XVIII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni

Resoconto stenografico



Seduta n. 9 di Mercoledì 13 maggio 2020

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 2 

Audizione di rappresentanti della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO):
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 2 
Ruocco Monica , presidente della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO) ... 2 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 3 
Melfa Daniela  ... 3 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 5 
Casini Lorenzo  ... 5 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 6 
Brighi Elisabetta  ... 6 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 10 
Ungaro Massimo (IV)  ... 10 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 11 
Trancassini Paolo (FDI)  ... 11 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 12 
Quartapelle Procopio Lia (PD)  ... 12 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 13 
Ruocco Monica , presidente della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO) ... 13 
Melfa Daniela  ... 13 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 14 
Casini Lorenzo  ... 14 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 14 
Brighi Elisabetta  ... 14 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 15 
Pettarin Guido Germano (FI)  ... 15 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 16 
Ruocco Monica , presidente della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO) ... 17 
Melfa Daniela  ... 18 
Casini Lorenzo  ... 18 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 19 
Ruocco Monica , presidente della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO) ... 19 
Brighi Elisabetta  ... 19 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 20

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ERASMO PALAZZOTTO

  La seduta comincia alle 13.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite impianto audiovisivo a circuito chiuso, nonché via streaming sulla web-tv della Camera, come convenuto in sede di Ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei gruppi, anche al fine di consentire di seguire l'audizione ai colleghi non presenti in sede.

Audizione di rappresentanti della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO). Saluto la presidente, professoressa Monica Ruocco, e i professori Elisabetta Brighi, Lorenzo Casini e Daniela Melfa, ringraziandoli per la disponibilità tempestivamente resa.
  Segnalo che la Società per gli studi sul Medio Oriente, fondata nel 1995, ha promosso nel maggio 2018, presso gli atenei di Messina e di Catania, le giornate internazionali di studio «La ricerca per Giulio Regeni», i cui atti sono stati pubblicati quest'anno dalla casa editrice Mesogea con il titolo «Minnena» e il sottotitolo «L'Egitto, l'Europa e la ricerca dopo l'assassinio di Giulio Regeni». Il titolo, in dialetto egiziano, significa «parte di noi» e può equivalere all'espressione italiana «dalla nostra parte».
  Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell'audizione libera e che eventuali contributi per cui si rendesse necessaria la forma segreta potranno essere resi in altra seduta ovvero per iscritto.
  Invito la professoressa Ruocco a intervenire per prima e a indicare l'ordine dei successivi interventi da parte dei suoi colleghi.

  MONICA RUOCCO, presidente della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO). Desidero ringraziare lei, signor presidente, e i componenti della Commissione per l'incontro di oggi e per questa opportunità. Dopo il mio intervento seguiranno i professori Daniela Melfa, Lorenzo Casini ed Elisabetta Brighi.
  Come ha anticipato lei, vorrei dire pochissime parole sull'associazione che presiedo dal gennaio del 2020 e sulla storia della ricerca italiana in Egitto. La SeSaMO (Società per gli studi sul Medio Oriente) è stata fondata a Firenze nel novembre del 1995. Sulla scia della tradizione italiana di studi arabistici, SeSaMO si propone di promuovere lo studio e la ricerca sul Medio Oriente con particolare riguardo ai rapporti di queste regioni con l'Europa a partire dalla fine del VIII secolo fino ai nostri giorni. A questo fine SeSaMO organizza periodicamente conferenze nazionali e internazionali, seminari e giornate di studio, collabora con riviste accademiche, promuove network di ricerca e osservatori tematici. L'associazione ha carattere interdisciplinare ed è aperta ai contributi derivanti dalle scienze umane, sociali e politiche. SeSaMO, inoltre, fa parte della rete EURAMES (European Association for Middle Eastern Studies), l'associazione europea per gli studi sul Medio Oriente. L'interesse degli Pag. 3studiosi italiani verso il Medio Oriente, in particolare verso l'Egitto, non è una novità recente, ma ha una lunga tradizione che risale al XIX secolo e che ha dato notevoli contributi allo sviluppo della cultura orientalistica e arabistica con maestri come Michele Amari, Leone Caetani, Ignazio Guidi, Francesco Gabrieli, la cui autorevolezza scientifica è riconosciuta in tutto il mondo. Francesco Gabrieli nel 1984 ha scritto un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Quaderni di studi arabi proprio sul ruolo degli studiosi italiani in Egitto, fondamentale per ripercorrere la storia dei rapporti di ricerca tra i due Paesi. Un impulso decisivo agli studi islamistici e orientalistici in Italia fu dato dall'attività di Giorgio Levi Della Vida, che diede a questo campo di studi dignità di disciplina autonoma, e di Carlo Alfonso Nallino, il quale, dal canto suo, fondò nel 1921 l'Istituto per l'Oriente di Roma e la rivista Oriente Moderno, che tuttora è un importante punto di riferimento per tutti gli studiosi italiani. Proprio Carlo Alfonso Nallino, insieme a Ignazio Guidi, è stato tra i primi docenti dell'università statale del Cairo fondata nel 1908. In uno dei romanzi più importanti della storia della letteratura araba contemporanea, I giorni, dell'egiziano Taha Hussein, recentemente ripubblicato dall'Istituto per l'Oriente, i due studiosi italiani vengono citati e viene elogiata la loro conoscenza dell'arabo e della civiltà arabo-islamica. Da allora, gli interessi degli studiosi italiani per l'Egitto non si sono mai interrotti. Tanti studenti, dottorandi, ricercatori, docenti strutturati, che hanno in comune la conoscenza della lingua araba e contatti con studiosi e istituzioni egiziane, hanno da sempre effettuato regolarmente soggiorni di studio in Egitto, compiendo le loro ricerche in diversi settori che vanno dall'archeologia alla letteratura, alla linguistica, alla storia e alle scienze sociali. Anche in questo caso, le ricerche sul tessuto sociale dell'Egitto non sono una novità. Risale, ad esempio, al 1941 uno studio di Ettore Anchieri sulle condizioni sociali dei contadini egiziani pubblicato poi sulla rivista Oriente Moderno. Io stessa ho studiato a Napoli con docenti che avevano vissuto a lungo e si erano formati in Egitto e ho effettuato, come fanno tanti studenti ancora oggi, il mio primo viaggio di studio al Cairo a metà degli anni ottanta. Concluderei citando Francesco Gabrieli, il quale sottolineava che la più alta scienza arabistica del nostro Paese ha sempre considerato l'Egitto il più prestigioso capofila culturale dell'arabismo e auspicava la formazione di generazioni future di studiosi che perpetuassero la grande tradizione dell'arabistica italiana in Egitto elogiandone la bona fides, la disinteressata ricerca del vero e la simpatia verso la civiltà da essi studiata. A questo punto, meglio di me potrà intervenire la professoressa Daniela Melfa, presidente uscente di SeSaMO, che ha voluto organizzare le giornate di studio dedicate a Giulio Regeni e, insieme al professor Lorenzo Casini, ha curato il saggio Minnena, che, oltre a essere un tributo alle ricerche svolte da Giulio Regeni, rappresenta un contributo di alta divulgazione scientifica che mette a disposizione di tutti i saperi acquisiti in anni di studio e di ricerche sul campo. La ringrazio.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, professoressa Ruocco. Prego la professoressa Melfa di intervenire.

