XVIII Legislatura

Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale

Resoconto stenografico



Seduta n. 17 di Mercoledì 26 giugno 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Invernizzi Cristian , Presidente ... 3 

Audizione della Professoressa Lorenza Violini, professoressa di Diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Milano, e della Professoressa Floriana M. Cerniglia, professoressa di Economia Politica presso l'Università Cattolica di Milano, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione:
Invernizzi Cristian , Presidente ... 3 
Cerniglia Floriana Margherita , professoressa di Economia politica presso l'Università Cattolica di Milano ... 3 
Invernizzi Cristian , Presidente ... 9 
Perosino Marco  ... 9 
Invernizzi Cristian , Presidente ... 9 
Cerniglia Floriana Margherita , professoressa di economia politica presso l'Università Cattolica di Milano ... 9 
Invernizzi Cristian , Presidente ... 10 

ALLEGATO: documentazione prodotta dalla professoressa Cerniglia ... 11

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CRISTIAN INVERNIZZI

  La seduta comincia alle 8.30.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-TV della Camera dei deputati.

Audizione della Professoressa Lorenza Violini, professoressa di Diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Milano e della Professoressa Floriana M. Cerniglia, professoressa di Economia politica presso l'Università Cattolica di Milano, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del Regolamento della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, della professoressa Lorenza Violini, professoressa di Diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Milano, e della professoressa Floriana Margherita Cerniglia, professoressa di Economia politica presso l'Università Cattolica di Milano, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
  La professoressa Lorenza Violini, professoressa di Diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Milano, ha comunicato, nella giornata di ieri, la propria impossibilità a partecipare all'odierna audizione per un'indisposizione.
  Nel ringraziare la professoressa Cerniglia per la disponibilità dimostrata, le cedo immediatamente la parola.

