ATTO CAMERA

MOZIONE 1/01297

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Dati di presentazione dell'atto
Legislatura: 17
Seduta di annuncio: 634 del 08/06/2016
Firmatari
Primo firmatario: LUPI MAURIZIO
Gruppo: AREA POPOLARE (NCD-UDC)
Data firma: 08/06/2016
Elenco dei co-firmatari dell'atto
Nominativo co-firmatario Gruppo Data firma
BUTTIGLIONE ROCCO AREA POPOLARE (NCD-UDC) 08/06/2016
CICCHITTO FABRIZIO AREA POPOLARE (NCD-UDC) 08/06/2016
ALLI PAOLO AREA POPOLARE (NCD-UDC) 08/06/2016
TANCREDI PAOLO AREA POPOLARE (NCD-UDC) 08/06/2016
VIGNALI RAFFAELLO AREA POPOLARE (NCD-UDC) 08/06/2016


Stato iter:
IN CORSO
Atto Camera

Mozione 1-01297
presentato da
LUPI Maurizio
testo di
Mercoledì 8 giugno 2016, seduta n. 634

   La Camera,
   considerato che:
    pochi giorni fa il Ministro Padoan ha presentato alla Commissione europea il documento «I principali fattori che influenzano gli sviluppi del debito in Italia» (Relevant Factors Influencing Debt Developments In Italy), destinato non solo a perorare le richieste italiane di flessibilità ai sensi dell'articolo 126, paragrafo 3, del Trattato, ma anche a rafforzare l'azione del Governo italiano in direzione di un nuovo modello di crescita in un contesto economico internazionale particolarmente difficile e quindi di una rivisitazione delle regole di controllo della spesa e dell'indebitamento comunitari, attraverso una lettura critica ma propositiva delle attuali regole europee;
    nel 1980 il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo dell'Italia era appena al 54 per cento. In soli 14 anni è raddoppiato, passando al 117,2 del 1994. Questo dato, per la sua rilevanza, è oggetto di studio da parte degli storici e sarebbe superficiale ogni giudizio sommario che attribuisse al nostro Paese – al suo tessuto produttivo e sociale o alle sue istituzioni politiche – una strutturale incapacità di tenere sotto controllo i conti pubblici. Quello che infatti è certo è che dal 1994 in avanti, grazie a una politica fiscale rigorosa, il debito pubblico italiano è andato calando fino a scendere al 99,8 per cento nel 2007;
    certamente negli anni della grande crisi questo percorso virtuoso ha subito una brusca interruzione e il trend si è invertito, fino a raggiungere l'attuale livello di debito, intorno al 133 per cento del prodotto interno lordo. Ma è evidente il nesso causale fra straordinarietà della crisi e l'interruzione del trend graduale ma virtuoso di abbassamento del debito, dovuto a politiche fiscali rigorose e affidabili che il nostro Paese, dopo il 1994, al pari di tante altre fasi della sua storia, era stato capace di intraprendere;
    non si tratta solo di ricordare che in questi stessi anni la Francia – che pure non partiva gravata da livelli alti di indebitamento, e quindi di spesa per interessi – ha raggiunto nel 2015 il livello del 95,8 per cento e la Spagna quello del 99,2 per cento; si deve prendere atto fino in fondo che la crisi economica che ha colpito l'economia globale a partire dal fatidico 2008 – a prescindere da ogni esercizio futurologico che lascia il tempo che trova – sta comunque modellando un nuovo ecosistema di bassa crescita. Ciò comporta conseguenze che cominciano ad essere rilevate dalla letteratura economica ormai fiorente sulla «stagnazione secolare», ma a cui i sistemi di regole più rigidi ancora non riescono ad adeguarsi;
    quasi sette anni dopo quella che negli USA viene indicata come la fine ufficiale della «grande recessione» (2009), il reddito reale in quel Paese è sostanzialmente stagnante (il reddito medio della popolazione maschile è oggi più basso che nel 1969) e, ciò che desta maggiori preoccupazioni, sembra essersi arrestata – non solo in Europa, ma anche negli USA – la crescita della produttività;
    le regole europee di controllo della spesa devono essere pienamente collocate in questo contesto; questa consapevolezza ha portato il Governo italiano ad avviare una coraggiosa azione politica in seno alle istituzioni europee volta alla revisione dell'intero approccio alle politiche monetarie e fiscali dell'Unione, sfruttando al meglio i margini di dialogo esistenti e allargandoli grazie alla stabilità politica che rappresenta oggi per l'Italia il maggiore elemento di forza contrattuale;