  DANIELA MELFA. Vorrei innanzitutto ringraziare la Commissione per l'invito a questa audizione. Credo sia un'occasione importante il dialogo tra comunità accademica e istituzioni politiche, che speriamo possa proseguire a vari livelli. Come anticipato da Monica Ruocco, il mio intervento si focalizza sulle motivazioni di un libro come «Minnena. L'Egitto, l'Europa e la ricerca dopo l'assassinio di Giulio Regeni», delle giornate di studio e delle tavole rotonde che lo hanno preceduto. Quali sono, dunque, le ragioni che hanno indotto la SeSaMO, che ho presieduto dal 2017 al 2019, a promuovere iniziative scientifiche e divulgative a partire dal caso Regeni? SeSaMO, insieme ad altre società di studio, come l'Associazione per gli studi africani in Italia e la British Society for Middle Eastern Studies (un'istituzione britannica), hanno ritenuto importante rispondere alla vulgataPag. 4imperante, al senso comune, ai giudizi approssimativi e denigratori di stampa e opinione pubblica. Ci siamo, dunque, sentiti interpellati come accademici, studiosi, intellettuali e siamo intervenuti in questa veste. Giulio Regeni è stato rappresentato come l'emblema del giovane ricercatore sprovveduto che ha peccato di ingenuità (naif), come un ricercatore militante che ha ficcato il «naso sinistrorso» negli affari di un altro Paese, per citare alcune espressioni analizzate nel volume tratte dai social media. In alcuni casi i media hanno ventilato l'ipotesi di una spy story che vedrebbe studiosi di Napoli, Londra, il Cairo coinvolti in una rete di spionaggio, dunque ricercatori al servizio degli apparati di intelligence. In una precedente audizione è stato detto presso la vostra Commissione che gli accademici italiani firmavano petizioni di solidarietà nei confronti della supervisor di Giulio Regeni, Maha Abdelrahman, per motivi opportunistici, ovvero, cito: «per tenere buona l'università di Cambridge e andare a fare una lezione lì». Questa è una narrazione nella quale noi studiosi di Medio Oriente e Nord Africa non ci riconosciamo affatto. Crediamo che il ruolo del ricercatore e le attività di ricerca siano state travisate in un clima di generale discredito della figura degli intellettuali.
  Permettetemi qualche riferimento più puntuale alla stampa. Il due novembre 2017 la Repubblica pubblicava l'articolo «Omicidio Regeni, le bugie di Cambridge sui rischi di Giulio», di Carlo Bonini e Giuliano Foschini. In una strana redistribuzione delle parti, i colpevoli dell'assassino venivano cercati a Cambridge anziché al Cairo e le responsabilità dell'assassinio venivano attribuite alle manchevolezze di Maha Abdelrahman anziché al processo controrivoluzionario in atto in Egitto. Tralasciando le valutazioni sprezzanti nei confronti della studiosa che, cito ancora, «[a] giudicare dal suo curriculum [...] non vanta esperienze accademiche né di lungo corso né di particolare spessore», la tutor di Giulio è individuata come committente. Il 18 agosto 2017 Il Mattino di Napoli scriveva che «era stato il college inglese [dunque l'Università di Cambridge] a inviare Giulio al Cairo, [“a mandarlo allo sbaraglio”, è detto qualche riga più avanti], con il compito di fare un'inchiesta sui movimenti sindacali egiziani». Il carico di insinuazioni è stato aggravato dai media egiziani, secondo i quali Maha Abdelrahman «e Anne Alexander, la seconda tutor di Regeni, avrebbero – riporto testualmente – sfruttato il giovane ricercatore per raccogliere informazioni a favore di partiti ostili all'estero». In altre parole, Maha Abdelrahman si sarebbe servita di Giulio Regeni per le sue attività di militante dei Fratelli musulmani. Si tratta di accuse gravi nei confronti di una studiosa egiziana con famiglia in Egitto, che è stata esposta in tal modo a forti pressioni.
  Torniamo «[al]lo schema dell'affidamento universitario», come peraltro è stato definito da un componente della stessa Commissione, ovvero al rapporto esistente tra supervisor e dottorando. Noi ci chiediamo se l'effettivo ruolo del supervisor di una ricerca di dottorato sia quello descritto dalla stampa e dai media. Il dottorando è un lacchè al servizio del supervisor, del tutor? È un mero esecutore di quanto richiesto, assegnato, commissionato dal supervisor? L'ha detto anche Paola Deffendi durante la sua audizione: Giulio non era uno studente, non era un giornalista, non era un blogger. Lei ha ribadito che Giulio era un «ricercatore» e io credo che questa sia una parola chiave che permette di sottolineare i margini di autonomia e di libertà del dottorando. Nel corso di un dottorato di ricerca, il progetto di ricerca è proposto dal dottorando ed è oggetto di valutazione in sede di selezione delle candidature. Successivamente è discusso e rifinito insieme al supervisor, ma è il dottorando l'artefice e il responsabile della propria ricerca e diverrà lo specialista dell'ambito di studio prescelto. Il lavoro sul campo è condotto con discrezionalità ed è il dottorando che individua gli interlocutori e i testimoni privilegiati costruendo in loco network utili all'avanzamento della ricerca.
  A essere messa sotto accusa non è stata soltanto Maha Abdelrahman, ma anche la metodologia di ricerca seguita da Giulio Pag. 5Regeni, una ricerca partecipata considerata invasiva e imprudente. Ebbene, pur condividendo la necessità di adottare accorgimenti per non mettere a repentaglio la propria vita, riteniamo che la ricerca sul campo non debba arrestarsi di fronte alle situazioni di crisi. Non mancano esempi illustri in questo senso. Il politologo francese Olivier Roy ha effettuato una ricerca sul campo in Afghanistan durante l'invasione sovietica nel 1979. Pierre Bourdieu, sociologo francese, non è da meno: fece una ricerca in Algeria durante la guerra di liberazione dal 1954 al 1962, lasciandoci peraltro dei preziosissimi scatti fotografici. Alcuni ricercatori francesi residenti in Algeria negli anni settanta, all'epoca di Boumedienne, raccontano che beneficiavano di una sorta di immunità o protezione. Anche gli studiosi italiani per decenni sono andati a fare ricerche nella Siria di Hafiz al-Asad o nell'Iraq di Saddam Hussein, regimi brutali dove però non si sono riscontrati casi come quello di Giulio Regeni. Oggi, a giudicare dal numero dei cosiddetti prigionieri scientifici, questa zona franca non è più riconosciuta in Medio Oriente. A essere cambiata non è la ricerca, ma probabilmente la posizione dell'Italia nello scacchiere mediterraneo e in particolare nei rapporti bilaterali con l'Egitto. La risposta dei ricercatori al caos e alla violenza mediorientale dovrebbe essere quella di restare a casa? Noi non lo crediamo. Crediamo che il lavoro sul campo rimanga essenziale per vari motivi. Permettetemi di citare solo alcune delle ragioni. Il lavoro sul campo permette di sfuggire all'osservazione della realtà dall'esterno, dall'alto, in una posizione di presunta superiorità o di eccessiva distanza. Esso è altresì essenziale per vagliare le ipotesi alla luce dei fatti e non alla luce di idee precostituite.
  Più volte all'interno della nostra comunità accademica ci siamo confrontati sul fatto che il lavoro sul campo sarebbe agevolato da un maggiore impegno delle istituzioni. È noto che l'Italia vanta una tradizione di promozione dell'italianità all'estero attraverso gli istituti di cultura, mentre, a differenza di Francia e Stati Uniti, non dispone di centri di ricerca nell'area mediorientale, tanto è vero che molti giovani studiosi, me compresa, si affidano o fanno riferimento a enti di ricerca di altri Paesi quando si trovano all'estero. Ebbene, concluderei con questo suggerimento: io credo che promuovere centri di ricerca italiani in Medio Oriente e in Africa del Nord offrirebbe ai giovani studiosi dei punti di riferimento e di aggregazione, sebbene forse non sarebbe risolutivo. Costituirebbero un punto di ancoraggio, dei luoghi dove confrontarsi e apprendere a muoversi in contesti ostici e complessi. Per di più, naturalmente, centri di ricerca di questo tipo contribuirebbero ad accrescere, a trasferire e a far circolare delle conoscenze più approfondite su questi Paesi. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie, professoressa Melfa. Do la parola al professor Casini.

  LORENZO CASINI. Grazie molte a lei, presidente. Grazie alla Commissione per questa occasione di confronto. Come si evince dall'intervento della collega Melfa, ma anche dall'ultimo saggio del nostro libro che affronta l'argomento in modo scientifico, il dibattito innestato dal caso di Giulio Regeni ha messo in luce le difficoltà della società italiana e di alcune nostre istituzioni a comprendere il senso del fare ricerca sul campo in un Paese come l'Egitto. In un passaggio della sua audizione presso questa Commissione, la Segretaria generale del Ministero degli affari esteri, la dottoressa Belloni, ha tracciato un parallelo tra la propensione al dialogo di un ricercatore come Giulio Regeni, che, cito, «conosceva l'arabo ed era curioso», e i rapporti diplomatici che le nostre istituzioni intrattengono con il regime di al-Sisi. Si tratta evidentemente di due tipologie radicalmente diverse di dialogo. Chi sono gli studiosi che compiono ricerche in Egitto? Con le loro esperienze sul campo, ma anche con i rapporti di amicizia e affettivi che continuano a coltivare anche al loro rientro in Italia, gli studiosi che fanno ricerca in Egitto producono non solo conoscenze insostituibili, ma anche un tessuto di relazioni che coincide nei fatti con lo spazio euro-mediterraneo. Senza questi ricercatoriPag. 6 europei in Medio Oriente o senza studiosi arabi in Europa, da Taha Husayn, all'inizio del Novecento, a Patrick Zaki oggi, questo spazio euro-mediterraneo nei fatti non esisterebbe e sarebbe abbandonato alle incomprensioni, agli stereotipi, alla propaganda. La ricerca sul campo è indispensabile per la conoscenza. Tuttavia, ci si continua a chiedere perché studiare i sindacati indipendenti in Egitto, perché andare lì a fare una ricerca del genere. Per la comunità scientifica internazionale il tema del sindacalismo indipendente in Egitto è un tema di indiscutibile rilevanza; rappresenta un rilevante argomento scientifico e non un oggetto di chissà quali segreti. Nel 2016 c'erano decine di ricercatori in Europa e negli Stati Uniti che svolgevano questo tipo di ricerca; oggi queste ricerche non si fanno più. L'assassinio di Giulio ha assestato un colpo di portata storica alla libertà di ricerca. Il messaggio è arrivato chiaro alle università di tutto il mondo. C'è un numero crescente di ricercatori che viene bloccato all'arrivo al Cairo ed è costretto a tornare indietro. Quando si riesce a passare e si vanno a fare ricerche – come è detto in uno dei saggi del libro – presso la Biblioteca Nazionale su un tema letterario e si chiede di poter prendere visione di una rivista letteraria degli anni venti che per puro caso ha il termine «politica» (siyasa) nel suo titolo, si viene sottoposti a interrogatorio dalla Sicurezza nazionale. Il problema non è che le nostre ricerche siano particolarmente «invasive», per utilizzare le parole dell'ambasciatrice Belloni. Come descrivere il livello di invasività di una ricerca in un contesto in cui registi, scrittori, traduttori – ci sembra significativo il caso recente di due traduttrici – vengono arrestati, spariscono o muoiono prima di arrivare al processo? Anche in un ambito di ricerca apparentemente meno sensibile come quello letterario, ci troviamo a che fare con distopie che presentano corpi smembrati, violentati o lasciati morire da parte delle istituzioni che se ne prendono carico. Sciogliere con un'analisi critica i tropi e le allegorie di questi romanzi significa forse produrre ricerca invasiva? Parlare di «ricerche invasive» per l'ordinamento politico vigente significa attaccare frontalmente la libertà accademica, il principio stesso di ricerca scientifica, in un contesto in cui noi stessi siamo costretti all'autocensura.
  La professoressa Ruocco aveva chiesto ad altri studiosi, che hanno compiuto in anni recenti importanti ricerche sul campo in Egitto, di prendere parte a questa audizione. Hanno preferito non partecipare per lasciarsi la possibilità di tornare in Egitto e non mettere a repentaglio l'incolumità dei loro studenti in questo momento nel Paese. Dunque, si tratta di assenze eloquenti perché parlano della vulnerabilità e dell'assenza di reciprocità nelle relazioni tra Italia ed Egitto. Siamo vulnerabili. Anche per questo fa male sentire persone, con cui noi ci identifichiamo, parlare di spocchia dei ricercatori che firmano petizioni. Non è possibile parlare di libertà e di sicurezza in Egitto attraverso la dicotomia turismo – ricerca invasiva, anche perché il Ministero dell'università e della ricerca, l'Unione europea e singoli atenei continuano a firmare accordi di collaborazione tra università italiane ed europee e le università egiziane. Le università egiziane figurano all'interno dei programmi Erasmus Mundus, quindi programmi di mobilità. Quando si firmano questi accordi, implicitamente ci si deve fare carico di tutelare innanzitutto l'incolumità degli studenti e dei ricercatori che usufruiscono di questi programmi di mobilità e poi la libertà di ricerca. La questione, di cui forse parlerà più estesamente la collega Brighi dopo di me, è quale potere negoziale si intende esercitare e in quale direzione. Perché l'Italia ha un potere negoziale con l'Egitto! Chiediamo di mettere la questione della libertà accademica al centro dei nostri rapporti con l'Egitto. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie, professor Casini. Do la parola alla professoressa Brighi.

