Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento istituzioni
Titolo: Città metropolitane, province, unioni e fusioni di comuni - A.C. 1542 - Schede di lettura
Riferimenti:
AC N. 1542/XVII     
Serie: Progetti di legge    Numero: 77
Data: 08/10/2013
Descrittori:
AREE METROPOLITANE   COMUNI
ISTITUZIONE DI NUOVI COMUNI   PROVINCE
Organi della Camera: I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione per l’esame di
Progetti di legge

Città metropolitane, province, unioni
e fusioni di comuni

A.C. 1542

Schede di lettura

 

 

 

 

 

 

n. 77

 

 

 

8 ottobre 2013

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Istituzioni

( 066760-3855 / 066760-9475 – * st_istituzioni@camera.it

 

 

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File: ac0199.doc

 


INDICE

Schede di lettura

§      Premessa                                                                                                        3

§      Città metropolitane                                                                                          7

§      Province                                                                                                         27

§      Roma Capitale                                                                                               53

§      Unione e fusione di comuni                                                                           59

§      Disposizioni finali                                                                                           67

 

 


Schede di lettura

 


Premessa

Il disegno di legge del Governo in esame è finalizzato a:

§      istituire le città metropolitane nel 2014 (con una procedura differenziata per la città metropolitana di Roma Capitale);

§      introdurre una nuova disciplina delle province, a seguito del venir meno delle norme previgenti dopo la pronuncia della Corte costituzione (sent. 220/2013) e fino alla loro abolizione prevista dal disegno di legge costituzionale, anch’esso di iniziativa governativa, A.C. 1543 presentato contestualmente al provvedimento in commento;

§      definire una disciplina organica delle unioni di comuni e riformare l’istituto della fusione di comuni.

 

La disciplina relativa alle città metropolitane e alle province sconta la recente pronuncia di incostituzionalità, emanata dalla Consulta, dell’assetto di tali enti stabilito con decreto-legge nello scorcio finale della scorsa legislatura.

 

La Corte costituzionale, con sentenza 3 luglio 2013, n. 220, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 23, commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20 e 20-bis del decreto-legge n. 201/2011 e degli artt. 17 e 18 del decreto-legge n. 95/2012, riferiti a province e città metropolitane.

 

La sentenza fonda la pronuncia di illegittimità sulla considerazione che lo strumento del decreto-legge, configurato dall'art. 77 della Costituzione come "atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza", non è "utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate".

 

Per la Corte, risulta evidente che le norme censurate incidono notevolmente sulle attribuzioni delle Province, sui modi di elezione degli amministratori, sulla composizione degli organi di governo e sui rapporti dei predetti enti con i Comuni e con le stesse Regioni. Si tratta di una riforma complessiva di una parte del sistema delle autonomie locali, destinata a ripercuotersi sull’intero assetto degli enti esponenziali delle comunità territoriali, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione (punto 11.3 considerato in diritto).

 

L’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., nell’attribuire alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la disciplina in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, conferisce “le componenti essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali” a “leggi destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali. È appena il caso di rilevare che si tratta di norme ordinamentali, che non possono essere interamente condizionate dalla contingenza, sino al punto da costringere il dibattito parlamentare sulle stesse nei ristretti limiti tracciati dal secondo e terzo comma dell’art. 77 Cost., concepiti dal legislatore costituente per interventi specifici e puntuali, resi necessari e improcrastinabili dall’insorgere di «casi straordinari di necessità e d’urgenza»”. Perciò, se può essere “adottata la decretazione di urgenza per incidere su singole funzioni degli enti locali, su singoli aspetti della legislazione elettorale o su specifici profili della struttura e composizione degli organi di governo, secondo valutazioni di opportunità politica del Governo sottoposte al vaglio successivo del Parlamento. Si ricava altresì, in senso contrario, che la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero sistema, su cui da tempo è aperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che certo non nasce, nella sua interezza e complessità, da un «caso straordinario di necessità e d’urgenza” (punto 12.1 considerato in diritto).

 

Inoltre, poiché “la modificazione delle singole circoscrizioni provinciali richiede, a norma dell’art. 133, primo comma, Cost., l’iniziativa dei Comuni interessati – che deve necessariamente precedere l’iniziativa legislativa in senso stretto – ed il parere, non vincolante, della Regione”, la Corte ha ravvisato “una incompatibilità logica e giuridica (…) tra il decreto-legge, che presuppone che si verifichino casi straordinari di necessità e urgenza, e la necessaria iniziativa dei Comuni (punto 12.2 considerato in diritto).

 

Pertanto, alla luce delle indicazioni desumibili dalla sentenza 220/2013, il provvedimento in esame realizza un intervento nella materia degli enti territoriali attraverso la fonte ordinaria avente forza e valore di legge.

Alla stessa logica si ispira la modifica introdotta in sede parlamentare dell’iter di conversione del D.L. 93/2013, che: sopprime dal corpo del decreto-legge le disposizioni dell’art. 12 dello stesso decreto in quanto fonte non legittimata a disporre sugli effetti di una riforma dichiarata incostituzionale proprio perché adottata con decreto-legge; limita gli interventi disposti ad un arco temporale che arriva al 31 dicembre 2013 sempre in considerazione degli orientamenti della Consulta secondo la quale gli interventi organici di riforma sono  riservati alla legge in senso formale.

 

Quindi l’articolo 1, comma 1, individua l’oggetto del disegno di legge nella disciplina delle città metropolitane, province e unioni di comuni, al fine di adeguare, anche in attesa della riforma costituzionale ad essi relativa, il loro ordinamento ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.

Il riferimento alla riforma costituzionale riguarda le sole province, la cui soppressione è prevista, come accennato, da altro disegno di legge del Governo.

I commi dal 2 al 6 recano disposizioni generali relative ai diversi enti oggetto del provvedimento (città metropolitane, province ecc.) e pertanto verranno trattati nei paragrafi seguenti dedicati a ciascuno di questi enti.

 

Le disposizioni in materia di province hanno un carattere transitorio (come espressamente indicato all’art. 1, comma 3, all’art. 11, comma 1), in vista della loro soppressione stabilita dal citato disegno di legge costituzionale A.C. 1543.

La disciplina transitoria prevede l’elezione di secondo grado degli organi politici provinciali e la abolizione delle giunte (come previsto dalle disposizioni del  decreto-legge 95/2012 dichiarate incostituzionali dalla citata sentenza 220/2013 della Corte costituzionale).

Inoltre, vengono ridefinite le funzioni delle province, indicate come funzioni di area vasta, concernenti prevalentemente la pianificazione e la programmazione di alcuni settori (quali i trasporti e la rete scolastica) che trovano il loro naturale esercizio nell’ambito provinciale.

Le restanti funzioni, quali attualmente previste, sono in parte ereditate dalle città metropolitane, per altra parte, cioè per le funzioni conferite con legge dello Stato, sono trasferite ai comuni e alle unioni di comuni ai sensi dell'art. 15, commi 2 e 3.

Non sono transitorie, invece, le disposizioni in materia di città metropolitane, la cui disciplina è stata travolta pure dalla ricordata pronuncia della Corte costituzionale e che il disegno di legge ripristina. Sono previste, inoltre, disposizioni speciali per la città metropolitana di Roma Capitale.

 

Infine, alcune disposizioni intervengono in materia di unione di comuni e di incentivi alla fusione di comuni.

 

La disciplina prevista dal Capo III richiede una pluralità di adempimenti, da realizzare sia con fonti normative di diversi livelli – cioè legge dello Stato, legge regionale, decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (art. 15, commi 2, 3 e 4) riguardo alle funzioni delle province – sia, sul territorio, con i procedimenti statutari e di costituzione/elezione degli organi. Pertanto, appare opportuno valutare gli effetti dell’introduzione di un assetto del tutto transitorio sia in una prospettiva di economia procedurale - nella quale confrontare i tempi che saranno necessari per l’attuazione effettiva di tale assetto da un lato e quelli di approvazione del disegno di legge costituzionale AC 1543 dall’altro – sia dal punto di vista della certezza e della stabilità dell’ordinamento per le comunità territoriali.

Occorre aggiungere, inoltre, che il contenuto di entrambi i disegni di legge richiede interventi di coordinamento: basti pensare che, nel disegno di legge ordinario, alcuni procedimenti presuppongono l’applicazione dell’art. 133 Cost., primo comma, relativo, alle circoscrizioni provinciali, che invece, il disegno di legge costituzionale sopprime, con l’effetto di cristallizzare fattispecie formate su una base normativa non più esistente.

 

Si fa presente che, la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza pubblica, a pag. 10, afferma che il Governo collega alla manovra di bilancio sei disegni di legge, tra cui uno in materia di enti locali.


 

Il disegno di legge è articolato in sei Capi e 23 articoli come segue:

Capo I, formato da un unico articolo recante l’oggetto del disegno di legge:

Capo II (artt. 2-10) Città metropolitane;

Capo III (artt. 11-15) Province;

Capo IV (artt. 16 e 17) Roma capitale;

Capo V (artt. 18-22) Unioni e fusioni di comuni;

Capo VI (art. 23) Norme finali.

 


 

Città metropolitane

Il Capo II istituisce e disciplina le città metropolitane che (ai sensi dell’articolo 3) sono costituite a decorrere dal 1° gennaio 2014.

Viene così confermata la tassatività dell’istituzione delle città metropolitane introdotta dal decreto-legge 95/2012 che per la prima volta supera l’impostazione previgente, recata dal D.Lgs. 267/2000, testo unico degli enti locali (TUEL), che prevede l’istituzione (facoltativa) della città metropolitana all’esito di un articolato procedimento che coinvolge la popolazione, gli enti locali, le regioni e lo Stato.

Superato anche quanto previsto dalla legge 42/2009 sul federalismo fiscale che, pur mantenendo la disciplina ordinaria del TUEL, introduce una procedura transitoria (anch’essa facoltativa) e semplificata per la creazione delle città metropolitane che prevede: iniziativa del comune capoluogo e della provincia, congiuntamente tra loro o separatamente; parere della regione; referendum confermativo. Una disposizione di delega (ormai scaduta) subordinava l’effettiva istituzione di ciascuna città metropolitana all’adozione di altrettanti decreti legislativi.

Definizione di città metropolitana, funzioni degli organi e statuto

Le città metropolitane sono definite quali enti territoriali di secondo livello dall’articolo 1, comma 2, che ne individua le funzioni “istituzionali generali” nella cura dello sviluppo strategico del proprio territorio (prevalentemente attraverso compiti di programmazione e coordinamento) e nella cura dei rapporti con gli altri enti territoriali, italiani e stranieri, ed in particolare con le altre città metropolitane europee.

 

L’articolo 2 individua le città metropolitane, ne definisce gli organi e le modalità di adozione e i contenuti degli statuti.

 

Ai sensi del comma 1, le città metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria sono disciplinate dal Capo II della provvedimento nel rispetto dell’art. 114 e 117, 2° comma, lett. p) Cost.

A differenza di quanto previsto dall’art. 18 del decreto-legge 95/2012, che definiva una disciplina comune per tutte le città metropolitane, compresa Roma, il disegno di legge in commento differenzia quest’ultima, alla quale viene riconosciuta una disciplina speciale recata dal Capo IV, in ragione dello status di capitale riconosciuto dall’art. 114 Cost.

Il citato articolo 114 Cost. è richiamato (assieme all’art. 117, secondo comma, lettera p) Cost.) anche in riferimento alle altre città metropolitane, la cui disciplina ne costituisce attuazione.

 

L'art. 114 Cost., come modificato dalla legge cost. 3/2001, elenca anche le Città metropolitane tra gli enti costitutivi della Repubblica e costituzionalizza la definizione di Roma capitale, riservando alla legge la sua disciplina. La citata lettera p) assegna allo Stato la competenza in tema di elezioni, organi e funzioni fondamentali degli enti locali, comprese le città metropolitane.

 

Come indicato nel comma 2, il territorio della città metropolitana coincide con quello della provincia omonima di cui però non viene esplicitamente prevista la soppressione, come invece prescritto dal decreto-legge 95/2013. Di fatto comunque la provincia sembrerebbe destinata ad essere soppressa, ai sensi del successivo art. 3, comma 1, lett. f) e g), dove se ne prevede il “subentro” da parte della città metropolitana, a meno che essa non continui a sussistere a seguito del rifiuto di più comuni di fare parte della città metropolitana.

Infatti, come prevedeva anche il decreto-legge 95/2012, i comuni del territorio metropolitano possono scegliere di non aderire alla città metropolitana (vedi oltre l’art. 3), così come i comuni delle province limitrofe possono invece entrarne a farne parte, previa attivazione della procedura ex art. 133, 1° comma, Cost. secondo cui il mutamento delle circoscrizioni provinciali o la creazione di nuove province può essere stabilito “con Legge della repubblica, su iniziativa dei comuni, sentita la stessa regione”.

Come si vedrà, su tale aspetto si fonda una delle differenze principali del procedimento di costituzione ordinario rispetto a quello speciale previsto per Roma Capitale, la cui città metropolitana è costruita attraverso l’adesione esplicita dei comuni della provincia.

 

Si osserva, in proposito, che il disegno di legge del Governo di abolizione delle province A.C. 1543 (presentato contestualmente, e strettamente collegato, a quello in esame) prevede l’abrogazione del 1° comma dell’art. 133 Cost. Pertanto, si potrebbe supporre che l’opzione di adesione di altri comuni alla città metropolitana possa essere esercitata esclusivamente nelle more della riforma costituzionale. Resterebbe in ogni caso precluso l’eventuale successivo passaggio di nuovi comuni (ma si veda oltre l’osservazione all’art. 3).

 

Il comma 3 individua gli organi della città metropolitana che sono:

§         il sindaco;

§         il consiglio metropolitano;

§         la conferenza metropolitana.

 

Non è prevista la costituzione di una giunta ma è data facoltà al sindaco di nominare un vicesindaco e uno o più consiglieri delegati (si veda altre l’art. 7).

 

Le funzioni degli organi metropolitani sono definite nel comma 4, mentre le modalità di formazione sono indicate nei successivi articoli 3, 4 e 8.

Il sindaco metropolitano è il rappresentante della città metropolitana e ha il compito di convocare e presiedere il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana. Inoltre, ha poteri di impulso dell’attività dell’ente e di proposta e la funzione di sovrintendere alla “macchina” amministrativa della città.

Le funzioni del consiglio metropolitano sono ricalcate su quelle del consiglio comunale (art. 42 TUEL) con almeno due importanti differenze: esso è qualificato come organo di indirizzo dell’ente, ma non anche di controllo. Inoltre, ha il potere di approvare regolamenti, piani, programmi ed altri atti ad esso sottoposti, ad eccezione del bilancio e dello statuto, che propone e che sono sottoposti all’approvazione dalla conferenza metropolitana.

Quest’ultimo è un organismo nuovo, non contemplato dalla disciplina degli enti locali, ma già previsto dal decreto-legge 95/2012, con la significativa differenza che in quel caso si trattava di un organismo transitorio (una specie di assemblea costituente metropolitana) destinata a cessare le sue funzioni una volta approvato lo statuto, mentre nel provvedimento in esame ha un ruolo permanente, in quanto ha il compito non solo di approvare lo statuto, ma anche le eventuali successive modifiche ed altresì approva il bilancio annuale dell’ente. La conferenza metropolitana dispone inoltre di poteri propositivi e consultivi la cui definizione è rimessa allo statuto.

Per quanto riguarda invece sindaco e consiglio metropolitano, una norma di chiusura demanda allo statuto l’individuazione puntuale dei loro compiti e funzioni.

Ai sensi del comma 5, infatti, lo statuto deve stabilire:

§      le norme fondamentali di organizzazione dell’ente;

§      le attribuzioni degli organi, nell’ambito delle disposizioni generali di cui al comma 4,

§      l’articolazione delle competenze degli organi predetti.

 

Inoltre, il comma 6 individua altri contenuti propri dello statuto tra cui la disciplina delle forme di indirizzo e coordinamento dell’azione di governo del territorio metropolitano, la disciplina dei rapporti tra i comuni metropolitani (prevedendo la possibilità di stringere accordi anche con comuni non facenti parte della città metropolitana) e la definizione delle modalità di esercizio delle funzioni metropolitane. Quanto a quest’ultimo aspetto, il disegno di legge suggerisce alcune forme di esercizio che devono necessariamente essere contemplate negli statuti, pur essendone l’adozione effettiva facoltativa: si tratta dell’eventuale conferimento (anche in forma differenziata) da parte della città metropolitana di funzioni proprie ai comuni ricompresi nel proprio territorio e, viceversa, il conferimento di funzioni comunali alla città. In entrambi i casi deve essere previsto il contestuale trasferimento delle risorse necessarie all’esercizio ottimale delle finzioni conferite. E’ prevista anche la possibilità di demandare specifiche funzioni ad articolazioni interne appositamente costituite.

 

Il comma rimette allo statuto metropolitano la possibilità di disporre sulla delega di funzioni, sia da parte dei comuni alla città metropolitana, sia da parte della città ai comuni, ma si consideri che la competenza a disciplinare la titolarità di funzioni – quantomeno non fondamentali – spetta allo Stato o alle Regioni in funzione della relativa competenza legislativa (art. 118: “con legge statale o regionale…..”). Pertanto l’attribuzione da parte della legge statale alla Città metropolitana di tale facoltà di delega andrebbe verificata sotto il profilo della compatibilità costituzionale, specie per quanto riguarda funzioni eventualmente attribuite dalla legge regionale.

Procedimento di istituzione

L’articolo 3 individua il procedimento per l’istituzione delle città metropolitane e per la prima applicazione delle nuove disposizioni.

Si tratta di un procedimento graduale che prevede una fase di “assestamento”, prima del definitivo subentro delle nuove città metropolitane alle province.

Come si è anticipato, la costituzione delle città metropolitane è obbligatoria e non più facoltativa ed è fissata al 1° gennaio 2014.

Il procedimento si articola nelle seguenti fasi.