  FLORIANA MARGHERITA CERNIGLIA, professoressa di Economia politica presso l'Università Cattolica di Milano. Grazie, presidente, ringrazio lei e la Commissione per l'invito e quindi per questa importante occasione che mi è stata data di portare alla vostra attenzione una mia riflessione in merito all'attuazione del comma 3 dell'articolo 116 della Costituzione.
  Come avete sentito, sono un'economista, quindi nel tempo a mia disposizione questa mattina mi concentrerò sul tema delle risorse, o meglio sui criteri di finanziamento, e farò riferimento all'articolo 5 del Titolo I delle bozze ufficiali che conosciamo, quelle pubblicate sul sito del Ministero degli affari regionali lo scorso febbraio.
  Prima di fare un punto preciso su questo articolo 5 e sugli aspetti che a mio modo di vedere non sono convincenti rispetto a questo articolo 5, voglio fare due considerazioni generali, che ritengo importanti e che si allacciano anche al tema delle risorse.
  Come peraltro mi pare di aver già sentito nelle audizioni che mi hanno preceduto, anche dal mio punto di vista, qualora questo percorso di riforma dovesse andare a buon fine, stiamo parlando di una riforma importante, significativa e di sistema. Per quello che conosciamo, per quello che abbiamo letto in maniera ufficiosa di questa seconda parte di questo Titolo II, che però ancora non conosciamo in versione ufficiale, non si tratta di un aggiustamento al margine al sistema delle relazioni Pag. 4 finanziarie fra i livelli di Governo e pertanto credo che sia davvero necessario un dibattito quanto più ampio possibile a tale riforma.
  Rispetto a questo dibattito va registrato un dato molto positivo rispetto a quanto avvenuto con i preaccordi Gentiloni, che erano stati avvolti dalla nebbia e dalla mancanza di dibattito anche accademico. Dallo scorso febbraio, invece, cioè da quando sono stati resi disponibili sul sito del Ministero i testi relativamente al Titolo I, è partito un dibattito molto ricco almeno tra noi studiosi, che ha visto la pubblicazione di numerosi contributi scientifici di taglio sia giuridico, sia economico.
  Il punto è che tutte queste pubblicazioni, questi contributi stanno facendo emergere numerosissimi profili di criticità, che secondo me vanno vagliati e considerati dal legislatore. È ovviamente molto prezioso il dibattito che questa Commissione e quella per le questioni regionali stanno facendo, però credo (ritengo che non sia soltanto la mia opinione) che tale dibattito non debba essere confinato tra noi studiosi e gli uffici dell'accademia, ma debba sfociare in un dibattito pubblico molto ampio, perché – lo ribadisco – come sta emergendo anche dai contributi dei giuristi si tratta di una riforma molto importante e secondo alcuni giuristi addirittura si può parlare di una modifica della Costituzione.
  Sono quindi molto preoccupata e suggerirei di evitare pericolose, incaute fughe in avanti, anche perché di fughe in avanti e di arretramenti in questi anni abbiamo fatto molta esperienza proprio sul tema del federalismo fiscale e sul percorso di decentramento, che in Italia è partito agli inizi degli anni ’90.
  Abbiamo avuto fughe in avanti, fasi di stallo anche per effetto della crisi, e tutte queste fasi così confuse dagli anni ’90 in poi hanno sicuramente portato a disfunzionalità sul funzionamento dei rapporti fra i livelli di Governo, malcontenti nei territori tra gli amministratori locali, tra le associazioni di categoria, nonché ovviamente a tutti i conflitti di attribuzione di cui si è dovuta sobbarcare la Corte costituzionale.
  Non possiamo disconoscere che molte delle motivazioni che vengono portate avanti da queste tre regioni nascono da questo malcontento per le disfunzionalità che ci sono, nonostante siano passati 18 anni dalla riforma del Titolo V. Mi chiedo però se queste insoddisfazioni rispetto al percorso fatto del Titolo V siano motivazioni sufficienti per giustificare da sole e intraprendere un percorso di riforma, che, a seconda di come si può prospettare e di come si disegnano alcuni aspetti, ha esiti in questo momento ignoti e imprevedibili.
  Ci sono tanti aspetti imprevedibili, che saranno dei rompicapo per i giuristi e per gli economisti negli anni prossimi.
  Una seconda considerazione importante ha a che fare con il fatto che questo comma 3 dell'articolo 116 non ha avuto una legge di attuazione, quindi in questo vuoto c'è molto dibattito rispetto al ruolo che il Parlamento deve avere, ma soprattutto la mancanza di questa legge di attuazione ha un punto di debolezza di partenza, che è un punto di debolezza molto forte, perché impedisce di instradare una trattativa ordinata fra le regioni e il Governo.
  Questo punto di debolezza deriva dal fatto che non ci sono criteri ben definiti, rispetto ai quali una regione può chiedere l'attivazione del comma 3, e criteri in base ai quali lo Stato può decidere. In mancanza di questi criteri, è partita la carovana di tutte le regioni ad eccezione dell'Abruzzo, regioni che si stanno muovendo in questa direzione.
