sabbia, i piedi, non gli scarponi, ma i piedi sì. L'Italia, però, a questo punto deve far seguire le sue azioni unilaterali, o comunque le sue azioni nazionali, a una capacità di influenzare i grandi processi multilaterali, in particolar modo in questo caso quello che sta avvenendo all'interno del sistema delle Nazioni Unite.
  Non dobbiamo ritenerlo un dossier chiuso, ma come un dossier che abbiamo appena aperto, e adesso dobbiamo avere la forza di seguirlo, in un momento estremamente complicato, perché la Conferenza di Palermo è avvenuta dopo un periodo di riaperta ostilità e conflittualità, specialmente a Tripoli. Credo che la riapertura Pag. 7della sede diplomatica italiana e l'invio dell'ambasciatore rappresenti una priorità se vogliamo che il nostro supporto a questa Conferenza sia determinante, come è giusto che sia. Su questo tema penso che si potrebbe continuare a dire tante cose, ma mi fermo qui soltanto per dare il mio messaggio che va mantenuta altissima l'attività.
  Vorrei fare un'ulteriore riflessione, ma non aprendo il grande dossier della sicurezza migratoria, molto complesso. Tra parentesi, ritengo che la sicurezza migratoria sia un concetto molto importante, perché mette insieme la human security e la sicurezza degli Stati. Personalmente giudico questa la grande sfida, come far sì che le due sicurezze siano entrambe perseguite evitando che l'una sia perseguita a scapito dell'altra, cioè che possiamo perseguire la sicurezza dei nostri Stati e delle nostre frontiere a discapito della sicurezza umana o perseguire la sicurezza umana a discapito della sicurezza interna degli Stati europei.
  Vorrei parlare della questione della European Border and Coast Guard Agency, cioè di questo progetto di costruire una forza di polizia europea. A quello che so io, se ne sta ancora discutendo. È un importante fattore, perché si parla di una struttura di oltre 10 mila persone, con un mandato esecutivo, quindi con la capacità di controllare i confini ed esercitare respingimenti e ingressi dentro le frontiere europee, con un'attività di procurement aeronavale e terrestre programmata molto importante.
  È un progetto in fieri, quindi è importante averne una visione. Io ritengo che possa essere uno strumento fondamentale se utilizzato come proiezione dell'Unione europea. Io lo vedo come lo strumento della cosiddetta CSDP (Common Security and Defence Policy), cioè della politica estera e di sicurezza europea, cosiddetto «ramo civile». Le azioni dell'Unione europea, infatti, possono essere di tipo civile o militare. In questo caso, sarebbe una missione di carattere civile in quanto forza di polizia.
  Se così costruita, con assetti importanti, deve fare anche seguito una capacità di proiezione dove vi sono deficit dei Paesi sia da un punto di vista di standard umanitari, ma anche da un punto di vista proprio di capacità di controllo dei confini o volontà di controllo dei confini. Allora, potrebbe avere un senso e sarebbe di supporto a quello che già gli Stati membri fanno. La vedrei con maggiori riserve o criticità se dovesse essere un surrogato o addirittura entrare in conflitto con le forze di polizia o con le forze di controllo dei confini degli Stati membri, perché credo che siano delle forme di duplicazione, o addirittura di confusione su chi ha la responsabilità di queste forme di controllo.
  Tema simile, che ritengo opportuno solamente segnalare, spostandoci dalla sicurezza migratoria alla sicurezza marittima, è quello di EUNAVFOR MED, Sophia, la missione militare delle Marine europee nel Mediterraneo, che ha una sua storia, un suo percorso. Adesso, trovo davvero paradossale che il rinnovo di questa missione sia bloccato su una questione che io giudico importante, cioè la questione dei posti di sbarco, dei luoghi ove sbarcare le persone che eventualmente vengono salvate dalla missione.
  Lo giudico importante perché erano stati fatti degli accordi quando questa missione è partita. Probabilmente, si avverte la necessità, e io penso che sia corretto, di rivedere quegli accordi per la mutata condizione, ma ci troviamo di fronte a un'indisponibilità praticamente totale dei Paesi dell'Unione europea anche ad accettare formule di compromesso realistico, come la rotazione dei porti di sbarco. Tutto sommato, non è una questione fuori dal mondo, dal momento che un Paese come l'Italia ha sopportato un peso enorme nella gestione di questo fenomeno e dei problemi connessi. Credo che solo EUNAVFOR MED abbia salvato oltre 50 mila persone nel Mediterraneo.
  Nel momento in cui viene chiesta una rotazione dei porti di sbarco, rivedendo le regole di questa missione, vedersi chiuse tante porte e vedere un'Europa che dice no su questa richiesta, mi fa ragionare non tanto sulla questione migratoria, quanto sul fatto che l'Unione europea non abbia una politica di sicurezza nel Mediterraneo. Pag. 8
  Ricordiamoci che EUNAVFOR MED non è una missione di salvataggio, non è una missione di search and rescue. Nel mandato, questi salvataggi sono stati fatti perché è un obbligo morale, perché c'era una vicinanza operativa a un teatro di crisi, ma nessuno dei tre punti del mandato di EUNAVFOR MED – l'ultimo, il quarto, è la chiusura della missione – prevede queste attività.