 

I fase. Costituzione degli organi e approvazione dello statuto. La costituzione della città metropolitana avviene con la costituzione (provvisoria) dei suoi organi alla data appunto del 1° gennaio 2014. Gli organi sono:

§         il sindaco della città metropolitana, che è il sindaco del comune capoluogo (come previsto anche a regime, fatta salva la possibilità da parte dello statuto di prevederne la sua elezione);

§         il consiglio metropolitano provvisorio (per la sua composizione a regime si veda l’art. 4 dove è prevista anche la possibilità di elezione) formato da:

-      il sindaco metropolitano;

-      i sindaci dei comuni appartenenti alla città metropolitana con popolazione superiore a 15.000 abitanti;

-      i presidenti delle unioni di comuni della città metropolitana con popolazione complessivamente pari o superiore a 10.000 abitanti;

-      i presidenti di unioni di comuni di cui all'articolo 1, comma 4, secondo periodo (si tratta delle unioni obbligatorie per l’esercizio associato di funzioni di comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, o 3.000 se appartenenti a comunità montane). La partecipazione di tali soggetti è limitata ai primi tre anni (fino al 1° gennaio 2017);

-      il presidente della provincia omonima (fino al 1° luglio 2014 ovvero fino alla data di approvazione dello statuto, se successiva);

-      il presidente della regione, ovvero un suo delegato (senza diritto di voto); in questo caso non viene specificato fino a quando il presidente della regione partecipa ai lavori del consiglio, presumibilmente fino all’adozione dello statuto, in quanto la sua presenza non è contemplata nella composizione a regime del consiglio (vedi art. 4);

§         il comitato esecutivo, organo ristretto che può essere costituito all’interno del consiglio metropolitano se questo supera le 20 unità;

§         la conferenza metropolitana costituita da tutti i sindaci appartenenti alla città metropolitana.

 

In questa fase, agli organi metropolitani spetta esclusivamente il compito di predisporre e approvare lo statuto (rispettivamente da parte del consiglio e della conferenza, ai sensi dell’art. 2, comma 3) e di adottare le misure necessarie per il passaggio dalla provincia al nuovo ente, rimanendo le altre funzioni ancora in mano agli organi provinciali, fino appunto all’adozione dello statuto.

 

II fase. Adesione comunale. Una volta costituiti gli organi metropolitani provvisori, e mentre questi predispongono il nuovo statuto, si apre una finestra temporale (fino al 28 febbraio 2014) durante la quale i comuni il cui territorio è compreso nella provincia destinata a trasformarsi in città metropolitana possono scegliere di non aderire al nuovo ente. In altre parole l’adesione alla città metropolitana è automatica per tutti i comuni, a meno che almeno un terzo dei comuni stessi, purché tra loro confinanti, ovvero un numero di comuni anche inferiore che però rappresenti un terzo della popolazione totale deliberi di non entrare a far parte della città metropolitana.

Il meccanismo è simile a quello delineato dal decreto-legge 95/2012, con due significative differenze: in quel caso si prevedeva che i comuni optanti fossero inclusi nel territorio di province limitrofe, mentre l’articolo in esame contempla la “reviviscenza” della provincia originaria (disciplinata ai sensi del capo III del d.d.l.).

 

Nel caso in cui rifiutino l’adesione comuni che rappresentino almeno un terzo della popolazione, non viene affrontata la questione della situazione che verrebbe a crearsi nell’eventualità di comuni optanti che non hanno continuità territoriale tra di loro.

 

La seconda differenza riguarda le procedure di scelta: il disegno di legge in esame prevede una delibera del consiglio comunale adottata a maggioranza assoluta dei componenti; il decreto-legge demandava al procedimento di cui all’art. 133, 1° comma, Cost. secondo cui il mutamento delle circoscrizioni provinciali o la creazione di nuove province può essere stabilito “con Legge della repubblica, su iniziativa dei comuni, sentita la stessa regione”.

Come si visto sopra (art. 2, comma 1), il meccanismo ex art. 133 Cost. è invece richiamato per l’adesione eventuale al nuovo ente di comuni delle province limitrofe.

 

Stante il fatto che l’eventuale “scissione” della provincia in due (città metropolitana e provincia residua) costituirebbe una mutazione della circoscrizione provinciale, andrebbe valutata la compatibilità del procedimento semplificato sopra delineato (delibera comunale a maggioranza assoluta) con il disposto dell’art. 133, 1° comma, di cui è prevista l’abrogazione nel disegno di legge di abolizione delle province (A.C. 1543).

Inoltre, l’indicazione di una scadenza tassativa per l’attivazione dell’opzione, ossia il 28 febbraio 2014, letta in combinato disposto con l’abrogazione dell’art. 133, 1° comma, Cost., renderebbe di fatto “cristallizzata” la composizione territoriale della città metropolitane, che potrebbe essere modificata solamente con un nuovo intervento legislativo.

 

III fase (eventuale). “Scissione” della provincia. Come si è detto, nel caso in cui una parte significativa della provincia non aderisca alla città metropolitana, questo fa sì che la provincia rimanga in funzione (anche in via transitoria fino alla riforma costituzionale che prevede l’abolizione di tutte le province). Si apre così un sub-procedimento volto principalmente a ripartire le risorse tra i due enti che prevede:

§      decadenza dei precedenti organi provinciali (ad elezione diretta) e formazione dei nuovi (ad elezione indiretta) ai sensi dell’art. 13;

§      emanazione di un decreto del Ministro degli affari regionali per disciplinare le modalità di ripartizione delle risorse;

§      deliberazione del presidente della provincia di riparto delle risorse (di intesa con il sindaco metropolitano e previo parere dei comuni interessati) entro il 30 aprile 2014;

§      atto di riparto adottato dal prefetto nei successivi 90 giorni in caso di mancata deliberazione provinciale.

 

Il potere del prefetto appare meritevole di approfondimento alla luce dell’articolo 120 della Costituzione, che limita i casi di esercizio del potere sostitutivo del Governo nei confronti degli organi degli enti territoriali, richiedendo altresì il rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione.

 

Avverso gli atti di riparto delle risorse può essere presentato ricorso alla sezione regionale competente della Corte dei conti da parte della città metropolitana e della provincia.

 

Si osserva che, con quest’ultima disposizione, si introduce una funzione affatto nuova in capo alla Corte dei conti, la cui attività giurisdizionale si esplica essenzialmente nell’ambito dell’accertamento di responsabilità (contabile, amministrativa, da dissesto finanziario) oltre che nei giudizi pensionistici e nello speciale giudizio avverso gli atti ISTAT[1] di ricognizione delle amministrazioni pubbliche.

 

IV fase. Subentro della città metropolitana alla provincia. Il 1° luglio 2014 le città metropolitane subentrano in tutto e per tutto alle province, sia in caso di approvazione dello statuto, sia in mancanza. Si apre in questo secondo caso una delicata fase intermedia, in cui la provincia cessa di esistere, ma la città metropolitana non può funzionare a pieno regime nelle more dell’approvazione dello statuto che deve essere approvato entro il 31 dicembre 2014 (vedi oltre).

 

Nel caso di sopravvivenza della provincia (vedi fase III) e in mancanza di delibera provinciale di riparto delle risorse entro il 30 aprile 2014, spetta al prefetto intervenire entro 90 giorni (quindi entro il 29 luglio 2014) e quindi potrebbe verificarsi che in tali casi la città metropolitana possa succedere alla provincia solo in tale data. Andrebbe pertanto valutata l’opportunità di allineare le due scadenze.

 

Fino alla data di subentro (1° luglio 2014) sono prorogati gli organi provinciali in carica, comprese le gestioni commissariali.

 

Si ricorda che, delle 10 province interessate, 3 sono attualmente commissariate: Roma e Genova, i cui consigli sono andati in scadenza rispettivamente nel 2013 e nel 2012 e che non sono stati rinnovati in virtù del decreto-legge 201/2011 (che ha disposto il commissariamento delle province alla scadenza degli organi) e Reggio Calabria, il cui consiglio provinciale è stato sciolto per mafia nel 2012. Per la provincia di Roma si applica la disciplina speciale dell’articolo 16.

Nelle altre sette province gli organi scadranno nel giugno 2014 (le ultime elezioni si sono svolte il 7 giugno 2009) e pertanto verrebbero prorogati di quasi un mese.

Si consideri che il procedimento elettorale prevede che le elezioni comunali e provinciali si svolgono in un turno annuale da tenersi in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno e che la data deve essere fissata dal Ministro dell’interno non oltre il 55° giorno antecedente quello delle votazioni. Pertanto, la metà di aprile del 2014 è la data limite per l’attivazione del procedimento elettorale ed è la data entro la quale dovrebbe entrare in vigore il provvedimento in esame per evitare il rinnovo degli organi provinciali e il conseguente rinvio della istituzione della città metropolitana. Né dovrebbe su tali scansioni temporali influire l’abolizione della finestra elettorale per le province stabilita dall’art. 23, comma 2.

 

V fase. Approvazione dello statuto. Il procedimento si conclude con l’approvazione dello statuto che deve avvenire entro il 31 dicembre 2014. Decorso tale termine il prefetto fissa una nuova data, non superiore a 60 giorni. Superato anche questo secondo termine, il compito di approvare lo statuto è affidato (senza definire un ulteriore termine) ad un commissario ad acta (cui non è corrisposto alcun emolumento) nominato dal prefetto. Nella predisposizione dello statuto il commissario è vincolato nella definizione della composizione degli organi, per la quale deve obbligatoriamente fare riferimento alla composizione “automatica” prevista dall’art. 4, comma 1.

 

Anche in tal caso il potere riconosciuto al commissario ad acta ai fini dell’approvazione dello statuto deve essere valutato alla luce dei limiti posti dall’articolo 120 della Costituzione all’esercizio del potere sostitutivo del Governo nei confronti degli organi degli enti territoriali.

Sindaco e consiglio metropolitano

Gli articoli da 4 a 8 disciplinano gli organi della città metropolitana a regime.

Essi sono:

·         sindaco metropolitano;

·         vicesindaco metropolitano;

·         consiglio metropolitano;

·         comitato esecutivo;

·         consiglieri delegati;

·         conferenza metropolitana.

 

Il vicesindaco, il comitato esecutivo e i consiglieri delegati sono organi facoltativi.

L'articolo 4 concerne il sindaco e il consiglio metropolitano, prevedendo tre modalità di formazione la cui scelta è demandata allo statuto:

·         costituzione automatica d entrambi gli organi (art. 4, comma 1);

·         elezione indiretta del Consiglio metropolitano (art. 4, comma 2, lett. a));

·         elezione diretta a suffragio universale del sindaco e del Consiglio metropolitani (art, 4, comma 2, lett. b)).

 

 

La prima modalità consiste in una formazione degli organi completamente di secondo grado, senza elezione né diretta, né indiretta degli stessi, analoga a quella della fase transitoria (vedi art. 3): il sindaco metropolitano è di diritto e il sindaco del comune capoluogo e il consiglio metropolitano è costituito dagli stessi soggetti del consiglio metropolitano provvisorio meno il presidente della provincia e il presidente della regione (sindaco metropolitano, sindaci dei comuni con più di 15.000 abitanti, presidenti delle unioni di comuni con almeno 10.000 abitanti e, per i primi 3 anni, i presidenti di unioni di cui all’articolo 1, comma 4, secondo periodo). E' prevista la possibilità di costituire, se il numero dei consiglieri è superiore a venti unità, un comitato esecutivo all'interno del consiglio.

In questo caso, gli amministratori locali che nel corso del mandato metropolitano cessano dalla carica dall'ente di provenienza sono sostituiti da chi subentra loro nella carica (comma 4, ultimo periodo).

 

In merito a tale modalità, si nota che le soglie di rappresentanza stabilite per la partecipazione all'organo escludono rappresentanti di enti con popolazione inferiore a quelle soglie: tale esclusione potrebbe avere effetti rilevanti dato l’ampio numero di Comuni con popolazione al di sotto dei 15.000 abitanti (si veda la Tab. a pag. 17).

 

In alternativa a questo sistema, la città metropolitana può scegliere tra due opzioni.

Una modalità intermedia, mantiene, come la prima modalità, l'identificazione del sindaco metropolitano con il sindaco del comune capoluogo, mentre il consiglio metropolitano non è a composizione derivata, ma viene eletto, con un sistema di secondo grado, dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni appartenenti al territorio della città metropolitana. Il sistema elettorale è disciplinato dall'articolo 5.

L'altra modalità prevede l'elezione diretta sia del sindaco, sia del consiglio metropolitano, tale opzione è sottoposta ad una serie di condizioni:

§         l'elezione non può avvenire prima del 2017;

§         deve essere approvata una legge elettorale statale;

§         il territorio del comune capoluogo deve essere articolato in più comuni.

Altre disposizioni in materia di elezione diretta sono contenute nell’articolo 6 cui si rinvia.

 

La lettera p) del secondo comma dell'art. 117 Cost. assegna allo Stato la competenza sul sistema elettorale - tra l'altro - delle città metropolitane. Poiché  la disposizione in esame sembra “cedere” la competenza (almeno in parte) allo statuto metropolitano, essa andrebbe verificata alla luce del rango costituzionale  della riserva alla legge statale di tale competenza.

 

L'articolo in esame, inoltre, disciplina in modo dettagliato la procedura di suddivisione del territorio del comune capoluogo in più comuni, condizione per l’elezione diretta degli organi) che si articola come segue:

§      deliberazione del consiglio comunale, adottata secondo la procedura prevista per l’adozione dello statuto dall’articolo 6, comma 4, del testo unico (“Gli statuti sono deliberati dai rispettivi consigli con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati. Qualora tale maggioranza non venga raggiunta, la votazione è ripetuta in successive sedute da tenersi entro trenta giorni e lo statuto è approvato se ottiene per due volte il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle modifiche statutarie”);

§      referendum sulla proposta del consiglio comunale, tra tutti i cittadini della città metropolitana (non solamente quindi i cittadini interessati dalla suddivisione in più comuni), da effettuare sulla base delle rispettive leggi regionali, con la condizione della approvazione da parte dalla maggioranza dei partecipanti al voto;

§      istituzione con legge regionale dei nuovi comuni e loro denominazione ai sensi dell’articolo 133 della Costituzione.

 

Si osserva a proposito di quest’ultima disposizione che l’art. 133, 2° comma, Cost. configura come facoltativa l’istituzione di nuovi comuni da parte della regione, mentre la disposizione in esame ne prevede l’istituzione obbligatoria nel caso di elezione diretta degli organi della città metropolitana. In tal caso l’effetto del vincolo posto dall’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 4 potrebbe tradursi in una esclusione della modalità dell’elezione diretta qualora la Regione non proceda con propria legge a disarticolare il territorio. Comunque tale disarticolazione non sembra rispondere all’obiettivo di realizzare economie di scala delle dimensioni comunali dichiarato dalla relazione tecnica.

 

Nel caso di elezione del consiglio metropolitano (sia indiretta, sia a suffragio diretto) il comma 3 ne disciplina la composizione come segue:

§       24 consiglieri nelle città metropolitane con popolazione residente superiore a 3.000.000 di abitanti;

§       18 consiglieri nelle città metropolitane con popolazione residente superiore a 800.000 e inferiore o pari a 3.000.000 di abitanti;

§       14 consiglieri nelle altre città metropolitane.

 

Si ricorda che il decreto-legge 95/2012 prevedeva per le stesse fasce demografiche un numero di consiglieri sensibilmente minore (rispettivamente 16, 12 e 10).

 

Segue un elenco delle 9 province interessate per numero di abitanti. Oltre alla popolazione ufficiale rilevata nel censimento 2011[2], sono riportate altre informazioni sulla composizione demografica della provincia, utili nell'analisi del testo di legge: numero di comuni, numero di comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti; popolazione del capoluogo di provincia; popolazione del comune con il più basso numero di abitanti.

 

Ai sensi del comma 4 al sindaco e ai consiglieri metropolitani (compresi il sindaco e i consiglieri provvisori) non viene corrisposto alcun emolumento.

 

Va osservato che in questo modo verrebbe a crearsi una disparità di trattamento tra il sindaco e i consiglieri metropolitani che sono anche sindaci del capoluogo e consiglieri dei comuni della città metropolitana (che in quanto tali percepiscono l'indennità relativa) e quelli eletti direttamente (ai quali non spetta alcuna indennità). Altrettanto evidente la disparità tra il sindaco e consigliere metropolitano e gli omologhi di un comune non metropolitano.

Sistema elettorale per l’elezione del consiglio metropolitano

L ’articolo 5 del ddl in commento definisce il sistema elettorale (indiretto) per l’elezione del consiglio metropolitano in parte analogo a quello previsto dal TUEL per i consigli provinciali.

Come detto sopra (art. 4), si possono avere tre tipi di formazione del consiglio di cui due di tipo elettivo la cui scelta è rimessa allo statuto.

 

L’articolo in esame individua il sistema elettorale indiretto (mutuato da quello attualmente previsto dal TUEL per le province), mentre l’art. 4 prevede che la definizione del sistema elettorale diretto a suffragio universale sia demandata alla legge statale.

Viene così operata una scelta diametralmente opposta da quella del decreto-legge 95/2013 dove si prevedeva che l’elezione indiretta avvenisse con lo stesso sistema delle elezioni provinciali, la cui definizione era a sua volta demandata alla legge statale (D.L. 201/2011) e che in caso di scelta dell’elezione diretta si utilizzasse il sistema previsto dal TUEL.

Nella scorsa legislatura il Governo ha presentato alle Camere il disegno di legge elettorale provinciale (A.C. 5210) di cui però non si è concluso l’esame.

 

Si tratta di un sistema proporzionale, con voto di lista e preferenze, senza coalizioni, né soglie di sbarramento, né premi di maggioranza. In estrema sintesi:

-      hanno diritto di elettorato attivo e passivo i sindaci e i consiglieri comunali in carica nei comuni della provincia;

-      l’intero territorio provinciale è costituito da una unica circoscrizione elettorale sia ai fini della presentazione delle candidature, sia per l’attribuzione dei seggi;

-      le forze politiche presentano la lista dei candidati al consiglio provinciale e, con essa, il candidato alla carica di presidente della provincia;

-      l'elettore vota insieme la lista e il candidato presidente e può esprimere due preferenze per i candidati alla carica di consigliere;

-      è eletto presidente della provincia il candidato che ottiene il maggior numero di voti;

-      per la composizione del consiglio provinciale l'attribuzione dei seggi alle liste avviene in maniera proporzionale (metodo dei divisori d’Hondt); i seggi sono poi attribuiti ai candidati in ordine al numero di preferenze ricevute.

 

Il sistema proposto dal disegno di legge in esame è analogo a quello previsto per l’elezione del consiglio provinciale come disciplinato dal TUEL: presentazione delle candidature in collegi uninominali ed elezione con sistema proporzionale e soglia di sbarramento, con la significativa differenza che non viene assegnato il premio di maggioranza ed è previsto un turno unico in quanto, a differenza del presidente della provincia, il sindaco metropolitano non viene eletto direttamente.

Come nel sistema indiretto proposto nella scorsa legislatura, hanno diritto di elettorato attivo e passivo i sindaci e i consiglieri comunali in carica nei comuni della provincia, con la fondamentale differenza che è prevista il voto ponderato in base alla densità demografica dei comuni.

La ponderazione del voto avviene in due fasi, disciplinate rispettivamente dalle lett. a) e b) del primo comma dell’articolo 5.

