XVIII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 7 di Giovedì 23 luglio 2020

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Fassino Piero , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE EVENTUALI INTERFERENZE STRANIERE SUL SISTEMA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI DELLA REPUBBLICA ITALIANA

Audizione di Stefano Graziosi, analista politico presso La Verità .
Fassino Piero , Presidente ... 3 
Graziosi Stefano , analista politico presso ... 3 
Fassino Piero , Presidente ... 8 
Bianchi Matteo Luigi (LEGA)  ... 8 
Comencini Vito (LEGA)  ... 9 
Formentini Paolo (LEGA)  ... 9 
Fassino Piero , Presidente ... 10 
Graziosi Stefano , analista politico presso ... 10 
Fassino Piero , Presidente ... 12

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Partito Democratico: PD;
Fratelli d'Italia: FdI;
Italia Viva: IV;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Noi con l'Italia-USEI-Cambiamo!-Alleanza di Centro: Misto-NI-USEI-C!-AC;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Centro Democratico-Radicali Italiani-+Europa: Misto-CD-RI-+E;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE;
Misto-Popolo Protagonista - Alternativa Popolare: Misto-PP-AP.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
PIERO FASSINO

  La seduta comincia alle 8.35.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di Stefano Graziosi, analista politico presso La Verità .

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle eventuali interferenze straniere sul sistema delle relazioni internazionali della Repubblica Italiana, l'audizione di Stefano Graziosi, analista politico e giornalista presso varie testate, tra cui La Verità. A nome della Commissione do naturalmente il benvenuto al dottor Graziosi e lo ringrazio per la disponibilità. Oltre a collaborare con La Verità, collabora con Panorama, Affari internazionali, Studi Cattolici, Lettera43, Formiche.net e Gli Stati Generali. Si occupa di politica internazionale, soprattutto statunitense. Svolge, inoltre, attività di docenza presso la Fondazione Rui. Nel 2016 ha seguito le primarie americane presso la redazione newyorkese di America 24 e anche a seguito di questa esperienza ha pubblicato il saggio Apocalypse Trump, un Presidente americano tra Mao e Andreotti, in cui cerca di analizzare la natura politica dell'attuale Presidente degli Stati Uniti, individuando i seguenti elementi decisivi che gli hanno consentito di conquistare la Casa Bianca: abbattimento del sistema, movimentismo, disintermediazione con gli elettori, difesa della maggioranza silenziosa e della classe operaia.
  Secondo l'autore, da una parte, Trump ha continuato a mantenere la sua linea movimentista, con una strategia che, nonostante un certo dilettantismo, sembra comunque richiamare alcune caratteristiche della rivoluzione culturale; dall'altra, oscillando diplomaticamente tra le varie correnti in seno al Partito Repubblicano, si è rivolto a un modello «andreottiano» della politica dei due forni, aprendo anche, quando necessario, ai nemici democratici.
  Do la parola al dottor Graziosi affinché svolga il Suo intervento.

  STEFANO GRAZIOSI, analista politico presso La Verità. Grazie mille. Grazie per questo invito. Io oggi mi concentrerei sul «Russiagate» americano, la mia esposizione è relativa a questo argomento e cercherà di affrontarlo sotto tre angolazioni: le conseguenze che quell'inchiesta ha avuto e sta continuando ad avere nella politica americana, soprattutto in vista delle presidenziali del prossimo novembre; in secondo luogo, quali sono i punti di contatto con il nostro Paese, quindi con l'Italia e nella fattispecie che cosa potremmo, in caso, aspettarci per il futuro; in terzo luogo, cercare di inquadrare la questione del «Russiagate» americano nel più completo quadro della triangolazione geopolitica tra Stati Uniti, Russia e Cina, con un occhio, infine, anche all'Alleanza atlantica.
  Come tutti sapete il «Russiagate» ha rappresentato un'autentica spada di Damocle per l'attuale Presidente americano, soprattutto nel corso dei primi due anni del suo mandato presidenziale. È stata una questione che ha incrementato una forte polarizzazione nell'ambito sia politico sia Pag. 4mediatico negli Stati Uniti. È soprattutto una questione, un'inchiesta, che ha presentato varie fasi e varie articolazioni. Tutto ebbe inizio nell'agosto del 2016, quando l'FBI aprì una prima inchiesta sul comitato elettorale di Trump, la cosiddetta «Crossfire Hurricane», il suo nome in codice. Poi questa inchiesta è andata avanti nei mesi successivi, fino al maggio del 2017, quando Donald arriva ai ferri corti con l'allora direttore dell'FBI James Comey, lo licenzia e nel giro di pochi giorni, nello stesso maggio 2017 l'allora Viceministro della Giustizia americano, Rod Rosenstein, nomina Robert Mueller come Procuratore speciale proprio per il caso «Russiagate». Robert Mueller era ex direttore dell'FBI ai tempi di George Walker Bush. L'inchiesta di Mueller specificamente dura quasi due anni, dal maggio 2017 al marzo 2019. Nel marzo 2019 Mueller consegna il suo rapporto – un poderoso rapporto di quasi 450 pagine, articolato in due volumi – al Ministro della giustizia William Barr e il mese successivo, ad aprile 2019, questo rapporto viene reso pubblico nella sua quasi totalità.