  Definire dei criteri è molto importante anche perché consentirebbe di creare un collegamento tra le materie che si chiedono e le finalità, e questo consentirebbe di agganciare meglio il tema delle risorse, perché, in assenza di questi criteri, al momento le richieste sono 23, elenco che si avvicina a competenze simili a quelle delle regioni a statuto speciale, e soprattutto in mancanza di criteri per i giuristi è difficile capire se si tratti di funzioni che possono essere trasferite con l'articolo 118, cioè senza scomodare il comma 3 dell'articolo 116.
  Fatte queste due considerazioni generali, espongo qualche mia riflessione, o Pag. 5meglio qualche mia perplessità su come in questo momento è scritto questo articolo 5 dei testi che conosciamo. È bene non dimenticare che il comma 3 dell'articolo 116 si inserisce all'interno del nuovo quadro di relazioni finanziarie tra livelli di Governo, che è stato disegnato nel 2001 con la riforma del Titolo V, perché nel comma 3 del 116 è molto esplicito il richiamo all'articolo 119, perché si dice che occorre il rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119.
  Dal mio punto di vista, questo richiamo così diretto e così forte al 119 dovrebbe subito sgombrare il campo dalla possibilità, o meglio dall'equivoco che le regioni che accedono a forme differenziate di autonomia possano avere nel futuro un regime di finanziamento dissimile da quello delle regioni a Statuto ordinario e più vicino a quello delle regioni a Statuto speciale.
  Sappiamo che l'attuazione pratica del 119 è avvenuta soltanto otto anni dopo con la legge delega n. 42, che ha un articolo, il 14, che richiama il regionalismo differenziato, e poi ci sono stati i relativi decreti e tra questi decreti rilevo in particolare il decreto legislativo n. 68, che, come sappiamo, è un processo tutt'altro che compiuto (mi sembra che le precedenti audizioni, anche quella dell'onorevole Giorgetti, hanno fatto il punto della situazione) e l'attuazione è stata rinviata al 2020.
  La cosa un po’ curiosa è che nei testi che abbiamo avuto a disposizione la prima cosa che abbiamo osservato è l'assoluta «dimenticanza» della legge delega n. 42 e del decreto n. 68. Aver constatato tra noi studiosi questa dimenticanza ci ha indotto il sospetto – credo legittimo – che in realtà sia un altro il modello di finanziamento al quale le regioni che richiedono l'autonomia differenziata stanno guardando.
  La questione è a quale modello stanno guardando e cosa succederebbe se ci fosse un nuovo modello in questo nostro sistema di relazioni finanziarie tra livelli di Governo. Siamo in una situazione in cui si potrebbe prospettare un sistema indefinibile, imprevedibile e arlecchinesco, perché potremmo avere a regime tre sistemi: un sistema di finanziamento per le regioni a Statuto ordinario, che in prospettiva dovrebbero seguire il percorso disegnato dal decreto n. 68, l'attuale regime delle regioni a Statuto speciale, peraltro con molta differenziazione all'interno giacché le aliquote di compartecipazione sono diverse tra le regioni a Statuto speciale, e per finire un terzo assetto, del tutto indefinito e impreciso, fatto di «n» regioni (dove «n» è da 1 a 15).
  A seconda del ritaglio di funzioni che queste otterrebbero sulle materie e quindi del relativo conteggio di risorse di queste funzioni rispetto alle 23 materie, avremmo un sistema di relazioni finanziarie fra Stato e regioni ad autonomia differenziata caratterizzato da «n» diverse aliquote di compartecipazione ai tributi erariali. Questa mi pare una situazione abbastanza bizzarra, che potrebbe essere molto difficile da gestire, ma c'è anche un altro aspetto che non va sottovalutato.
  Come sappiamo, il decreto n. 68 in questo momento è un cantiere aperto, un cantiere con dei lavori che sono partiti, ma che procedono a rilento e sono stati rinviati continuamente in questi anni. Cosa succederebbe quindi se, anziché portare avanti quel cantiere che non viene neanche menzionato e chiuderlo nel più breve tempo possibile, si decidesse di aprirne un altro, che dal mio punto di vista si prefigura ben più complicato nella sua esecuzione di quello già aperto con il decreto n. 68? Anche qui va fatta chiarezza, perché procedere contemporaneamente su questi due binari crea veramente tanta confusione.
  Questo articolo 5 prevede tre modalità possibili di finanziamento di queste risorse, a seguito di questo trasferimento di funzioni: il costo storico, il costo medio e il metodo del fabbisogno. Il criterio del costo storico implica che le risorse oggi spese dallo Stato andrebbero trasferite in capo ai bilanci delle regioni richiedenti per le funzioni che vengono ritagliate e quindi trasferite.
  In linea di principio, questa soluzione, la numero 1, non dovrebbe comportare nell'anno iniziale nuovi oneri per la finanza pubblica, anche perché questi nuovi oneri non ci possono essere perché viene precisato nel comma 2. Rispetto a questo Pag. 6metodo numero 1, però, molti punti sono oscuri e meriterebbero di essere affrontati con maggior precisione, innanzitutto, prima questione sollevata che io condivido, queste regioni chiedono di avocare a sé maggiori poteri e funzioni per questioni di efficienza («siamo più bravi»).