La prima fase è finalizzata alla perequazione del voto dei consiglieri dei comuni più piccoli (e quindi con un numero minore di consiglieri), rispetto ai comuni più grandi (e quindi con un numero maggiore di consiglieri). A tal fine al voto dei consiglieri (compreso il sindaco) dei comuni più piccoli (sotto i 3.000 abitanti) è attribuito il valore di 1 al voto per ciascun consigliere; ai consiglieri degli altri comuni è attribuito un valore proporzionalmente inferiore al crescere della soglia demografica, fino al valore di 0,20 (un quinto di 1) per la fascia più alta (più di un milione di abitanti). In questo modo è riequilibrato il rapporto tra il numero di consiglieri (che è circa di uno a cinque tra le due fasce estreme).

Nella tabella che segue, tratta dalla circolare del Ministero dell’interno del 18 febbraio 2011, n. 2915, è riportata la composizione dei consigli comunali per fasce demografiche, nella previsione dell’art. 37 del TUEL e quella conseguente alla riduzione apportata nel 2011).

 

 

 

 

A partire dal 2012 una ulteriore riduzione è prevista per i comuni fino a 10.000 abitanti (circolare del Ministero dell’interno del 16 febbraio 2012, n. 2379).

 

 

 

Una volta ovviato alla sperequazione tra i comuni rispetto al numero dei rispettivi consiglieri, con la seconda fase viene invece ponderato il voto in riferimento alla popolazione e quindi per ogni consigliere il valore prima indicato viene moltiplicato per il quoziente risultante dalla divisione tra il numero della popolazione del proprio comune e il numero della popolazione del comune più piccolo. Il risultato (arrotondato alla seconda cifra decimale) e il voto ponderato.

La popolazione è determinata sulla base dell’ultimo censimento.

 

La formula di calcolo è dunque la seguente:

 

V1 = V p1 x (P1/Pm)

 

Dove V1 è il voto ponderato, Vp1 è il valore della prima fase della ponderazione, P1 è la popolazione del comune e Pm è la popolazione del comune più piccolo.

 

 

Al fine di esemplificare il meccanismo di ponderazione, si sono analizzati i casi delle città metropolitane di Napoli e Milano, ipotizzando – necessariamente – che tutti i comuni che attualmente fanno parte della provincia, restino a far parte della città metropolitana.

Per quanto riguarda la Città metropolitana di Milano, il sindaco e l'insieme dei consiglieri del capoluogo dispongono complessivamente di 17.667 voti, pari al 40,3 per cento del totale dei voti disponibili (pari a circa 43.811); il 40,8 è la percentuale della popolazione di Milano sul totale della popolazione provinciale. Il comune di Sesto San Giovanni (con 76.514 abitanti è il comune immediatamente inferiore a Milano per popolazione) dispone complessivamente di 1.110 voti, pari al 2,5 del totale complessivo.

Minore il peso percentuale dei 'voti disponibili' tra il comune capoluogo e gli altri comuni nella provincia di Napoli, vista la diversa struttura demografica. Sindaco e consiglieri di Napoli dispongono complessivamente di 5.615 voti, pari al 28,9 per cento del totale dei voti disponibili (pari a circa 19.383); anche in questo caso la percentuale corrisponde, sostanzialmente, al valore percentuale della popolazione del capoluogo sul totale della popolazione, pari a 31,4. Il comune di Giuliano in Campania (con 108.793 abitanti è il comune immediatamente inferiore a Napoli per popolazione) dispone complessivamente di 855 voti, pari al 4,4 del totale complessivo. Segue Torre del greco con 85.922 abitanti e 511 voti disponibili pari al 2,6 per cento del totale complessivo.

 

 

Una volta effettuata la ponderazione dei voti in base alla popolazione, si apre il procedimento elettorale vero e proprio, che come si è detto ricalca quello in vigore per le province, con alcune differenze, tra queste, ovviamente, la mancata previsione dell’elezione diretta del presidente della provincia (come si è detto).

 

Per quanto riguarda la determinazione delle circoscrizioni elettorali, il comma 2 dell’articolo in commento prevede la costituzione di collegi uninominali, come attualmente previsto dalla legge per le province (art. 75, comma 1, TUEL). Analogamente, per le definizione del procedimento elettorale preparatorio si fa rinvio alla normativa vigente (L. 122/1951) richiamata anch’essa dal TUEL; mentre per quanto riguarda il sistema elettorale vero e proprio (ossia il meccanismo di trasformazione dei voti in seggi), vengono introdotte disposizioni nuove, ma sempre mutuate dal citato art. 75 del TUEL.

 

Pertanto, per quanto riguarda la costituzione dei collegi, la costituzione degli uffici elettorali, la presentazione delle candidature (con una deroga per la loro sottoscrizione come si dirà dopo), la stampa dei manifesti e delle schede elettorali, operazioni di voto e di scrutinio, si applicano le disposizioni della citata legge 122/1951 e, per quanto ivi non previsto, le disposizioni stabilite per le elezioni dei consigli comunali (DPR 570/1960), in virtù del rinvio espresso ad opera dell’art. 8, comma 2, della stessa legge 122.

Fa eccezione il regime di sottoscrizione delle candidature: il comma 3 prevede, infatti, che le dichiarazioni di presentazione delle candidature siano sottoscritte da almeno il 5% degli aventi diritto. Non si applica, dunque, l’art. 14 della citata legge 122, che prevede un numero di sottoscrizioni variabile a seconda della popolazione della provincia.

Si rileva che in questo caso non viene operata la ponderazione dei voti e i consiglieri comunali e i sindaci di tutti i comuni concorrano alla sottoscrizione delle liste su un piano di parità.

I successivi commi 4, 5, 6, 7 e 8, riproducono con poche variazioni il contenuto dei commi 4, 5, 6 10 e 12 dell’articolo 75 del TUEL, prevedendo per la attribuzione dei seggi, quanto segue:

§      viene determinata innanzitutto la cifra elettorale di ogni gruppo (di candidati) sommando i voti validi ottenuti da tutti i candidati del gruppo nei singoli collegi della città metropolitana (comma 4 che riproduce il comma 4 dell’art. 75 TUEL);

§      vengono poi esclusi i gruppi che abbiano ottenuto meno del 3 per cento dei voti validi (comma 5). Si tratta della stessa soglia di sbarramento di cui al comma 5 dell’art. 75 TUEL, senza però prevedere la deroga, ivi stabilita, per i gruppi al di sotto della soglia coalizzata con almeno un gruppo sopra-soglia;

§      vengo successivamente attribuiti a ciascun gruppo di candidati che ne hanno diritto il numero di seggi ad essi spettanti e a tal fine si divide la cifra elettorale di ciascun gruppo di candidati successivamente per 1, 2, 3, 4 ecc. per tante volte quanti sono i consiglieri da eleggere. Poi tra i quozienti così ottenuti si scelgono i più alti, in numero eguale a quello dei consiglieri da eleggere, disponendoli in una graduatoria decrescente e a ciascun gruppo di candidati sono assegnati tanti seggi quanti sono i quozienti ad esso appartenenti compresi nella graduatoria. A parità di quoziente il posto è attribuito al gruppo di candidati che ha ottenuto la maggior cifra elettorale e, a parità di quest'ultima, per sorteggio. Se ad un gruppo spettano più posti di quanti sono i suoi candidati, i posti eccedenti sono distribuiti tra gli altri gruppi, secondo l'ordine dei quozienti (comma 6 che riproduce il comma 6 dell’art. 75 TUEL, non è invece previsto il premio di maggioranza di cui ai commi 7 e 8 dell’art. 75 TUEL);

§      infine, sono proclamati eletti consiglieri metropolitani i candidati di ciascun gruppo secondo l'ordine delle rispettive cifre individuali, determinate moltiplicando il numero dei voti validi ottenuto da ciascun candidato per 100 e dividendo il prodotto per il totale dei voti validi espressi nel collegio per i candidati a consigliere metropolitano. Nel caso di candidature presentate in più di un collegio si assume, ai fini della graduatoria, la maggiore cifra individuale riportata dal candidato (commi 7 e 8 che riproducono i commi 11 e 12 dell’art. 75 TUEL).

 

Per il calcolo della cifra elettorale di ogni gruppo di candidati (comma 4) e della cifra individuale di ciascun candidato (comma 8) le norme in esame non contengono alcun riferimento al calcolo ponderato dei voti come illustrato sopra e disciplinato all'articolo 5, comma 1 lett. a) e b). Benché l'articolo 6 della legge in esame (come sembra, vedi infra) contenga una norma di rinvio a successivi decreti del Presidente della Repubblica per disciplinare le modalità attuative dell'elezione indiretta, sarebbe opportuno esplicitare anche qui che la cifra elettorale del gruppo di candidati e la cifra individuale di ciascun candidato, sono calcolati secondo quanto disposto all'articolo 5, comma 1 lett. a) e b).

 

Si segnala inoltre che il calcolo della cifra elettorale 'ponderata' non può che essere effettuato in sede di Ufficio elettorale circoscrizionale (costituito in ciascun collegio ai sensi dell'articolo 12 della legge 122/1951 a cui il comma 2 rinvia) e che il calcolo deve essere effettuato in relazione a ciascun comune, come illustrato sopra.

 

Una norma di chiusura, dovuta alla natura di secondo grado del sistema elettorale, prevede che in caso di cessazione dalla carica di sindaco o di consigliere comunale il consigliere metropolitano decade automaticamente dal consiglio metropolitano ed è sostituito dal primo dei non eletti, ovviamente se ancora in carica (comma 9).

 

L’articolo 6 disciplina la procedura per la determinazione dei collegi e per l'adozione delle altre disposizioni attuative per l'elezione del Consiglio metropolitano.

 

Benché il riferimento normativo dell'articolo in esame sia all'articolo 4, comma 2, lett. b), è di tutta evidenza (e la relazione illustrativa lo conferma) che la norma non può che riferirsi all'elezione indiretta del consiglio metropolitano (articolo 4, comma 2, lett. a), dal momento che per la disciplina dell'elezione diretta del Sindaco e del Consiglio metropolitano lo stesso articolo 4 comma 2 lett. b) del provvedimento in esame, rinvia ad una legge dello Stato. Per lo stesso motivo non risulta congruente il riferimento alle norme attuative per l'elezione diretta del sindaco e del consiglio metropolitano.

Se dunque la norma è riferita all'elezione indiretta del consiglio metropolitano, occorre modificare il riferimento normativo che deve essere all'articolo 5, comma 2, lett. b) ed eliminare il riferimento all'elezione diretta del Sindaco metropolitano.

 

La norma prevede l’emanazione di uno o più decreti del Presidente del Consiglio, da adottare su proposta del Ministro dell’interno entro 60 giorni dalla data di approvazione dello statuto di ciascuna città metropolitana, con il parere della Conferenza unificata che provvedano a definire i collegi uninominali di cui all'articolo 9 della legge 122/1951 e le altre disposizioni attuative per l’elezione del consiglio metropolitano.

Si ricorda che l'articolo 9 della legge 122/1951, che ha disciplinato la costituzione dei collegi uninominali per la elezione del consiglio provinciale fino al decreto-legge 201/2011, dispone che in ciascuna provincia sono costituiti tanti collegi  quanti sono i consiglieri da eleggere e che a ciascun comune non possono essere assegnati più della metà dei collegi spettanti alla provincia[3].

Bisogna però considerare che nella Legge 122/1951 i collegi uninominali sono previsti con riferimento alla popolazione: pertanto appare necessario valutare come il richiamo di questo riferimento normativo possa essere applicato ad un sistema elettorale che ha natura indiretta e nel quale il corpo elettorale coincide con i sindaci e i consiglieri dei Comuni dell’ambito metropolitano. L’esigenza di tale chiarimento appare particolarmente rilevate con riferimento ai Comuni capoluogo in cui si potrebbero avere più collegi.

 

Si consideri inoltre che il diverso peso attribuito ai voti degli elettori in base alla popolazione del Comune di appartenenza rende necessario identificare la provenienza comunale di ciascuna scheda.

 

Vicesindaco, consiglieri delegati e conferenza metropolitana

Ai sensi dell'articolo 7, il sindaco metropolitano può nominare un vicesindaco, scelto tra i consiglieri metropolitani, dandone immediata comunicazione al consiglio.

Il provvedimento in esame indica quale attribuzione fondamentale del vicesindaco l'esercizio delle funzioni del sindaco in caso di impedimento e di cessazione della carica. Inoltre il sindaco può delegare stabilmente altre funzioni al vicesindaco.

Non è prevista l'istituzione di una giunta metropolitana, ma il sindaco metropolitano può assegnare deleghe a consiglieri metropolitani (consiglieri delegati) secondo le modalità e nei limiti stabiliti dallo statuto.

 

La conferenza metropolitana ordinaria, come quella provvisoria, è composta dal sindaco metropolitano, che la convoca e la presiede, e dai sindaci dei comuni appartenenti alla città metropolitana. Il sindaco ha il potere di convocare la conferenza e svolge le funzioni di presidente della stessa (articolo 8, comma 1).

Il successivo comma 2 stabilisce le modalità di approvazione delle delibere (che, si ricorda, per quest'organo concernono esclusivamente l'adozione dello statuto, delle modifiche allo stesso e del bilancio) che sono adottate con un particolare sistema di voto ponderato che prende come base il voto del sindaco del comune più piccolo, a cui viene assegnato il valore di uno e il voto degli altri sindaci si calcola dividendo il numero degli abitanti del loro comune e il numero degli abitanti del comune con popolazione minore. Il valore è arrotondato alla seconda cifra decimale.

Si nota che tale sistema di adozione delle delibere, espressamente previsto  per la Conferenza metropolitana, non è richiamato per le delibere del Consiglio metropolitano.

Funzioni delle province metropolitane

Il comma 9 individua le funzioni fondamentali delle città metropolitane in:

§      le funzioni fondamentali delle province (cfr. art 15);

§      le seguenti funzioni fondamentali:

-        adozione annuale del piano strategico del territorio metropolitano (atto di indirizzo per tutte le gli enti del territorio metropolitano;

-        pianificazione territoriale generale comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture;

-       strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, nonché organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano;

-       mobilità e viabilità;

-       promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale;

-       promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione.

 

Si tratta delle stesse funzioni assegnate alle città metropolitane dall’articolo 18 del decreto legge 95/2012, ampliate con l’aggiunta del piano strategico e l'informatizzazione.

 

Nella sentenza 238 del 2007 la Corte costituzionale, a proposito della presunta illegittimità della attribuzione alle città metropolitane della «funzione di pianificazione di area vasta», che costituirebbe, invece, una delle «funzioni tradizionalmente spettanti alle province», osserva che la infondatezza di tale censura deriva, prima ancora che dalla sostanziale analogia fra quanto previsto nella [scrutinata] legge regionale n. 1 del 2006 e quanto previsto dall’art. 23 del testo unico degli enti locali in riferimento alle Città metropolitane, dal fatto che nel sistema di entrambi questi testi legislativi, la Città metropolitana corrisponde all’ente locale di area vasta, tanto che nel territorio in cui si crea la Città metropolitana, questa succede alla Provincia”.

 

Il comma 2 fa salve le funzioni di programmazione e coordinamento che spettano alle regioni nelle materie a legislazione concorrente Stato-regioni (art. 117, 3° comma, Cost.) e nelle materie di competenza esclusiva delle regioni (art. 117, 4° comma, Cost.). Parimenti restano ferme le funzioni amministrative esercitate dalle regione in virtù del principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.).

 

L’articolo 10 dispone che ciascuna città metropolitana succede a titolo universale in tutti i rapporti attivi e passivi (comprese le entrate provinciali) della provincia cui subentra e individua le risorse della città metropolitana nel patrimonio, nel personale e le risorse umane e strumentali della provincia medesima.

 

Il decreto-legge 95/2013 articolava in modo più dettagliato l’individuazione delle risorse finanziarie delle città metropolitane riferendosi in quelle di cui agli articoli 23 (che istituisce il fondo perequativo delle province e delle città metropolitane) e 24 (che disciplina articolatamente il sistema finanziario delle città metropolitane) del D.Lgs. n. 68/2011 (emanato in attuazione della legge delega sul federalismo fiscale n. 42/2009); inoltre, prevedeva che il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al citato articolo 24 (quello con cui sono attribuite a ciascuna città metropolitana le proprie fonti di entrata e assicura l'armonizzazione di tali fonti di entrata con il sistema perequativo e con il fondo di riequilibrio) fosse adottato entro tre mesi dall’entrata in vigore del decreto.

Si rammenta che, anche a seguito di quanto disposto dal D.Lgs. n. 68 /2011 il sistema delle entrate provinciali è costituito da tre principali tributi: la compartecipazione provinciale all’Irpef (fissata dal D.P.C.M. 10/7/2012 nello 0,60 dell’imposta), l’imposta provinciale di trascrizione, iscrizione ed annotazione dei veicoli iscritti al pubblico registro automobilistico (IPT), e l’imposta sulle assicurazioni sulla responsabilità civile auto, la cui aliquota è stabilita nella misura del 12,5% (salvo la facoltà delle province di variarla in aumento o in diminuzione di 3,5 punti percentuali).

 

Il comma in commento ribadisce, inoltre, che, nel caso in cui la città metropolitana non sostituisca del tutto la provincia originaria, ma subentri solo per una parte del territorio provinciale, ai sensi del’articolo 3, comma 1, lett. g), si procede alla ripartizione delle risorse tra la città metropolitana e la provincia, come previsto dalla citata lettera g), con delibera del presidente della provincia in carica.

Infine, ai sensi del comma 2, il personale trasferito dalla provincia alla città metropolitana mantiene la posizione giuridica ed economica in godimento all’atto del trasferimento con riferimento alle voci fisse e continuative, compresa l’anzianità di servizio maturata.

 

 


 

Province

Il Capo III, costituito dagli articoli da 11 a 15, disciplina organi e funzioni delle province. L’assetto delineato è destinato a cedere il passo a quello che risulterà dall’esame e dall’approvazione del disegno di legge costituzionale AC 1543, presentato dal Governo il 20 agosto 2013 con l’intento di escludere il carattere costituzionalmente necessario dell’ente provincia.

L’esigenza di stabilire un nuovo quadro normativo, sia pur da superare in sede di revisione costituzionale, è motivata dalla relazione illustrativa: sia con l’esigenza di effettuare una revisione di quello esistente, altrimenti riconducibile al TUEL, data la declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni varate nella scorsa legislatura con i decreti-legge 201/2011 e 95/2012; sia con l’esigenza di dare seguito all’obiettivo di riordino dei livelli amministrativi e abolizione delle province che costituiva uno degli oggetti del discorso programmatico del Presidente del Consiglio (Camera dei deputati, 29 aprile 2013).