    grazie anche all'azione del Governo italiano sta crescendo la consapevolezza che, per consentire la nascita di una moneta comune ci si è dati delle regole le quali, nella loro rigidità, oggi – in un contesto economico internazionale completamente mutato – sembrano fatte più per aggravare i problemi che per risolverli;
    si deve proseguire in questa «operazione verità» e sostenere con coraggio che quello dell'Italia è un caso paradigmatico perché, nonostante la sua fama di economia di sprechi, molto indebitata e poco osservante degli impegni, in realtà l'Italia ha una spesa pubblica al netto degli interessi che in termini reali è rimasta quasi invariata tra il 2005 e il 2015 (una delle migliori performance tra i Paesi avanzati). E anche durante la lunga crisi cominciata nella seconda metà del 2008, l'Italia ha mantenuto una condotta fiscale crescentemente rigorosa, spesso migliore persino di quella tedesca;
     l'Italia – come del resto gli altri Paesi europei – deve cambiare molte cose, ma è anche uno dei Paesi più disciplinati nel rispettare le regole europee di finanza pubblica. Ad esempio, durante, questi ultimi anni di crisi, già dal 2012, cioè ben prima di altri Paesi, il deficit/prodotto interno lordo rispetta la regola del 3 per cento. Nel lungo periodo, poi, sin dal 1992 l'Italia è sempre stata in avanzo statale primario (entrate superiori alle uscite, al netto degli interessi) con la sola eccezione del 2009: un record assoluto a livello mondiale. Come sottolinea il citato documento del Ministero dell'economia e delle finanze, nel periodo 2009-2015 l'avanzo statale primario dell'Italia è stato mediamente il più alto nella Unione europea;
    come conseguenza di questa disciplina fiscale che l'Italia ha dimostrato di saper mantenere costantemente nel tempo, c’è anche il fatto che in valore assoluto il debito italiano è quello cresciuto percentualmente di meno nell'Unione europea tra il 2008 e il 2015, assieme al debito tedesco e olandese;
    comincia finalmente a farsi strada la consapevolezza che il rapporto debito/ prodotto interno lordo italiano è aumentato di più in proporzione per effetto della forte caduta del prodotto interno lordo stesso che proprio l'eccessiva austerità ha provocato, vanificando in parte gli sforzi fatti dal nostro Paese;
    la stessa Commissione riconosce che il debito pubblico italiano è il più sostenibile dell'Unione europea nel lungo periodo per l'effetto combinato delle importanti riforme avviate. Mentre nel medio termine la Commissione prevede, nel suo scenario base, che la probabilità che il debito italiano sia più alto nel 2020 rispetto ai livelli del 2015 sia la più bassa nell'Unione europea dopo la Germania;
    è sorprendente, eppure le regole europee – così concentrate sui parametri di debito pubblico – non tengono conto di fattori rilevantissimi per valutarne la pericolosità quali la quota dello stesso in mani estere o la sua durata. L'Italia, ad esempio, ha un debito pubblico estero appena superiore al 40 per cento del prodotto interno lordo esattamente come la Germania; analogamente non tengono conto del fatto che non tutti i Paesi hanno settori privati sufficientemente capienti da poter finanziare la quota del proprio debito pubblico interno. L'Italia, ad esempio, può strutturalmente sostenere in modo diretto (con le famiglie) o indiretto (attraverso le banche, le assicurazioni e altro) un debito pubblico interno piuttosto alto;
    nel bollettino statistico della Banca d'Italia (dicembre 2015) sulla ricchezza delle famiglie italiane, essa è valutata a fine 2013 pari a 8.730 miliardi di euro (5848 attività reali+3.793 attività finanziarie-911 passività finanziarie); tale somma arriva a 9.499 miliardi di euro se si considerano anche le istituzioni private, pari ad 8 volte il reddito nazionale;