  ELISABETTA BRIGHI. Vi ringrazio. Ringrazio i colleghi che sono intervenuti, ma soprattutto ringrazio voi dell'invito e anche del lavoro che state svolgendo nella ricerca della verità sul brutale assassinio di Giulio Pag. 7Regeni. Credo che il vostro operato sia importante e che soprattutto dia speranza a molti, me inclusa. Quindi, vi auguro ogni successo nel perseguire questi obbiettivi così importanti. Oggi il mio intervento vuole condividere con voi alcune ricerche su come i rapporti politici e diplomatici tra Italia ed Egitto siano cambiati dal febbraio 2016 a oggi. È una questione sulla quale mi sembra che diversi membri della Commissione abbiano già sollevato alcune domande, ovviamente e legittimamente. In più vorrei fare qualche raccomandazione di policy su come i rapporti fra Italia ed Egitto si potrebbero o dovrebbero modificare in futuro proprio alla luce della ricerca della verità sul caso Regeni; in particolare vorrei parlare degli strumenti politici e diplomatici che l'Italia ha in possesso per agevolare questo processo e più in generale per impedire il ripetersi di casi simili in Egitto.
  Prima di passare a questa relazione, però, permettetemi di dire qualche parola da accademica italiana in Inghilterra, da dove vi parlo, dove ho studiato e dove lavoro ormai da venti anni, ma nella fattispecie anche da ex docente dell'Università di Cambridge, dove ho insegnato relazioni internazionali fino al 2014, anno in cui Giulio iniziò il suo dottorato. Tengo a precisare che Giulio non fu mai un mio studente. Quello che però oggi vorrei dire alla Commissione è che, se si intende fare veramente chiarezza nella tragica fine di Giulio Regeni, occorre che voi, come Commissione, passiate a un vaglio molto rigoroso tutta una serie di affermazioni, e alcune accuse, che sono state rivolte nei confronti di questa Università e di alcuni specifici docenti di questo ateneo. A mio modesto avviso – dico questo nel rispetto dei lavori della Commissione e ovviamente anche dell'indagine in corso – molte di queste affermazioni hanno avuto il paradossale risultato di distrarre dalla ricerca dei veri colpevoli dell'omicidio di Giulio e hanno sicuramente dimostrato una scarsa, infelice, spesso scorretta conoscenza della realtà accademica della quale pure parlavano. Vorrei sottolineare tre elementi da sottoporre alla Commissione.
  Riprendendo le parole della collega, professoressa Melfa, il primo elemento riguarda come è stato dipinto il lavoro di ricerca di Giulio Regeni, il quale stava svolgendo regolarmente un dottorato di ricerca a POLIS, il Dipartimento di politica e studi internazionali dell'Università di Cambridge. La caratteristica di un dottorato di ricerca, per come si delinea in Gran Bretagna dove io stessa l'ho conseguito, e certamente per come si delinea nel dipartimento in cui ho lavorato, è l'indipendenza. Lo studente di dottorato, cioè, coadiuvato dal personale docente, svolge ricerche su un tema di sua scelta atte a scoprire qualcosa di originale e rilevante della realtà che ci circonda. Un dottorando non è un ricercatore su commissione, come è stato detto. Le istituzioni accademiche universitarie, peraltro, si fondano su questo lavoro di ricerca. Non ci sarebbe università senza ricerca. Le università si fondano sul principio della libertà di ricerca. La ricerca, a sua volta, comporta rischi e talvolta comporta molte incognite, come peraltro tutte le volte nelle quali cerchiamo di scoprire la verità rispetto a qualcosa. Si è detto molto sui rischi della ricerca in Egitto, oggi e allora. In secondo luogo, allora, vorrei di nuovo fare notare alla Commissione e rilevare con voi che nel 2015-2016, periodo di ricerca sul campo di Giulio, al Cairo erano presenti ricercatori provenienti da atenei in tutto il mondo, inclusi molti atenei italiani. Alcuni atenei italiani, da quanto mi risulta, continuano ancora oggi a mandare gli studenti in Egitto. Soprattutto, in quel periodo, il Foreign Office, al quale le università britanniche, tra cui Cambridge, fanno di prassi riferimento nel valutare il rischio legato alla ricerca sul campo, definiva l'Egitto un Paese sicuro, così come peraltro faceva il Ministero degli affari esteri italiano. In altre parole, nulla poteva far pensare alla fine che avrebbe fatto Giulio e di fatto non esisteva nessun precedente di quello che purtroppo è capitato a Giulio. Vorrei sottolineare un ultimo dato prima di passare alla mia relazione sui rapporti fra Italia ed Egitto. È stato detto molto sulla mancanza di collaborazione dei docenti di Cambridge, tra cui la relatrice, professoressa Maha Pag. 8Abdelrahman. Qui vorrei solo limitarmi a citare le parole del presidente di questa stessa Commissione che, nell'audizione del 18 febbraio 2020, ha puntualizzato – leggo a pagina 37 del resoconto stenografico – proprio in risposta a un'affermazione fatta in merito, che «la professoressa è stata ascoltata secondo le norme e le rogatorie internazionali della cooperazione giudiziaria con l'Inghilterra e ha risposto alle domande formulate dagli investigatori italiani attraverso le autorità inglesi». Il 16 gennaio 2018 il vice-chancellor dell'Università di Cambridge – che, per inciso, e contrariamente a quanto riportato sui giornali italiani, non è una «vice-carica», bensì la massima autorità accademica dell'ateneo, mentre il chancellor ha un ruolo solo onorifico, e dunque su questo caso si è coinvolto il vice chancellor, la massima autorità dell'ateneo – ebbene, il vice chancellor dichiarò che «la professoressa ha risposto per tre volte alle domande degli inquirenti italiani e ha collaborato pienamente con la polizia locale su diretta istruzione delle autorità giudiziarie italiane». Sottolineo questi aspetti, che peraltro sono di dominio pubblico, per un semplice motivo: mi auguro che la Commissione possa davvero passare al vaglio tutti gli elementi ed esaminarli con il rigore che purtroppo questo caso impone. Tutto questo non lo dico – ci tengo a sottolinearlo – per spirito di corpo, né per difesa di ufficio, tantomeno, e questa è una nota che devo aggiungere mio malgrado, per fare curriculum, come è stato sfortunatamente detto in una passata audizione. Il mio curriculum mi ha già portato a Cambridge, e anche a Oxford, per esclusivi meriti scientifici; quindi oggi la mia unica motivazione nel parlare a voi è semplicemente quella di dare un contributo alla ricerca della verità. Lungi da me voler strumentalizzare questo mio contributo per avere benefici professionali di cui non ho assolutamente bisogno.
  Passo a inquadrare la questione sulla quale ho scritto delle pubblicazioni recenti che sono molto contenta di mettere a disposizione della Commissione, se ce ne fosse bisogno, così come i contributi di altri colleghi che oggi non ho tempo di citare in maniera dettagliata. Tale questione riguarda le relazioni tra Italia ed Egitto prima, durante e dopo l'uccisione del povero Giulio Regeni. In maniera molto sintetica, per riassumere in una riga i risultati di queste ricerche, posso dire che queste relazioni erano e continuano a essere molto significative. Il caso Regeni è stato particolarmente difficoltoso da gestire per la politica estera italiana proprio perché, data anche l'efferatezza del crimine, si poneva in un'oggettiva controtendenza rispetto a un progressivo riavvicinamento fra i due Paesi, voluto soprattutto dall'Italia, a dispetto della deriva antidemocratica e controrivoluzionaria affermatasi in seguito all'ascesa di al-Sisi nel maggio 2014. Dal maggio 2014 al febbraio 2016, momento dei fatti a cui ci riferiamo oggi, si assiste a un riavvicinamento fra i due Paesi che tocca una molteplicità di fronti e di settori: il fronte economico con l'Italia che diventa primo partner commerciale dell'Egitto grazie a una serie di scambi che toccano vari ambiti, tra cui spicca quello energetico; il fronte politico-diplomatico, con il riconoscimento dell'Egitto come Stato garante della stabilità mediorientale e Stato chiave nella lotta contro il terrorismo; il fronte strategico-militare, con il quale si rafforza la cooperazione militare e di polizia fra i due Paesi, anche grazie a un flusso di equipaggiamenti militari e di software di sorveglianza che vengono dall'Italia; infine il fronte migratorio, rispetto al quale i due Stati concertano una serie di politiche destinate a frenare l'immigrazione illegale. Se ci si astrae dal dettaglio dei singoli settori e si pensa al contesto egiziano durante quei due anni, si evince che in ciascuno di questi settori si intensifica la cooperazione fra i due Paesi proprio in parallelo all'intensificarsi della controrivoluzione di al-Sisi. Più dura diventa la repressione in Egitto, più stretti diventano i rapporti con l'Italia. I fatti del febbraio 2016 sono in un certo senso, allora, un terribile e brusco risveglio; impongono certamente una battuta di arresto in questo processo, una battuta di arresto che però oggi possiamo dire essersi rivelata solo temporanea. Il richiamo dell'ambasciatore, come sapete, ma anche la Pag. 9sospensione della vendita di alcune attrezzature d'armi – decisioni che sono state prese dopo i fatti del febbraio 2016 – segnano un momento di discontinuità di cui voi ben sapete, ma nel medio e lungo periodo questo momento di discontinuità viene superato fino ad arrivare a un rafforzamento ulteriore della partnership tra i due Paesi che culmina simbolicamente nel rientro dell'ambasciatore italiano al Cairo, ma soprattutto nel discorso dell'allora Ministro degli esteri, Angelino Alfano, del settembre 2017, nel quale si definisce l'Egitto «partner ineludibile», una posizione ribadita nella sostanza dai suoi due successori alla Farnesina.
  Il caso Regeni, allora, non è solo un caso estremamente tragico, ma è un caso anche estremamente importante. È un caso politicamente importante perché evidenzia a chiare lettere alcune tensioni e contraddizioni della politica estera italiana, oltre che il costo di queste contraddizioni. Il sostegno all'Egitto di al-Sisi è stato spesso declinato in chiave di realismo, interesse nazionale e stabilità. Sostenendo il regime egiziano, si dice, ci si assicura la stabilità del Paese e dell'intera area mediterranea. Tuttavia, la strategia di sostegno all'Egitto in realtà, proprio in nome della stabilità, è non solo illusoria, ma anche controproducente sia sul piano internazionale sia su quello interno. Mi spiego: sul piano internazionale, un appoggio incondizionato come quello che l'Italia ha dato al regime di al-Sisi, ha avuto come unico effetto quello di aumentare l'appetito dell'Egitto, incoraggiandolo a perseguire una strategia revisionista, ambiziosa e destabilizzante nel quadro mediorientale e mediterraneo, come si può ben vedere in Libia. Questa strategia è difficilmente compatibile con gli interessi strategici di lungo periodo dell'Italia. Quindi l'appoggio incondizionato ad al-Sisi in nome della stabilità è un appoggio che in realtà destabilizza la regione mediterranea ed è controproducente per l'Italia. Se questo è vero da un punto di vista internazionale, da un punto di vista interno il Governo al-Sisi si fonda sul difficile e costoso mantenimento di un regime repressivo che di fatto sta acuendo, invece che risolvere, i problemi economici e sociali dell'Egitto e non da ultimo sta aumentando la pressione migratoria verso l'esterno. L'appoggio a questo regime, quindi, ha avuto l'effetto perverso e controproducente di inasprire la repressione interna e destinare questo Paese alla più grave crisi dei diritti umani nella sua storia recente, come è stato rilevato da alcuni studiosi. Nemmeno questo può essere considerato un obiettivo compatibile con gli interessi dell'Italia, tanto è vero che appunto di questa repressione uno dei suoi cittadini ne è rimasto tragicamente vittima. Una politica estera che opera, dunque, sulla base di un superficiale concetto di stabilità e che, soprattutto, prescinde dai valori democratici, è una politica estera dannosa e controproducente che lede non soltanto le prospettive democratiche e di vera stabilità all'interno di Stati come l'Egitto, ma che finisce per mettere in forte discussione gli standard democratici, la reputazione e la legittimità degli Stati che queste politiche perseguono, e qui mi riferisco all'Italia.
  In conclusione, tornando alla questione della verità e della giustizia per Giulio Regeni alla quale noi tutti lavoriamo, l'Italia possiede gli strumenti di pressione sull'Egitto per far sì che a questa verità si possa arrivare e arrivare più velocemente? La mia risposta è che mi pare di sì. Un'altra questione è se l'Italia voglia usare questi strumenti. Ve ne elenco tre. In primo luogo, si deve notare che l'interdipendenza politica, economica e militare fra i due Paesi è estremamente asimmetrica, ossia per l'Egitto l'Italia è un Paese molto importante. Questo significa che l'Italia ha un potere negoziale sull'Egitto che non è solo molto considerevole, ma che attualmente non usa o ha deciso di non usare appieno. Questo è un dato su cui secondo me bisognerebbe riflettere molto e porsi anche domande, quindi vi invito ad approfondire questo aspetto. In secondo luogo – come è stato rilevato in precedenza da qualche componente della Commissione e credo che sia estremamente importante sottolinearlo di nuovo – i passi avanti più decisi dell'inchiesta giudiziaria sul caso Regeni sono stati fatti durante il periodo di assenza Pag. 10dell'ambasciatore italiano dalla sede del Cairo. Questo, secondo me, deve far riflettere sulla scelta fatta il 14 agosto del 2017. È una scelta che occorre valutare ed eventualmente anche rivalutare o sicuramente riqualificare, alla luce del fatto che in Egitto questa scelta è stata intesa in maniera non equivoca come un ritorno alla normalità. Secondo me va anche rivalutata alla luce del fatto che, come si sa, c'è stato uno stallo nella vicenda giudiziaria negli ultimi dodici mesi. Quindi, la scelta del ritorno dell'ambasciatore deve essere valutata molto attentamente. Concludo con il terzo e ultimo strumento, ossia con una raccomandazione, che è anche un augurio, che l'Italia torni a pretendere che l'Europa non dimentichi quali sono i suoi valori fondamentali, fra cui proprio la giustizia e la democrazia, e che l'Europa, che rivendica spesso di comportarsi come una potenza morale nella sua azione esterna, non dimentichi di mettere al centro delle relazioni con Paesi come l'Egitto proprio questi valori. Grazie.