  Allora, nel vedere che una missione di CSDP europea viene chiusa perché non c'è un accordo sulla questione dei porti di sbarco, che non è una questione relativa al mandato, io capisco che all'Unione europea interessa solo la sensibilità sulle eventuali ricadute interne dei possibili salvataggi che avvengono in mare, quando invece EUNAVFOR MED è una missione di controllo, di intelligence, di contrasto al traffico di armi, di contrasto al contrabbando di petrolio della Libia, anche di assistenza tecnica alla Guardia costiera libica.
  Perdere il core business di questa funzione perché manca un accordo accessorio su qualcosa che è fuori dal mandato, lo trovo paradossale, ma è un segnale di allarme che purtroppo anche in questa circostanza l'Italia in qualche modo è lasciata sola con i suoi problemi nel Mediterraneo.
  Su questo mi avvio alla conclusione. Le cose che ho detto sono frutto di analisi, di mie valutazioni, anche attente, ma sicuramente deformate dalla mia chiave di lettura degli eventi. C'è un tema che, però, giudico invece trasversale, e l'Italia su questo non dovrebbe avere divisioni, soprattutto tra le forze politiche: quello del gap che esiste tra le sfide e le minacce nella regione del Mediterraneo e gli strumenti messi a disposizione del sistema Italia per affrontarle.
  A mano a mano che il Mediterraneo involveva, si destrutturava, che i problemi crescevano, che aumentavano gli Stati falliti o in procinto di fallire, anziché assistere a un approccio contrario, ovvero aumentare gli sforzi, come hanno fatto molti altri Paesi, noi abbiamo avuto invece un processo di rattrappimento, cioè di riduzione anche delle risorse della nostra azione internazionale, con un gap davvero singolare per un Paese come l'Italia, così esposto a tutta l'instabilità che si può produrre nel Mediterraneo.
  Si possono utilizzare vari metodi per misurare questa mancanza di strumenti, il gap tra minacce, sfide, risorse che mettiamo in gioco e anche il livello dalla nostra ambizione, che a volte schizza all'estremo quando non riusciamo a dar seguito con le risorse che mettiamo in gioco. Io ne ho usato uno per fare una cosa un po’ più semplice, ovvero guardare la nostra rete diplomatica, che noi mandiamo in giro per il Mediterraneo a rappresentare gli interessi dell'Italia.
  Parliamo di un'area grande, di un'area complessa. Parlando della sponda sud, dal Marocco alla Turchia, parliamo di nove Paesi. Guardando un po’ gli annuari, i vari dati disponibili, ho visto che abbiamo meno di cinquanta diplomatici in tutta la regione, incluse le questioni consolari, inclusa l'assistenza alle imprese, incluse le questioni migratorie, incluse le missioni, inclusa ogni cosa che un diplomatico può fare, dalle visite di Stato ad altro. Cinquanta diplomatici per nove Paesi vuol dire circa cinque per ogni Paese.
  Se vogliamo usare l'Europa come benchmark, guardiamo che cosa fanno gli altri Paesi, e qui troviamo dei dati allarmanti. Per fare un raffronto, ho preso un singolo Paese, l'Egitto, perché è uno dei Paesi in cui l'Italia ha una maggiore presenza del corpus diplomatico. Il primo è la Turchia, che ha un ruolo particolare. Dei Paesi arabi del Mediterraneo, l'Egitto è quello in cui abbiamo una maggiore presenza. La nostra maggior presenza è fatta di sette diplomatici. In Egitto, la Germania ne ha ventuno, la Gran Bretagna ne ha diciotto, la Francia ne ha sedici; anche la Spagna ne ha più di noi, nove.
  Questo non è un dato sul Mediterraneo. È un dato che esiste per tutte le nostre sedi diplomatiche all'estero. Più o meno, come presenza diplomatica, ormai siamo arrivati al livello dell'Olanda, che però sta aumentando le proprie risorse da dare alla rete. Io non so come e quando sia avvenuto questo rattrappimento della nostra rete diplomatica, ma sicuramente non è opportuno Pag. 9 in questo momento se vogliamo, come credo dobbiamo, avere un ruolo importante nel Mediterraneo.
  Il discorso può essere allargato alla cooperazione, anche se è un terreno molto più complesso. Comunque, come dato, come informazione, è importante tenere presente che circa il 20 per cento delle risorse della cooperazione allo sviluppo, dell'APS viene speso nel Mediterraneo. Ci saranno sicuramente degli ottimi motivi in altre parti del mondo che spiegano questo differenziale, ma probabilmente questo 20-25 per cento, a seconda dei metodi di calcolo che si usano, in alcuni casi potrebbe essere rivisto, soprattutto in funzione di alcune partite importanti che abbiamo nella regione, soprattutto legate al salvataggio della capacità statuale di alcuni attori della regione.