 

La legittimazione costituzionale dell’intervento normativo in esame poggia sull’art. 117 Cost., comma secondo, lett. p), che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la disciplina di organi e funzioni fondamentali anche delle province. Tale articolo non è richiamato nel Capo III, né nell’art. 1, comma 3, che qualifica, in via transitoria, le province come enti territoriali di secondo livello.

Le funzioni fondamentali non sono oggetto di definizione nella Carta costituzionale, nella quale le funzioni dei comuni (delle province e delle città metropolitane) sono qualificate come fondamentali dall’art. 117; inoltre, l’art. 118, secondo comma, prevede che i comuni (le province e le città metropolitane) siano titolari di funzioni amministrative proprie e di funzioni conferite con legge statale o regionale secondo le rispettive competenze.

La differente qualificazione costituzionale delle funzioni non ha impedito, in sede di dottrina, di identificare le funzioni proprie con quelle fondamentali (quindi da determinare con legge statale), con individuazione uniforme a livello nazionale delle funzioni di base.

Per l’attuazione dell'art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. l’art. 2 della legge 5 giugno 2003, n. 131 stabiliva una delega che non è stata esercitata. L’oggetto della delega era costituito dalla definizione delle “funzioni fondamentali, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento”.

 

Dalla disciplina del Capo III l’art. 11, comma 3 espressamente esclude le province autonome di Trento e Bolzano (previste dalla Costituzione art. 116, 2° comma), mentre l’art. 18, comma 6, reca una clausola specifica per l’adeguamento delle regioni a statuto speciale, che, seppure con diverse formulazioni, hanno competenza primaria in materia di enti locali, ai sensi dei propri statuti di autonomia (che hanno rango costituzionale) da esercitare entro il limite dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico della Repubblica.

 

La Corte costituzionale (sentenze n. 286 del 2007, 238 del 2007, n. 5 del considerato in diritto, sentenze n. 48 del 2003, n. 230 e 229 del 2001, e n. 415 del 1994) ha riconosciuto al legislatore delle regioni ad autonomia speciale una potestà di disciplina differenziata rispetto alla corrispondente legislazione statale, salvo il rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato e dell'ambito delle materie di esclusiva competenza statale (individuate sulla base di quanto prescritto negli statuti speciali).

 

Una clausola di salvaguardia era contenuta nel citato D.L. 201/2011, ma la sentenza 220/2013 (su cui v. infra) ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale: si trattava del comma 20-bis dell’art. 23 del suddetto D.L., impugnato nella parte in cui obbligava le Regioni speciali ad adeguare entro sei mesi i propri ordinamenti alle disposizioni in materia di province, affetto da illegittimità in via consequenziale in quanto poneva un obbligo di adeguamento degli ordinamenti delle Regioni speciali a norme incompatibili con la Costituzione.

 

Per quanto riguarda la riduzione delle province si ricorda che il 6 maggio 2012 si sono svolti in Sardegna 10 referendum regionali (5 abrogativi e 5 consultivi) tra cui uno (consultivo) relativo alla abrogazione delle quattro province storiche della regione (Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano) e alcuni (abrogativi) volti a sopprimere le nuove province (Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra e Olbia-Tempio) istituite con legge regionale: la maggioranza dei votanti sardi si è espressa a favore di tutti i referendum. La regione ha prorogato fino al 30 giugno 2013 le amministrazioni provinciali nelle more di una riforma delle autonomie locali (L.R. 25 maggio 2012, n. 11, come modificata dalla L.R. 5/2013). Successivamente, la legge regionale 28 giugno 2013, n. 15 dispone che entro trenta giorni dall'entrata in vigore della legge stessa, il Consiglio regionale approva una proposta di legge costituzionale di modifica dell'articolo 43 dello Statuto (nel quale sono elencate le quattro province storiche), nonché una legge di riforma organica dell'ordinamento degli enti locali. Nelle more dell'approvazione della riforma dello statuto e dell'ordinamento degli enti locali, la medesima legge ha disposto la nomina di commissari straordinari per le quattro province soppresse a seguito dei referendum del 6 maggio 2012[4]; per le quattro province storiche, invece, continua ad applicarsi la legge regionale 11/2012, salvo il caso di cessazione anticipata in cui verrà nominato un commissario straordinario.

Anche la Sicilia si è mossa nella direzione di una ridefinizione del ruolo delle province regionali. La legge regionale 14 del 2012 infatti prevede che, nel quadro di un riassetto complessivo delle funzioni amministrative, spettano alle province regionali funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge regionale entro il 31 dicembre 2012. Tale legge procederà inoltre al riordino degli organi di governo delle province regionali, al fine di ottenere significativi risparmi di spese per il loro funzionamento. Su questa base la legge regionale siciliana 27 marzo 2013, n. 7, Norme transitorie per l'istituzione dei liberi consorzi comunali dispone il termine del 31 dicembre 2013 per l'emanazione della legge regionale che dovrà disciplinare l'istituzione dei liberi consorzi comunali per l'esercizio delle funzioni di governo di area vasta, in sostituzione delle province regionali. La medesima legge dovrà istituire le città metropolitane. Il rinnovo degli organi delle province regionali è sospeso: fino al 31 dicembre, per gli organi in scadenza è stato nominato un commissario straordinario.

 

Il quadro normativo di riferimento

Nel corso della XVI legislatura sono stati lungamente discussi in sede parlamentare alcuni progetti di legge, anche di natura costituzionale, sui temi della soppressione o della razionalizzazione delle province, individuando diversi percorsi normativi, tra cui quello della regionalizzazione delle competenze in materia. Nella fase finale della legislatura sono stati adottati i decreti-legge 201/2011 e 95/2012 che, con disposizioni orientate alla finalità di revisione della spesa pubblica, hanno modificato l’assetto dell’ordinamento provinciale.

Il procedimento di conversione dei decreti-legge ha modificato significativamente la portata normativa di queste disposizioni, che può essere sintetizzata come segue.

Con l’articolo 23 del D.L. 201/2011 sono state previste le seguenti misure:

·       limitazione delle funzioni delle province esclusivamente a quelle di indirizzo e di coordinamento delle attività dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze (comma 14);

·       eliminazione della giunta dagli organi di governo della Provincia limitati al Consiglio provinciale e il Presidente della Provincia, in carica per cinque anni (comma 15);

·       composizione del Consiglio provinciale con non più di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia; elezione del presidente della Provincia da parte del Consiglio provinciale tra i suoi componenti (commi 16 e 17): le modalità di elezione dovevano essere stabilite con legge entro il 31 dicembre 2013, ma l’esame del disegno di legge presentato il 16 maggio 2012 (A.C. 5210), a tal fine, dal Governo non si è concluso;

·       lo Stato e le Regioni, con legge, secondo le rispettive competenze, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento delle funzioni da parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012, si provvede in via sostitutiva (comma 18);

·       lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono altresì al trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite, assicurando nell'ambito delle medesime risorse il necessario supporto di segreteria per l'operatività degli organi della provincia (comma 19);

·       agli organi provinciali che devono essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012 si applica, sino al 31 marzo 2013, l’art. 141 del Testo unico per gli enti locali (TUEL) in tema di commissariamento (che prevede che, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno, possa essere disposto lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali, in casi tassativamente indicati dalla legge, quali violazione della Costituzione o della legge, gravi motivi di ordine pubblico, impedimento o dimissioni del sindaco o del presidente della provincia, dimissioni della maggioranza dei consiglieri ecc.; ad eccezione dei casi di impedimento, rimozione, decadenza e decesso del sindaco o del presidente della provincia, il decreto di scioglimento reca contestualmente la nomina di un commissario che esercita le attribuzioni conferitogli dal decreto stesso); gli organi provinciali che devono essere rinnovati successivamente al 31 dicembre 2012 restano in carica fino alla scadenza naturale; solo decorsi tali termini si procede all’elezione dei nuovi organi provinciali (comma 20);

·       le regioni a statuto speciale adeguano i propri ordinamenti alle disposizioni illustrate che non si applicano alle province autonome di Trento e di Bolzano (comma 20-bis).

 

Con l’art. 17 del D.L. 95/2013 è stato stabilito un procedimento finalizzato ad generale riordino delle province e una ridefinizione delle loro funzioni, allo scopo di configurarle come enti di area vasta (commi 1-4). Sono trasferite ai comuni le funzioni amministrative conferite alle province con legge dello Stato fino alla data di entrata in vigore del decreto, rientranti nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato. Resta fermo l’assetto degli organi previsto dal D.L. 201/2011, che contempla la soppressione della giunta provinciale (comma 12) e si prevede la redistribuzione tra le province, all’esito della riduzione del loro numero, del patto di stabilità interno in modo da garantire l’invarianza del contributo complessivo (comma 13).

Il riordino delle province è strettamente collegato con l’istituzione delle città metropolitane (ad opera del successivo articolo 18 del medesimo provvedimento) dove si stabilisce la contestuale soppressione delle province nel relativo territorio.

 

Le nuove province sono state individuate dal D.L. 188/2012, all'esito della procedura stabilita dal D.L. 95/2012 e sulla base di requisiti minimi definiti dalla deliberazione del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012, cioè: popolazione di almeno 350 mila abitanti e superficie territoriale non inferiore ai 2.500 chilometri quadrati. Il testo disponeva anche in materia di istituzione e di organi di città metropolitane. Il relativo disegno di legge di conversione è stato presentato al Senato (A.S. 3558), ma il decreto-legge è decaduto per mancata conversione nel termine.

 

La legge di stabilità per il 2013 (L. 228/2012, art. 1, comma 115) è intervenuta sui termini per il riordino delle province recati dal D.L. 95/2012 e dal D.L. 201/2011, come segue:

§         1. sospensione fino al 31 dicembre 2013 del trasferimento ai Comuni delle funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province: la disposizione di cui si prevede la sospensione stabilisce che il trasferimento va effettuato[5] dallo Stato e dalle Regioni, con propria legge, secondo le rispettive competenze, entro il 31 dicembre 2012, salva l’acquisizione da parte delle Regioni, per assicurarne l'esercizio unitario, con intervento sostitutivo dello Stato in mancanza dell’adempimento regionale;

§         2. sospensione fino alla stessa data del trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali all’esercizio delle funzioni trasferite[6];

§         3. sospensione fino al 31 dicembre 2013 dell’applicazione delle disposizioni in materia di città metropolitane stabilite dall’art. 18 del decreto-legge 95/2012;

§         4. sospensione fino al 31 dicembre 2013 delle riduzioni delle dotazioni organiche del personale dell'amministrazione civile dell'interno, che ai sensi dell’articolo 2, co. 2, secondo e terzo periodo, del D.L. 95/2012 si dovrebbero applicare all'esito della procedura di soppressione e razionalizzazione delle province prevista dall'articolo 17 dello stesso decreto, e comunque entro il 30 aprile 2013;

§         5. proroga al 31 dicembre 2013 del termine entro il quale sono stabilite, con legge dello Stato, le modalità di elezione dei componenti del Consiglio provinciale, termine già stabilito al 31 dicembre 2012[7] con previsione di gestioni commissariali fino al 31 dicembre 2013;

§         6. proroga al 31 dicembre 2013 del termine per il riordino delle province con atto legislativo di iniziativa governativa, già stabilito[8] in sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge 95/2012;

§         7.attribuzione di carattere transitorio all’assegnazione delle funzioni di area vasta alle province, effettuata in via definitiva dal comma 10 dell’art. 17 del d.l. 95/2012; la transitorietà è prevista “in attesa del riordino” delle province, il cui termine ultimo è quindi individuato nella data del 31 dicembre 2013.

 

In tale quadro è stata emanata la sentenza 220/2013 della Corte costituzionale, illustrata nella premessa del presente dossier, che ha caducato le disposizioni dei decreti-legge 201/2011 e 95/2012 relative a province e città metroplitane, in quanto la relativa riforma era stata adottata con provvedimento d’urgenza, strumento ritenuto inidoneo, per contrasto con l’art. 77 Cost., ad effettuare riforme organiche.

 

Si rammenta che le amministrazioni provinciali che risultano sciolte alla data del 1° settembre 2013 sono: Belluno (13 dicembre 2011), Genova (9 maggio 2012), Vicenza (31 maggio 2012), La Spezia (1 giugno 2012), Ancona (2 giugno 2012), Como (2 giugno 2012), Asti (23 novembre 2012), Biella (23 novembre 2012), Brindisi (23 novembre 2012), Vibo Valentia (10 dicembre 2012), Roma (10 gennaio 2013), Avellino (12 febbraio 2013); Rieti (12 febbraio 2013); Frosinone (18 marzo 2013); Napoli (18 marzo 2013), Benevento (18 aprile 2013); Catanzaro (18 aprile 2013); Massa Carrara (18 aprile 2013); Varese (18 aprile 2013); Foggia (16 maggio 2013); Lodi (6 giugno 2013); Taranto (19 luglio 2013).

 

In tale contesto normativo, quale risulta all’esito dell’intervento della Corte costituzionale, è stato adottato l’art. 12 del D.L. 93/2012 che ha stabilito: la salvezza, rispettivamente, dei provvedimenti di scioglimento delle province e dei conseguenti atti di nomina dei commissari nonché degli atti da questi posti in essere (commi 1 e 2); l'ulteriore efficacia, rispetto al vigente termine del 31 dicembre 2013, fino al 30 giugno 2014 delle gestioni commissariali già in essere (comma 3) e l’applicazione delle disposizioni in tema di gestioni commissariali dal 1° gennaio 2014 al 30 giugno dello stesso anno per le province che, nello stesso periodo, cesseranno per scadenza naturale o per cessazione anticipata (comma 4).

Nel corso della conversione presso la Camera tale articolo è stato soppresso ed è stato introdotto l’articolo 1-bis nel disegno di legge di conversione che:

·         mantiene fermo quanto previsto dal citato art.1, comma 115, della legge di stabilità per il 2013, 228/2012;

·         fa salvi i provvedimenti di scioglimento degli organi e di nomina dei commissari straordinari delle amministrazioni provinciali, adottati, in applicazione dell'articolo 23, del D.L. 201/2011;

·         fa salvi i provvedimenti adottati, alla data di entrata in vigore della legge di conversione, dai medesimi commissari straordinari in base all'articolo 141 TUEL;

·         sospende fino al 30 giugno 2014 l’obbligo di riduzione delle dotazioni organiche del Ministero dell’interno previsto dall'articolo 2, comma 2, del D.L. 95/2012, conv. da L. 135/2012 (già prevista dall’art. 12 funzioni delle province).

 

Le funzioni delle province

Dagli articoli 11 e 15 risulta il seguente quadro, transitorio, delle funzioni delle province, definite enti di area vasta, per le funzioni loro attribuite.

Tale definizione evoca la delimitazione territoriale delle funzioni provinciali contenuta nell’art. 19 TUEL, effettuata sull'intero territorio provinciale e su “vaste zone intercomunali”.

 

L’art. 19 del Tuel stabilisce, infatti, che spettano alla provincia le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale nei seguenti settori:

a) difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente e prevenzione delle calamità;

b) tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche;

c) valorizzazione dei beni culturali;

d) viabilità e trasporti;

e) protezione della flora e della fauna parchi e riserve naturali;

f) caccia e pesca nelle acque interne;

g) organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, rilevamento, disciplina e controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche e sonore;

h) servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale;

i) compiti connessi alla istruzione secondaria di secondo grado ed artistica ed alla formazione professionale, compresa l'edilizia scolastica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale;

l) raccolta ed elaborazione dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali.

Inoltre, la provincia, in collaborazione con i comuni e sulla base di programmi da essa proposti, promuove e coordina attività, nonché realizza opere di rilevante interesse provinciale sia nel settore economico, produttivo, commerciale e turistico, sia in quello sociale, culturale e sportivo.

 

Occorre notare che il testo non individua funzioni fondamentali delle province, materia per la quale l’art. 117, comma secondo, lett. p), stabilisce una riserva alla legge statale.

Le funzioni fondamentali non sono oggetto di definizione nella Carta costituzionale, nella quale le funzioni dei comuni (delle province e delle città metropolitane) sono qualificate come fondamentali dall’art. 117; inoltre, l’art. 118, secondo comma, prevede che i comuni (le province e le città metropolitane) siano titolari di funzioni amministrative proprie e di funzioni conferite con legge statale o regionale secondo le rispettive competenze.

La differente qualificazione costituzionale delle funzioni non ha impedito, in sede di dottrina, di identificare le funzioni proprie con quelle fondamentali (quindi da determinare con legge statale), con individuazione uniforme a livello nazionale delle funzioni di base.

Per l’attuazione dell'art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. l’art. 2 della legge 5 giugno 2003, n. 131 stabiliva una delega che non è stata esercitata. L’oggetto della delega era costituito dalla definizione delle “funzioni fondamentali, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento”.

 

Le clausole di coordinamento con l’art. 117 Cost., commi terzo e quarto e con l’art. 118 Cost..

L’art. 11, comma 1, afferma la natura transitoria della disciplina stabilita dalle successive disposizioni nelle more della riforma costituzionale del citato disegno di legge AC 1543. Analoga natura si desume dall'art. 1, comma 3, del provvedimento in esame, che richiama la stessa misura la cui adozione costituisce il termine finale della configurazione delle province come enti territoriali di secondo livello.

 

Il comma 2 - con formulazione identica a quella già contenuta nell’art. 17, comma 11 del D.L. 95/2012, caducato dalla declaratoria di illegittimità contenuta nella sentenza 220/2013 della Corte costituzionale - stabilisce che “restano ferme” le funzioni di programmazione e coordinamento delle regioni nelle materie oggetto competenza legislativa concorrente e residuale ai sensi dell’art. 117 Cost. e le funzioni esercitate ai sensi dell’art. 118 Cost.”, nulla disponendo in ordine a funzioni diverse da quelle di programmazione e coordinamento.

 

Questa disposizione sembra comunque richiedere una lettura parallela con quella contenuta nell’art. 15, comma 3, che prevede che “Con legge regionale sono trasferite ai comuni e alle unioni di comuni le funzioni rientranti nelle materie di competenza regionale ai sensi dell’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, diverse da quelle di cui al comma 1, salva diversa attribuzione per specifiche e motivate esigenze di sussidiarietà”.

 

Se l’inciso “funzioni di programmazione e coordinamento delle regioni nelle materie oggetto competenza legislativa concorrente e residuale ai sensi dell’art. 117 Cost.“ si riferisce alle funzioni legislative non avrebbe alcuna portata normativa effettiva in quanto si limiterebbe a ribadire, per i soli profili di programmazione e coordinamento, un effetto che discende direttamente dai commi citati dell’art. 117 Cost.. Resterebbe però un margine di perplessità sullo scopo della disposizione, sia in quanto estende l’effetto di salvezza a tutte le materie coperte dai commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost. e non alle sole competenze che potrebbero essere coinvolte dall’elenco di cui all’art. 15 comma 1, sia in quanto non comprende interventi diversi dalla programmazione e dal coordinamento.