  Quali sono state le conclusioni del rapporto Mueller? Schematicamente, le sue conclusioni possono essere divise in due categorie: conclusioni di carattere generale e conclusioni specifiche inerenti alla figura del presidente Trump. A livello generale, Mueller ha stabilito che c'è stata un'interferenza russa nell'ambito della campagna elettorale americana del 2016 e afferma che sarebbe avvenuta su due canali complementari: da una parte, una seria attività di propaganda sui social network, soprattutto Twitter e, dall'altra, la spinosa questione di Wikileaks, che nel corso della campagna elettorale di allora, organizzata in due tornate – una in estate e una in autunno – diffuse una serie di materiali riservati del comitato nazionale del Partito Democratico americano. Suscitò un certo scandalo soprattutto in luglio 2016, perché da quel materiale riservato emerse che il comitato nazionale alle primarie democratiche di quell'anno aveva avuto, almeno in una sua parte, un occhio di riguardo per Hillary Clinton contro il suo avversario di allora, che era il senatore del Vermont Bernie Sanders. Mueller sostiene che quel materiale venne hackerato dai russi e che questi lo consegnarono a Wikileaks. Queste sono le conclusioni generali.
  A livello specifico, sul Presidente Trump erano due gli addebiti che gli venivano mossi a livello potenziale. In primo luogo, la collusione: per due anni questo termine nel dibattito pubblico americano è stato molto enfatizzato, laddove per «collusione» Mueller intende nel suo rapporto uno sforzo coordinato tra il comitato elettorale di Trump e il Cremlino, uno sforzo che – secondo Mueller – non ci sono le prove per dimostrare. Mueller dice che ci sono stati sicuramente dei contatti tra alcuni esponenti del comitato di Trump e i russi. Ci sono stati, quindi, dei collegamenti – usa il termine «link» –, ma una collusione, uno sforzo coordinato per far arrivare Trump alla Casa Bianca, non c'è stato.
  La seconda conclusione, per quanto riguarda sempre il Presidente americano, riguardava l'accusa di ostruzione alla giustizia. Anche in questo caso Mueller dice che prove irrefutabili non ce ne sono. Lascia aperta una porta e questo poi generò un aspro dibattito negli Stati Uniti per vari mesi, fino al luglio del 2019, perché dice: «Non posso tuttavia scagionare completamente il Presidente.» Usa il termine «exonerate», perché comunque ha reperito una serie di casi – dieci casi – in cui Trump potrebbe aver commesso questa ostruzione alla giustizia.
  Questo spiraglio che aveva lasciato aperto, tuttavia, nel corso dei mesi successivi si è un po' esaurito per una serie di questioni sia tecniche sia politiche: tecnicamente, perché comunque in base a quello che prevede l'ordinamento americano un Procuratore speciale non ha il compito di scagionare, ma di provare al di là di ogni ragionevole dubbio che un'eventuale imputato abbia commesso un reato. Questa prova irrefutabile nel rapporto Mueller, oggettivamente, non c'è. Va anche ricordato che egli ha detto in una conferenza stampa nel maggio 2019: «Io come Procuratore speciale non avrei comunque potuto incriminare un Presidente in carica.» Cosa che in astratto è indubbiamente vera, perché un Presidente Pag. 5in carica in America può essere rimosso solo con un impeachment, ma capite bene che se avesse reperito queste prove irrefutabili di ostruzione, inserendole dentro il rapporto, avrebbe gettato le basi affinché la Camera dei rappresentanti potesse valutare l'ipotesi di un impeachment contro Trump su quell'aspetto. A maggior ragione, vi ricordo questo elemento che secondo me è molto significativo. Quando a dicembre scorso i deputati democratici alla Camera dei rappresentanti si riunirono e iniziarono il dibattito per l'impeachment sul caso «Ucrainagate» –- che non era il «Russiagate» e non c'entrava Mueller –, alcuni deputati dissero: «Insieme ai capi di imputazione per “Ucrainagate” mettiamoci anche un altro, un terzo relativo al “Russiagate” e relativo all'ostruzione alla giustizia di Mueller». Eppure quella linea fu bocciata proprio dalla leadership dello stesso Partito Democratico, perché disse: «Oggettivamente, di sostanza su questo discorso ce n'è poca.»
  Concludendo la prima parte relativa al rapporto Mueller, c'è un ulteriore elemento da specificare. Quando il Procuratore speciale sostiene che questa interferenza dei russi abbia favorito – usa proprio il termine «favorire» – Donald Trump, anche in questo caso dobbiamo entrare maggiormente nel dettaglio. Se per «favorire» noi intendiamo, a livello generale, che le fake news che vennero diffuse erano principalmente contro Hillary Clinton, questo è senz'altro vero. Se però per «favorire» noi intendiamo – come qualche analista e anche qualche esponente politico ha fatto negli Stati Uniti, anche recentemente; la stessa Hillary Clinton lunedì scorso è intervenuta di nuovo su questa questione – che senza quell'interferenza Trump non ce l'avrebbe fatta a vincere, indipendentemente dalla questione che fosse coordinata o meno, qui ci troviamo su uno scenario più scivoloso e meno fondato. Vi cito a questo proposito un articolo uscito sul New York Times nel febbraio del 2019 a firma del politologo Brendan Nyhan, che tra l'altro è un politologo di area non certo filo-repubblicana. Nyhan ha fatto questo studio sull'impatto che le fake news hanno avuto sull'esito delle elezioni americane del novembre del 2016 e propone due conclusioni: la prima è che la fruizione delle fake news in quel periodo preelettorale negli Stati Uniti fu quantitativamente molto ridotta, e soprattutto circoscritta a determinate aree elettorali, secondo Nyhan soprattutto un segmento di destra-destra quindi «strongly conservative», come dicono loro; ma neanche tutto, un segmento, lui cita una parte di circa il 10-15 per cento. Nella fattispecie, secondo me, la conclusione più interessante di Nyhan è la seconda, quando dice: «Attenzione, queste fake news hanno avuto un effetto, ma non è stato quello di spostare voti. Queste fake news hanno avuto l'effetto di rafforzare convinzioni preesistenti nell'elettore, cioè attraverso la fake news non è che chi voleva votare “X” si è spostato a votare “Y” o viceversa, ma magari ha rafforzato la sua opinione pro “X” e contro “Y”». Quindi – conclude Nyhan – in realtà il tema non è lo spostamento dei voti, ma semmai il rafforzamento di quella polarizzazione della politica americana che stiamo conoscendo ormai da diversi anni, da diverso tempo.