  Concludo non con una nota di pessimismo, ma vorrei dire con una nota di realismo. Credo che l'Italia debba partire essendo un po’ più pessimista della realtà, cioè facendo finta che non abbiamo alleati. Siamo soli nel Mediterraneo, in un Mediterraneo pieno di problemi, e immaginiamo per qualche motivo che non abbiamo alleati che ci aiutano. Io penso che sia la migliore situazione di partenza.
  Poi scopriremo che così non è, che gli alleati ci sono, che l'Unione europea ha un ruolo, che la NATO ha un ruolo, che le Nazioni Unite hanno un ruolo, ma sapremo tanto più sfruttarli a livello multilaterale quando avremo chiaro come si muovono e come sono composti i nostri interessi della regione. Purtroppo, dobbiamo farlo un po’ anche pionieristicamente. L'assenza d'azione delle nostre grandi alleanze di riferimento è evidente in Libia, in Siria, nel sostegno che manca ai Paesi indeboliti della sponda nord del Mediterraneo.
  Qui dobbiamo anche capire che spesso queste alleanze, come l'Unione europea e la NATO, i due principali cerchi della politica estera italiana, hanno anche delle loro logiche di funzionamento e un proprio ciclo di vita, che si riferivano a quel mondo che menzionavo prima e che probabilmente non c'è più. Anche le loro regole di entrare nelle crisi e di avere un proprio ruolo, quindi, può essere magari corretto. Quanto meno, però, finché i processi trasformativi di queste organizzazioni non avranno raggiunto un punto sufficiente, dobbiamo immaginare di saperci muovere anche da soli.
  Anche da soli non vuol dire perseguire un obiettivo di unilateralismo o addirittura di nazionalismo. È molto più banale: vuol dire avere coraggio. Avere coraggio vuol dire, quando anche altri non lo fanno, essere noi i primi ad affrontare le principali situazioni di criticità del Mediterraneo, soprattutto dove sono in ballo nostri interessi strategici, e non con l'obiettivo di fare una politica che non sia coordinata, che sia antieuropea o dissonante con quello che i nostri alleati ritengono giusto fare o non fare, ma piuttosto con l'obiettivo di prendere la guida di quelle organizzazioni dove siamo in grado, per visione, per storia, per civiltà, di esercitare un ruolo di leadership. Ricordiamo che noi siamo una civiltà mediterranea, ma non tutti i nostri alleati lo sono.
  Io credo che questo sia il modo corretto di vedere il ruolo dell'Italia nel Mediterraneo, anche in un Mediterraneo di crisi. Vorrei dire anche di più, e ho concluso: è necessario per l'Italia avere una chiara visione di che cosa fare e come muoversi nel Mediterraneo perché l'Italia conta in Europa se conta nel Mediterraneo. Questo è anche il modo per l'Italia di avere più voce in Europa. Probabilmente, se perdiamo la sfida del Mediterraneo, perdiamo anche la possibilità di contare in Europa. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie. Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  LAURA BOLDRINI. La ringrazio, professor Quercia, è stato molto interessante. Devo dire che, quando le audizioni vengono fatte con figure che hanno contezza e hanno una formazione sul tema, diventa molto interessante stare qui ad ascoltare e magari anche a imparare.
  Lei ci ha prospettato diverse situazioni, ci ha fatto un'analisi di come questa statualità dei nostri partner mediterranei con Pag. 10le varie primavere arabe sia venuta meno, in quanto si passava da una condizione di democrazie incompiute, zoppe, sicuramente condizioni in cui per decenni la stessa persona comandava con la forza, a situazioni in cui è mancato il decollo di una vera e propria democrazia. Dunque un'incompiutezza che pesa sulla stabilità di questi Paesi, ma anche su quella del Mediterraneo, ergo anche sulla nostra.
  Concordo con lei, quindi, quando dice che l'Italia dovrebbe essere attore primario. Se l'Italia riesce a giocare un ruolo primario nella geopolitica mediterranea, può contare anche in Europa.
  Lei ci invitava a fare questa simulazione, come se fossimo da soli. Caro professore, io temo che noi siamo da soli, e questo mi preoccupa assai. Veda, siamo da soli in quanto i nostri rapporti consolidati dal punto di vista storico stanno venendo meno all'interno dell'Unione europea. I nostri alleati storici non sono più quelli di oggi. Oggi, l'asse geopolitico si è spostato sul gruppo di Visegrád, e questo a detrimento dei normali e consolidati rapporti con altre potenze, come la Francia, per citarne una, e la Germania. All'interno dell'Unione, quindi, ci stiamo trovando spiazzati perché posizionati su un asse che naturalmente, storicamente e geograficamente non può essere il nostro, cioè quello dei Balcani e quello della rotta a est, dove non si consumano i nostri interessi. Sì, ci può interessare capire che cosa succede, ma il Paese non ne guadagna.