Invece, se l’inciso intende riferirsi a funzioni amministrative delle regioni - come la lettura combinata con il richiamato art. 15, comma 3 sembra suggerire - non può, in primo luogo, non rilevarsi, anche qui, un margine di perplessità sull’obiettivo della disposizione. Infatti, anche nel riformato Titolo V si riscontra un parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative delle regioni: certo, nell’attuale configurazione dello stesso Titolo V, quel parallelismo che, ante 2001, coniugava senz’altro la funzione legislativa regionale con quella amministrativa (così Corte cost. sent. 85/1982 con riferimento al principio di legalità) non è riprodotto sic et simpliciter e va interpretato alla luce dei principi formulati nell’art. 118 Cost..Tuttavia, costituisce un significativo argomento in tal senso il sesto comma dell’art. 117 Cost. che attribuisce potestà regolamentare allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle regioni, e potestà regolamentare a queste ultime in ogni altra materia.

 

Il che non esclude, alle condizioni individuate dalla giurisprudenza costituzionale, l’attrazione allo Stato, per ragioni di sussidiarietà, sia dell’esercizio concreto della funzione amministrativa che della relativa regolamentazione nelle materie di competenza regionale. Tra tali condizioni vi sono il soddisfacimento di una esigenza unitaria giustifica, nonché la presenza di adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni. In particolare, si è affermato che «l’ordinamento costituzionale impone il conseguimento di una necessaria intesa fra organi statali e organi regionali per l’esercizio concreto di una funzione amministrativa attratta in sussidiarietà al livello statale in materie di competenza legislativa» (sentenza n. 383 del 2005, nonché, ante, 303/2003) e che tali «intese costituiscono condizione minima e imprescindibile per la legittimità costituzionale della disciplina legislativa statale che effettui la “chiamata in sussidiarietà” di una funzione amministrativa in materie affidate alla legislazione regionale, con la conseguenza che deve trattarsi di vere e proprie intese “in senso forte”, ossia di atti a struttura necessariamente bilaterale, come tali non superabili con decisione unilaterale di una delle parti» (sentenza n. 383 del 2005). In tali casi, «il secondo comma dell’art. 120 Cost. non può essere applicato» (sentenza n. 383 del 2005, nonché, da ultimo, 179/2012).

L’avocazione della funzione amministrativa trascina conseguentemente la funzione legislativa, ma, trattandosi di “forma non ordinaria di esercizio, da parte dello Stato, di funzioni amministrative e legislative attribuite alle Regioni da norme costituzionali, richiede in tal senso una precisa manifestazione di volontà legislativa del Parlamento, con indicazione, tra l’altro, di adeguate forme collaborative” (sent. 80 e 118 del 2012). La Regione può essere, infatti, spogliata della propria capacità di disciplinare la funzione amministrativa attratta in sussidiarietà, «a condizione che ciò si accompagni alla previsione di un’intesa in sede di esercizio della funzione, con cui poter recuperare un’adeguata autonomia, che l’ordinamento riserva non già al sistema regionale complessivamente inteso, quanto piuttosto alla specifica Regione che sia stata privata di un proprio potere (sentenze n. 383 e n. 62 del 2005, n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003)».

 

Premesso che il livello territoriale più idoneo per lo svolgimento di funzioni amministrative riconducibili agli ambiti dell’art. 117 Cost., commi terzo e quarto, non sembra suscettibile di essere oggetto di una scelta di natura generale effettuata ex ante con legge dello Stato, qualora le funzioni considerate siano quelle amministrative, non appare chiaro l’intento alla base della disposizione, che comunque non comprende nella clausola di salvaguardia funzioni amministrative regionali diverse da quelle di programmazione e coordinamento per le materie di competenza legislativa concorrente e residuale.

 

Il comma 2 mantiene inoltre ferme “le funzioni esercitate ai sensi dell’art. 118 Cost.”. La disposizione non chiarisce se intende riferirsi all’assetto delle funzioni amministrative che discende dall’art. 118 Cost. e quindi a tutti gli enti territoriali che le esercitano o solo alle funzioni amministrative regionali. Nella seconda ipotesi, per effetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza richiamati dall’art. 118, comma 1, le funzioni in questione sarebbero solo quelle conferite alle regioni per assicurarne l’esercizio unitario, in quanto i comuni costituiscono gli enti destinatari in via preferenziale di funzioni amministrative (così Corte cost. 196/2004).

In merito al principio di sussidiarietà – per il quale l’intervento di ciascun ente pubblico territoriale va attuato nei confronti dei cittadini e degli stessi enti di livello sottostante solo in quanto tali soggetti non possano, per dimensioni o risorse effettuarlo – giova ricordare che la Corte costituzionale ne ha sottolineato, fin dalla sent. 303/2003, riferita al riformato titolo V Cost., la vocazione dinamica. In tal senso questo principio si pone come fattore di flessibilità dell’ordine delle competenze senza con ciò negare la rigidità costituzionale. Il principio di adeguatezza comporta che le funzioni amministrative vengano allocate dal legislatore tenendo conto dell’adeguatezza della dimensione e delle risorse di cui dispongono gli enti cui le funzioni stesse sono attribuite, mentre il principio di differenziazione richiede che, agli stessi fini, si tenga conto della situazione concreta in si trovano gli enti destinatari dell’attribuzione. Il principio di leale collaborazione richiede poi che l’esercizio di funzioni complesse da parte di un livello territoriale richieda la previa intesa con altri livelli di governo territoriale.

Più in concreto, le implicazioni derivanti dai principi richiamati, risaltano dalla sentenza 232/2011 della Corte costituzionale, nella quale, rilevato che “la valutazione della necessità del conferimento di una funzione amministrativa ad un livello territoriale superiore rispetto a quello comunale deve essere effettuata dall’organo legislativo corrispondente almeno al livello territoriale interessato, in relazione al principio di legalità sostanziale (per tutte, sentenza n. 6 del 2004)”, si afferma che “tale scelta deve giustificarsi in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza (ex plurimis sentenze n. 278 del 2010, n. 76 del 2009, n. 165 e n. 88 del 2007, n. 214 del 2006, n. 151 del 2005).

 

Quindi, alla luce della citata giurisprudenza costituzionale, l’art. 11, comma 2, non può sottintendere, per funzioni diverse da quelle espressamente salvaguardate, una generalizzata facoltà di intervento statale, poiché “una deroga al riparto operato dall’art. 117 Cost. può essere giustificata solo se la valutazione dell’interesse unitario sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata” (sent. 232/2011). La sentenza richiamata, per la fattispecie di attribuzione. Affinché, dunque, nelle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., una legge statale possa legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello centrale ed al tempo stesso regolarne l’esercizio, è necessario che essa detti una disciplina logicamente pertinente (dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni), che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine e che sia adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, attraverso adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali (sentenza n. 232 del 2011 e, ante, 278 del 2010)”.

 

Ciò posto, l’art. 15, comma 3, pone un obbligo alle regioni di trasferimento a livello comunale di funzioni nelle materie dell’art. 117 Cost., commi terzo e quarto, che ha natura generalizzata e al quale sono sottratte solo le funzioni indicate nell’art. 11, comma 2, nonché nel comma 1 dello stesso art. 15. L’obbligo è temperato dalla clausola di salvezza di “diversa attribuzione per specifiche e motivate esigenza di sussidiarietà”.

L’imposizione di un tale obbligo a oggetto tendenzialmente generale, pur non realizzando un’avocazione di funzioni a livello centrale, ma costituendone comunque una regolamentazione per ciò che riguarda le modalità del relativo esercizio, andrebbe valutata alla luce della richiamata giurisprudenza costituzionale.

Per il suo carattere generale la disposizione esaminata differisce da quella dell’art. 23, comma 18, del D.L. 201/2012, caducato dalla citata sentenza 220/2013, che ha previsto che lo Stato e le Regioni, con propria legge, secondo le rispettive competenze, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 31 dicembre 2012, solo le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

Le funzioni di area vasta

Le funzioni illustrate dall’art. 15, comma 1, in virtù delle quali la provincia si configura come ente ad area vasta, ineriscono alla cura del territorio (pianificazione territoriale di coordinamento; tutela e valorizzazione dell’ambiente), alla gestione dei trasporti (pianificazione dei servizi di trasporto; autorizzazione e controllo del trasporto privato; costruzione e gestione delle strade; circolazione stradale) ovviamente a livello provinciale e programmazione, allo stesso livello, della rete scolastica.

Il comma riproduce quasi integralmente il disposto dell’art. 17, comma 10, del D.L. 95/2012, senza riprendere la previsione della gestione dell’edilizia scolastica nelle scuole secondarie di secondo grado che era stata inserita nel citato comma 10 nel corso dell’iter parlamentare di conversione.

 

Dalla giurisprudenza costituzionale in tema di funzioni delle province emergono i seguenti indirizzi.

Nella sentenza 238 del 2007 la Corte costituzionale ha occasione - sia pure in un contesto caratterizzato dall'intervento legislativo di un'Autonomia speciale - di disegnare lo spazio proprio delle funzioni provinciali, tra l’esistenza di un nucleo di funzioni intimamente connesso al riconoscimento del principio di autonomia degli enti locali sancito dall’art. 5 Cost, la innegabile discrezionalità riconosciuta al legislatore statale nell’ambito della propria potestà legislativa e la relativa mutevolezza nel tempo delle scelte da esso operate, non potendosi - in tale contesto - parlarsi in generale di competenze storicamente consolidate dei vari enti locali (addirittura immodificabili da parte del legislatore).

La Corte ha riassunto il proprio indirizzo nel senso che il legislatore (regionale) può (nei differenziati ambiti lasciati dalle disposizioni costituzionali o statutarie), in presenza di esigenze di carattere generale, articolare diversamente i poteri di amministrazione locale, con il limite della permanenza di almeno una sfera adeguata di funzioni (sentenze n. 378 del 2000, n. 286 del 1997, n. 83 del 1997).

Nella sentenza 286 del 2007, la Corte ha ritenuto rilevante, ai fini della verifica del rispetto dell'autonomia degli enti locali, non la disciplina di un particolare settore o di uno specifico istituto, ma la complessiva configurazione da parte della legislazione regionale del ruolo della Provincia in termini effettivamente adeguati alla sua natura di ente locale necessario di secondo livello: valutazione, che può essere operata solo avendo riguardo al complesso della legislazione sull'amministrazione locale per accertare la sua coerenza con il principio di autonomia.

 

Occorre notare che alcune delle funzioni elencate dal comma 1 non hanno solo un rilievo programmatorio o di pianificazione. Solo le funzioni di pianificazione territoriale provinciale di coordinamento e pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale presentano questo profilo che non caratterizza invece le funzioni di:

§         tutela e valorizzazione dell’ambiente;

§         autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato;

§         costruzione, classificazione e gestione delle strade provinciali;

§         regolazione della circolazione stradale.

 

La valutazione della natura delle attività attribuite alle province appare di peculiare rilievo ai fini della determinazione delle relative fonti di finanziamento non individuate dal provvedimento in esame che, anzi , come si vedrà più avanti configura la provincia come ente di mera riscossione dei tributi, pure spettanti a legislazione vigente, da destinare ai comuni.

In particolare le funzioni della lett. a)

Per quanto riguarda le funzioni di cui alla lettera a), sembra utile richiamare il quadro normativo vigente, che già attribuisce alle province funzioni in materia di pianificazione territoriale di coordinamento.

 

L’articolo 20, comma 2, del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), infatti, stabilisce che la provincia, ferme restando le competenze dei comuni ed in attuazione della legislazione e dei programmi regionali, predispone ed adotta il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica: a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti; b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione; c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque; d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali.

 

In materia di tutela e valorizzazione dell’ambiente, le competenze delle province sono state definite dal D.Lgs. n.112/98 e dal citato T.U. 267/2000, con compiti di controllo, programmazione e coordinamento.

Con la riforma del Titolo V della Costituzione è stata attribuita allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (ex articolo 117, secondo comma, lettera s), mentre la “valorizzazione dei beni ambientali” è stata ricompresa tra le materie di legislazione concorrente.

A seguito della riforma del Titolo V è stato adottato il D.Lgs. n. 152/2006 (norme in materia ambientale), in attuazione della delega contenuta nella legge n. 308/2004. Tra i principi della legge delega era esplicitato l’obbligo di rispettare le attribuzioni delle regioni e degli enti locali come definite nell’art. 117 Cost. e nella legge n. 59/97 e nel successivo d.lgs. n.112/98. Tale decreto non ha, pertanto, modificato il quadro di ripartizione delle funzioni amministrative tra lo Stato le Regioni e gli enti locali definiti nel d.lgs. n. 112/98.

Il Titolo III del D.lgs. 112/98, rubricato “Territorio, ambiente e infrastrutture”, al Capo III, “Protezione della natura e dell’ambiente, tutela dell’ambiente dagli inquinamenti e gestione dei rifiuti”, disciplina il riparto delle funzioni amministrative tra Stato, Regioni ed enti locali in materia di protezione della fauna e della flora, parchi e riserve naturali, inquinamento delle acque, inquinamento acustico, atmosferico ed elettromagnetico, gestione dei rifiuti.

L’articolo 19, comma 1, del citato T.U. enti locali attribuisce, tra l’altro, alla provincia le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale nei seguenti settori: a) difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente e prevenzione delle calamità; b) tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche; g) organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, rilevamento, disciplina e controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche e sonore.

L’articolo 20, comma 1, lettera a), del citato testo unico prevede che la provincia, tra l’altro, raccoglie e coordina le proposte avanzate dai comuni, ai fini della programmazione economica, territoriale ed ambientale della regione.

Si segnalano, inoltre, di seguito alcune norme del D.lgs. 152/2006 che recano lattribuzione di competenze alle province in materia ambientale.

In particolare, l’articolo 197 disciplina le funzioni delle province in attuazione dell'articolo 19 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (comma 1). Alle province competono in linea generale le funzioni amministrative concernenti la programmazione ed organizzazione del recupero e dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, da esercitarsi con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

L’articolo 53, al fine di assicurare la tutela ed il risanamento del suolo e del sottosuolo, il risanamento idrogeologico del territorio tramite la prevenzione dei fenomeni di dissesto, la messa in sicurezza delle situazioni a rischio e la lotta alla desertificazione (comma 1), specifica che alla realizzazione delle attività previste al comma 1 concorrono, secondo le rispettive competenze, lo Stato, le regioni a statuto speciale ed ordinario, le province autonome di Trento e di Bolzano, le province, i comuni e le comunità montane e i consorzi di bonifica e di irrigazione.

L’articolo 62, recante le competenze degli enti locali e di altri soggetti nella difesa del suolo, stabilisce che  i comuni, le province, i loro consorzi o associazioni, le comunità montane, i consorzi di bonifica e di irrigazione, i consorzi di bacino imbrifero montano e gli altri enti pubblici e di diritto pubblico con sede nel distretto idrografico partecipano all'esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del suolo nei modi e nelle forme stabilite dalle regioni singolarmente o d'intesa tra loro, nell'ambito delle competenze del sistema delle autonomie locali (comma 1).

 

Andrebbe valutata l’opportunità di specificare il riferimento alle funzioni inerenti la “tutela e la valorizzazione dell’ambiente” in considerazione del quadro normativo vigente in tale materia che già conferisce alle province una serie di funzioni riconducibili alla medesima materia della tutela e della valorizzazione dell’ambiente (ad. es. difesa del suolo, rifiuti). Al fine di chiarire le competenze spettanti alle province ai sensi del comma 1 dell’articolo 15, andrebbe altresì valutata l’opportunità di un coordinamento con la normativa vigente.

 

In particolare le funzioni della lett. b)

Rispetto alla disciplina vigente la lett. b) risulta innovativa per quanto riguarda le competenze in materia di costruzione e classificazione delle strade, attualmente contenute nell’art. 2 del Codice della Strada (D.Lgs. n. 285 del 1992). La disciplina vigente prevede infatti che siano le regioni a procedere, sentiti gli enti locali, alla classificazione delle strade sia regionali, che provinciali e comunali, sentendo altresì il Consiglio superiore dei lavori pubblici e il Consiglio di amministrazione dell'Azienda nazionale autonoma per le strade statali (ANAS).

A tale proposito si ricorda che l’art. 2 del Codice della Strada (D.Lgs. n. 285 del 1992) prevede che le strade, per le esigenze di carattere amministrativo e con riferimento all'uso e alle tipologie dei collegamenti svolti si distinguano in strade "statali", "regionali", "provinciali", "comunali" e che gli enti proprietari siano rispettivamente lo Stato, la regione, la provincia, il comune. In particolare, le strade extraurbane sono considerate provinciali quando allacciano al capoluogo di provincia i capoluoghi dei singoli comuni della rispettiva provincia o più capoluoghi di comuni tra loro ovvero quando allacciano alla rete statale o regionale i capoluoghi di comune, se ciò sia particolarmente rilevante per ragioni di carattere industriale, commerciale, agricolo, turistico e climatico.

 

Analogamente, per quanto riguarda la costruzione delle strade, disciplinata dagli articoli da 13 a 34-bis del Codice della strada, la competenza è attualmente attribuita al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici ed il Consiglio nazionale delle ricerche. Le norme emanate in attuazione (D.M. 5 giugno 2001, D.M. 5 novembre 2001, D.M. 14 settembre 2005 ed D.M. 19 aprile 2006), prevedono criteri per la costruzione, il controllo e il collaudo delle strade, dei relativi impianti e servizi, per la sicurezza della circolazione e la riduzione dell'inquinamento acustico ed atmosferico, il rispetto dell'ambiente e degli immobili di notevole pregio architettonico o storico.

Gli enti proprietari delle strade, quindi le province per le strade provinciali, sono invece obbligati ad istituire e tenere aggiornati la cartografia, il catasto delle strade e le loro pertinenze secondo le modalità stabilite con apposito decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.

Non appare chiaro pertanto come la disposizione della lett. b) in commento, che opera un semplice rinvio alla competenza provinciale, si coordini con la normativa vigente contenuta nel Codice della Strada, che prevede una differente ripartizione di competenze.

In particolare le funzioni della lett. c)

In proposito si ricorda che l’art. 3 del DPR 233/1998, regolamento che ha dettato norme sul dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche, aveva attribuito alle conferenze provinciali di organizzazione delle rete scolastica il compito di definire i piani di dimensionamento di queste istituzioni, in attuazione della L. 59/1997 e del conseguente D.Lgs. 112/1998 (art. 137 e 138, co. 1, lett. b)), nel rispetto degli indirizzi di programmazione adottati a livello regionale.