  Donald Trump negli ultimi mesi ha avviato una controffensiva da questo punto di vista e quindi la utilizzo come gancio per arrivare al nostro Paese. Questa controffensiva sull'inchiesta «Russiagate» sta avendo luogo su due piani: uno è il Dipartimento di Giustizia; il Ministro della Giustizia William Barr ha nominato il Procuratore John Durham per fare luce sulle origini di questa inchiesta, soprattutto da parte dell'FBI e poi per quanto riguarda anche il passaggio relativo a Mueller. La tesi degli ambienti vicini al Presidente americano è che questo «Russiagate» sia stato una sorta di «polpetta avvelenata» approntata dai suoi avversari politici con l'aiuto di parti dell'intelligence occidentale. Quindi Durham si sta occupando di indagare su questo elemento, se c'è effettivamente della sostanza o meno. Qui veniamo all'Italia, perché l'Italia è sempre stato uno dei Paesi: per esempio, penso all'avvocato di Trump, l'ex sindaco Giuliani, che l'ha sempre citata insieme ad altri Paesi su questa questione del «Russiagate». Quindi dal rapporto Pag. 6Durham sapremo, quando uscirà, se effettivamente l'Italia è coinvolta, perché in questo momento c'è un grande punto interrogativo, e se lo sia stata in che modo sarebbe stata coinvolta. Per quanto riguarda il rapporto, non sappiamo con esattezza quando uscirà. Le ultime notizie sono della settimana scorsa, giovedì o venerdì, non ricordo: dal Dipartimento di Giustizia hanno detto che dovrebbe uscire a fine estate. Vedremo, ancora la questione è aperta.
  L'altra linea che Trump sta seguendo è la diffusione di documenti che fino a poco tempo fa erano secretati. Da aprile 2020 a oggi sono state desecretate e pubblicate migliaia e migliaia di pagine che hanno, sotto il profilo del Presidente, l'obiettivo di ribaltare tutta la questione relativa al «Russiagate». È una questione, questa, molto controversa, che riguarda il Generale Michael Flynn, se volete dopo posso anche approfondirla. Non mi ci soffermo adesso nello specifico, perché sforerei con il tempo, però in questi documenti che sono stati desecretati è uscita l'Italia anche su un determinato punto, un punto un po' controverso, che riguarda proprio la vicenda del Generale Flynn, in base a documenti che sono stati desecretati e pubblicati a maggio 2020. È la questione annosa, se così possiamo definirla – annosa no, però è stata molto dibattuta negli Stati Uniti negli ultimi due mesi – del cosiddetto «unmasking».
  Mi spiego e faccio un passo indietro. Quando negli Stati Uniti le agenzie di intelligence attuano delle intercettazioni su cittadini stranieri – che siano agenti o meno, cittadini stranieri in generale – e in queste intercettazioni viene citato o è presente addirittura un cittadino americano, di default succede che il nome dell'americano viene secretato per ragioni di privacy, però può succedere che nel corso delle indagini i reparti investigativi dicano: «A me quel nome serve, perché devo capire il contesto» o per tante ragioni. A quel punto si fa richiesta alla National Security Agency di unmasking, che vuol dire «svelamento», «smascheramento». È orribile da dire, però questa è la pratica ed è una pratica legale e di routine. Viene utilizzata spesso e volentieri, anzi negli ultimi anni, tra le Amministrazioni Obama e Trump, pare che sia addirittura aumentata notevolmente. A maggio scorso alcuni senatori repubblicani hanno pubblicato una lista di funzionari dell'Amministrazione Obama che chiesero l'unmasking per una serie di conversazioni che erano state intercettate e che vedevano come protagonista, o comunque come parte in causa, il Generale Michael Flynn, che – ricordo – era il principale consigliere di politica estera di Trump ai tempi delle elezioni, che poi sarebbe anche diventato Consigliere per la sicurezza nazionale. Fu il primo che si dimise, quasi subito, proprio per la questione russa.