  In quel gioco di finzione che Lei suggeriva, siamo soli anche dal punto di vista del nostro ruolo multilaterale. Oggi, ci troviamo di fronte a un assetto per cui il multilaterale viene, se possibile, sminuito, snobbato, e non vengono destinate adeguate risorse al multilaterale.
  Potrei dire che stamane abbiamo parlato del decreto fiscale, dove ci sono riduzioni ai contributi alle Nazioni Unite, che è il forum principe nel multilaterale, da cui emanano poi le varie declinazioni del multilaterale, da quello umanitario a quello dello sviluppo.
  Ora ci siamo trovati anche di fronte a un altro colpo di scena, qui alla Camera: sulla base di un emendamento sul Global Compact for Migration, abbiamo appreso che, nonostante le rassicurazioni del Presidente del Consiglio, date a New York al Segretario Generale Guterres, l'Italia non trovava interessante partecipare al Migration Compact.
  Ora, il Migration Compact è un forum, di nuovo, dove a livello globale si cerca di affermare cose già consolidate. Si parlerà dell'impegno globale contro la xenofobia, di lotta alla tratta, che è una delle piaghe della nostra società. Il trafficking è una delle condizioni peggiori per l'essere umano. Chi può non essere d'accordo? Si tratterà di ribadire l'importanza di coordinare gli aiuti umanitari in caso di crisi umanitaria. Chi può non essere d'accordo? E così via.
  Il nostro Governo ritiene che non sia utile andare in un forum internazionale in cui si parla del tema dei temi, quello della migrazione, che, come lei dice, ha anche interconnessioni con la sicurezza. Che cosa spinge un esecutivo oggi a tirarsi fuori da un confronto di questo genere, laddove il Paese vive questa questione in modo determinante?
  Lei mi parlava dell'Agenzia per la Guardia costiera. Professore, io ho lavorato molti anni in questo ambito, e ho visto, quando lavoravo in Grecia, le tensioni che c'erano tra la polizia locale greca e Frontex, che ha competenze molto simili a quelle che Lei definiva per la Guardia costiera. L'UNHCR doveva intervenire per mediare le tensioni che si creavano, perché sono due modi diversi, perché il polacco di Frontex, che non conosce la realtà della zona di Evros, usa una metodologia che a Evros, in quella provincia, in quella periferia, come si dice in greco, non va bene. Attenzione, quindi, perché rischiamo di fare layers di sovrapposizione che poi hanno come conseguenza l'eterogenesi dei fini.
  Bisognerebbe chiarire, dunque, le funzioni di Frontex rispetto a quelle dell'Agenzia della Guardia costiera. Lei mi insegna che Frontex oggi agisce in mare così come in situazioni di frontiera terrestre, come nell'esempio della frontiera tra la Grecia e la Turchia dove io stessa ho lavorato, Pag. 11 e ho visto come Frontex si interfaccia con le autorità locale.
  EUNAVFOR MED – lo dice Lei, e io non posso che ribadirlo – nasce con l'idea di fare un contrasto capillare al traffico di armi, di petrolio, ma anche di reperti archeologici, di tutto quello che è illegale. È noto che dalla Siria molto petrolio usciva quando non doveva uscire e molti reperti archeologici uscivano quando non dovevano uscire. EUNAVFOR MED nasce da un'altra esigenza, il soccorso in mare era accidentale, non era nata per questo. È evidente che, se c'era bisogno di intervenire, la legge del mare e l'Organizzazione marittima internazionale, che Lei conosce, impongono il soccorso in mare, ma quella era una concausa della presenza marittima.
  Concludo dicendo che proprio stamane abbiamo parlato di quanto insipiente sia il taglio alle risorse del nostro corpo diplomatico all'estero. Avendo lavorato venticinque anni in tanti posti, ho visto quanto gli italiani tengano alla loro presenza nel Paese, una presenza autorevole del corpo diplomatico, capace di essere biglietto da visita del Paese stesso, quanto la lingua e la cultura italiane siano ambite.
  Trovare in questo decreto fiscale tagli a questa parte, che riguarda appunto il biglietto da visita del nostro Paese, a me è sembrato molto miope e molto poco in linea con questa retorica dell'italianità che ultimamente si sente. Di fatto, questa retorica implica anche uno stanziamento di risorse tali da poter portare avanti la grandezza della nostra cultura, che c'è, che io riconosco, ma in questo caso invece il taglio non lo consentirà.
  La ringrazio per quanto ci ha detto. Spero che questa sia un'occasione per noi di riflettere ulteriormente. La nostra presenza nel Mediterraneo non può essere demandata a nessuno. L'idea che non giochiamo più una partita politica a livello internazionale perché bisogna solo pensare a starsene chiusi nel nostro guscio, è di nuovo l'idea di un'Italia che ha paura, che è dimissionaria e che non ha ambizioni, un'idea che io detesto. La ringrazio, professore.