Di tale norma è stata successivamente prevista l’abrogazione dall’art. 24, co. 1, lett. d), del DPR 81 del 20 marzo 2009, a decorrere dalla data di entrata in vigore di un decreto interministeriale MIUR-MEF che avrebbe dovuto ridisciplinare interamente la materia, sulla base dell’articolo 64 del D.L. 112/2008 (L. 133/2008), previa intesa in sede di Conferenza unificata.

Il percorso in Conferenza unificata si è tuttavia successivamente interrotto a seguito dell’intervento della Corte costituzionale che, con sent. n. 200/2009, ha censurato il co. 4, lett. f-bis) e f-ter), dell’art. 64 del citato D.L. 112/2008, confermando che la materia dell’organizzazione della rete scolastica non può formare oggetto di disciplina regolamentare da parte dello Stato, essendo di esclusiva competenza regionale.

Pertanto in conseguenza del sopra richiamato art. 3 del DPR 233/1998, da ritenersi ancora vigente, le regioni sono tuttora chiamate ad approvare il piano regionale di dimensionamento delle istituzioni scolastiche, sulla base dei piani provinciali.

 

Al riguardo occorrerebbe chiarire se per “programmazione provinciale” il testo della disposizione in esame intenda fare riferimento ai “piani provinciali” di organizzazione della rete scolastica di cui all’articolo 3 del DPR 233/1998.

 

Con riferimento alle competenze attribuite alle province in materia di edilizia scolastica – richiamate, come detto, dall’art. 17, comma 10, del D.L. 95/2012, come emendato nel corso dell’iter parlamentare di conversione - si sottolinea che l’articolo 3 della legge 23/1996, tuttora vigente, attribuisce alle province la realizzazione, la fornitura e la manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici da destinare a sede di istituti e scuole di istruzione secondaria superiore, compresi i licei artistici e gli istituti d'arte, i conservatori di musica, le accademie, gli istituti superiori per le industrie artistiche, oltre che i convitti e le istituzioni educative statali. La stessa norma attribuisce invece ai comuni analoghe funzioni in materia di edilizia scolastica, con esclusivo riferimento agli edifici da destinare a sede “di scuole materne, elementari e medie”.

La lett. i), co. 1, dell’articolo 19 del TUEL (D.lgs. 267/2000), inoltre, con riferimento alle province, richiama per esse i compiti connessi all’istruzione secondaria di secondo grado ed artistica ed alla formazione professionale, compresa l'edilizia scolastica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale.

 

Procedimenti connessi all’attribuzione di funzioni alle province

Il comma 2 dispone il trasferimento ai comuni ovvero alle unioni di comuni delle funzioni amministrative conferite alle province con legge dello Stato fino alla data di entrata in vigore del testo in esame.

Anche questo comma riproduce, in parte, la disposizione contenuta nel citato art. 17 del D.L. 95/2012, che, al comma 6, ha disposto il trasferimento ai comuni delle funzioni amministrative conferite alle province con legge dello Stato fino alla data di entrata in vigore del decreto-legge stesso e rientranti nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Si nota che, a differenza della disposizione contenuta nel provvedimento d’urgenza:

§         non si specifica che debba trattarsi di funzioni rientranti nella competenza legislativa esclusiva dello Stato;

§         si prevede l’attribuzione anche alle unioni di comuni.

 

In merito all’attribuzione di funzioni alle unioni di comuni occorre notare che questi ultimi costituiscono una delle forme di esercizio associato di funzioni, talora obbligatorio. Esse si differenziano quindi sotto il profilo soggettivo dai comuni rispetto ai quali non hanno la caratteristica dell’immutabilità dei soggetti ricompresi.

Per tali aspetti andrebbe verificata l’opportunità di prevedere anche le unioni dei comuni tra i destinatari del trasferimento di funzioni disposto dal comma 2.

 

L’effettiva individuazione delle stesse funzioni trasferite è riservata dal comma 4, ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da adottare, su proposta del Ministro dell’interno e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, di concerto con i Ministri della pubblica amministrazione e dell’economia e delle finanze, entro il 31 marzo 2014, previa intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali.

Si rileva che l’individuazione di una data fissa, a differenza di un termine da far decorrere dalla data di entrata in vigore del provvedimento, potrebbe non risultare coerente con i tempi dell’iter parlamentare.

Alla stessa fonte è demandata la determinazione dei criteri generali per l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connessi all’esercizio delle funzioni stesse e al loro conseguente trasferimento dalla provincia ai comuni o alle unioni di comuni.

 

Il secondo periodo del comma 4 specifica che le entrate continuano a spettare alla provincia e che vengono da essa ripartite tra i comuni cui sono attribuite le predette funzioni.

La disposizione – da riferire alle entrate di natura fiscale – riguarda le seguenti entrate provinciali come risultano all’esito della riforma effettuata dal decreto legislativo 68/2011, in base a delega stabilita dalla L. 42/2009, così sintetizzate:

§         compartecipazione provinciale all’Irpef nella misura dello 0,60;

§         l'imposta sulla assicurazione RC auto;

§         l'imposta provinciale di trascrizione (IPT), iscrizione ed annotazione dei veicoli iscritti al pubblico registro automobilistico;

§         i tributi propri derivati (art. 20, co. 1, D.Lgs. n. 68/2011), cioè quegli altri tributi ad esse riconosciuti dalla legislazione vigente: ad es. tributo in materia ambientale applicato sulla TARSU o sulla tariffa di igiene ambientale (TIA1) o sulla tariffa integrata ambientale (TIA2) o sul tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES); l'articolo 14 del D.L. 201/2011, che ha istituito la Tares (tributo comunale sui rifiuti e sui servizi), al comma 28 fa salva l'applicazione del tributo provinciale per l'esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene dell'ambiente (di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504). Il tributo provinciale, commisurato alla superficie dei locali ed aree assoggettabili a tributo, è applicato nella misura percentuale deliberata dalla provincia sull'importo del tributo.

Va inoltre segnalato che lo stesso d.lgs.68/2011 prevede, all’articolo 19, l’istituzione di una compartecipazione provinciale alla tassa automobilistica regionale, a compensazione, dal 2013, della soppressione dei trasferimenti regionali diretti al finanziamento delle spese delle province. Al momento, tuttavia, benché l’articolo 19 suddetto prevedesse il termine del 20 novembre 2012 per la fissazione di tale compartecipazione, la stessa non risulta ancora stabilita.

Si ricorda, infine, che l’art. 4, comma 4, D.L. 16/2012 ripristina il potere di regioni ed enti locali di variare le aliquote e le tariffe dei tributi locali e regionali, a decorrere dall'anno di imposta 2012, potere che era stato sospeso dall’ art. 1, comma 123, della L. 220/2010 (legge di stabilità 2011) “fino all'attuazione del federalismo fiscale”.

 

Il D.Lgs. n. 68 del 2012 prevede che l’autonomia di entrata delle province è assicurata principalmente da:

§       IMPOSTA SULLE ASSICURAZIONI PER LA RC AUTO che costituisce a decorrere dal 2012 un tributo proprio derivato delle Province. L’aliquota è del 12,5%, manovrabile dal 2011 in aumento o in diminuzione nella misura di 3,5 punti percentuali (articolo 17 del D.Lgs. n 68 del 2013);

§       IMPOSTA PROVINCIALE DI TRASCRIZIONE (IPT), l'imposta dovuta alla provincia per la maggior parte delle richieste presentate al Pubblico Registro Automobilistico (PRA), il cui importo base è stabilito con Decreto del Ministero dell’economia e delle finanze. Le Province possono deliberare di aumentare l'importo stabilito dal Ministero fino ad un massimo del 30 per cento. Nel dettaglio, l’articolo 56 del D.Lgs. n. 446/1997 ha stabilito che le province possono istituire l'imposta provinciale sulle formalità di trascrizione, iscrizione ed annotazione dei veicoli richieste al pubblico registro automobilistico, avente competenza nel proprio territorio. L'imposta è applicata sulla base di apposita tariffa, le cui misure potranno essere aumentate, anche con successiva deliberazione, fino ad un massimo del 30%, ed è dovuta per ciascun veicolo al momento della richiesta di formalità (articolo 17 del D.Lgs. n 68 del 2013);

§       ALTRI TRIBUTI PROPRI DERIVATI, riconosciuti alle province dalla legislazione vigente. Tra questi si ricorda:

-        il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, istituito e disciplinato dall'articolo 3, commi 24-41, della legge n. 549/1995. Presupposto dell'imposta è il deposito in discarica dei rifiuti solidi, compresi i fanghi palabili. Soggetto passivo dell'imposta è il gestore dell'impresa di stoccaggio definitivo con obbligo di rivalsa nei confronti di colui che effettua il conferimento;

-        il tributo cosiddetto ambientale. Si segnala che l'articolo 14 del D.L. 201 del 2011 che ha istituito la Tares (tributo comunale sui rifiuti e sui servizi), al comma 28 fa salva l'applicazione del tributo provinciale per l'esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene dell'ambiente (di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504). Il tributo provinciale, commisurato alla superficie dei locali ed aree assoggettabili a tributo, è applicato nella misura percentuale deliberata dalla provincia sull'importo del tributo;

-        il canone occupazione di spazi ed aree pubbliche, dovuto dal titolare dell'atto di concessione o dall'occupante (anche abusivo) in proporzione della superficie sottratta all'uso pubblico per le occupazioni effettuate nelle strade, aree e comunque sui beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile della Provincia (articolo 63 del D.Lgs. n. 446 del 1997);

-        la tassa per l’ammissione ai concorsi, di cui all’articolo 1 del R.D. 21 ottobre 1923, n. 2361;

-        i diritti di segreteria, disciplinati dall’articolo 40 della legge 8 giugno 1962, n. 604;

-        è prevista inoltre la possibilità di istituire con D.P.R. un’imposta di scopo provinciale (articolo 20, comma 2, del D.Lgs. 68 del 2011).

 

Il finanziamento delle province è assicurato inoltre dalle:

§       COMPARTECIPAZIONE PROVINCIALE ALL’IRPEF, a compensazione dal 2012 della soppressione dei trasferimenti statali alle province nonché dell'addizionale provinciale all’accisa sull’energia elettrica, anch'essa soppressa, con attribuzione del gettito allo Stato (l'addizionale provinciale all'accisa sull'energia elettrica sui consumi di qualsiasi uso effettuato in locali e luoghi diversi dalle abitazioni era stata istituita ai sensi dell’articolo 6, comma 1, del D.L. 28 novembre 1988, n. 511). Viene inoltre istituito dal 2012 un fondo sperimentale di riequilibrio provinciale, di durata biennale, alimentato con le entrate derivanti dalla compartecipazione provinciale all’IRPEF, che ha la finalità di assicurare in forma territorialmente equilibrata l’attribuzione dell’autonomia di entrata alle province (articoli 18 e 21 del D.Lgs. 68 del 2011).

§       COMPARTECIPAZIONE ALLA TASSA AUTOMOBILISTICA REGIONALE SUGLI AUTOVEICOLI, compensativa dei trasferimenti regionali soppressi. In caso di in capienza della tassa automobilistica si prevede una compartecipazione ad altri tributi regionali. È previsto per il periodo 2013-2015 un fondo sperimentale regionale di riequilibrio. Al momento, tuttavia, benché l’articolo 19 suddetto prevedesse il termine del 20 novembre 2012 per la fissazione di tale compartecipazione, la stessa non risulta ancora stabilita.

 

Gli atti finalizzati alla riscossione continuano ad essere imputati alle province, responsabili anche della ripartizione del relativo gettito ai comuni ai quali sono attribuite “le predette funzioni”.

Il riferimento è alle funzioni menzionate dal comma 2, già conferite da legge statale alle province, che devono essere trasferite ai comuni o alle unioni di comuni.

Appare opportuno verificare quali siano le entrate fiscali connesse alle funzioni da trasferire ai comuni, in quanto le entrate sopra elencate, ad eccezione della compartecipazione Irpef, potrebbero essere connesse a funzioni attribuite alle province dal comma 1, quali tutela e valorizzazione dell’ambiente, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, regolazione della circolazione stradale.

Alla luce dell’art. 119 Cost., appare, in ogni caso, opportuno evidenziare le fonti di finanziamento delle funzioni attribuite alle province ed effettuare un coordinamento normativo con l’art. 18 del citato d.lgs.68/2011.

Infatti l’art. 18, nel sopprimere i trasferimenti statali alle province e nell’intervenire sulla compartecipazione provinciale all'IRPEF, ha:

§         rinviato a d.P.c.m. la determinazione dell’aliquota della compartecipazione provinciale all'IRPEF (fissata come detto allo 0,60);

§         soppresso i trasferimenti statali di parte corrente e, ove non finanziati tramite il ricorso all'indebitamento, in conto capitale alle province delle regioni a statuto ordinario aventi carattere di generalità e permanenza;

§         soppresso l'addizionale provinciale all'accisa sull'energia elettrica;

Tale disciplina è assistita dall’esplicita garanzia (comma 7) che le variazioni annuali del gettito relativo alla compartecipazione provinciale all'IRPEF devoluta alle province non determinano la modifica delle aliquote della suddetta compartecipazione.

Sullo schema di decreto, per quanto attiene al trasferimento di risorse umane, si prescrive che siano consultate le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e che sia acquisito il parere della Commissione parlamentare per la semplificazione, di cui all’articolo 14, comma 19, della legge 28 novembre 2005, n. 246, e successive modificazioni.

La Commissione parlamentare per la semplificazione è composta da venti senatori e venti deputati, nominati rispettivamente dal Presidente del Senato e dal Presidente della Camera nel rispetto della proporzione esistente tra i gruppi parlamentari, su designazione dei gruppi medesimi. Tra i compiti della Commissione quello, attribuito dalla legge 69/2009, di esprimere sui pareri previsti dalla legge 59/1997, recante Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa.

 

Il comma 5 rinvia ad un’ulteriore fonte, una delibera del consiglio provinciale costituito ai sensi dell’articolo 13, l’adozione di disposizioni attuative del suddetto d.P.c.m., senza stabilire un termine temporale. Considerata la pluralità di oggetti di tale d.P.c.m., l’intervento della delibera consiliare dovrebbe riguardare solo le funzioni provinciali individuate.

 

Dall’adozione della delibera provinciale prevista dal comma 5, decorre un termine di sessanta giorni entro il quale le province sono tenute ad effettuare una rideterminazione, in riduzione, della pianta organica del personale e una modifica dei relativi profili professionali in coerenza con le funzioni provinciali e il nuovo assetto degli organi, provvedendo anche agli adeguamenti successivi a seguito delle leggi regionali di cui al comma 3.

Considerato che, come accennato, non è previsto un termine per l’adozione della delibera provinciale di cui al comma 5 e che gli adempimenti provinciali conseguenti alle leggi regionali di trasferimento di funzioni previste dal comma 3 devono tenere conto dei temi di emanazione di tali leggi, l’intera scansione temporale che risulta dai commi 5 e 6 appare non certa.

 

Il comma 6 mantiene fermo per le province il divieto di nuove assunzioni dalla data di entrata in vigore del provvedimento.

Per tale divieto occorre fare riferimento all’art. 16, commi 8 e 9 del D.L. 95/2012 che, rispettivamente, stabiliscono che:

§       con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da emanare entro il 31 dicembre 2012 d’intesa con Conferenza Stato-città ed autonomie locali, sono stabiliti i parametri di virtuosità per la determinazione delle dotazioni organiche degli enti locali, tenendo prioritariamente conto del rapporto tra dipendenti e popolazione residente. A tal fine è determinata la media nazionale del personale in servizio presso gli enti, considerando anche le unità di personale in servizio presso le società di cui all'art. 76, comma 7, terzo periodo, del D.L. 112/2008. A decorrere dalla data di efficacia del decreto gli enti che risultino collocati ad un livello superiore del 20 per cento rispetto alla media non possono effettuare assunzioni a qualsiasi titolo; gli enti che risultino collocati ad un livello superiore del 40 per cento rispetto alla media applicano le misure di gestione delle eventuali situazioni di soprannumero di cui all’art. 2, comma 11, e seguenti;

§       nelle more dell'attuazione delle disposizioni di riduzione e razionalizzazione delle Province è fatto comunque divieto alle stesse di procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato.

 

Tuttavia, appare opportuno verificare la coerenza dell’obbligo di rideterminazione della pianta organica in riduzione con la conferma dell’esistente divieto di nuove assunzioni, sia perché quest’ultimo è limitato al periodo di attuazione delle disposizioni di riduzione e razionalizzazione delle Province sulle quali il provvedimento in esame interviene, sia perché la legislazione vigente pone, oltre a quel divieto, la facoltà di procedere a nuove assunzioni in caso di rispetto di parametri di virtuosità.

 

 

Gli organi delle province

L’art. 12, comma 1, assegna alle province tre organi: il presidente, il consiglio provinciale, entrambi configurati come organi ad elezione indiretta, necessaria per il primo ed eventuale per il secondo, dai commi 3 e 4, e l’assemblea dei sindaci, costituita, ai sensi del comma 5, dai sindaci dei comuni della provincia.

 

Il decreto-legge 201/2011, conv. legge 214/2011, aveva limitato gli organi di governo della provincia al consiglio provinciale e al presidente della provincia, che assorbivano anche le funzioni della giunta provinciale, implicitamente abolita. Il numero dei consiglieri provinciali era ridotto (10 per tutte le province) e la loro elezione aveva carattere indiretto: eletto il primo dagli organi elettivi dei comuni ricadenti nel territorio della provincia e il secondo dal consiglio provinciale nel suo ambito.

Come accennato, il disegno di legge prevede un sistema elettorale di “secondo grado” o “indiretto”, per l’elezione del presidente ed eventualmente per il consiglio.

Nell’ordinamento sono rinvenibili altre disposizioni che prevedono forme di elezione di secondo grado in materia di comunità montane e di unioni di comuni.

Quanto alle prime, l’art. 27 del D.lgs. n. 267/2000 (TUEL) stabilisce che i rappresentanti dei comuni della comunità montana siano eletti dai consigli dei comuni partecipanti con il sistema del voto limitato garantendo la rappresentanza delle minoranze.

Quanto alle seconde, l’art. 16 del DL 138/2011, conv. dalla L. 148/2011 stabilisce che il consiglio dell’unione è composto da tutti i sindaci dei comuni che sono membri dell'unione nonché, in prima applicazione, da due consiglieri comunali per ciascuno di essi; i consiglieri sono eletti, in tutti i comuni che sono membri dell'unione, dai rispettivi consigli comunali, con la garanzia che uno dei due appartenga alle opposizioni e l'assemblea elegge il presidente.