  Queste regioni partirebbero con risorse che arrivano all'anno zero dal bilancio dello Stato, ma poi nel tempo queste regioni così efficienti con le stesse risorse potrebbero essere in grado di erogare la stessa funzione, lo stesso servizio con minori risorse. Domanda: queste maggiori risorse che derivano da questi risparmi dove saranno indirizzate, nella stessa funzione o su altre voci del bilancio regionale? Se una regione è autonoma, deve essere autonoma anche nella determinazione del bilancio, quindi questo aspetto nell'articolo 5 andrebbe meglio precisato.
  Sempre con riferimento a questo costo storico, un problema non indifferente deriva dal fatto che l'aliquota di compartecipazione che verrebbe fissata per finanziare nell'anno base il trasferimento di una funzione dal bilancio dello Stato al bilancio della regione è dipendente dal ciclo economico, sicché nel tempo l'incremento di gettito per la regione può essere minore o maggiore rispetto a questo finanziamento iniziale della spesa.
  Questo è un punto che va discusso moltissimo, perché in questo articolo c'è un comma che indica l'ipotesi che, se davvero il gettito dovesse avere una dinamica superiore alla dinamica della spesa, questo gettito ulteriore rimarrebbe in capo alle regioni. È ovvia la conclusione che si può trarre, perché si tratta di un ulteriore gettito che deriva da una compartecipazione a tributi erariali nazionali, ma che vengono sottratti alle politiche pubbliche statali.
  Nell'articolo 5 si dice anche che, entro un anno dall'entrata in vigore di questi decreti, devono essere determinati i fabbisogni standard, e, nel caso in cui essi non venissero individuati entro tre anni, l'ammontare di queste risorse da assegnare alle regioni non potrà essere inferiore al valore medio pro capite della spesa statale per l'esercizio delle stesse. Qui entra in gioco il secondo criterio, che dal mio punto di vista è il più inaccettabile e che andrebbe tolto dalla formulazione attuale dell'articolo 5, quindi il criterio numero 2, che è il costo medio nazionale pro capite.
  Non è condivisibile, perché si tratta della soluzione più lontana dai bisogni dei cittadini e anche dalla spesa attuale. Qui mi pare che ci sia stata molta frettolosità nel redigere questo testo sia in questa formulazione che nei dati pubblicati. Mi riferisco alla ben nota vicenda della tabella allegata della Ragioneria generale dello Stato, che fa emergere questa forte variabilità del costo storico pro capite. Applicando questo criterio ci sarebbe un'enorme redistribuzione di risorse tra territori.
  Ho accennato ai dati pubblicati e alla tabella della Ragioneria generale dello Stato, però c'è un'altra riflessione che va fatta, quella sui dati da cui bisogna partire se volessimo pensare alla soluzione numero 1, quella della spesa storica. Anche sui dati mi sembra che ci sia stata molta frettolosità e poca riflessione, perché sarebbe auspicabile un confronto anche con tavoli tecnici con il MEF, un ampio approfondimento sui dati che andrebbero opportunamente utilizzati per ricostruire la spesa storica che lo Stato oggi svolge sulle regioni.
  Qui non si tratta di materie e basta, quindi non possiamo prendere la classificazione che attualmente fa la Ragioneria generale dello Stato e fare un po’ di somme e di divisioni: qui si tratta di contabilizzare risorse su funzioni che vengono scavate dentro le materie, quindi bisogna fare un lavoro certosino dentro il bilancio dello Stato e ricostruire, funzione per funzione, le risorse, bisogna partire da lì.
  Sarebbe quindi molto importante, anche per evitare polemiche nel dibattito, cominciare una discussione condivisa sulla base dati da cui partire, per togliere dal dibattito le accuse di strumentalizzazione nell'utilizzo dei dati.
  Credo che quella della condivisione di una metodologia per ricostruire la spesa storica sia una questione molto importante, sia tecnica, perché ovviamente ci sono delle difficoltà dal punto di vista tecnico, sia dal Pag. 7punto di vista politico, perché se non si parte da lì a creare un minimo di condivisione, credo che non si possano fare passi avanti. Stando infatti a quello che abbiamo letto, è difficile fugare il dubbio che dietro questa riforma non ci sia solo l'obiettivo di acquisire ulteriori funzioni su alcune materie e il proposito di modificare la redistribuzione delle risorse tra i territori.
  Il terzo criterio è quello del fabbisogno, di cui si è più discusso, ma che in realtà è la soluzione meno praticabile. C'è un assetto di finanziamento che tiene in considerazione la possibilità che i fabbisogni standard siano stimati. Sui fabbisogni standard regionali andrebbe fatta qualche riflessione, o meglio andrebbe fatta un'operazione verità, cioè capire perché non si siano fatti i fabbisogni e poi i LEP.
  Mi sembra che il professor Arachi abbia spiegato perché siamo in questa fase di stallo, dicendo che ci sono sicuramente motivazioni di ordine tecnico, ad esempio come stimare il costo di una funzione qualora non sia possibile distinguere tra costi e quantità, ma la difficoltà è derivata dal fatto che non c'è una normativa di definizione dei LEP. Questo è un problema, come abbiamo visto nel caso del fabbisogno dei comuni, dove in mancanza dei LEP si è stimato un fabbisogno pari a zero rispetto ad alcuni servizi a domanda individuale.