  EUGENIO ZÓFFILI. Grazie, presidente. Per suo tramite, vorrei ringraziarLa per la sua relazione e per l'esposizione e salutarLa anche in qualità di presidente del Comitato Schengen, Europol e controllo dell'immigrazione. Proprio stamattina, abbiamo avuto un'audizione con il Ministro dell'interno. Purtroppo, mi sono perso la prima parte del suo intervento, che riascolterò e rileggerò. Sono entrato proprio quando parlava di polizie europee e vorrei informare anche il presidente della Commissione e i colleghi che proprio con il Comitato Schengen saremo in missione a visitare la sede di Europol e a incontrare i dirigenti di Europol tra pochi giorni.
  Vorrei dire anche alla Commissione che spero di portare in quest'ambito un contributo utile grazie a quello che andrò a conoscere e a vedere da vicino. Proprio per mia volontà, appena eletto, mi sono detto che voglio conoscere Europol da vicino e non solo leggerla dal sito internet o dai rapporti che ci trasmettono e che metto a disposizione, così da poter avere una visione più chiara su quanto esposto sulla polizia europea o altro.
  Quanto alle altre questioni, anche rispetto all'ultimo intervento dell'onorevole Boldrini, rimando al mio capogruppo, in particolare su Sophia, su cui stamattina il Ministro dell'interno ha rilasciato delle dichiarazioni importanti. Grazie.

  PAOLO FORMENTINI. Come ha detto il presidente del Comitato Schengen Zóffili, il tema sollevato stamattina dal Ministro Salvini è chiarissimo. Ha ribadito con forza che l'Italia non parteciperà più a EUNAVFOR MED se non verranno ridiscusse le condizioni. Sono mesi che lo stiamo dicendo, che lo stiamo chiedendo a gran voce. L'Italia non può essere l'unico porto di sbarco delle persone soccorse. Gli interlocutori sembrano essere sordi, e quindi questa è stata la dichiarazione di questa mattina del nostro ministro, che condividiamo pienamente.
  Oggi questo tema del Mediterraneo, attualissimo nelle ultime settimane, è ancora più attuale: è delle ultime ore l'agenzia che annuncia per domattina un incontro tra il premier Conte e il generale Haftar proprio Pag. 12sulla Libia, questo a conferma della centralità dell'azione dell'Italia, del nostro Governo, oggi nel Mediterraneo.
  Certo, si è detto del rischio di essere isolati, ma questo rischio è ben presente e purtroppo è qualcosa che è già accaduto nel passato. Oggi si sta cercando di porre rimedio, a mio modo di vedere, con nuove alleanze, nuovi partner. Non saranno sfuggiti i viaggi del Ministro Salvini in diversi Stati africani proprio per intessere una rete di relazioni che porti anche a gestire insieme la migrazione, i rimpatri, ma anche a far sì – lo ribadiamo sempre – che si riesca a non far partire queste persone, costrette magari per vari motivi a partire.
  L'onorevole Boldrini citava i normali e consolidati rapporti che si vanno rompendo e portava l'esempio della Francia. Proprio la Francia – lo abbiamo visto in tempi recenti, alla Conferenza di Palermo, che anch'io ritengo essere stata un successo – non si può dire che abbia collaborato attivamente, e si veda il caso di Ventimiglia, ma la stessa gestione della vicenda libica con il nostro Paese. Si fa di necessità virtù.
  Quanto alla poca presenza diplomatica, è una preoccupazione secondo noi giustissima, sollevata da più diplomatici anche in occasione del viaggio alle Nazioni Unite che abbiamo fatto come Commissione esteri a settembre, laddove gli stessi diplomatici italiani ci hanno detto che, ad esempio nel Corno d'Africa – zona di tradizionale presenza, che ha tanti riflessi sull'area mediterranea – c'è una scarsa presenza, che andrà incrementata, mentre altri attori, ed è il caso della Cina, stanno invece investendo massicciamente sulla propria presenza sia economica sia diplomatica.
  Forse non si è toccato fino in fondo il tema del legame tra migrazioni e terrorismo, tema a noi molto caro, al quale abbiamo accennato anche prima, quando si parlava di rimesse degli immigrati, della tassazione, ma con particolare riguardo al fatto che tramite queste rimesse spesso transitano dei flussi di denaro che vanno proprio ad alimentare il terrorismo. Grazie.

  YANA CHIARA EHM. Ringrazio il relatore, signor Quercia, di essere oggi qua a riferirci su una tematica non solo importante, ma estremamente centrale oggi. Ringrazio anche i miei colleghi per aver integrato con alcuni appunti secondo me importanti ed estremamente attuali.
  Vorrei fare due appunti proprio sui punti chiave che lei ha citato alla fine, ribadendo anch'io l'importanza strategica della Conferenza di Palermo sulla questione Libia.
  Il mio collega Formentini ha appena citato la presenza, domani, del generale Haftar. Effettivamente, insieme all'incontro di domani con il nostro premier Conte, questo fa sì che questa Conferenza non solo sia stata un successo, ma anche un primo passo concreto per portare avanti degli obiettivi che ci siamo prefissati proprio nel Mediterraneo.