 

In tale materia si riscontra la giurisprudenza costituzionale che ritiene che l’elezione a suffragio universale costituisca la forma più squisitamente politica di esercizio di quella sovranità che l'art. 1 della Costituzione attribuisce al popolo (Sentenza 107/1976). Perciò tale forma di elezione consente di individuare la natura di un ente come autonomo (così sent. cit. 107/1976 e sent. 876/1988). D’altro canto la stessa giurisprudenza costituzionale, con la sent.96/1968, non ha escluso la possibilità di forme elettorali di secondo grado poiché “del resto sono prevedute dalla Costituzione proprio per la più alta carica dello Stato (art. 83)”.

La sentenza n. 96 del 1968 è richiamata dalla più recente sent. 198/2012 per chiarire che «quando nelle elezioni di secondo grado l’elettorato attivo è attribuito ad un cittadino eletto dal popolo in sua rappresentanza" ciò "non contrasta col principio di eguaglianza" poiché in tal caso la norma tiene "conto del numero di elettori che gli conferirono il proprio voto, e con esso la propria fiducia".

 

D’altro canto si riscontra invece la raccomandazione 337 (2013) https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?Ref=REC337(2013)&Language=lanEnglish&Ver=original&Site=Congress&BackColorInternet= del Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa che ha deplorato l’introduzione dell’elezione indiretta per gli organi provinciali prevista dalla riforma effettuata nella XVI legislatura e incisa dalla sent. 220/2013 citata.

Nell’ambito del Consiglio d’Europa, la Carta europea del governo locale[9], all’art. 3 comma 2, in tema di diritto e responsabilità di governo locale, stabilisce che tale diritto “shall be exercised by councils or assemblies composed of members freely elected by secret ballot on the basis of direct, equal, universal suffrage, and which may possess executive organs responsible to them”.

 

L’elezione del Presidente della provincia

Il presidente della provincia è eletto dai sindaci dei comuni appartenenti alla provincia, in carica alla data dell’elezione, nonché dai commissari ordinari e straordinari nominati ai sensi degli articoli 141 e 143 del TUEL tra i sindaci in carica nei comuni della provincia alla data dell’elezione. Nella scheda elettorale sono indicati il nome e il cognome dell’elettore, il comune di appartenenza, il nome e il cognome dei candidati presidenti e ogni elettore può esprimere una sola preferenza. Il sindaco del comune capoluogo convoca l’assemblea dei sindaci ai fini delle elezioni.

 

Ai fini dell’elezione ogni elettore può esprimere una sola preferenza e risulta eletto il candidato che abbia riportato più voti secondo il sistema di voto ponderato previsto dall’articolo 8, comma 2, per le deliberazioni delle città metropolitane e, a parità di voto è eletto il più anziano.

 

Occorre notare che il corpo elettorale ha una natura mista, in quanto viene conferito l’elettorato attivo a soggetti, i commissari nominati in base al TUEL, a soggetti con traggono legittimazione da un’elezione ma da un provvedimento amministrativo.

La costituzione e l’elezione del consiglio provinciale

Per il consiglio provinciale l’art. 12 comma 4 prevede la seguente alternativa:

§         che sia costituito dai sindaci dei comuni della provincia con più di 15.000 abitanti e dai presidenti delle unioni di comuni della provincia con popolazione complessiva superiore a 10.000 abitanti, nonché, fino al compimento del terzo anno dalla data di costituzione del consiglio medesimo, dai presidenti di unioni di cui all’articolo 1, comma 4,secondo periodo;

§         che sia eletto - sempre secondo il sistema previsto dall’art. 8, comma 2, con la previsione che, a parità di voti, è eletto il più anziano - dall’assemblea dei sindaci nel suo ambito, con la seguente composizione: sedici componenti nelle province con popolazione superiore a 700.000 abitanti, dodici componenti nelle province con popolazione da 300.000 a 700.000 abitanti, dieci componenti nelle province con popolazione fino a 300.000 abitanti. Risultano eletti quindi componenti più votati secondo il predetto sistema fino a concorrenza del numero dei consiglieri eleggibili.

 

La scelta tra i due sistemi è rimessa allo statuto e, quindi all’organo che, in base al testo in esame, è chiamato a deliberarlo, cioè l’assemblea dei sindaci.

 

In via transitoria, l’art. 13, comma 1, per la prima applicazione, prevede che il presidente della provincia o il commissario, in carica alla data di entrata in vigore del provvedimento in esame, convoca l’assemblea dei sindaci per l’elezione del presidente della provincia, che si svolge entro venti giorni dalla proclamazione dei sindaci eletti a seguito delle prime elezioni amministrative successive alla stessa data di entrata in vigore.

Per garanzia di continuità si prevede la proroga degli organi provinciali e dei commissari in carica alla data di entrata in vigore del provvedimento, fino alla data di insediamento del nuovo presidente e del nuovo consiglio provinciale.

 

Ha natura transitoria anche il comma 2 dell’art. 13, che attribuisce una competenza statutaria al consiglio provinciale temporalmente limitata entro il 31 dicembre 2014 – a regime, come rilevato, spetta all’assemblea dei sindaci – per approvare le sole modifiche statutarie conseguenti al provvedimento in esame.

In caso di mancata adozione entro la predetta data, il prefetto fissa per la loro adozione un nuovo termine, non superiore a sessanta giorni, decorso il quale nomina un commissario ad acta con il compito di adottarle, salve le eventuali successive modificazioni da parte degli organi della provincia. Al commissario non sono corrisposti gettoni, compensi, rimborsi di spese o altri emolumenti comunque denominati.

 

L’art. 14 prevede che gli incarichi di presidente della provincia, di consigliere provinciale e di componente dell’assemblea dei sindaci sono esercitati a titolo gratuito.

Il comma 2, con disposizione che dovrebbe trovare preferibilmente collocazione nell’art. 12, prevede che il presidente della provincia il quale, durante il suo mandato, cessa dalla carica di sindaco, decade e si procede a una nuova elezione mentre i consiglieri che, durante il loro mandato, cessano dalla carica di sindaco, sono sostituiti da chi subentra nella predetta carica.

 

Con riferimento alla gratuità degli incarichi si nota che la relazione tecnica allegata al testo non quantifica risparmi conseguenti alla disciplina che si propone e afferma che la configurazione della provincia come “ente di area vasta che opera per l’integrazione delle attività dei comuni ad opera sostanzialmente dei rappresentanti dei comuni stessi, mantenendo un numero limitato di funzioni proprie” permetterà “nel lungo periodo, una consequenziale riduzione di spesa”. Questa valutazione è sorretta anche dalle considerazioni circa la “gratuità degli incarichi di presidente della provincia, di consigliere provinciale e di componente dell’assemblea dei sindaci”, e l’assenza di future elezioni a suffragio universale. Infatti, per il 2011, secondo la relazione tecnica, il costo di 1.774 amministratori provinciali è stato di 11 milioni di euro e la spesa presunta per nuove elezioni provinciali ai sensi della normativa previgente era stata stimata in 318,7 milioni di euro, di cui circa 118,4 milioni a carico dello Stato.

 

In merito alla composizione del consiglio ai sensi dell'art.12, comma 4, si nota che le soglie di rappresentanza stabilite per la partecipazione all'organo escludono rappresentanti di enti con popolazione inferiore a quelle soglie: tale esclusione potrebbe avere effetti rilevanti in quanto, su 8.100 comuni, circa 6.800 hanno meno di 10.000 abitanti.

Ciò si tradurrebbe, alla luce delle competenze del consiglio stabilite dall'art. 12, comma 2, nell'esclusione di tali enti dall’esercizio delle competenze attribuite all’organo, quali la proposta delle decisioni di bilancio.

 

Un analogo effetto di esclusione deriva dall'adozione del sistema di voto ponderato per l'elezione del presidente della provincia ai sensi dell'art. 12, comma 4, nonché del consiglio nel caso di applicazione della disposizione del comma successivo (numerato anch’esso come comma 4) secondo periodo.

Funzioni degli organi

Le funzioni del presidente sono riconducibili a: rappresentanza, presidenza di organi collegiali e sovraintendenza di attività. Quelle del consiglio provinciale a: indirizzo, proposta e deliberazione; quelle dell’assemblea dei sindaci, deliberazione, proposta e consulenza.

 

Per l’individuazione di ulteriori funzioni l’art. 12, comma 2, rinvia allo statuto, il cui procedimento di adozione presuppone la proposta del consiglio e la deliberazione dell’assemblea; anche le attività connesse ai bilanci sono articolate in procedimenti che, analogamente, presuppongono la proposta del consiglio e la delibera dell’assemblea.

In merito allo statuto si nota che il testo non ne disciplina il contenuto salvo il riferimento ad esso per specifici profili nei commi 2 e 4.

 

 

 


Roma Capitale

Il Capo IV (artt. 16-17) disciplina la Città metropolitana di Roma Capitale.

 

Si ricorda che la legge delega sul federalismo fiscale (L. 42/2009, art. 24) ha configurato Roma capitale quale ente territoriale unico, dotato di speciale autonomia, statutaria, amministrativa e finanziaria, i cui confini coincidono con quelli del comune di Roma. La legge delega sul federalismo fiscale ha attribuito a Roma capitale ulteriori funzioni amministrative - relative alla valorizzazione dei beni storici, artistici e ambientali, allo sviluppo del settore produttivo e del turismo, allo sviluppo urbano, all’edilizia pubblica e privata, ai servizi urbani, con particolare riferimento al trasporto pubblico ed alla mobilità, e alla protezione civile – e ha previsto che siano ad essa assegnate risorse ulteriori, in considerazione del ruolo di capitale della Repubblica e delle nuove funzioni

In attuazione della delega sono intervenuti:

§         il decreto legislativo n. 156/2010, recante l’ordinamento transitorio di Roma capitale, che disciplina gli organi di governo (Assemblea capitolina, Giunta capitolina e Sindaco);

§         Il decreto legislativo n. 61 del 2012, che disciplina il conferimento delle funzioni amministrative già attribuite al nuovo ente dalla legge delega sul federalismo.

Si rileva in proposito che, nel sistema delineato dalla legge delega sul federalismo, le disposizioni su Roma capitale avrebbero dovuto avere carattere transitorio o, per meglio dire, costituire una “normativa-ponte” fino all’attuazione di una disciplina organica delle città metropolitane, rimessa dalla medesima legge delega (art. 23) ad un apposito decreto legislativo. In questo quadro la città metropolitana di Roma capitale sarebbe dovuta subentrare all’ente Roma capitale, assumendo sia le funzioni generali delle città metropolitane che le funzioni speciali attribuite a Roma capitale (art. 24, commi 9 e 10, L: 42/2009).

La disciplina delle città metropolitane, dopo la scadenza dei termini della relativa delega, è stata dettata da una diversa fonte legislativa, costituita dall'articolo 18 del decreto-legge n.95 del 2012 (convertito dalla legge n.135 del 2012), che contestualmente abrogava le disposizioni relative all'applicazione a Roma capitale delle norme sulle città metropolitane (art. 24, commi 9 e 10, L: 42/2009). L’articolo 18 dettava una disciplina comune per Roma capitale e per le altre città metropolitane, senza però chiarire i rapporti tra la nuova città metropolitana, che subentrava all’intera provincia, e l'ordinamento speciale di Roma capitale.

La nuova disciplina delle città metropolitane recata dal citato art. 18 - la cui applicabilità era stata sospesa fino al 31 dicembre 2013 – è stata peraltro dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 200 del 2013.

 

A differenza dell’art. 18 del D.L. n. 95/2012, il disegno di legge in esame detta per Roma capitale una disciplina specifica rispetto alle altre città metropolitane.

L’articolo 16, prevede che Roma capitale assume, dal 1° gennaio 2014, anche la natura giuridica e le funzioni di città metropolitana, con la denominazione di città metropolitana di Roma capitale (comma 1).

 

Si osserva che il comma 1 fa impropriamente riferimento al “comune” di Roma capitale, mentre Roma capitale non costituisce un comune ma un ente territoriale a sé stante (ex art. 23 L. 42/2009).

 

L’articolo richiama l’art. 114 della Costituzione, che, dopo aver proclamato Roma capitale della Repubblica, affida alla legge dello Stato la disciplina del relativo ordinamento (terzo comma).

L’articolo richiama altresì l’articolo 1 del decreto legislativo n. 61/2012, che prevede che, in sede di prima applicazione, fino all'istituzione della città metropolitana di Roma capitale, il decreto legislativo medesimo disciplina, ai sensi della legge delega sul federalismo fiscale, il conferimento di funzioni amministrative a Roma capitale.

Proprio dal disposto dell’articolo 1 del decreto legislativo n. 61 sembra peraltro discendere la natura transitoria del conferimento di funzioni amministrative a Roma capitale, destinato a venir meno al momento dell’istituzione della città metropolitana di Roma capitale.

Occorre pertanto verificare l’obiettivo del rinvio all’art. 1 del decreto legislativo n. 61, al fine di evitare che l’istituzione della città metropolitana disposta dall’articolo medesimo determini un effetto sull’attribuzione transitoria di funzioni provocandone la cessazione.

 

 

Ai sensi del comma 3, entro il 28 febbraio 2014, i comuni della provincia di Roma confinanti con Roma capitale, possono, su proposta dell’Assemblea capitolina - impropriamente indicata come ‘consiglio di Roma capitale’ - deliberare di aderire alla città metropolitana di Roma capitale; l’adesione avviene con una delibera del consiglio comunale adottata a ‘maggioranza assoluta dei votanti’, espressione quest’ultima da chiarire in quanto la maggioranza assoluta è generalmente riferita ai componenti di un organo.

Con legge dello Stato adottata ai sensi dell’art. 133 Cost. è disposto il passaggio nell’ambito della città metropolitana di Roma capitale dei comuni interessati, che mantengono la natura giuridica di comuni autonomi.

 

Si ricorda che l’art. 133, primo comma, Cost. prevede che il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell'ambito di una Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione.

 

Rispetto alla disciplina delle altre città metropolitane, recata dall’art. 2:

- il territorio della Città metropolitana di Roma capitale non coincide con quello della provincia, come previsto invece in generale dall’art. 2, comma 2, ma con quello di Roma capitale;

- la Città metropolitana di Roma capitale può al massimo estendersi ai territorio di Roma capitale e ai comuni della provincia confinanti con esso e per tale estensione è richiesto il consenso sia di Roma capitale che del singolo comune (comma 3); per le altre Città metropolitane, invece, il territorio, come già rilevato, coincide con quello della provincia, salva la facoltà di un terzo dei comuni tra loro confinanti o di un numero di comuni che rappresentino un terzo della popolazione di non aderire (art. 3, comma 1, lett. g);

- per l’istituzione della Città metropolitana di Roma capitale, con ambito territoriale diverso da quello del comune di Roma capitale, è richiesta una legge dello Stato ai sensi dell’art. 133 Cost. (comma 3), mentre per le altre Città metropolitane tale legge non è prevista, neanche nell’ipotesi in cui il prescritto numero di comuni non aderisca e si dia dunque luogo, oltre all’istituzione della Città metropolitana, al mantenimento della provincia (art. 3, comma 1, lett. g);

- per la Città metropolitana di Roma capitale non è espressamente previsto che i comuni limitrofi possano assumere, ai sensi dell’art. 133 Cost., l’iniziativa per l’adesione alla Città metropolitana. Occorre in proposito un chiarimento, perché l’articolo 133 potrebbe comunque essere interpretato nel senso che tale iniziativa resta comunque possibile determinando l’adesione alla città metropolitana il mutamento della circoscrizione provinciale di provenienza dei comuni.

 

Ai sensi del comma 6, dopo il 28 febbraio 2014, constatato il numero dei comuni che ha aderito alla città metropolitana, anche nelle more della  conclusione del procedimento, alla Città metropolitana di Roma capitale e alla provincia di Roma si applicano la disciplina generale delle città metropolitane relativa ai casi in cui un determinato numero di comuni non aderisca alla città metropolitana e si dia dunque luogo al mantenimento della provincia (art. 3, comma 1, lettera g), periodi dal quarto all’ottavo).

È dunque previsto un decreto del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, di concerto con il Ministro dell’economia – da adottare entro tre mesi -  per la determinazione delle modalità di ripartizione del patrimonio, delle risorse finanziarie, umane e strumentali e degli obiettivi del patto di stabilità interno tra provincia e città metropolitana, assicurando l’invarianza finanziaria. Si procede così al riparto del patrimonio e delle risorse con delibera del presidente della provincia in carica (quindi, per Roma, del commissario governativo), di intesa con il sindaco metropolitano, sentiti i comuni interessati. Ove la delibera non sia adottata entro il 30 aprile 2014, provvede il prefetto, nei successivi novanta giorni, con proprio atto impugnabile dalla provincia e dalla città metropolitana davanti alla sezione regionale della Corte dei conti.

Come già rilevato con riferimento all’art. 3, comma 1, lett. g), settimo periodo, con quest’ultima disposizione, si introduce una funzione affatto nuova in capo alla capo alla Corte dei conti, la cui attività giurisdizionale si esplica essenzialmente nell’ambito dell’accertamento di responsabilità (contabile, amministrativa, da dissesto finanziario) oltre che nei giudizi pensionistici e nello speciale giudizio avverso gli atti ISTAT[10] di ricognizione delle amministrazioni pubbliche. Tale funzione si esplicherebbe, nella fattispecie, in un giudizio avente ad oggetto un atto prefettizio, altrimenti soggetto, secondo la disciplina vigente, a giurisdizione amministrativa.

 

Si osserva che la delibera di riparto delle risorse tra provincia e città metropolitana può avvenire prima dell’approvazione della legge che dispone il passaggio dei comuni nella città metropolitana, con un’inversione dei passaggi procedimentali che appare meritevole di un approfondimento.

La previsione di un termine stringente (30 aprile 2014) per l’adozione della delibera non sembra tenere in considerazione il fatto che, a differenza delle altre città metropolitane, il subentro della città metropolitana di Roma capitale alla provincia, limitatamente ai comuni interessati, avverrà solo dopo le prossime elezioni amministrative (v. infra).

 

Ai sensi del comma 2, alla città metropolitana di Roma capitale si applicano le norme dell’articolo 3, relative all’istituzione degli organi delle città metropolitane in sede di prima applicazione, con funzioni limitate all’approvazione dello statuto fino alla data di subentro alla provincia. Fino all’eventuale adesione di altri comuni alla città metropolitana, il sindaco di Roma assume le funzioni di sindaco metropolitano e l’Assemblea capitolina assume le funzioni tanto del consiglio quanto della conferenza metropolitana.

Da tale disposizione – della quale appare opportuno un chiarimento - sembrerebbe dunque discendere il potere dell’Assemblea capitolina di procedere autonomamente all’approvazione dello statuto della città metropolitana, fino all’adesione di altri comuni.