    nel citato documento «Relevant Factors» il Ministero dell'economia e delle finanze ha dimostrato che, con una metodologia di calcolo dell’output gap, cioè la differenza tra il prodotto interno lordo effettivo e quello potenziale, più aderente alla reale evoluzione dell'economia e in linea con quelle del Fmi e dell'Ocse, l'Italia avrebbe già ampiamente centrato gli obiettivi europei di bilancio di medio termine nel 2015. Mentre la deviazione dagli obiettivi del 2016 risulterebbe pienamente coperta dai margini di flessibilità consentiti, legati anche all'ampio programma di riforme che l'Italia sta realizzando; su questo aspetto il 18 marzo 2016 l'Italia ha inviato una lettera alla Commissione, insieme a Spagna, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia, Slovacchia, Lettonia, Lituania, di rivedere il metodo di calcolo dell’output gap, a cominciare dall'estensione dell'orizzonte di previsione da 2 a 4 anni, in linea con quello degli Stati europei;
    a conferma della bontà dell'azione di Governo in sede comunitaria, il 26 maggio 2016 è giunta dalla Commissione la notizia che la proposta sull’output gap degli 8 Paesi sopra citati è stata accolta. E ulteriori segnali incoraggianti sono intervenuti dalla Commissione;
    attorno alla meta di maggio 2016, con uno scambio di documenti tra alcuni suoi membri e il Ministro Padoan, nei quali si cerca di trovare una convergenza su tre questioni: gli effetti della politica monetaria sulla politica fiscale, la qualità operativa della politica fiscale e le riforme di struttura;
    nella stessa sede è stata approvata alla Commissione la concessione di un ulteriore margine di flessibilità 0,85 per cento del prodotto interno lordo pari a circa 15 miliardi di euro, in sostanza quasi tutta la flessibilità che il Governo reclamava; si tratta di un successo rilevante e difficile da negare, un riconoscimento non solo del fatto che il nostro Paese «ha fatto i compiti», ma anche che la sua azione nelle istituzioni europee comincia a dare frutti concreti;
    tale azione non è certo conclusa: occorre incalzare le istituzioni europee con concrete proposte orientate alla crescita dell'economia del continente. È infatti fondamentale il consolidamento dei timidi segnali di crescita; il ritorno dell'inflazione su livelli coerenti con il mantenimento della stabilità dei prezzi esige il riassorbimento della capacità produttiva inutilizzata e della disoccupazione. È essenziale che – sempre di più – l'azione della politica monetaria sia affiancata dall'operare delle politiche economiche, anche a livello europeo;
    il vero tema, da porre in modo sempre più coerente e forte in sede europea, è che le politiche europee in tutta la fase storica avviata dall'introduzione dell'euro hanno perseguito l'obiettivo – condivisibile – di una più elevata competitività attraverso interventi virtuosi sul piano finanziario combinati a politiche sul versante dell'offerta (le cosiddette riforme strutturali). Questo approccio è oggi spiazzato dagli effetti della crisi: occorre non solo attenuare le politiche di austerità (che soffocano i timidi segnali di crescita che nascono dall'economia reale), ma creare un asse europeo di coerenti politiche di sostegno della domanda. Occorre riequilibrare un asse di politica economica che è oggi fortemente squilibrato;
    occorre farlo partendo dalla registrazione dei positivi effetti moltiplicatori del piano Junker, anche se ancora insufficienti a imprimere una svolta davvero significativa alla drammatica penuria di investimenti, enti, calati del 15 per cento in media nell'Unione europea rispetto al 2007 (Italia –25 per cento, Portogallo –36 per cento, Spagna –38 per cento, Irlanda –39 per cento, Grecia –64 per cento). L'investimento totale (metà aprile 2016, 8 mesi di attività) è stato pari 82,1 miliardi, pari al 26 per cento dell'intera operazione, che prevede una mobilitazione complessiva di capitali fino a 315 miliardi entro il 2017 compreso;