  All'interno di questa lista figurano non solo funzionari dell'intelligence, cosa che non suscita nessun tipo di curiosità, ma ci sono alcuni aspetti che i sostenitori di Trump stanno rimarcando. Innanzitutto, è una lista molto numerosa, molto folta, il che è un po' strano, perché il periodo preso in considerazione è molto stretto, cioè parliamo dell'arco di tempo da dicembre 2016 fino a gennaio 2017, gli ultimi due mesi dell'Amministrazione Obama in carica. In secondo luogo, c'è un problema qualitativo, perché al fianco di funzionari dell'intelligence ci sono anche molti esponenti politici. Ad esempio, c'è anche l'allora Vicepresidente Joe Biden, che è candidato attualmente alla presidenza per i democratici e poi una serie di ambasciatori tra cui l'allora Ambasciatore in Italia, John Phillips, che inoltra richiesta di unmasking il 6 dicembre del 2016, quando era ancora nell'esercizio delle sue funzioni, perché avrebbe lasciato con Obama, il 20 gennaio del 2017. Questa cosa, presa in sé stessa e in astratto, di per sé vuol dire molto poco, per cui è ovvio che per capire se questa presenza di Phillips dentro tale lista abbia una ripercussione oggettiva sulla nostra politica e sul nostro Paese dovremo aspettare innanzitutto l'indagine di Durham, dovremo capire se il Senato interrogherà Phillips, perché ha approvato un documento che vuole ascoltare i vari nomi presenti in quella lista e Phillips c'è in quel documento; vedremo, inoltre, anche che cosa reperirà un altro Procuratore, Pag. 7 John Bash, che è stato da poco nominato da Barr proprio per la questione dell'unmasking. L'unica cosa oggettiva è questa connessione. Ribadisco, non mi spingo a dire che cosa questa connessione potrebbe essere, perché non lo so e nessuno lo sa, però è la seconda volta che l'Italia viene «coinvolta» all'interno della questione «Russiagate», perché l'altra questione era il controverso colloquio che ebbe George Papadopoulos a marzo 2016 con il misteriosissimo professor Mifsud a Roma. Quindi, fino a che questa lista non era uscita, quello era l'unico tipo di contatto che c'era tra l'inchiesta «Russiagate» e l'Italia. Qui ce n'è un altro, però dovremmo capire in che modo vada inserito e interpretato, perché ci sono delle indagini in corso, prima tra tutte credo che sarà proprio quella di Durham, che è specificamente rivolta a questa questione.
  L'ultimo punto che toccherei, il terzo, riguarda come si inserisce questo «Russiagate» americano all'interno della triangolazione Stati Uniti, Cina e Russia. Non si parla tantissimo ancora – cioè, se ne comincia a parlare, se ne è già parlato, ma non tantissimo – di eventuali interferenze della Cina nell'ambito di quella che è la campagna elettorale attualmente in corso negli Stati Uniti. Se ne parla pochino, però un po' sì. Donald Trump, dal canto suo, ha ogni tanto in questi ultimi due anni ventilato un'ipotesi. Già se ne uscì nel 2018, quando c'erano le elezioni di metà mandato e adesso recentemente è tornato su questa questione a livello di ipotesi. La Cina, dal canto suo, ad aprile scorso ha negato risolutamente di essere interessata in queste interferenze, però lunedì di questa settimana – quindi pochissimi giorni fa – il candidato democratico in pectore Biden ha denunciato, ha detto: «Io ho ricevuto dei briefing che mi hanno detto che non c'è solo la Russia per questo 2020, ma c'è anche la Cina». Questo è un tema. Tra l'altro vi cito, ma non credo che vi sarà sfuggito, il discorso durissimo che il direttore dell'FBI, Christopher Wray, ha tenuto a inizio luglio – mi pare l'8 luglio, o giù di lì comunque – a Washington. È stato un discorso durissimo nei confronti della Cina. In generale, ha detto che è il principale pericolo, la principale minaccia per gli Stati Uniti, ma lui non si è occupato specificamente del tema elettorale, ma ha parlato di «influenze maligne», volte a distorcere il dibattito pubblico e politico americano. Voi capite bene che questo equivale sostanzialmente a dire che c'è un pericolo per quanto riguarda anche le interferenze da parte di Pechino. Tra l'altro – notizia recentissima – avete visto tutti quanti ieri cos'è successo a Houston e il Dipartimento di Stato che in uno dei suoi comunicati anche lì ha fatto riferimento a delle influenze che partivano. Non credo che sia stata citata esplicitamente la questione elettorale ma il termine «influenze» era presente, quindi poi bisogna capire se ci fosse di mezzo anche la dinamica di natura elettorale in senso stretto o meno, ma queste influenze ci sono.