  PRESIDENTE. Ringrazio la professoressa Brighi. Prima di dare la parola ai colleghi per le domande, mi preme fare una precisazione. Questa Commissione indagherà e approfondirà ogni aspetto che possa essere utile alla ricerca della verità e soprattutto alla ricostruzione del contesto e delle cause che hanno portato alla morte di Giulio Regeni. Ci auspichiamo che la professoressa Maha Abdelrahman possa collaborare con questa Commissione più di quanto non abbia fatto con le autorità italiane e con l'autorità giudiziaria, stante il fatto che la mia dichiarazione riportava anche il suo rifiuto di rispondere direttamente alle autorità italiane, che era una sua facoltà secondo la legislazione inglese, come è stato ricordato qui dal dottor Colaiocco, ma anche che molte di quelle risposte sono state reticenti. Questo è quello che ha acquisito questa Commissione fino ad ora, ma noi auspichiamo che la professoressa Maha Abdelrahman possa collaborare con questa Commissione e quindi fugare ogni dubbio venendo in audizione. Volevo anche dire che comprendiamo le ragioni di assenza di studiosi che non hanno partecipato all'audizione per tutelare e garantire la loro possibilità di ricerca in Egitto. Confidiamo in futuro di poterli ascoltare, se lo riterranno, anche in forma segreta, quando ovviamente sarà più semplice farlo da un punto di vista logistico, in ragione dell'emergenza sanitaria.
  Do la parola al collega Ungaro.

  MASSIMO UNGARO. Grazie, presidente. Avevo tre domande per gli auditi, ma in realtà a una di queste è già stata data risposta dalla professoressa Brighi. Vorrei però prima esprimere un paio di considerazioni.
  Innanzitutto, sono d'accordo sul fatto che all'Italia manchi un centro di ricerca sul Medio Oriente e che, in un Paese come il nostro, che si prefigge il dialogo euro-mediterraneo, non avere un centro di ricerca ad hoc è veramente una grande assenza e una grande mancanza. Credo che questo sia un punto importante che ovviamente va al di là della vicenda oggetto dell'indagine della Commissione. Vengo alla seconda considerazione, se posso aggiungere qualcosa a quello che ha detto il presidente. Capisco benissimo la difesa del mondo accademico, della libertà accademica ed è ovvio che i tutor dei dottorandi non sono baby-sitter. È ovvio che indicano delle ricerche, ma è il dottorando in prima persona a decidere dove e come condurre la sua ricerca. Io però tengo a insistere, almeno da semplice componente di questa Commissione, che per noi era molto importante ottenere una maggiore collaborazione da parte della professoressa Maha Abdelrahman, perché fino adesso, dalle diverse audizioni che abbiamo fatto da dicembre ad oggi, mi sembra di capire che l'oggetto della ricerca di Giulio Regeni sia l'aspetto fondamentale che ne ha tracciato la fine, purtroppo. Quindi, penso sia importante per questa Commissione capire un po' meglio per quale motivo quella ricerca è stata svolta su quei temi, in quelle condizioni, sapendo inoltre del collegamento tra Cambridge, il Centro di studi sui diritti economici e sociali del Cairo e il sindacalista Abdallah. Ci auspichiamo, quindi, una maggiore collaborazione con la professoressa Abdelrahman. Ovviamente anch'io sono d'accordo con il denunciare gli Pag. 11atteggiamenti a volte ostili e aggressivi verso la professoressa da parte della stampa, ma, detto questo, di fatto rimane una sua mancanza di collaborazione, che per questa Commissione è un problema. Volevo soltanto ribadire questo concetto che è stato già affermato dal presidente.
  Passo alle mie due domande. Volevo chiedere se i nostri auditi, studiosi dell'Egitto contemporaneo, possono esprimere un giudizio su quale sia stato l'impatto del caso Regeni sull'Egitto contemporaneo, sulla politica, su quella che non so se possiamo definire società civile, sulla società egiziana dal 2016 a oggi. Non so se potete aggiungere qualcosa, oltre a ciò che avete già riferito. Per quanto condivida molte delle considerazioni espresse dalla professoressa Brighi sulla politica estera italiana, soprattutto in confronto all'Egitto, volevo sapere anche qual è stato a vostro avviso l'impatto del caso Regeni sulle relazioni tra Egitto e Occidente. Infine, la professoressa Brighi ha proposto a questa Commissione alcune leve che l'Italia potrebbe adottare per ottenere maggiore collaborazione da parte dell'Egitto. Non so se anche gli altri auditi vogliono aggiungere qualche altra considerazione su questo aspetto.

  PRESIDENTE. Raccogliamo alcune sollecitazioni per poi darvi la parola per le risposte. Hanno chiesto la parola i colleghi Trancassini e Quartapelle.