  Da cosa dipende questa difficoltà normativa del non avere fatto i LEP? Questa difficoltà normativa dipende dalla difficoltà di fondo, con cui dobbiamo fare i conti, della nostra finanza pubblica, che, come si dice nella legge del 42, deve sempre avere questa condizione di invarianza nelle risorse complessive da destinare al comparto delle regioni, condizione resa ancora più pesante a partire dalla crisi del 2011, che, come sappiamo, ha comportato tagli rilevanti.
  In un contesto di risorse date, la fissazione e la definizione dei LEP sui quali ancorare i fabbisogni non può certo contare su un'espansione delle risorse, quindi la fissazione dei LEP per stimare i fabbisogni si tradurrebbe inevitabilmente in un conflitto politico enorme, perché ci sarebbe di nuovo il tema della redistribuzione delle risorse tra le regioni.
  Date queste condizioni di fatto, è illusorio pensare che i fabbisogni saranno disponibili a breve, quindi c'è il pericolo che il criterio del costo pro capite, il valore medio nazionale diventi la soluzione dell'articolo 5. Per questo ritengo che l'idea del costo pro capite vada eliminata dal testo.
  Come ne usciamo, che soluzioni possiamo prospettare? Qui faccio riferimento a due soluzioni che sono già state prospettate. Una è quella prospettata dal professor Petretto, secondo cui, qualora si definissero per le regioni le spese LEP e le spese non LEP, sarebbe possibile ravvisare – almeno in via teorica – uno schema ordinato di finanziamento delle regioni ad autonomia differenziata con un carattere di variazione al margine rispetto allo schema del decreto 68, quindi non un regime di specialità, ma semplicemente un aggiustamento al margine rispetto alla struttura del decreto 68, sempre però che abbiamo fabbisogni per LEP e la stima dei non LEP.
  Lo stesso professor Petretto ha detto che questo è lo schema astratto che si può assumere, però effettivamente ci sono dei problemi circa la dinamica di questa formula.
  Guardando la relazione del professor Arachi, mi sento di aggiungere che ci sono altre difficoltà, innanzitutto come addivenire ai fabbisogni, soprattutto con riferimento alle funzioni nuove che verrebbero attribuite alle regioni. Qui la situazione è stata ben inquadrata dal professor Arachi, che ha raccomandato di fare attenzione, perché la determinazione dei fabbisogni sulle spese che si riferiscono alle materie aggiuntive è un esercizio completamente diverso rispetto alla stima dei fabbisogni nel caso di federalismo simmetrico.
  Nel contesto del federalismo simmetrico il dato di base, la stima della spesa standard, parte dal fatto che si voleva superare con il ricorso ai fabbisogni standard una distribuzione della spesa storica delle regioni di cui si riconosceva l'irrazionalità, come per i comuni, perché è una spesa storica già effettuata dalle regioni, che è Pag. 8l'effetto del sovrapporsi disordinato nel tempo di interventi non coordinati tra loro.
  Il professore Arachi evidenzia però che, nel caso dell'autonomia differenziata, la spesa statale che in questo momento viene fatta sul territorio di una regione è già frutto di una pianificazione centrale, che risponde a criteri direttivi (pensiamo alla determinazione territoriale degli organici nel campo dell'istruzione). Conclude quindi dicendo che occorre riflettere sull'opportunità di determinare i fabbisogni per ogni singola materia oggetto delle intese.
  La possibilità che ogni regione differenzi le proprie richieste all'interno di singole materie, richiedendo competenze più o meno ampie, apre la prospettiva, difficilmente attuabile nella pratica, della necessità di scomporre LEP e fabbisogni da calcolare per l'insieme delle regioni in ambiti molto ristretti.
  Se volessi concludere mettendo ordine a queste varie soluzioni che sono state prospettate anche rispetto alle critiche che molti di noi economisti hanno espresso rispetto a questo articolo 5, mi pare di poter dire che vedo molto complicata la soluzione 3, quella del fabbisogno, quindi il fatto che questa soluzione 3 non si realizzi apre la strada alla soluzione 2, che è la peggiore e quindi dal mio punto di vista andrebbe tolta. Rimane la prospettiva 1, quella della spesa storica, che forse è la più praticabile se si volesse partire, ma attenzione: se si partisse dalla prospettiva della spesa storica, ci sono vari aspetti che prima vanno definiti e ordinati.
  La prima questione è come ricostruiamo questa spesa storica, perché non ce la possiamo cavare con delle tabelle redatte in maniera frettolosa, quindi c'è il tema dei dati, della metodologia, di come costruire cercando una condivisione politica rispetto a questa metodologia, e poi c'è anche il tema dell'incremento del gettito, perché questa aliquota di compartecipazione deve andare avanti nel tempo.