  Credo anche che la questione EUNAVFOR MED sia importante. Sinceramente, lì vorrei riallacciarmi alla questione europea. Noi stiamo da mesi battendoci contro un'Europa che evidentemente sulla questione è davvero sorda. Che cosa si vuole dire con questo?
  C'è bisogno di una condivisione della tematica stessa. Quando poi ci sono le riunioni, effettivamente si arriva a parole a trovare delle quadre – si vedano i bilaterali con la Francia e con altri Paesi – poi si torna in patria e il giorno dopo è come se non fosse successo assolutamente niente, e ci ritroviamo soli come Italia. Fare degli sforzi, quindi, fare degli step concreti, in cui si chiede un'effettiva transizione dalle parole ai fatti è necessario proprio per condividere concretamente la problematica della questione migratoria, che va affrontata, e non solo rimandata di conferenza in conferenza.
  Anziché chiedere infinitamente l'aumento di fondi per la missione Sophia, senza però in altro modo voler affrontare questa questione, credo non abbia alla fine nessun risvolto. Ricordo che anche il premier Conte qualche mese fa ribadì questa questione e disse che ovviamente EUNAVFOR MED ha una sua importanza strategica se svolta nella sua maniera più concreta, più realistica, non soltanto come facciata. Chiaramente, questo deve essere accompagnato da una cooperazione internazionale Pag. 13 efficiente, altrimenti ci ritroveremo punto e a capo.
  Infine, io faccio parte sia della delegazione parlamentare dell'UPM (Unione per il Mediterraneo), che ha proprio come punto centrale il Mediterraneo, ma anche il Mediterraneo più allargato, cioè tutto il Medio Oriente, il Nord Africa e l'Unione europea, e ci siamo prefissati come Italia di rimettere al centro il Mediterraneo. L'Italia deve tornare a essere un punto centrale, ma anche concreto, di riferimento nel Mediterraneo. Il segretariato dell'UPM sarà a Roma da quest'anno, ci sarà l'inaugurazione nelle prossime settimane.
  Questo è sicuramente un primo passo del fatto che questa nuova maggioranza ha effettivamente a cuore di concretizzare il ritorno dell'Italia a essere un punto di riferimento nel Mediterraneo. C'è un'assoluta attenzione, non soltanto verso le tematiche più ovvie, ma anche verso quelle che portano alla destabilizzazione, e quindi un occhio va anche ai conflitti in Medio Oriente, alla destabilizzazione nei Paesi nordafricani. Anche lì, quindi, c'è un'attenzione non soltanto commerciale, ma anche politica e di risoluzione dei conflitti, che auspichiamo possa avvenire a breve. Grazie.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Io ho una domanda molto breve sulla Conferenza di Palermo.
  Noi abbiamo chiaramente cambiato le alleanze dell'Italia in quell'occasione. Mi sembra evidente anche dalla visita di Haftar di cui diceva anche il collega Formentini. Vorrei una valutazione, anche relativamente alle sue affermazioni di prima, sul perché questo dovrebbe essere un vantaggio per il nostro Paese, considerato che i nostri interessi di sicurezza energetica, i nostri interessi di gestione delle politiche migratorie, i nostri interessi più immediati risiedono in Tripolitania, e oggi noi spostiamo tutto l'equilibrio sulla Cirenaica senza avere un'idea chiara, come emerso da Palermo, su cosa fare del futuro della Libia. Non è stato approvato neanche un documento.
  Vorrei capire perché lei dice che la vicenda di Palermo è tutto sommato favorevole per il nostro interesse nazionale. A me sembra che sia stato uno spostamento di alleanze senza un'idea chiara, e senza un'idea chiara anche dell'interesse nazionale.

  PRESIDENTE. Do ora la parola al professor Quercia per la replica.

  PAOLO QUERCIA, Direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies (CENASS) e docente di studi strategici all'Università di Perugia. Inizio da quest'ultima domanda, che mi sembra molto puntuale.
  Forse, più che un cambiamento di alleanze, io lo vedrei come un allargamento della visione italiana sulla Libia. Noi abbiamo vissuto una fase di estrema sopravvivenza dei nostri interessi in Libia dall'intervento militare. Contro la nostra volontà e anche contro gli accordi internazionali che avevamo firmato con la Libia, abbiamo dovuto giocare a inseguire una situazione che non avevamo né creato né saputo impedire, per cui abbiamo avuto una posizione molto funzionalista. Siamo entrati a mettere in sicurezza alcuni interessi specifici, non con una logica di state building.
  Ci siamo concentrati su due grossi temi, che erano quello degli interessi energetici dell'Italia e quello dei flussi migratori. Ed entrambi andavano nella direzione della Tripolitania. Avere anche la cornice delle Nazioni Unite, nel momento in cui non eravamo in grado, noi o altri, di avere un ruolo diretto in quel Paese, era un buon modo di rimettere insieme i cocci.