  PAOLO TRANCASSINI. Grazie per essere intervenuti e per il vostro contributo. Devo dire che inizialmente sono rimasto molto sorpreso, perché sinceramente non mi aspettavo che alla luce del tempo trascorso e del ruolo che svolge questa Commissione, il tema fosse come è stato indicato e vissuto sui social media l'omicidio di Regeni e tutto lo spazio dato alle notizie di stampa. Mi sarei aspettato – e questa è la mia prima domanda – che ci rispondeste su quanto questo fumo che ha girato intorno all'omicidio di Giulio Regeni, sia per via dei social, sia per via di una stampa che magari non era proprio sul pezzo, possa aver fatto comodo al Governo italiano perché a dirimere i dubbi, sia sui social media sia sulla stampa, sarebbe bastata semplicemente una chiara presa di posizione da parte del nostro Governo o anche di un membro della maggioranza che facesse chiarezza su chi era Giulio, quello che faceva e magari anche desse dignità al suo lavoro. Adesso sappiamo tutti che – in realtà per merito della famiglia – il nostro Ministero degli esteri e l'ambasciata sono stati immediatamente messi al corrente della serietà del lavoro di Giulio Regeni.
  Poi mi piacerebbe chiarire un'altra cosa. Il professor Casini – almeno per quello che riguarda la memoria che ho del lavoro di questa Commissione – ci riferisce un'importante novità, a mio modesto avviso. Fino adesso abbiamo capito molte cose dell'omicidio Regeni, anche grazie al lavoro eccellente svolto dalla Procura di Roma. Però è la prima volta che ci sentiamo dire che l'omicidio di Giulio Regeni è stato un messaggio chiaro che è arrivato. Questo non è poco, perché noi abbiamo ipotizzato che magari qualcuno avesse errato nella valutazione di Regeni, che fossero arrivate delle informazioni distorte. Però oggi il professor Casini ci dice che un messaggio doveva arrivare, che l'omicidio è un messaggio e che questo messaggio ha sortito i suoi effetti. Io fino a questa mattina immaginavo che forse i mandanti di questo omicidio, magari con il tempo si fossero anche un po' pentiti di quello che è accaduto. Mentre invece oggi – se è così, è una notizia – scopriamo che evidentemente, tornando indietro farebbero lo stesso. Sono riusciti a bloccare quell'attenzione nei confronti del mondo sindacale, quindi l'omicidio di Regeni è qualcosa che andava fatto e chi lo ha fatto non solo non se ne pente, ma ne ha i suoi frutti. Ecco, io su questo le chiedo di avere qualche maggiore informazione, capire qual è il vantaggio di non occuparsi di quel mondo. Io credo che questo sia cruciale rispetto alla nostra Commissione.
  Da ultimo, credo che vadano sottolineate le parole della professoressa Brighi. Non ci dice solo che i rapporti con il governo egiziano erano e continuano essere buoni. Questo, voglio dire, attiene a una politica internazionale, alla politica estera del nostro Governo. Noi abbiamo le nostre Pag. 12personali idee, ma non siamo qui per vagliarle. Però è importante, e le chiedo appunto di spiegarcelo un po' meglio, quando lei dice: «più dura è la repressione, più aumentano i rapporti». Ecco, magari la durezza della repressione e il miglioramento dei rapporti in qualche modo si possono anche ricollegare all'interno dell'omicidio Regeni, perché noi di questo stiamo parlando e se lei sente il bisogno di dircelo rispetto a un omicidio efferato, vorrei capire se all'interno della dura repressione ci sia finito anche Regeni e credo che sarebbe molto grave se i rapporti – senza entrare nel merito, lo ribadisco, della politica estera del vecchio e del nuovo assetto di governo – fossero migliorati o decisamente migliorati, all'indomani di repressioni cruenti all'interno delle quali è finito anche il povero Regeni. Grazie.

  PRESIDENTE. Do la parola alla collega Quartapelle. Poi darei la parola agli auditi per rispondere a questa prima tornata di domande.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Buongiorno. Ringrazio SeSaMO e i docenti intervenuti. Mi presento brevissimamente, perché quello che vorrei chiedere ha attinenza con una brevissima nota biografica. Sono stata una ricercatrice, sono stata una dottoranda, sono stata una studentessa italiana e anche di università britanniche, che ha fatto ricerca all'estero. Oggi faccio questa domanda guardando la questione anche dall'altro lato. Ho ascoltato con grande attenzione la vostra opinione sul ruolo della professoressa di Cambridge, sulle difficoltà di fare ricerca libera in un contesto di regime opprimente come quello egiziano. Mi riferisco però a quanto diceva la professoressa Brighi nel suo intervento, su quanto la vicenda, l'omicidio, la tortura di Regeni sia da iscrivere all'interno di un certo atteggiamento della politica estera italiana. Questa Commissione ha proprio l'obiettivo di arrivare a capire quali tipi di strumenti abbia l'Italia per giungere a una risposta certa di verità sulla vicenda di Giulio Regeni. È chiaramente una Commissione che ha molto a che fare con decisioni relative alla politica estera e quotidianamente, quando la Commissione si riunisce (almeno una volta a settimana), noi ci domandiamo che cosa potrebbe fare la politica estera, che strumenti ha la politica estera italiana. La politica estera italiana in questi anni ha fatto delle cose. Lo ricordava la professoressa Brighi, la decisione di ritirare l'ambasciatore italiano dal Cairo è uno di quegli strumenti di cui la politica estera italiana si è dotata per arrivare alla verità. Sono state interrotte relazioni commerciali, sono stati interrotti scambi culturali, è stata rivista la nostra posizione estera nei confronti dell'Egitto, gli scambi e la profondità del dialogo. Purtroppo dal vostro intervento io non ho sentito, invece, risposte a un'altra domanda che noi ci poniamo in questa Commissione e che vorrei rivolgere a voi. Che cosa può fare l'accademia italiana per tutelare meglio gli studenti italiani, i ricercatori italiani che vanno a fare ricerca sul campo? Mi dispiace, onestamente, di avere ascoltato nelle vostre parole un'idea di ricerca libera che vuol dire un'idea di ricerca irresponsabile. Cioè, è tutta responsabilità del dottorando, che decide cosa fare, che tipo di iniziative prendere, che tipo di persone contattare. Non si capisce esattamente in che cosa consista il legame tra docenti e studenti. È un legame di guida, è un legame di indirizzo, è un legame di crescita? Lo chiedo essendo stata una dottoranda, avendo avuto sostegno da parte di docenti che mi hanno fatto crescere come ricercatrice e come persona.
  La Commissione cerca di capire che cosa può fare, che tipo di modifiche possano esserci nella politica estera italiana per arrivare alla verità, essendoci già state delle modifiche dell'atteggiamento dell'Italia nei confronti dell'Egitto, discutiamo spesso se sono state sufficienti, se dobbiamo prenderne altre, che tipo di iniziative politiche si devono assumere. La mia domanda è molto semplice. Che tipo di iniziative intende prendere l'accademia italiana per proteggere la sicurezza dei ragazzi che vanno a fare tesi all'estero, tesi di dottorato, ricerca sul campo? Credo che la vicenda di Giulio Regeni sia così grave che Pag. 13le risposte che abbiamo avuto fin qua dalle persone che ho ascoltato a me non soddisfano. Grazie.

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri auditi. Vi chiedo solo di dare risposte puntuali, per rientrare nei tempi, in ragione della ripresa dei lavori dell'Assemblea. Potremmo seguire per le risposte lo stesso ordine di prima.

  MONICA RUOCCO, presidente della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO). Comincerei proprio dall'ultima sollecitazione. È ovvio che la libertà di scelta di un dottorando del proprio argomento di lavoro e la libertà di ricerca – in questo caso effettuata in un altro Paese – si accosta anche a un docente che segue questa richiesta, che forma il dottorando, a una scuola dottorale che offre dei corsi e via dicendo. Questo è indubbio. Io tornerei alla richiesta che ha fatto Daniela Melfa alla fine del suo intervento. Il fatto è che purtroppo l'accademia italiana in questi Paesi non ha delle strutture di rapporto ovvero i nostri dottorandi – e questo è successo anche a me in prima persona – spesso devono ricorrere agli istituti francesi, britannici, danesi, e via dicendo. Se avessimo degli istituti di ricerca italiani in questi Paesi – che sono oltretutto Paesi di interesse euro-mediterraneo molto rilevante per la politica, per l'economia, per la cultura italiana – sarebbe diverso. L'accademia potrebbe fare questo, potrebbe esprimere e introdurre il proprio sapere attraverso questi centri di ricerca. Inserirei di nuovo la questione Giulio Regeni in una situazione più generale della libertà di ricerca in Egitto che riguarda, purtroppo, non soltanto i ricercatori e gli studiosi stranieri. Come sosteneva Lorenzo Casini, la situazione della libertà di espressione e di ricerca riguarda anche gli studiosi, i ricercatori e gli intellettuali egiziani. Quindi, credo che bisognerebbe allargare lo sguardo e guardare nel complesso alla situazione della libertà di espressione e di ricerca in Egitto oggi per quanto riguarda sia i ricercatori e gli studiosi stranieri sia i ricercatori e gli studiosi egiziani.