  Per cui, concludendo, qui c'è un enorme tema di politica estera: attraverso il «Russiagate» gli avversari di Trump, non solo democratici ma soprattutto repubblicani – io sono sempre stato dell'idea che Trump durante la sua presidenza ha avuto maggiori problemi da alcuni repubblicani che non dai democratici – hanno sempre usato il «Russiagate» per dire: che «Vedete? Questo è un Presidente anti-occidentale, anti-NATO, è vicino ai dittatori.» Io credo che le linee politiche sono, per carità, sempre criticabili, però prima vanno anche comprese. Il senso profondo che ha portato Trump a cercare di attuare una distensione con la Russia in questi anni, – una distensione che non vuol dire, attenzione, irenismo – è sempre stato dettato da un'esigenza in particolare, in realtà non da una ma soprattutto da una: contenere l'ascesa geopolitica e commerciale della Cina. Non possiamo comprendere appieno il tentativo di distensione che Trump ha fatto nei confronti della Russia se non lo inseriamo nel quadro della competizione tra la Casa Bianca e Pechino. Questa è una linea che può essere assolutamente criticabile, come sono tutte le linee politiche, però non credo che vada banalizzata e non credo neanche che debba essere derubricata a una sorta di simpatia per i governi di stampo autoritario. Pag. 8
  Le ultime due annotazioni che vi faccio è che a giugno scorso Trump ha proposto l'istituzione di questo G11, poi gli hanno risposto picche, ma questo G11 vi fa capire il senso di questa strategia, perché nel G11 ci voleva mettere la Russia da una parte – che in questo momento ha rapporti abbastanza buoni con la Cina, non ottimali, ma abbastanza buoni – quindi per sganciare Mosca dalla Cina, ma dall'altra parte in questo G11 dovevano entrare, secondo la proposta di Trump, tre Paesi che con la Cina sono totalmente ai ferri corti: parliamo dell'India, della Corea del Sud e dell'Australia. Quindi questo è il senso. In ultima istanza ricordiamoci quello che ha detto a dicembre scorso il Segretario Generale dell'Alleanza atlantica, Stoltenberg, durante il summit NATO di Londra, quando ha detto: «Signori, nel prossimo futuro la NATO dovrà sostenere ingenti sfide dalla Cina». È questo il grosso punto, per cui il tema della Russia ha sicuramente degli aspetti controversi, ma deve inserirsi all'interno di questo contesto ben preciso, perché ormai la scelta diventa sempre più dicotomica tra uno spazio atlantico e uno spazio cinese e sperabilmente – questo è il mio piccolo auspicio – l'Italia dovrebbe rimanere decisamente e irremovibilmente ancorata proprio allo spazio atlantico. Grazie.

  PRESIDENTE. Bene, ringrazio il dottor Graziosi. Ci sono interventi? Prego, onorevole Bianchi.

  MATTEO LUIGI BIANCHI. Grazie, presidente. Io La ringrazio molto per l'esposizione, che ci ha aiutato anche a capire il quadro attuale della situazione negli Stati Uniti e non solo, come è stato ampiamente illustrato. Sono argomenti di estrema attualità, che ci portano poi un orizzonte di prospettiva delle prossime elezioni americane, che coinvolgeranno tutto il mondo. Io ci terrei a sottolineare due o tre argomenti che sono stati anche già citati. Innanzitutto, gli argomenti dell'esposizione testimoniano come gli Stati Uniti siano – a prescindere dalle simpatie repubblicane, democratiche o meno – una grande democrazia, una democrazia che funziona, che ha la possibilità al suo interno di dibattere e di discutere di quelli che sono una serie di argomenti relativamente al funzionamento della propria democrazia. Quindi le regole che hanno gli Stati Uniti sono, a prescindere da coloro che vengono liberamente eletti come Presidente degli Stati Uniti, delle garanzie per i propri cittadini e, credo, delle garanzie per tutto il mondo occidentale. Questi sono principi su cui noi dobbiamo rimanere ancorati.
  L'Italia, che fa parte di tutto il mondo occidentale, dell'Alleanza atlantica eccetera, ha la necessità che questi argomenti vengano sempre e comunque rivendicati, perché noi possiamo ritenerli «scontati», perché assodati nel nostro modo di pensare, ma di scontato non c'è nulla a questo mondo e quindi va sempre e comunque rivendicata l'importanza della centralità degli Stati Uniti per tutto il mondo occidentale, affinché possano essere difesi i princìpi assodati nel nostro mondo libero, di cui gli Stati Uniti sono portatori. L'appartenenza alla NATO è un altro argomento su cui terrei a sottolineare l'attenzione. È importante che l'Italia rimanga ancorata, anche dal punto di vista ideologico, a quelli che sono i valori che hanno portato alla costituzione della NATO e che porterà poi a una trasformazione rispetto agli obiettivi strategici che la NATO si darà. Con il collega Formentini faccio parte dell'Assemblea parlamentare della NATO e per esperienza posso dire che in effetti sono stati cambiati un attimo gli orizzonti di prospettiva. All'inizio del nostro mandato – a fine 2018, inizio 2019 – si parlava molto di Russia, di preoccupazioni che potevano arrivare dal mondo russo, di interferenze, ingerenze eccetera.
  Ora il taglio di preoccupazione è rivolto principalmente rispetto all'aggressività della Repubblica popolare cinese. Questa cosa io credo che l'Italia debba tenerla in considerazione nello scacchiere della sua collocazione geopolitica e anche militare affinché ci si dia una collocazione, una linea molto chiara rispetto a chi si vuole prediligere come partner e alleato, non solamente dal punto di vista politico e militare, ma anche dal punto di vista valoriale. Crediamo che rispetto a queste due grandi superpotenze che stanno emergendo in una competizione bipolare la nostra collocazione, dal mio punto di vista, Pag. 9sia strettamente legata a quelli che sono gli Stati Uniti, a prescindere da chi vincerà le elezioni il prossimo novembre.

  VITO COMENCINI. Ringrazio il dottor Graziosi per questa audizione molto interessante e utile ai fini di questa indagine conoscitiva per avere una visione il più possibile completa di quelle che sono o possono essere le interferenze, o quelle che in certi casi è stato dimostrato che non erano interferenze; perché in questo caso si è parlato delle indagini sul cosiddetto «Russiagate» e come queste informazioni cosiddette «dispregiative» sono poi finite nel nulla, o meglio sono state archiviate. È la dimostrazione di come è stata usata sicuramente una macchina del fango nei confronti dell'Amministrazione Trump su qualcosa che poi si è dimostrato infondato.