    degli 82,1 miliardi di euro di investimenti del piano Junker approvati l'80 per cento è capitale privato. Ciò significa che la capacità di attrazione di finanziamenti privati o altri (per esempio, quelli delle banche di sviluppo degli Stati) è stata superiore all'obiettivo di 1 a 15, il cosiddetto «moltiplicatore» Juncker. A metà aprile, secondo gli ultimi dati della Commissione, il rapporto è infatti di 1 a 22,5. Il Fondo per gli investimenti strategici (FEIS, 16 miliardi dal bilancio comunitario, 5 della Banca europea degli investimenti) ha approvato finanziamenti per progetti infrastrutturali per 11,2 miliardi di euro, di cui «firmati» per 5,8 miliardi di euro: per quanto ancora insufficienti, tali misure indicano la direzione nella quale andare;
    l'Italia ha dimostrato ancora una volta una capacità di reagire positivamente a questi stimoli. Non è un caso che proprio l'Italia guidi la classifica dei beneficiari del piano Juncker: al Paese saranno erogati 1,7 miliardi di euro per 8 progetti infrastrutturali e 21 patti di finanziamento; il pacchetto dei progetti italiani, secondo le stime, potrebbe creare 3.200 posti di lavoro, tra industria, energia, telecomunicazioni, trasporti e ricerca; 7,3 miliardi di investimenti complessivi andranno a beneficio di oltre 44 mila imprese e start up;
    certamente sono essenziali – in questo campo – le politiche nazionali: molto si sta facendo e ancora di più si sarà chiamati a fare nel prossimo futuro. Ma è maturo un salto di qualità anche delle politiche comunitarie: senza l'apporto europeo, anzi addirittura con le limitazioni che l'Unione appone alle strategie nazionali, non sarà possibile riassorbire capacità produttiva e occupazione;
    se il piano Junker va nella giusta direzione, esso non può comunque esaurire le politiche europee di crescita, e neanche quelle di crescita infrastrutturale: ad esempio, è urgente sottoporre ad un accurato esame il modo in cui vengono utilizzate le ingenti capacità di credito della BEI nel finanziamento di investimenti volti all'ammodernamento della rete infrastrutturale – materiale e immateriale – del continente europeo, ma occorre soprattutto modificare talune impostazioni culturali dominanti in sede comunitaria;
    le costanti rimostranze tedesche sulle politiche portate avanti dalla BCE e dal suo presidente Mario Draghi (quantitative easing e bassissimi tassi di interesse) appaiono non tener adeguato conto della grave debolezza della domanda nell'Eurozona che invece andrebbe oggi collocata al centro dell'attenzione delle istituzioni politiche dell'Unione; il bollettino economico della Banca d'Italia, relativo al primo trimestre del 2016, ricorda che nell'ultimo trimestre del 2015 la domanda reale dell'eurozona era del 2 per cento inferiore a quella del primo trimestre del 2008, mentre negli Stati Uniti era del 10 per cento superiore;
    la Bce sta cercando giustamente di impedire che un'economia europea affetta da debolezza cronica della domanda precipiti in una spirale deflattiva. Come sottolinea il presidente dell'Eurotower, Mario Draghi, i tassi di interesse bassi fissati da Francoforte non sono il problema, semmai sono «il sintomo» di un'insufficiente domanda di investimenti;
    quanto appena sopra illustrato non costituisce la sola presa di posizione della Germania contraria alla stabilità interna degli Stati e, di conseguenza, allo sviluppo della domanda globale nell'Eurozona. Un documento recente della Bundesbank avanza l'ipotesi di un allungamento di tre anni delle scadenze dei titoli di Stato di un Paese che chiede e ottiene l'aiuto del meccanismo di stabilità Esm. Tale proposta nasce da una visione ormai superata del ruolo delle istituzioni europee e va nella direzione sbagliata/perché la sua adozione produrrebbe instabilità e rischio: l'allungamento delle scadenze in tale maniera fa infatti scattare il default tecnico, perché equivale a una ristrutturazione con perdita sul valore facciale per i sottoscrittori creditori;