  DANIELA MELFA. Anch'io partirei dall'ultima domanda sollevata dall'onorevole Quartapelle. L'attività di ricerca che abbiamo provato a delineare non è una ricerca «irresponsabile». Non era assolutamente in questi termini che ci siamo espressi. Il supervisor, letteralmente, ha un lavoro di supervisione. Il supervisor, il tutor, come dicevo, concorda, contribuisce a ridefinire il metodo di lavoro, dà una mano a strutturare la letteratura bibliografica di riferimento. Ma il ricercatore si trova sul campo e molte volte ha più elementi di conoscenza del supervisor. Io personalmente seguo la ricerca di un dottorando che lavora tra Tunisia e Niger, fa un lavoro comparativo. Conosco la situazione della Tunisia, ma non bene quella del Niger. Quindi l'accademia italiana cosa può fare? Vorrei sottolineare che l'accademia italiana già fa. Noi continuiamo a operare con gli strumenti e le risorse, spesso limitate, di cui disponiamo, con una forte motivazione e non mandiamo nessuno allo sbaraglio. Tra l'altro è stato detto cos'è SeSaMO, quando è nata. SeSaMO nasce proprio dall'esigenza – per quanto riguarda gli studiosi di Medio Oriente e Nord Africa – di conoscersi, di fare rete. Questo è fondamentale. Ma siamo nell'ambito dell'informalità, del volontariato, della gratuità e, mi sembra importante precisarlo, al di là del nostro ruolo professionale. Rispondo all'onorevole Trancassini – credo che si rivolgesse a me – sul perché ho insistito così tanto sulle ricostruzioni della stampa. Forse per deformazione professionale, noi studiosi siamo abituati a decostruire, e non credo che sia superfluo fare questo lavoro. In realtà i media, i social rivelano quello che è un modo di pensare predominante, che appare così ovvio, scontato e da essere considerato vero, per cui diventa sempre più difficile dire: «ma guardate che non è così». Questa è stata la ragione, volevo partire dalle convinzioni diffuse per chiarire qual è il ruolo del ricercatore rispetto al suo dottorando. Anche il concetto di interesse nazionale merita un lavoro di decostruzione di questo tipo, che Elisabetta Brighi ha fatto molto bene nel suo saggio nel volume, e che qui ha accennato. Grazie.

Pag. 14

  PRESIDENTE. Do la parola al professor Casini.

  LORENZO CASINI. Inizierò a rispondere sulla questione del messaggio. Scusatemi, sono un letterato e inizio con la citazione letteraria di un romanzo egiziano di 'Ala al-Aswani, tradotto in italiano con il titolo Cairo Automobile Club, celebrazione allegorica della rivoluzione del 2011, che termina con il matrimonio tra l'eroe egiziano e una ragazza europea. È un'inversione di tutta una tendenza della rappresentazione dell'Europa che ha orientato l'evoluzione del romanzo egiziano dagli anni Trenta a oggi. Perché accade questo? Perché i giovani egiziani protagonisti della rivoluzione del 2011 hanno vissuto il rapporto con i coetanei europei come una risorsa preziosa. Queste relazioni transnazionali fanno paura a chi esercita il potere. Per questo non mi soffermerei tanto sugli aspetti specifici del mondo sindacale: secondo me a fare paura sono gli studiosi che vanno in Egitto, intrattengono rapporti, superano le mura della censura attraverso questi rapporti che mantengono al loro ritorno in Italia. Il mondo sindacale è un mondo sensibile. Ma nel 2016 i sindacati erano stati in buona parte già annientati dal regime, come dimostra il saggio di Del Panta sul movimento operaio contenuto nel nostro volume Minnena. L'Egitto, l'Europa e la ricerca dopo l'assassinio di Giulio Regeni. A fare paura, appunto, sono questi rapporti. Io non dico e non ho detto che l'assassinio di Giulio Regeni è stato motivato, si motiva e si spiega con la necessità di mandare un messaggio. Nei fatti il messaggio c'è stato, e dopo il 2016 è cambiata radicalmente la possibilità di muoversi in Egitto.
  Vengo alla domanda sul ruolo dell'accademia italiana. Come ha spiegato prima la collega Melfa, noi andavamo a fare ricerca nella Siria di Hafiz al-Asad, nell'Iraq di Saddam Hussein. Non esiste un precedente simile a quello di Giulio Regeni. Quando io, ad esempio, sono andato in Egitto a fare le mie ricerche, ho avuto relazioni con molti scrittori che erano stati in carcere, che erano anche oppositori politici. La mia relatrice di dottorato seguiva le ricerche, ma non conosceva la realtà con cui avevo a che fare. Non si può chiedere questo a una relatrice, anche perché la ricerca prende corpo a mano a mano che si coltivano relazioni sul campo. Ci tutelerebbe e aiuterebbe avere dei centri di ricerca in loco dove ci si possa appoggiare, ma chiedere a un relatore o a una relatrice di avere una percezione di ciò che il ricercatore sta facendo in loco non è possibile. Ripeto, dal momento in cui si fanno degli accordi di collaborazione e si includono le università egiziane all'interno di questi scambi di mobilità, credo che i docenti, i ricercatori e gli studenti non andrebbero lasciati soli.

  PRESIDENTE. Prego, professoressa Brighi.

  ELISABETTA BRIGHI. Vi ringrazio delle domande che mi fanno capire che c'è interesse anche a confrontarsi, ma allo stesso tempo mi fanno anche capire che è necessario continuare a dialogare e a farlo con uno spirito di apertura anche alle prospettive che vengono presentate, ossia in un tentativo di comprensione di quale può essere la nostra prospettiva come accademici. Mi colpisce molto che questa differenza di prospettive sia stata interpretata dalle vostre domande come una nostra ostinazione o come una nostra reticenza. Questa interpretazione mi colpisce davvero molto, perché non c'è nulla di reticente in quello che ho detto io, non c'è un atteggiamento di ostinazione da parte nostra. C'è semplicemente il tentativo di cercare di spiegare, per come possiamo, cos'è il mestiere dell'accademico, come si fa il ricercatore per la nostra esperienza di accademici. Quindi, vi ringrazio molto delle domande e credo che siano molto importanti proprio perché ci fanno capire che c'è ancora molto su cui capirsi. Questo come punto generale rispetto alle domande che avete sollevato.
  Poi, molto brevemente, rispondo ad alcune questioni che sono state sollevate. Partirei dall'onorevole Trancassini. La ringrazio per l'attenzione con cui ha ascoltato la relazione. Lei, appunto, ha rilevato questoPag. 15 mio parallelismo tra la repressione di al-Sisi e il riavvicinamento dei due Paesi (cioè Italia ed Egitto). Le faccio però solamente notare che io ho semplicemente sottolineato un parallelismo fra le due cose. Ho detto che all'aumentare della repressione c'è stato anche un riavvicinamento dei due Paesi. Ora, come sappiamo noi scienziati sociali, la correlazione non equivale a una causazione. Cioè non ho voluto dire che per causa della repressione interna, allora i rapporti sono migliorati. Semplicemente, mi limito a riprendere quello che dicevo nella relazione, c'è stato un riavvicinamento tra i due Paesi, a dispetto della deriva antidemocratica e controrivoluzionaria di al-Sisi. Ora, perché questo è rilevante? In realtà si lega anche agli interventi successivi. È molto rilevante perché l'Europa dal 2008, cioè dal trattato di Lisbona, si era dotata di uno strumento cosiddetto di condizionalità, ossia uno strumento che condizionava la propria azione esterna – cioè la politica estera di tutti gli Stati europei – al rispetto di alcuni valori fondamentali, tra cui ovviamente i diritti umani. Ora capite che una politica estera che continua, anzi rafforza alcuni rapporti con Paesi che sono in palese violazione dei diritti umani e dei valori fondamentali che l'Unione europea ha nella costituzione, significa che questa politica di condizionalità non esiste più. Significa che la nostra azione di politica estera al momento è slegata rispetto a questi valori o comunque questo meccanismo che li teneva insieme, uniti alla politica estera, si è sgretolato. Questo è il punto che vorrei sottolineare oggi.
  Riprendo la domanda dell'onorevole Quartapelle, sulla quale si sono soffermati già i miei colleghi, su cosa si faccia in accademia per tutelare gli studenti. Si fanno molte cose. Si fanno, ad esempio, dei processi di valutazione del rischio della ricerca. Posso portare un esempio personale come supervisor. Recentemente ho avuto uno studente che era interessato a osservare la situazione in un Paese appena uscito da un conflitto decennale. Ci siamo fermati? Non abbiamo mandato questo studente perché c'era pericolo? No, l'abbiamo mandato lo stesso, ma con le cautele del caso e ci siamo molto premurati di minimizzare il rischio. Si può veramente cancellare il rischio, cioè arrivare a una ricerca a rischio zero? No, perché l'unica cosa che radicalmente riduce il rischio della ricerca è la volontà del Paese in cui si fa ricerca di tutelare la libertà di ricerca o meno. Questo è il fattore veramente dirimente e veramente essenziale. Se io mando un ricercatore in una situazione di conflitto o post-conflitto e mi assicuro anche di avere preso tutte le cautele del caso, ma questo Paese ha deciso di prendere come bersaglio i ricercatori, nulla gli impedirà di pedinare il mio ricercatore o di intercettargli i telefoni. Lo dico perché è capitato. Quindi il vero fattore dirimente, nonostante tutte le cautele che si possano prendere rispetto alla ricerca, è se il Paese in cui si fa ricerca abbia deciso di prendere come bersaglio la libertà di ricerca o meno. Su questo spero di essere stata chiara.
  L'ultima cosa che volevo dire è rispetto alla prima domanda dell'onorevole Ungaro. Ha già risposto in parte il professor Casini. Quando lei dice che la fine di Giulio è stata decisa dal suo tema di ricerca, io non credo di essere d'accordo, perché su quel tema di ricerca, nello stesso momento in cui Giulio operava al Cairo, lavoravano tantissimi altri ricercatori e quindi non si capisce perché gli altri ricercatori non siano finiti allo stesso modo, se era per il tema di ricerca. Quello invece a cui bisogna pensare è che nel registro degli indagati sono finiti cinque agenti della intelligence egiziana. Quindi quello che ha deciso la fine di Giulio, e quello che è poi finito sul registro degli indagati, non è la ricerca, ma nomi precisi di agenti appartenenti ad apparati di sicurezza egiziani.

  PRESIDENTE. Do la parola all'onorevole Pettarin e poi ho delle domande da porre a nome di alcuni colleghi che hanno seguito l'audizione da remoto.