  La questione molto interessante è come a un certo punto – e su questo credo che si concentra adesso l'indagine del Procuratore Durham – ci sia stata comunque una spinta da parte dell'Amministrazione Obama per riaprire queste indagini e quindi cercare di trovare la cosiddetta «pistola fumante» nei confronti di Trump. Questo è un aspetto molto interessante, visto anche quello che è stato detto in merito all'ex Ambasciatore USA in Italia, John Phillips, e se non sbaglio dovrebbe anche essere previsto un interrogatorio nei suoi confronti da parte del Procuratore Durham. In merito a questo – visto anche che in quel momento c'era un legame importante con il Governo di allora, se non sbaglio il Governo Renzi – volevo capire in merito a questa indagine su quali documenti eventualmente essa si sta concentrando, se già c'è qualche indiscrezione o se bisogna attendere la chiusura delle indagini per capire effettivamente quali elementi importanti possono emergere e possono riguardare in questo caso il Governo italiano di allora.
  L'altra questione che ritengo molto interessante e fondamentale è quella della Cina. Condivido quello che ha detto il collega Bianchi. È molto importante, anzi fondamentale questo aspetto e credo che in merito a questo sia interessante quello che è stato detto, cioè del pericolo di un'influenza in questo caso anche sulle elezioni americane, o in generale da parte della Cina, che la Cina cerchi comunque di influenzare l'Occidente attraverso la potenza che in questo momento ha e si dimostra sempre più pericolosa. Quindi volevo capire quali differenze di posizioni ci sono rispetto alla Cina tra i due candidati, tra Trump e Biden, non per entrare nella campagna elettorale degli Stati Uniti – perché è giusto che si faccia negli Stati Uniti e che gli americani valutino loro chi votare – ma per capire questo aspetto in generale, perché la nostra posizione diventa fondamentale anche da questo punto di vista, perché in Italia sappiamo come purtroppo in questo momento il Governo in carica non sta dimostrando una posizione chiara, da questo punto di vista, rispetto alla Cina. Quindi capire come le due parti americane si stanno ponendo credo che sia fondamentale e capire se ci sono dei social o comunque degli strumenti che addirittura la Cina potrebbe usare in questo senso per influenzare; mi risulta, infatti, che già adesso, non in America ma in altri Paesi, sta emergendo come ci sono degli strumenti social, tecnologici e quant'altro creati dalla Cina, gestiti dalla Cina, che in Cina vengono censurati o comunque a cui viene posto un controllo, una censura e invece in altri Paesi vengono lasciati liberi magari di creare qualcosa che potrebbe favorire indirettamente la Cina. Credo che sia molto interessante capire eventualmente in cosa può consistere questa influenza, questo pericolo, anche eventualmente nei confronti del nostro Paese. Grazie.

  PAOLO FORMENTINI. Sarò brevissimo, visti gli interventi dei colleghi. Intanto ringrazio Graziosi per l'intervento completo ed esaustivo, ma l'accenno alla Cina mi fa chiedere: queste interferenze che vediamo a livello globale, come ha appena accennato il collega Comencini, quanto a suo avviso riguardano l'Italia? Vorrei dire qualcosa di più. Noi abbiamo visto durante la massiccia campagna mediatica che c'è stata un'interferenza di questo Paese nell'attività anche politica del nostro Paese, qualcosa di una potenza, di una forza mai vista, di un'arroganza inusitata. Non scordiamo i richiami dell'Ambasciatore della Repubblica popolare cinese alla nostra politica; da ultimo, dopo la manifestazione della Lega all'esterno dell'Ambasciata Pag. 10 cinese le parole dell'Ambasciatore cinese sono state un tentativo di paragonare un regime alla democrazia italiana, partendo proprio dai «decreti sicurezza» di Salvini e paragonandoli alla legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong. Quindi è un qualcosa di liberticida. Noi però abbiamo assistito in questi mesi a una cassa di risonanza organizzata, l'abbiamo visto con i bot, ci sono già degli studi che lo dimostrano, amplificando i tweet che riguardavano gli aiuti provenienti dalla Cina, che poi, come si è dimostrato, solo parzialmente erano aiuti e per la maggior parte erano invece frutto di contratti, perché noi quelle mascherine le abbiamo pagate a caro prezzo.
  L'azione del nostro gruppo politico è stata volta negli ultimi mesi proprio a far emergere questo, perché c'era un silenzio veramente assordante e uno spostamento pericoloso del nostro baricentro geopolitico. Volevo sapere che rischi vede nel presente e per il futuro per il nostro Paese a questo riguardo. Grazie.

  PRESIDENTE. Io vorrei dire una cosa: credo che il quadro che si è fatto sia un quadro che deve indurre ad approfondire ulteriormente. Penso che non vada dimenticato che non più di un anno e mezzo fa le stesse polemiche e accuse che sono state rivolte alla Cina sono state rivolte alla Russia, quindi il tema delle interferenze è un tema assai complesso.
  Ovunque c'è un potere tendenzialmente autocratico, il rischio che questo potere autocratico eserciti attraverso le tecnologie un'influenza esterna, vale per la Cina – con tutte le cose che abbiamo ascoltato e sappiamo –, vale per la Russia e vale, purtroppo, anche per altri. Quindi, il grande tema che secondo me si pone non è tanto quello di individuare il diavolo del momento, perché c'è il rischio che poi nella polemica politica quotidiana e nella strumentalità tutto si riduca a individuare qual è il nemico del momento, ma invece individuare un tema che è più grande. Una delle grandi insidie della democrazia, quanto meno della democrazia liberale, oggi sta in un uso deformato delle tecnologie e nella potenzialità deformante che le tecnologie comportano, quindi credo che a maggior ragione il tema sia molto delicato. Comunque, detto questo, do la parola al dottor Graziosi per la replica.