  Poi, piano piano, anche per via dell'attivismo francese, si è iniziato a porre il problema dell'elezioni, dell'allargamento, cioè si è rientrati in una visione di state building. A quel punto, è chiaro che lo state building non lo fai solamente a Tripoli, con mezza Tripoli, con alcune vie di Tripoli, dove tra parentesi poi c'è una situazione estremamente confusa, il controllo reale di quell'area è molto frammentato e ci sono attori di altre parti della Libia che giocano a costruire delle teste di ponte in quell'area mettendo in difficoltà le nostre alleanze o i nostri punti di approdo su quel Paese.
  Ritengo che sia stato, quindi, un necessario e funzionale allargamento. Non la Pag. 14vedo una scelta politica. La vedo come una scelta realistica di allargarci agli altri attori del conflitto, ma anche, in questo modo, di consentirci di fare una diplomazia con i Paesi della regione che sostengono gli altri attori, altrimenti diventa difficile rimettere insieme il Paese. Certo, la situazione è tutt'altro che facile, e sicuramente per questo la presenza della nostra rappresentanza diplomatica, il mantenimento dell'ospedale a Misurata e tutto quello che possiamo fare, sia dentro sia con i Paesi limitrofi della Libia, sono fondamentali.
  Rispondo brevissimamente sugli altri temi che avete toccato. Lei parlava del nesso migrazioni e terrorismo, tema enorme, un macigno, che nei pochi minuti di questa replica non mi sento di affrontare con pienezza. Nel volume che abbiamo consegnato alla presidenza, sono ben affrontati tutti gli aspetti di quello che abbiamo definito il «nesso scomodo», cioè il nesso che esiste tra le questioni migratorie e le questioni della sicurezza.
  Lo chiamo «nesso scomodo» perché per molti anni, per fortuna, abbiamo potuto vedere le migrazioni solo come un fenomeno economico-umanitario, economico-sociale, da un punto di vista giuridico. Ci siamo permessi il lusso di trascurare l'aspetto della sicurezza, che poi comprende tanti tipi di sicurezza, incluse quelle che possono essere vicine al terrorismo.
  Purtroppo – questo è un punto che io ribadisco sempre – noi utilizziamo l'espressione «fenomeno migratorio» come se potessimo racchiudere in essa tutti i fenomeni migratori di tutte le epoche. Penso che questa sia una semplificazione che non aiuta a comprendere la realtà del problema. Le migrazioni non sono mai uguali a se stesse, non sono uguali da Paese a Paese. Quelle che facevano gli italiani verso l'estero non sono le stesse di quelle che fanno dall'Africa subsahariana. A oggi, è oggettivo che sia così.
  Quello che io sostengo è che le migrazioni possono essere sicure o insicure, sia per gli uomini che le fanno sia per gli Stati che vengono attraversati, a seconda del contesto in cui esse avvengono. Purtroppo, il contesto in cui stanno avvenendo dal 2011 in poi, è probabilmente uno dei peggiori da un punto vista della sicurezza internazionale. Non è, quindi, il migrante di per sé a rappresentare una minaccia. Sono il contesto sociale e delle relazioni internazionali che esso attraversa, i meccanismi di criminalità, il fatto che attraversano Paesi controllati dallo Stato Islamico e che le revenue dei traffici possono finire anche nello Stato Islamico o in movimenti jihadisti, a poter rendere le migrazioni insicure o pericolose anche da un punto di vista del terrorismo.
  Comunque, senza entrare nell'argomento, ritengo che la connessione esista, ma sia di natura indiretta e non passi per un rapporto diretto migrazione/terrorismo, ma attraverso la criminalità. Il discorso è più complesso: è migrazione/criminalità, e dalla criminalità si passa al terrorismo. Per questo, avere migrazioni ordinate nel tempo e nella qualità è un punto molto importante. Quello che è avvenuto negli ultimi anni è totalmente l'opposto, è uno dei fenomeni più disordinati che si siano conosciuti.
  Per quanto riguarda la citazione sul Global Compact, ovviamente sono scelte molto politiche, che attengono alle decisioni del Governo. Da un punto di vista più generale, non so come sia stato negoziato, se questo Governo ritenga utile o meno aderire a quest'accordo, ma io penso che sia sempre buona cosa essere dentro gli accordi e modificarli, finché è possibile, nei termini in cui è possibile, anche esprimendo le proprie eccezioni a un determinato accordo. Ogni accordo, infatti, può avere anche dei modi per cui si può star dentro facendo salvi alcuni princìpi o estromettendo alcune situazioni.