  GUIDO GERMANO PETTARIN. Grazie, sarò brevissimo. Ci sono alcune osservazioni che avete fatto che mi hanno colpito moltissimo, una in maniera particolare. È l'osservazione che non esistono precedenti Pag. 16come quello che fa riferimento alla vicenda di Giulio Regeni. La domanda che mi sto ponendo è cosa significhi che non esistano precedenti come quello che fa riferimento a Giulio Regeni. Non c'è mai stato un precedente che ha coinvolto un italiano in una vicenda simile o non c'è mai stato un precedente che abbia coinvolto qualunque tipo di ricercatore di qualunque nazionalità? Dico questo perché alcune altre osservazioni che avete fatto mi hanno colpito molto, sempre in riferimento a questo presupposto. La maggior parte dei risultati delle attività di indagine si sono avuti nel momento in cui il nostro ambasciatore non era al Cairo. Nel momento in cui vi è stata la decisione di rinviare di nuovo il nostro ambasciatore al Cairo, il messaggio o l'impressione che il ritorno dell'ambasciatore ha dato è stato quello che andava tutto bene.
  L'altra osservazione era che a un certo punto vi era stata una specie di new deal dei rapporti tra Italia ed Egitto, una specie di luna di miele che aveva portato anche al fatto che l'Italia diventasse il più importante dei partner commerciali con l'Egitto. Questa vicenda ha naturalmente influito moltissimo su questo tipo di situazione, ma abbiamo visto dai dati che sono emersi nelle audizioni della Commissione che gli scambi commerciali, soprattutto in certi tipi di ambiti come quelli degli armamenti e dei sistemi d'arma, hanno avuto un bello sviluppo anche dopo ciò che è accaduto a Giulio Regeni. Inoltre, ed è l'ultima osservazione che avete fatto e che riporto, ciò che mi ha ancora colpito moltissimo è il fatto di dire che l'Italia non sta utilizzando la capacità di persuasione, la moral suasion e forse la economic suasion che potrebbe utilizzare nei confronti dell'Egitto. La domanda che vi faccio è estremamente brutale e si collega da ultimo al fatto che l'Unione europea in questa situazione non esiste e che tutti sappiamo che non esiste una politica estera dell'Unione Europea e che le condizionalità sono semplicemente delle foglie di fico. La domanda è questa. Se Giulio Regeni invece che italiano fosse stato inglese, sarebbe stato ucciso nella stessa maniera? Mi rendo conto che non è una domanda semplice, ma credo che faccia parte delle cose che ci stiamo chiedendo. Grazie.

  PRESIDENTE. Scusate, nel frattempo vi faccio altre domande che sono arrivate dai commissari che stanno seguendo i lavori, purtroppo in videoconferenza. La prima domanda è della collega Suriano che chiede di sapere qual è il motivo per cui, a vostro avviso, la ricerca di Giulio è apparsa scomoda considerando che i ricercatori, come da voi stessi affermato, da anni fanno ricerca in Egitto. In parte avete già risposto a questa domanda. Poi chiede qual è la ragione per cui, secondo voi, la professoressa Abdelrahman ha deciso di non collaborare pienamente con gli inquirenti italiani, decidendo di non farsi interrogare direttamente da loro.
  La collega Sportiello chiede se i supervisor, nel coadiuvare i dottorandi, indichino anche possibili interlocutori che possono far parte di una rete da costruire in loco. Nello specifico, questa è un'aggiunta che faccio io e fa parte delle altre domande, tra i ruoli della tutor c'è anche quello di individuare e coadiuvare nell'individuazione del supervisor in loco rispetto alla ricerca?
  Ancora la collega Sportiello chiede se non riteniate che proprio la mancanza di collaborazione da parte della professoressa Maha Abdelrahman abbia contribuito a non fare chiarezza sull'intera vicenda. Terza domanda è che avete accennato al fatto che non ci fossero precedenti che potessero far temere per la condizione di Giulio al Cairo, però risulta a questa Commissione che qualche mese prima ci fu un caso di un'altra ricercatrice espulsa dall'Egitto, soltanto perché le era stato recapitato un testo che gli apparati di sicurezza egiziani avevano ritenuto sospetto. I tutor vengono in qualche modo informati di casi come questo per allertare o mettere al corrente i dottorandi in partenza? Queste sono le domande della collega Sportiello.
  Visto che non ci sono altri interventi, aggiungo alcune questioni io, e poi possiamo, dopo le vostre risposte, chiudere l'audizione. Tra i compiti della Commissione c'è anche quello di un'attività di indagine e di ricerca proprio sulla sicurezza Pag. 17della ricerca. È uno dei compiti attribuiti dalla delibera istitutiva alla Commissione. Mi pare che questa audizione si sia molto concentrata su questo aspetto importante che è uno degli aspetti che riguarda la vicenda di Giulio Regeni, e in parte in modo meno significativo su altre questioni pure importanti affrontate dal vostro lavoro e anche durante questa audizione. Proprio per questo torno a sottolineare alcune questioni. Lo dicevo prima rispetto ai ruoli della tutor, del ruolo di supervisor di un dottorando, ma più in generale delle istituzioni di ricerca e delle istituzioni accademiche. Da questo punto di vista, c'è una parte che riguarda ovviamente l'accademia italiana, le cose che diceva la collega Quartapelle, ma c'è anche il ruolo di un'istituzione accademica importante come quella di Cambridge.
  La domanda che vi faccio è questa: Cambridge cosa ha cambiato dopo che un suo dottorando ricercatore è stato assassinato in quel modo in Egitto? Noi oggi viviamo una situazione simile con la vicenda di Patrick Zaki, in cui l'Università di Bologna ha preso posizioni molto nette in questo momento nei confronti del Governo egiziano. Non ci risultano posizioni altrettanto nette e decise, se non di circostanza, da parte dei vertici di Cambridge. Alcune sono riportate nel vostro volume, nel saggio del professor Starkey che dice esattamente come non vi siano prese di posizione così decise come ci si sarebbe aspettato.
  L'altra questione era quella a cui faceva riferimento la collega Sportiello. Noi sappiamo oggi che c'era stato un precedente che riguardava una ricercatrice di Cambridge espulsa dall'Egitto e che in qualche modo l'università fosse a conoscenza di un clima difficile in quel momento. Sappiamo anche che Giulio Regeni aveva espresso qualche perplessità alla sua tutor rispetto all'individuazione della supervisor egiziana. Ora è chiaro che io non vengo a fare queste domande a voi. Però le segnalo per dire che queste domande dovrebbero avere una risposta e questo non può essere fatto attraverso risposte telegrafiche date alle autorità inglesi. Probabilmente anche questa grande confusione e questo clima che si è venuto a creare sulla stampa, che voi dite essere solo un effetto di non comprensione, può essere stato alimentato dal non avere preso una posizione chiaramente esplicita e non avere collaborato pienamente con le autorità che si sono occupate di questa indagine. Quindi, pur rimanendo, dal punto di vista formale, piena la collaborazione che c'è stata nell'acquisizione del materiale documentale che la Procura ha fatto nei confronti di Cambridge e, dal punto di vista formale, l'escussione della professoressa Maha Abdelrahman, rimane questo punto che sicuramente avrà alimentato le cose che voi qui oggi riportate e che non ha contribuito a dare un pieno ruolo al mondo accademico in questa fase.
  Vi do la parola per le risposte.

  MONICA RUOCCO, presidente della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO). Grazie mille per questa seconda serie di domande. Parto dal ruolo della supervisor, del tutor di una tesi, se individua o meno gli interlocutori in loco. Non sempre. Io mi occupo soprattutto di letteratura e di drammaturgia e quelli che posso individuare sono degli esperti e degli scrittori che si trovano negli altri Paesi. Ho colleghi che fanno riferimento e appartengono alle accademie dei vari Paesi in questione. Però, ribadisco l'autonomia che a volte, spesso, il dottorando, lo studente o il ricercatore ha rispetto alle indicazioni iniziali, se ci sono. Ovviamente i tutor informano, loro informano per quanto possono riguardo alla situazione dei Paesi. Ma, ripeto, penso che la situazione egiziana in quel periodo fosse una situazione assolutamente peculiare. Quando si dice che non esistono precedenti di una morte, di un assassinio, di un accanimento così violento su un ricercatore, a mia memoria non ci sono mai stati.
  Lascerei ai colleghi le domande più specifiche sulle relazioni internazionali e sul caso della decisione della collega Maha Abdelrahman. Io non la conosco, non l'ho mai conosciuta personalmente, quindi non saprei individuare quali sono i motivi per cui abbia operato le sue scelte. Grazie.

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  DANIELA MELFA. Anch'io sarò telegrafica, semplicemente per precisare che per quanto riguarda quantomeno l'accademia italiana, non esiste una procedura regolamentata per cui si deve fare in un certo modo. Esiste una prassi consolidata e supportata dall'esperienza, all'interno della quale si inscrive questo rapporto tra supervisor e dottorando. Forse nel caso dell'accademia inglese è diverso, ma non è necessario individuare un supervisor in loco nel caso italiano. Però è certo che il docente, se ha dei contatti utili, li fornisce al dottorando, a maggior ragione se è la prima volta che si reca in un determinato Paese. Però vi ripeto che è una prassi che si è consolidata. Il supervisor è sicuramente a un livello della propria carriera diverso, ha una maggiore esperienza, maggiore maturità, maggiore preparazione, per cui evidentemente contribuisce a inquadrare la ricerca, a indirizzarla, ma nel rispetto dell'indipendenza e della libertà di ricerca del dottorando. I tutor vengono informati di casi problematici o di rischi? Da chi? Il supervisor, cioè noi, ripeto, operiamo con gli strumenti e le risorse di cui disponiamo. È nostra cura essere attenti a quello che succede in loco, ma non riceviamo comunicazioni ufficiali in questo senso.