  Qui c'è il tema di chi gestisce la dinamica, quindi se partissimo dal costo storico, ammesso che riusciamo a ricostruire con esattezza la spesa storica, la fase della dinamica chi la gestisce, deve essere in mano alla Commissione paritetica oppure anche altri organismi devono essere coinvolti in questa fase dinamica, ad esempio il Parlamento? La soluzione della Commissione paritetica è insoddisfacente, perché ricadiamo nella logica di una trattativa tra due Esecutivi.
  Sull'articolo 6 dedicato al finanziamento degli investimenti anch'io ho moltissime perplessità perché, ricollegandomi a quello che ho detto all'inizio sui criteri, in questo articolo 6 non c'è alcun collegamento tra le materie attribuite e le spese per investimenti, quindi non si capisce perché queste regioni dovrebbero avere un trattamento diverso rispetto a quello delle altre regioni.
  Dal mio punto di vista il regionalismo differenziato, laddove si coniugasse con effettive specificità e vocazioni dei territori, introdurrebbe elementi positivi di dinamismo. Un regionalismo differenziato ben organizzato può avere effetti positivi sulla crescita, sicché in via teorica il rilancio del regionalismo anche con lo strumento del regionalismo differenziato potrebbe essere un antidoto allo spettacolo di questi ultimi anni in Italia, la geografia del malcontento, che è un sintomo del fallimento delle politiche nazionali, e quindi è comunque un dato da cui bisogna partire.
  A me pare però che per come è formulata questa riforma soprattutto nella seconda parte – di cui ovviamente conosciamo poco e quindi non ha senso esprimere troppe valutazioni – e soprattutto per le criticità che ci sono nell'articolo 5 e per i legittimi sospetti che derivano da una lettura di questo articolo 5, in questo modo andiamo nella direzione di acuire il tema dei conflitti redistributivi tra i territori, aspetto da non sottovalutare nel momento attuale italiano, dove le emergenze sono tre. Dal mio punto di vista l'emergenza non è il regionalismo differenziato, ma è la poca crescita, il debito e questi enormi divari, e ovviamente ciascuno è concausa dell'altro.
  In una situazione come quella attuale, dove partiamo da divari così elevati, da questa geografia del malcontento anche per il fallimento di politiche nazionali che non hanno funzionato, non sono convinta che Pag. 9esacerbando con questa formulazione questi conflitti distributivi, tenuto conto dei vincoli di finanza pubblica che abbiamo, si potrebbe andare nella giusta direzione. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie, professoressa. Lascio la parola ai colleghi che desiderino intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MARCO PEROSINO. Professoressa, lei è stata molto chiara, d'altronde è un'economista, quindi i numeri si capiscono tra i suoi concetti molto ordinati.
  La premessa è sempre la solita: ognuno di noi ragiona sulla base delle sue idee sul federalismo, idee politiche che non sono neanche strettamente legate al partito, possono essere molto trasversali e molto geografiche, perché lei ha detto che le regioni che chiedono più autonomia sostengono di saper fare meglio certe cose, e d'altronde è partito da lì.
  Abbiamo audito professori e ministri che, soprattutto su certe materie cui lei ha accennato come il sistema scolastico, hanno espresso idee molto diverse tra loro. Il costo storico è la soluzione verso cui lei propende, ma non è che facciamo la fine degli anni ’70, quando si è adottato il piè di lista e hanno vinto le cicale, come avverrebbe anche questa volta mentre le formiche stanno a guardare?
  Il sistema dell'acquisto di beni e servizi è nei numeri, quindi andrebbe veramente studiato, se però fosse questo, le regioni, una volta ottenuto il costo storico, dovrebbero trattenersi i risparmi eventuali e dovrebbero essere liberi, perché se sono capace di risparmiare offro più servizi o faccio anche altre cose.
  Abbiamo assistito negli anni al passaggio di funzioni tra enti, ho presente quello tra le regioni e le province dove non si sono fissati bene i criteri. Va anche chiarito fino a quando vale la regola del costo storico, perché tra tre o cinque anni è cambiato, se passo competenze sul personale avrò costi diversi, l'adeguamento dei contratti e maggiori spese, e chi li paga in prospettiva, diventa costo a carico della regione? Viene adeguato? Questo è uno degli aspetti di cui tenere conto.
  La soluzione potrebbe essere un mix tra le tre ipotesi. È vero, quella del costo storico è più concreta, perché ha meno obiezioni, però anche il costo medio è un criterio, perché lo stesso servizio fornito a Lampedusa piuttosto che a Bolzano deve avere un aggancio, tenuto conto anche del clima, deve avere qualche aggancio alla realtà.
  I fabbisogni standard sono di difficile valutazione, perché troppi sono di natura aleatoria e immateriale, quindi non si possono quantificare, ma la mia domanda è legata al costo storico; che partenza può avere, quanto lo adeguiamo, se ci teniamo gli eventuali risparmi o se vanno per altre funzioni. Concordo con lei quando dice che è materia di grande e difficile attuazione, quindi approfondiamo, possibilmente senza pregiudiziali politiche.