    anche la proposta tedesca di ridurre i titoli di Stato nel portafoglio delle banche, come strumento per ridurre il rischio degli istituti di credito e spezzare il legame fra debito sovrano e sistema bancario nasce da un contesto ormai superato e va nella direzione opposta a quella necessaria, poiché – ove adottata – metterebbe a rischio l'equilibrio monetario ed economico anche della stessa Germania;
    se infatti è vero che, in percentuale del totale dell'attivo, le banche tedesche detengono titoli di Stato al di sotto della media europea (circa il 3,3 per cento, contro il 6,7 per cento dell'Italia, per esempio, secondo cifre della European Banking Authority), è anche vero che gli importi sono comunque consistenti e, secondo una simulazione di impatto condotta dall'Esrb lo scorso anno, l'imposizione di un criterio di diversificazione costringerebbe le banche tedesche al più alto volume in valore assoluto, fra tutti i Paesi dell'eurozona, di vendite di titoli di Stato in «eccesso» nei propri portafogli: per l'esattezza, 303 miliardi di euro (su un totale di 716 miliardi dell'intera area euro), se venisse applicato un tetto pari al 25 per cento dei mezzi propri;
    infine vi sono ragioni politiche e culturali che suggeriscono un cambiamento di passo e «di immagine» dell'Europa – ragioni richiamate anche dal Presidente emerito della Repubblica in un suo recentissimo scritto animato da vera e propria «passione» europeista. Un rapporto Sole 24 Ore-Fondazione Hume, pubblicato il 22 maggio 2016 segnala ancora una volta, con dovizia di particolari, che l'immagine dell'Unione è in caduta libera. Oggi l'euroscetticismo sta avvelenando il clima politico in quasi tutti i Paesi europei, fino a mettere a rischio per la prima volta in 60 anni il futuro stesso dell'unione europea;
    secondo la ricerca della Fondazione Hume, gli euro-scettici di destra rappresentano nel Parlamento europeo il 22,2 per cento dei seggi (rispetto al 14,7 per cento nel 1979). Viceversa, gli euroscettici di sinistra sono il 7,2 per cento dei deputati rispetto all'11,1 del 1979. Nel contempo, l'assemblea di Strasburgo ha registrato uno spostamento verso la destra più estrema è revanscista dell'intero emiciclo; i cittadini europei si sentono comunque prima di tutto francesi, italiani, tedeschi, anche lussemburghesi o maltesi. In Italia, il 36,1 degli interpellati si considera solo italiano, il 57,4 per cento si ritiene italiano ed europeo, il 5 per cento europeo ed italiano, l'1,5 per cento solo europeo. Solo il 51 per cento degli interpellati si fida del Parlamento europeo e solo il 43 per cento si fida della Banca centrale europea. In Italia quasi il 40 per cento, dei cittadini si dichiara insoddisfatto delle istituzioni comunitarie. Molti non capiscono cosa sia la Commissione;
    per consentire la nascita di una moneta comune ci si è dati delle regole le quali, tuttavia, nella loro rigidità sembrano oggi fatte più per aggravare i problemi che per risolverli, puntando quasi esclusivamente sul rigore fiscale e non considerando che, senza un'adeguata crescita economica, il rigore da solo non basta a far diminuire il rapporto debito/prodotto interno lordo; i segnali regressivi nascono da uno squilibrio della politica economica europea che il nostro Paese sta contribuendo a correggere anche attraverso la sua presenza critica ma propositiva nelle istituzioni europee;
    nella fase preparatoria della conferenza di Maastricht segnata dalla decisione di costituire l'euro la moneta pubblica europea era parte di un più vasto disegno volto a costituire l'effettiva Europa politica all'interno della quale le politiche economiche dovevano essere stabilite da un Governo e da un Parlamento democraticamente eletti e quindi dovevano essere adattate al variare imprevedibile delle condizioni; il veto britannico e francese impedì di conseguire questo obiettivo e la responsabilità politica per la politica economica fu sostituita da un sistema di parametri fissi certo ragionevoli in condizioni di stabilità economica, ma inadeguati a reggere choc imprevisti ed allora imprevedibili,