  LORENZO CASINI. Sull'affermazione che non esistano precedenti si sono già espresse le colleghe. Andando a ripercorrere la storia di qualche decennio, non dico che non si possa trovare nessun caso, non ho elementi sicuri per affermarlo, ma sicuramente questo tipo di accanimento che poi ha avuto queste ripercussioni non lo si trova. Su questo vi invito a riflettere, mi sembra importante. Pensate a un regime come quello di al-Asad padre in Siria. Gli studiosi che andavano là, ma anche gli archeologi, i linguisti, le persone che facevano ricerche non sul contemporaneo, sapevano di essere intercettati, seguiti, spiati. Dopo i primi giorni identificavano la propria spia che li seguiva, ma sapevano che il rischio in cui potevano incorrere, se per caso fosse loro sfuggito qualche commento di troppo, poteva essere l'espulsione. Questo era il rischio massimo che uno studioso europeo pensava di poter correre. Il motivo per cui la ricerca di Giulio era scomoda secondo me riguarda fondamentalmente il contesto. Io nel 2012 ho partecipato a incontri con degli amici e si parlava di politica. C'era Morsi, ma c'era una grande vivacità, un grande fermento politico e culturale. Si parlava anche dell'importanza dei sindacati che si stavano formando e affermando in Egitto. Questi argomenti erano parte di una discussione pubblica che si faceva nei caffè dove si sedevano sindacalisti e intellettuali di sinistra. Chiunque si occupi di Egitto contemporaneo sa quali sono i caffè dove si siedono certe persone, ogni caffè ha un particolare tipo di avventori. Si trattava di argomenti di dominio pubblico. Credo che davvero meriti concentrarsi sul contesto della sparizione di Giulio, tra l'altro un 25 gennaio, in cui sono state fatte delle retate. Ricordiamo che i democratici egiziani hanno detto subito: «Giulio minnena», cioè «Giulio è parte di noi ed è stato ucciso come uno di noi». Quel 25 gennaio son state fatte retate e tante persone sono sparite. Ci si potrebbe chiedere a proposito cosa ha fatto Patrick Zaki. Sinceramente a me ha colpito molto sentire l'ambasciatrice Belloni che diceva, rispondendo a una vostra domanda su Patrick Zaki: «Continuo a chiedermi che cosa ha fatto.» A noi, intrattenendo rapporti con amici e colleghi egiziani, le notizie ci arrivano continuamente anche sui social. Ogni giorno c'è una sparizione, due giovani traduttrici sono sparite e non se ne sa più niente. Cosa aveva fatto Patrick Zaki? Niente. Probabilmente aveva messo un like su Facebook. Questo è il livello di repressione oggi in Egitto e chiaramente io oggi non manderei un dottorando in Egitto, ma non manderei nemmeno uno studente nonostante il fatto che le università egiziane figurino tra i luoghi di destinazione degli Erasmus Mundus. Le istituzioni europee e il Ministero dell'Università e della ricerca danno un avallo di legittimità alla possibilità di mandare studenti, ma secondo me in questo momento non ci sono le condizioni di sicurezza.
  Rispetto alla domanda sull'italianità di Giulio circa la possibilità che fosse stato di un altro Paese, recentemente negli Emirati Pag. 19Arabi Uniti, non so se avete seguito il caso, un ricercatore britannico è stato arrestato e sottoposto a una dura condanna, e soltanto dopo un lavoro diplomatico del Regno Unito se ne è avuta la liberazione. In Kuwait c'è stata l'espulsione di una ricercatrice francese. Credo che negli ultimi anni questi attacchi alla libertà di ricerca siano aumentati e davvero vi invito a riflettere nuovamente su come questo si inquadri all'interno di mutazioni di equilibri geopolitici, di un cambiamento anche del peso dei nostri Paesi verso quelle realtà. Si ha l'idea che si possano fare cose che prima non si facevano.

  PRESIDENTE Grazie. Prima di dare la parola alla professoressa Brighi, volevo fare un piccolo commento su queste ultime cose. Sono passati quattro anni dall'omicidio di Giulio. Rispetto alle ultime cose che sono state dette, ci sono dei protocolli, delle cose che sono cambiate nel modo di fare ricerca, di valutare, per esempio, la sicurezza dei Paesi in cui si va? C'è una scelta, veniva qui ricordato, da parte delle istituzioni europee e anche di quelle italiane, di ritenere l'Egitto un Paese sicuro nonostante tutto quello che accada lì, ma c'è anche l'autonomia degli atenei di scegliere quali sono i Paesi in cui ci sono le condizioni di sicurezza e quali protocolli adottare? Sono stati fatti dei protocolli? Cambridge ha per esempio cambiato qualcosa nel suo modo di relazionarsi con la ricerca in Egitto? In Italia vi risulta che ci siano atenei che abbiano scelto di cambiare i propri protocolli di sicurezza oppure di interrompere la possibilità di fare ricerca in Egitto?

  MONICA RUOCCO, presidente della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO). Intervengo su questo punto. Immediatamente dopo l'assassinio di Regeni, avemmo comunicazione ufficiale di non inviare più studenti e dottorandi, ma di fatto, ufficialmente, le comunicazioni e i rapporti con le università egiziane non sono mai smessi. Si è continuato con l'Erasmus Mundus, ancora continuano le convenzioni ed è a discrezione del docente, del rettore e delle singole università comportarsi o non comportarsi in un determinato modo. Però sinceramente non penso che siano arrivate linee guida, se non immediatamente dopo il caso Regeni.

  ELISABETTA BRIGHI. Tornerò su quest'ultima domanda tra poco, ma prima volevo toccare un paio di altri punti. Il primo è quello che è stato sollevato dall'onorevole Pettarin che fa domande a cui purtroppo io non ho risposte. Se Giulio fosse stato inglese, sarebbe stato ucciso alla stessa maniera? Purtroppo questa non è una domanda su cui ho informazioni e alla quale posso dare una risposta. Secondo me ci sono tante domande urgenti su cui esercitarci e questa la terrei per dopo perché purtroppo è speculativa.
  Rispetto al secondo insieme di questioni, sui precedenti hanno già parlato i miei colleghi. Per capirci, c'erano stati casi di espulsione o di trattenimento, oppure di richieste di spiegazioni al ricercatore, ma un precedente dello stesso tipo di quello che è successo a Giulio non c'era stato. Questo è sostanzialmente quello che stiamo cercando di dire. Al massimo, come ha detto giustamente il professor Casini, c'erano state delle espulsioni. Rispetto all'espulsione della ricercatrice di Cambridge, non ho informazioni sul fatto se questo dato fosse arrivato a Cambridge oppure no, ma penso proprio di sì. La mia valutazione è che sarebbe sicuramente arrivata come informazione, e probabilmente in effetti è arrivata. La sicurezza della ricerca è una grossa questione ed è un tema sul quale, secondo me, dovremmo assolutamente interrogarci. In Inghilterra ci fu un dibattito molto forte dopo il caso Regeni. Dopo il febbraio 2016 moltissime università si confrontarono su questa questione proprio perché sconvolte da questo fatto che segnava una discontinuità e poneva un forte problema. Nello specifico non so se Cambridge abbia cambiato i protocolli o meno, in quel momento ero in un'altra università. La mia università sicuramente ha fatto un lavoro di rivalutazione di questi formulari. Da noi in Inghilterra esistono procedure standard che si chiamano risk assessment exercise. Sono dei protocolli, dei documenti da compilare che poi passano al vaglio non solo Pag. 20del supervisor, ma a tutti i livelli, cioè anche del capo del dipartimento. La firma che conta su questi protocolli alla fin fine è quella del capo del dipartimento, che si assume la responsabilità del lavoro di ricerca sul campo. I protocolli esistono, ma fondamentalmente questi protocolli si basano sulle valutazioni che fanno ufficialmente i Ministeri degli affari esteri. La valutazione se i ricercatori possano andare in un determinato Paese si fa assolutamente in base alle guidelines del Foreign Office nel caso inglese e del Ministero degli affari esteri nel caso italiano. Vi faccio notare che ancora oggi la connotazione dell'Egitto è quella di Paese sicuro da parte degli organi ufficiali del Ministero degli esteri, non da parte delle università. Questo è per puntualizzare.
  Volevo dire un'ultima cosa sulla domanda dell'onorevole Suriano e anche sulle considerazioni del presidente, cioè la domanda sul perché la tutor abbia deciso di non collaborare. Vorrei riprendere quello che dicevo prima, dicendo che formalmente la collaborazione c'è stata e quindi, di nuovo, la puntualizzazione mi sembra doverosa. La tutor ha risposto alle domande degli inquirenti italiani attraverso le autorità inglesi. Perché abbia deciso di non collaborare in maniera più sostantiva, lo dovete chiedere fondamentalmente a lei o ai colleghi di Cambridge. Una cosa però che posso dire è che il cancan della stampa italiana, partito immediatamente dopo i fatti e che immediatamente ha lanciato accuse, quindi non ipotesi ma accuse, nei confronti di questa docente e nei confronti dell'Università in generale è stato molto stigmatizzato a Cambridge. Così come è stato stigmatizzato in maniera negativa anche il mancato rispetto del segreto istruttorio, ossia il fatto che dichiarazioni date confidenzialmente all'autorità giudiziaria saltassero fuori sulla stampa regolarmente. Queste due cose sono state molto stigmatizzate a Cambridge in maniera negativa e molto probabilmente hanno fatto anche capire che occorreva una certa cautela nel relazionarsi con queste istanze. Tutto questo in realtà ha portato molti accademici a farsi una domanda, cioè chiedersi perché tanta attenzione nei confronti di Cambridge e non dell'Egitto. Questo ha fatto comodo all'Egitto perché ha portato l'attenzione altrove, ma la mia domanda che rivolgo anche a voi oggi, è perché dovrebbe far comodo all'Italia? Se fa comodo all'Egitto puntare il dito su altri, perché dovrebbe fare comodo anche a noi, all'Italia? Secondo me non fa comodo anche a noi. Questa è una domanda che ricordo era emersa molto nettamente e che vi lascio, assieme al mio ringraziamento per le domande e per la possibilità che ci avete dato.

  PRESIDENTE. Vi ringrazio molto per il prezioso contributo che avete dato ai lavori della Commissione, per le risposte e per la pazienza di essere stati con noi anche in questo formato a distanza. Vi auguro un buon lavoro e una buona prosecuzione.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14.55.