  STEFANO GRAZIOSI, analista politico presso La Verità. Grazie a tutti. Parto dalla fine e risalgo al principio. Sulla questione delle interferenze sono assolutamente d'accordo. Come mostravo nella mia esposizione, quando ho parlato soprattutto del rapporto di Mueller, ho sottolineato come questa interferenza su Wikileaks e sui social network da parte della Russia ci sia stata. Io poi ho cercato di analizzarne – in base a quello studioso di cui vi dicevo, Nyhan –, l'impatto; quindi, premesso che l'interferenza in quel 2016 ci fu, ho cercato di analizzare l'impatto effettivo. Che il problema delle interferenze da parte della Russia e da parte della Cina ci sia, credo che questo sia pacifico e suppongo che siamo tutti d'accordo. Il punto, però, è che in alcuni casi – lì citavo il caso americano specifico – quel determinato tema è stato usato in modo non sempre molto fondato come strumento di battaglia politica interna e di delegittimazione. Sono due questioni, io credo, molto differenti e, ripeto, nessuno, almeno dal mio punto di vista, mette assolutamente in discussione la questione delle interferenze da parte di questi Stati.
  Ciò detto, c'è un tema, come diceva anche l'onorevole Formentini, di influenza cinese. È un'influenza cinese attraverso la tecnologia. Abbiamo visto quello che è successo nelle ultime settimane con TikTok per esempio, quindi l'India l'ha bandito, con grandi danni economici per TikTok; tra l'altro, gli Stati Uniti hanno fatto capire che sono anche loro di quell'avviso, e qui torniamo alla questione G11, perché diversi analisti hanno messo in evidenza come attraverso TikTok si stia pian piano venendo a tessere quella convergenza tra Washington e Nuova Delhi che sarà poi declinata in chiave nettamente anticinese. Penso che India, Australia e Corea del Sud sono in questo momento sul «piede di guerra» nei confronti della Cina.
  C'è poi un tema di influenza sul sentimento elettorale e in questo è molto interessante vedere la differenza che c'è, per esempio, tra noi e gli Stati Uniti. Da noi, oggi, a livello di sentimento generale c'è un'opinione tendenzialmente favorevole nei confronti della Cina. Io parlo a livello di elettori. Negli Pag. 11Stati Uniti è l'esatto opposto in questo momento, tant'è che voi vedete che da due o tre mesi nella campagna elettorale americana Trump e Biden si stanno rimpallando l'accusa di essere troppo arrendevoli verso la Cina e quindi fanno quasi a gara per far vedere chi è più duro, chi è più netto, perché un sondaggio di un paio di mesi fa – perdonatemi, non ricordo esattamente il mese, ma era già a emergenza COVID-19 bella che iniziata – del Pew Research Center diceva che il 62 per cento degli americani in questo momento nutre sentimenti di ostilità verso la Cina per la questione della pandemia.
  Altro elemento di influenza – e qui il divide et impera lo stiamo vedendo in tutti i Paesi dell'Unione europea ma non solo, diciamo del vecchio continente – è la questione del 5G. Se noi andiamo a vedere, la questione 5G a livello europeo è un colabrodo. C'è chi è nettamente contro (la Polonia), c'è chi nei fatti è a favore (la Germania e, sostanzialmente, anche la Francia). L'Italia in questo momento non è che si capisca benissimo. La Gran Bretagna, che è fuori dall'Unione europea ma che comunque è vecchio continente, adesso è con gli americani, però tende a dire: «Non l'ho fatto perché volevo fare un favore a Trump». Quindi ci sono questi distinguo e questo è un elemento molto efficace, così come quella che veniva citata prima. Un tempo c'era la diplomazia del panda, poi è stata sostituita con il COVID-19 dalla questione della diplomazia degli aiuti sanitari e questo è stato un altro strumento di forte influenza nei confronti di quello che è il mondo occidentale. Oggi l'Amministrazione Trump, la Casa Bianca, sta cercando delle sponde con l'India, la Corea del Sud eccetera, perché c'è un problema, che il vecchio continente va totalmente in ordine sparso su questa questione e questo indubbiamente favorisce la Cina.
  Qui mi ricollego alla questione della Russia. Come ho detto nel mio primo intervento, ci sono dei problemi sul tavolo. Nessuno lo sta negando, però ricordiamoci sempre che quando parliamo di distensione tra Trump e la Russia, stiamo parlando di una strategia complessiva di contenimento della Cina, criticabile quanto si vuole – io adesso non entro nel dettaglio di cosa penso perché ritengo che a voi non interessi granché –, però il tema è questo. Non possiamo derubricarla a qualcosa che non è, come spesso purtroppo è avvenuto nel dibattito pubblico americano, non solo e non tanto da parte dei democratici quanto da alcune aree più «riottose» del Partito Repubblicano: perché sapete che nell'establishment di Washington – che è tendenzialmente bipartisan, quindi ci stanno dai Clinton a Colin Powell, che era repubblicano – c'è un po' di tutto dal punto di vista dell'affiliazione partitica, è meta-partitico, c'è questo grande tema; il vero pericolo – ancora oggi c'è questo dibattito – alla fine per gli Stati Uniti in questo nuovo secolo è ancora la Russia, che Reagan nel 1983 aveva chiamato «evil empire», oppure sta diventando la Cina? È quindi in questo contesto che va inserita la questione.