impegna il Governo:

   a proseguire e approfondire la propria azione all'interno delle istituzioni europee per un arricchimento delle politiche monetarie e fiscali e un loro riorientamento in direzione della crescita e del sostegno alla domanda interna;
   a proporre il rafforzamento del piano Juncker che si sta rivelando un valido strumento di rafforzamento della capacità delle economie europee e di rilancio della credibilità dell'Unione quale promotrice di crescita e di benessere;
   ad assumere iniziative per una rapida revisione di mezzo termine del bilancio pluriennale dell'Unione europea conformemente agli impegni presi al momento della sua approvazione, con la finalità di rendere disponibili risorse utili a sollecitare, con i meccanismi già previsti dal piano Juncker, la inderogabile infrastrutturazione materiale ed immateriale dell'Unione, capace di renderla più competitiva e di collocarla all'avanguardia nell’«economia della conoscenza» del secolo XXI;
   a tal fine, a proporre una riconsiderazione del ruolo della Banca europea per gli investimenti (BEI) volta a migliorare l'utilizzo della capacità di credito dell'Istituto e ad ampliare la portata del suo intervento nell'ambito degli investimenti;
   nell'ambito della stessa revisione di mezzo termine, ad assumere iniziative per individuare le risorse adeguate finanziare la politica europea dell'emigrazione istituendo una guardia costiera comune europea e una politica di cooperazione con i Paesi di origine dei flussi migratori, tale da porre fine alle condizioni che generano le migrazioni di massa, posto che non è pensabile che questi costi rimangano sulle spalle dei Paesi geograficamente più esposti alle frontiere dell'Unione;
   ad assumere iniziative per una rapida conclusione dei lavori della Commissione Monti sulla riforma delle risorse proprie dell'Unione con la finalità di contribuire a finanziare le politiche sopracitate e con la creazione di una fiscalità propria europea, contestualmente prevedendo che l'aumento di pressione fiscale dovuta alla costituzione della fiscalità europea sia integralmente controbilanciata dalla riduzione delle fiscalità nazionali;
   ad adoperarsi affinché la Commissione europea formuli una raccomandazione sulla base del titolo XIII del trattato su funzionamento dell'Unione europea, per una iniziativa congiunta dei Paesi membri, al fine di favorire la crescita di una opinione pubblica europea con un'adeguata informazione sull'effettivo funzionamento delle istituzione europee, sulle radici culturali comuni dei popoli europei e sulle sfide che l'Europa deve affrontare, tenuto conto che il fine è la formazione della coscienza e della cittadinanza comune europea e che i mezzi sono le politiche culturali, le politiche della istruzione e la collaborazione tra le radiotelevisioni di servizio pubblico europeo.
(1-01297) «Lupi, Buttiglione, Cicchitto, Alli, Tancredi, Vignali».

Classificazione EUROVOC:
EUROVOC (Classificazione automatica provvisoria, in attesa di revisione):

istituzione dell'Unione europea

prodotto interno lordo

politica comunitaria