  PRESIDENTE. Se non ci sono altre domande, lascio la parola alla professoressa Cerniglia per la replica.

  FLORIANA MARGHERITA CERNIGLIA, professoressa di economia politica presso l'Università Cattolica di Milano. Forse non sono stata chiara, qui dobbiamo fare attenzione a cosa intendo per spesa storica, Qui non mi sto riferendo alla spesa storica delle regioni, perché la spesa storica delle regioni ha tanti elementi di disordine, tanto che il lavoro che sta facendo Arachi è innanzitutto ricostruire la spesa storica delle regioni.
  Se guardiamo velocemente le tabelle, ci accorgiamo di cose abbastanza peculiari. Abbiamo una spesa pro capite regionale che in alcune regioni virtuose è addirittura più alta rispetto ad altre regioni, quindi sto parlando non della spesa storica regionale, ma della spesa storica statale, che, se andiamo a guardare i numeri, è un pro capite che già tiene conto dei fabbisogni.
  L'attuale spesa storica dello Stato in istruzione probabilmente riflette già degli indicatori di fabbisogno, quindi partire da questa spesa storica statale non ha i problemi che giustamente metteva in evidenza Pag. 10lei rispetto alla spesa storica delle regioni o dei comuni, per i quali abbiamo dovuto fare tutta quell'operazione di passaggio dalla spesa storica al fabbisogno standard. Qui stiamo parlando della spesa statale e secondo me una prima operazione di ricostruzione di spesa statale a livello regionale per le singole funzioni, al di là dell'aspetto del regionalismo differenziato, è un'operazione di semplice informazione che credo possa essere interessante. È molto importante avere bene in mente questa differenza.
  Per quanto riguarda i risparmi, le ragioni accampate dalle tre regioni sono molto diverse, cioè da una parte Lombardia e Veneto chiedono banalmente di avere queste funzioni perché più bravi, quindi sulla base di una premialità, mentre mi sembra di capire che l'Emilia chieda funzioni che, se accorpate, permettono di trattare meglio questioni di esternalità, economie di scala.
  Sui criteri va fatta molta chiarezza, perché senza questi criteri lo Stato quando arriverà una regione del centro o del sud chiederà di attivare competenze su queste materie. Senza criteri non c'è base di discussione ordinata fra le due controparti.

  PRESIDENTE. Ringrazio la professoressa Cerniglia, dispongo che la documentazione prodotta sia allegata al resoconto stenografico della seduta odierna e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.10.

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ALLEGATO

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