  Il livello multilaterale è ricco di sfumature. Su questo mi riallaccio all'altro tema, richiamato dall'onorevole Boldrini. Non c'è necessariamente una contrapposizione tra interesse nazionale e multilaterale. Io posso avere una chiara visione dell'interesse nazionale e, quando ne ho i mezzi, sono in grado di farlo affermare in una sede multilaterale. Ovviamente, è più difficile che rispetto al bilaterale. Questo penso possa valere in generale per ogni accordo nell'ambito delle Nazioni unite. Pag. 15
  Non entro, poi, nel merito, ma devo dire che io vedo delle criticità e ho delle riserve su quest'accordo, per esempio sull'aspetto globale. Proprio perché secondo me le migrazioni non sono uguali a se stesse, non sono uguali nel tempo, non sono uguali nello spazio, penso che riuscire a porre dei princìpi generali, ma anche solo valoriali, cui ispirarsi per i fenomeni migratori, sia forse un esercizio di principio, ma poco concreto, poco realistico.
  Noi abbiamo bisogno di rapporti diretti e di accordi con singoli Paesi o, tutt'al più, abbiamo bisogno di compact regionali, nell'ambito del Mediterraneo, perché sono quelle le aree con cui dobbiamo trovare il modo con cui gestiamo le migrazioni, con i Paesi contermini. È diverso, purtroppo, il modo in cui lo gestiamo con Paesi con cui abbiamo molti meno affari in comune e che non fanno parte del nostro vicinato. Anche su questo dobbiamo poter discriminare.
  Questa è una mia posizione molto specifica rispetto all'universalità della visione dei diritti. Anche relativamente al caso della nave Diciotti che si è verificato quest'estate, qualche mese fa, lasciando stare il caso concreto di mancato coordinamento che vi è stato, un tema non è stato preso in considerazione: la nazionalità di queste persone. Secondo me, il fatto che fossero dell'Eritrea aveva un valore particolare rispetto a se fossero state persone che provenivano da un'altra area geografica. Io ritengo che un Paese abbia anche il diritto di creare dei canali privilegiati per motivi umanitari, per motivi politici, strategici, storici, e ha anche poi la possibilità di chiuderne altri, altrimenti non c'è privilegio se c'è una visione globale. Penso, quindi, che la debolezza di quell'accordo sia di volerlo fare su una portata così ampia.
  Infine, per quanto riguarda il discorso delle risorse, mi rendo conto che siamo in una fase di rattrappimento delle risorse, che si sta risparmiando su tutto, però ricordiamoci che l'Italia è ancora un Paese ricco, tra le prime dieci economie del pianeta, che anche soltanto il sostegno alle PMI italiane è molto più faticoso per le nostre rappresentanze all'estero di quello che devono dare le ambasciate della Germania o della Francia, che hanno a che fare con attori molto più corposi da un punto di vista economico e di mezzi, per cui forse il supporto dello Stato è addirittura superfluo. Teniamo presente che il nostro Paese, per la numerosità degli italiani all'estero e la piccolezza delle imprese, ha un bisogno molto più ampio di assistenza capillare.
  Questo non vuol dire necessariamente, però, dare più soldi alle singole strutture. Non bisogna dare risorse funzionali. Le risorse vanno aumentate complessivamente in una strategia di azione internazionale. Le nostre tecnostrutture spesso chiedono pro domo sua le risorse e non per raggiungere degli obiettivi comuni, ma semplicemente per garantirsi l'autosussistenza. Dobbiamo stare attenti a questa trappola.
  Le risorse vanno aumentate a patto che ci sia una strategia, non dico neanche di politica estera, ma dell'azione internazionale dell'Italia, che è composta da tante componenti, pubblica e privata, di politica estera, di politica militare, di cooperazioni justice and home affairs, di cooperazioni allo sviluppo, di terzo settore, di ong e così via. È quest'azione complessivamente, la sommatoria di tutti questi rami che deve avere un aumento. Questo vuol dire fare dei passaggi di cabina di regia o di elaborazione di strategie molto comprensive degli interessi del Paese.
  Credo che su questo il lavoro da fare non sia soltanto di trovare gli «spicci» e buttarli su una singola struttura, magari a discapito di un'altra che comunque un lavoro lo fa, senza dimenticare, e concludo, che ci sono tante risorse nell'Unione europea. Anche quelle possono essere utilizzate e – passatemi l'espressione – messe a sistema, strumentalizzate per i nostri obiettivi di politica estera, di azione internazionale.
  Adesso, si chiude una Commissione europea, se ne apre un'altra, ci sono in ballo risorse molto importanti sulla cooperazione, sulla politica estera, sull'azione internazionale. Come l'Italia sta giocando per fare l’earmarking di queste risorse sarà fondamentale, perché sono dei moltiplicatori Pag. 16 enormi delle nostre capacità. In questo si vede un Paese che ha una strategia e che si coordina anche a livello multilaterale per reperire le risorse, ove ci sono.

  PRESIDENTE. La ringrazio per quest'utilissima audizione. Faremo buon uso del suo libro. La ringrazio.

  PAOLO QUERCIA, Direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies (CENASS) e docente di studi strategici all'Università di Perugia. Grazie. Comunque, vi manderò un estratto più articolato del mio intervento.

  PRESIDENTE. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.15.