  Per quanto riguarda il tema della contro-inchiesta, quella di Durham è ancora in corso. Come vi accennavo prima, dovrebbe terminare a fine estate, quindi c'è già chi specula che potrebbe essere quella che in gergo elettorale americano è la october surprise, quando sotto elezioni si fa uscire qualcosa che favorisce uno dei due candidati. Vedremo se sarà così. Per cui sull'indagine Durham nello specifico non mi soffermo, semplicemente perché non ho materiale, come nessuno, se non questa data presunta della sua pubblicazione. Per quanto riguarda la questione di John Phillips, potrebbe essere interrogato dal Senato, perché il Senato ha approvato la possibilità di emettere mandati di comparizione, l'ha approvata un mesetto fa circa, rispetto a quei nominativi che erano presenti nella lista dell'unmasking di Flynn all'interno della quale c'era anche John Phillips, quindi vedremo. Potrebbero anche non chiamarlo a testimoniare, ma soltanto a produrre dei documenti. Diciamo che questa ipotesi c'è, perché è stata approvata. Poi c'è un'altra sotto-inchiesta, che vi citavo prima, di quest'altro Procuratore, John Bash, che è stato recentemente nominato dal Ministro della Giustizia Barr proprio sulla questione dell'unmasking. Quindi noi dovremo vedere sia l'inchiesta di Durham, quando uscirà, ma anche questa inchiesta di John Bash potrebbe portare alla luce qualcosa, così come potrebbe non portarla, però a livello Pag. 12 tematico si occupa specificamente della questione unmasking, dove è citato l'ex Ambasciatore americano John Phillips.
  Mi si chiedeva prima della questione Trump-Biden sulla Cina. È una questione abbastanza spinosa, perché se noi ci fermiamo a quella che è la retorica elettorale dei due candidati, sembra che vogliano entrambi fare fuoco e fiamme nei confronti di Pechino. Io credo che in realtà ci siano due approcci molto differenti tra i due. Donald Trump ha sempre avuto un approccio, concedetemi il termine, «kissingeriano», per quanto possa apparire paradossale per Kissinger aprire alla Cina: per Trump è necessario battere, colpire dove può fare più male, quindi il tema commerciale. Lui ha sempre anteposto il tema commerciale a tutti gli altri temi, perché dice che è da lì che non solo posso colpire in maniera più efficace la Cina, ma posso poi anche tentare di intavolare un rapporto basato sul realismo politico, per cui diventa anche un rapporto «prevedibile» tra i due. L'approccio di Biden – premesso che nessuno ha la palla di vetro, quindi nel caso di un'eventuale presidenza Biden vedremo che cosa accadrà – ha una storia pregressa. Biden, quando fu senatore del Delaware, soprattutto negli anni Novanta primi anni Duemila, fu un forte sostenitore della politica di Bill Clinton, all'epoca Presidente, che era la politica dell'engagement della Cina, cioè integrare la Cina nella comunità internazionale, in particolare nel WTO. Fu l'Amministrazione Clinton – e Biden al Senato la sostenne molto, anche con il suo voto e l'attività parlamentare – a far entrare nei fatti la Cina nel WTO. L'approccio clintoniano, che Bill Clinton espose in un suo discorso nel marzo del 2000, quando la Cina stava per entrare nel WTO – sarebbe entrata nel 2001 –, era questo. Lui diceva: «Dobbiamo essere molto duri sulla questione dei diritti umani, però blandi su quella commerciale.» Perché l'ipotesi di Clinton, che aveva anche un senso all'epoca, era: «Attraverso il commercio, noi gettiamo le basi affinché nel medio-lungo termine la struttura politica cinese si possa evolvere in senso liberale.» Oggi sappiamo che le cose non sono andate esattamente così, soprattutto dopo l'ascesa al potere Xi Jinping. Già la Cina ha sempre avuto una struttura non autenticamente liberale, ma l'ascesa al potere di Xi Jinping ha rafforzato ulteriormente questo orientamento abbastanza autoritario. Per cui sono questi due modelli che in questo momento si stanno fronteggiando. Bisognerà capire se un'eventuale presidenza Biden vorrà assumere una prospettiva più realista per quanto dura nei confronti della Cina, quindi seguendo un po' più il modello Trump, o se invece vorrà rispolverare quello che era il vecchio approccio clintoniano; e non so però quanto gli convenga, anche a livello politico, perché c'è tutto un tema anche molto economico: ci sono tutti i colletti blu degli Stati come il Michigan, il Wisconsin, l'Ohio e la Pennsylvania, soprattutto la Pennsylvania, che il coinvolgimento della Cina nel WTO oggi non è che lo vedano con estrema simpatia.
  Per cui io credo che nei prossimi mesi noteremo un peggioramento ulteriore dei rapporti tra Stati Uniti e Cina con l'approssimarsi delle elezioni di novembre e poi vedremo innanzitutto chi vincerà e quale sarà l'approccio che verrà seguito da uno dei due vincitori.

  PRESIDENTE. Bene, ringrazio molto il dottor Graziosi, mi pare che sia stato un contributo interessante, e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.25.