Inoltre, occorre valutare l’uso dell’espressione “adesione di altri comuni”, dato che, ai sensi del comma 3, per l’adesione è sufficiente la delibera del consiglio comunale, mentre per l’effettivo passaggio dei comuni nell’ambito della città metropolitana occorre una legge dello Stato.

 

A differenza di quanto previsto dall’articolo 3 per le altre città metropolitane, che subentrano alla provincia omonima dal 1° luglio 2014, la città metropolitana di Roma capitale subentra alla provincia di Roma dopo la proclamazione dei sindaci e dei consigli comunali nella prima consultazione elettorale successiva all’entrata in vigore della legge. Naturalmente il subentro avviene limitatamente al territorio di Roma capitale ed ai comuni che siano stati assegnati all’ambito territoriale della città metropolitana con legge statale ex art.133 Cost. (comma 4).

Si osserva che le elezioni degli organi di Roma capitale non necessariamente coincidono con le elezioni dei consigli dei comuni che rientreranno nell’ambito della nuova città metropolitana. Occorre dunque chiarire se il testo intenda fare riferimento alle elezioni di Roma capitale.

Si ricorda in proposito che la scadenza naturale della consiliatura di Roma capitale è nel 2018.

Fino alle nuove elezioni resta in carica nella provincia di Roma il commissario governativo.

Ciò considerato, appare opportuno valutare che il mantenimento in carica del commissario fino al 2018, comporterebbe il prolungamento fino a quella data di un assetto derivante da normativa dichiarata incostituzionale con la sentenza 220/2013.

 

La provincia di Roma resta in funzione limitatamente al territorio residuo rispetto a quello della città metropolitana di Roma capitale. Ad essa si applicano, ove compatibili, le disposizioni del capo III (comma 5).

 

L’articolo 17 prevede l’applicabilità alla città metropolitana di Roma capitale della disciplina generale sulle città metropolitane, ove compatibile, disciplina dettata dal capo II, al cui commento si rinvia.

 

Diversamente da quanto era previsto dalla legge delega sul federalismo fiscale, la città metropolitana di Roma capitale si aggiungerà dunque all’ente Roma capitale (a meno che nessun comune confinante rientri nell’ambito della città metropolitana, nel quale caso i due enti sembrano di fatto coincidere, data l’identità degli organi).

Appare opportuno un coordinamento tra le funzioni assegnate alle città metropolitane dall’art. 9 e le funzioni già attribuite a Roma capitale in forza della legge delega sul federalismo fiscale e della disciplina attuativa, al fine di evitare sovrapposizioni o incertezze interpretative sulla titolarità delle funzioni medesime.

 

Inoltre, in considerazione dell’assoluta preponderanza, quanto a popolazione, di Roma capitale rispetto ai comuni confinanti, occorre verificare il funzionamento della disciplina generale delle città metropolitane quando applicata alla città metropolitana di Roma capitale.

A titolo esemplificativo, la disciplina per l’adozione delle delibere della conferenza metropolitana dettata dall’art. 8, comma 2, sembra avere l’effetto di attribuire un peso sempre decisivo al voto del sindaco di Roma capitale.

 

 


Unione e fusione di comuni

Le unioni di comuni sono oggetto dei commi 4, 5 e 6 dell’articolo 1 e del capo V del provvedimento in esame, ed in particolare degli articoli 18, 19 e 20 che ne ridisciplinano gli organi, i quali vengono uniformati per tutte le tipologie di unioni.

Disposizioni in materia di unioni si rinvengono anche nel capo VI (norme finali), ed in particolare all’art. 23, commi 1 e 3, che abrogano alcune disposizioni relative agli organi delle unioni.

L’articolo 21 del medesimo capo V riguarda invece le fusioni di comuni, mentre l’articolo 22 reca misure incentivanti sia per le unioni, sia per le fusioni di comuni.

 

Per quanto concerne le unioni di comuni va rilevato in via preliminare che la materia è disciplinata da una pluralità di fonti normative adottate o modificate negli ultimi anni, cui si vengono ad aggiungere (e talvolta a sovrapporre) quelle introdotte dal provvedimento in esame.

In proposito andrebbe valutata l’opportunità di introdurre le nuove disposizioni in forma di novella al testo unico degli enti locali.

 

L’articolo 1, ai commi 4, 5 e 6, provvede alla ricognizione delle diverse tipologie di unioni di comuni apportando, in alcuni casi, alcune modifiche alla relativa disciplina.

Si tratta, prevalentemente, di integrazioni parziali di una materia che è stata interamente ridisciplinata dall’art. 19 del decreto-legge 95/2012 di revisione della spesa.

 

Il comma 4, primo periodo, riguarda le unioni di comuni per l’esercizio associato facoltativo di specifiche funzioni ed ha uno scopo puramente ricognitivo in quanto riproduce sostanzialmente il primo comma dell’articolo 32 del testo unico degli enti locali, limitandosi a ribadire che le unioni sono enti locali costituiti da due o più comuni per l’esercizio associato di funzioni e a fare rinvio al medesimo art. 32.

Le modifiche a questo tipo di unioni riguardano la composizione e formazione degli organi che, come si è anticipato, sono oggetto del capo V.

 

I successivi secondo e terzo periodo del comma 4 hanno ad oggetto le unioni per l’esercizio associato obbligatorio delle funzioni fondamentali istituite dal decreto-legge 78/2010 e successivamente più volte ridisciplinate da ultimo dal decreto-legge 95/2012 (art. 19, comma 1).

Il secondo periodo si limita a riprodurre in gran parte il disposto dell’art. 14, comma 28, del decreto-legge 78/2010, ribadendo che i comuni al di sotto di 5.000 abitanti devono obbligatoriamente esercitare in forma associata le funzioni fondamentali (individuate dall’articolo 27 del medesimo D.L. 78) ad eccezione di quelle relative all’anagrafe tramite unione di comuni o convenzione (di cui all’art. 30 TUEL).

La portata innovativa della disposizione si rinviene invece nel terzo periodo, dove si introduce un limite temporale di 5 anni entro i quali è possibile stipulare nuove convenzioni; decorso tale periodo, l’esercizio obbligatorio potrà avvenire esclusivamente attraverso il ricorso alle unioni di comuni.

 

Si osserva che andrebbe valutata l’opportunità di specificare la sorte delle convenzioni in essere alla scadenza dei 5 anni, ossia se la loro durata possa proseguire fino alla scadenza, o debbano essere risolte a quella data. Nel primo caso potrebbe verificarsi che la disposizione trovi applicazione molto dopo la scadenza.

 

Si ricorda, in proposito, che l’art. 30 del TUEL prevede che le convenzioni devono contenere obbligatoriamente la durata senza però definirne un termine massimo. Un termine minimo (tre anni) è previsto, proprio per le convenzioni tra piccoli comuni, dal citato decreto-legge 78 (art. 14, comma 31-bis).

 

La terza tipologia di unione, quella relativa all’esercizio facoltativo di tutte le funzioni e servizi comunali, è oggetto del comma 5 che, anche in questo caso, richiama la normativa fondamentale in materia costituita dall’art. 16, commi 1-16, del decreto-legge 138/2011, come modificati dal decreto-legge 95.

Tale disposizione prevede che, in alternativa all’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali di cui sopra, i piccoli comuni possono scegliere di formare unioni per l’esercizio di tutte le funzioni loro spettanti e non solo quelle fondamentali (fermo restando per quest’ultime l’obbligo di esercizio associato). In tal caso si applica una disciplina speciale derogatoria di quella di cui all’art. 32 TUEL, recata dallo stesso decreto 138.

Il comma in esame alza la soglia demografica dei comuni che possono ricorrere a questo tipo di unione portandola da 1.000 (come previsto dalla norma vigente) a 5.000 abitanti.

Inoltre, viene specificato che, nel caso di opzione, tra le funzioni da esercitare in forma associata sono comprese anche quelle eventualmente “assegnate” ai comuni che ne fanno parte da altri enti territoriali di cui all’art. 114 della Costituzione (Stato, regioni, province e città metropolitane). Si ricorda che il disegno di legge A.C. 1543 prevede la soppressione del riferimento a province e città metropolitane nell’art. 114 Cost.

 

L’articolo 18 provvede ad uniformare la disciplina relativa agli organi di governo delle unioni di comuni.

 

Attualmente gli organi delle unioni di comuni per l’esercizio associato di specifiche funzioni sono regolate dall’articolo 32 (commi 3 e 4) del TUEL (abrogati dall’articolo 23, comma 1 del presente provvedimento) che prevedono i seguenti organi:

§      il presidente, scelto tra i sindaci dei comuni associati;

§      la giunta, scelta tra i componenti dell’esecutivo dei comuni associati;

§      il consiglio, composto da un numero di consiglieri, eletti dai singoli consigli dei comuni associati tra i propri componenti, non superiore a quello previsto per i comuni con popolazione pari a quella complessiva dell'ente, garantendo la rappresentanza delle minoranze e assicurando, se possibile, la rappresentanza di ogni comune

Si tratta dunque di organi formati interamente da amministratori in carica dei comuni associati che non percepiscono emolumenti ulteriori rispetto a quelli loro spettanti in virtù della carica rivestita nel comune di provenienza.

Per il resto l'unione ha autonomia statutaria e potestà regolamentare e ad essa si applicano, in quanto compatibili, i principi previsti per l'ordinamento dei comuni, con particolare riguardo allo status degli amministratori, all'ordinamento finanziario e contabile, al personale e all'organizzazione.

Le stesse disposizioni si applicano alle unioni obbligatorie di cui al decreto-legge 70/2001, in virtù del rinvio operato dall’art. 28-bis del medesimo decreto.

 

Per le unioni di comuni facoltative per l’esercizio associato di tutte le funzioni di cui al decreto-legge 138/2011, vige un regime organizzativo diverso che prevede quali organi istituzionali:

§      il consiglio, di cui fanno parte tutti i sindaci dei comuni membri dell'unione (solamente in prima applicazione vi fanno parte anche due consiglieri comunali per ciascun comune eletti dai rispettivi consigli comunali, con la garanzia che uno dei due appartenga alle opposizioni).

§      i presidente, eletto dal consiglio, che dura in carica due anni e mezzo ed è rinnovabile, ad esso spettano le competenze attribuite al sindaco dall'articolo 50 del TUEL, ferme restando in capo ai sindaci di ciascuno dei comuni che sono membri dell'unione le attribuzioni del sindaco nei servizi di competenza statale (art. 54 TUEL);

§      la giunta, composta dal presidente, che la presiede, e dagli assessori, nominati dal presidente fra i sindaci componenti il consiglio in numero non superiore a quello previsto per i comuni aventi corrispondente popolazione. Alla giunta spettano le competenze delle giunte (ai sensi del’art. 48 TUEL).

 

I nuovi organi delle unioni di comuni, come riformati dall’art. 18 in commento sono:

§      il presidente dell'unione, eletto dal consiglio dell'unione a maggioranza assoluta dei suoi membri tra i consiglieri che ricoprono la carica di sindaco (se dopo tre scrutini nessuno abbia ottenuto la maggioranza assoluta, si procede al ballottaggio tra due consiglieri più votati). Il presidente rappresenta l'ente, convoca e presiede il comitato dei sindaci e il consiglio e sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli atti oltre ad esercitare le eventuali altre funzioni attribuite dallo statuto;

§      il comitato dei sindaci dell'unione, formato da tutti i sindaci dei comuni dell'unione (è prevista la possibilità di prevedere per statuto l’istituzione di comitato esecutivo ristretto e l'articolazione in sottocomitati se il comitato supera i 30 componenti). Il comitato dei sindaci coadiuva il presidente nell'esercizio delle sue funzioni;

§      il consiglio dell'unione, composto da tutti i sindaci dei comuni dell'unione e da due consiglieri per ciascun comune, di cui uno in rappresentanza della minoranza, che esprimono un unico voto con effetto ponderato ai sensi dell'articolo 8, comma 2. E’ organo di indirizzo con il compito di approvare lo statuto e tutti gli altri atti e provvedimenti ad esso sottoposti dal presidente (quali i regolamenti, i piani, i programmi e i bilanci).

 

Come per le città metropolitane non è prevista la costituzione di un organo di governo (giunta), ma il presidente dell'unione può nominare un vicepresidente (scelto tra i membri del comitato) e nominare consiglieri delegati assegnando deleghe di funzioni ai componenti del comitato stesso.

 

L’articolo 19 incide sulla potestà statutaria delle unioni dei comuni, anche in questo caso uniformando le disposizioni vigenti per i diversi tipi di unioni.

Il comma 1, recepisce sostanzialmente quanto disposto dal comma 4 del’art. 32 TUEL (contestualmente abrogato), che si riferisce alle unioni di comuni facoltative e che prevede che l'unione ha potestà statutaria e regolamentare, che è esercitata secondo i princìpi previsti per l'ordinamento dei comuni, con particolare riguardo allo status degli amministratori, all'ordinamento finanziario e contabile, al personale e all'organizzazione, con la precisazione che tali principi si applicano solamente se compatibili con le eventuali disposizioni previste dal presente provvedimento della presente legge e con quelle speciali, valide per ciascuna tipologia di unioni di comuni richiamate al comma 6 dell'articolo 1, del disegno di legge.

Il comma 2 riproduce, modificandolo, il comma 10 (che viene anch’esso abrogato) dell’art. 16 del decreto-legge 138/2011, relativo alle unioni facoltative: viene esteso a tutte le unioni quanto ivi previsto in ordine al contenuto obbligatorio dello statuto che deve individuare le modalità di funzionamento degli organi dell’unione e deve disciplinare i rapporti tra detti organi.

Non viene invece confermato il quorum per l’approvazione dello statuto (maggioranza assoluta dei componenti il consiglio), né il termine dell’approvazione (entro 20 giorni dalla data di istituzione dell’unione); infatti, il comma 3 si limita a disporre che lo statuto è approvato dal consiglio dell’unione, senza prevedere alcun quorum o tempistica di approvazione.

 

Infine, l’articolo 20 dispone in ordine al trattamento economico dei titolari delle cariche negli organi delle unioni di comuni prevedendo la gratuità di esse.

In materia, la disciplina vigente prevede due soluzioni opposte: l’art. 32, comma 3, TUEL dispone che gli organi delle unioni facoltative sono formati amministratori locali in carica ai quali non possono essere attribuiti emolumenti ulteriori a quelli recepiti in quanto amministratori dei comuni facenti parte dell’unione. Viceversa, l’art. 16, comma 11, del D.L. 138/2011, dispone gli amministratori dell’unione cessano dal trattamento economico percepito in quanto amministratori comunali ed ad essi viene attribuita l’indennità spettante ai consiglieri e ai sindaci dei comuni con popolazione pari a quella dell’unione.

 

L’articolo 21 reca una misura agevolativa nei confronti dei comuni sorti a seguito della fusione di più comuni, prevedendo che lo statuto del nuovo comune possa prevedere “forme particolari di collegamento” tra l’ente locale sorto dalla fusione e le comunità che appartenevano ai comuni originari.

Tale misura si va ad aggiungere alla possibilità (contemplata dall’art. 16 TUEL) di prevedere l’istituzione di organi di decentramento (municipi) nei territori degli ex comuni.

 

Anche per tali fattispecie si ribadisce che andrebbe valutata l’opportunità di introdurre la disposizione in forma di novella al TUEL.

 

L’articolo 22 reca ulteriori misure incentivanti per unioni e fusioni di comuni, in relazione al patto di stabilità (comma 1) e al Primo Programma “6000 campanili” (comma 3); nonché disposizioni transitorie volte a graduare gli effetti della fusione tra comuni (comma 2).

 

Il comma 1 dispone che le regioni, nell'ambito del patto di stabilità verticale, possono individuare misure atte ad incentivare le unioni e le fusioni di comuni.

La norma non fornisce ulteriori specificazioni circa la forma e la misura che può assumere l’incentivazione per le unioni e fusioni di comuni nell'ambito della procedura di definizione del patto verticale; essa si limita a ribadire quanto già previsto nella vigente disciplina del patto orizzontale verticale, che l'obiettivo di finanza pubblica della regione, vale a dire il limite alle spese finali imposto alla regione stessa, deve risultare rispettato e non può essere modificato.

 

Per quanto concerne l’ambito soggettivo di applicazione della norma, si osserva che essa, in quanto finalizzata ad incentivare la fusione e l’unione di comuni nell’ambito del patto regionale verticale, si rivolge ai comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti, che, in quanto assoggettati alle regole del patto di stabilità interno, possono partecipare alla c.d. “regionalizzazione verticale” del patto.

In merito, si ricorda che l’articolo 19 del D.L. n. 95/2012 ha reso obbligatorio l’esercizio associato di funzioni fondamentali, mediante unione di comuni o convenzione, per i comuni con meno di 5.000 abitanti (ovvero fino a 3.000 abitanti se appartenenti a comunità montane).

 

Per quanto riguarda il patto di stabilità verticale, questo è una forma di flessibilità delle regole del patto, introdotta a partire dal 2009[11] al fine di facilitare i pagamenti per investimenti da parte degli enti locali. Si consente alle regioni, infatti, di intervenire a favore degli enti locali del proprio territorio che sono assoggettati al patto, attraverso una rimodulazione degli obiettivi finanziari assegnati ai singoli enti e alla regione medesima – fermo restando il rispetto degli obiettivi complessivi posti dal legislatore ai singoli comparti - al fine di consentire agli enti locali di poter disporre di maggiori margini per l’effettuazione di spese, soprattutto in conto capitale, senza incorrere nella violazione del patto.

 

Il secondo periodo del comma 1, inoltre, abroga la disposizione recata dal terzo periodo del comma 3 dell’articolo 16 del D.L. n. 138/2011 che dispone, a decorrere dal 2014, che le unioni di comuni, costituite da comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, siano sottoposte al patto di stabilità, secondo la disciplina del patto prevista per i comuni aventi corrispondente popolazione.

Come è noto, il patto di stabilità interno è l'insieme delle norme che recano obiettivi e vincoli della gestione finanziaria di regioni ed enti locali, ai fini della determinazione della misura del concorso dei medesimi al rispetto degli impegni derivanti dall’appartenenza all’Unione europea. Le regole del patto di stabilità si concretizzano per gli enti locali, sul controllo dei saldi finanziari e, per le Regioni, sul principio del contenimento delle spese finali.

Sono assoggettati alle regole del patto le regioni, le province e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti e, a decorrere dal 2013, i comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti (ai sensi dell’articolo 31, comma 1, della legge n. 183/2011).

Dal 2014, secondo quanto disposto dal terzo periodo del comma 3 del citato articolo 16, dovrebbero essere assoggettate alle regole del patto anche le unioni di comuni formate dagli enti con popolazione inferiore a 1.000 abitanti – che, in base alla disciplina vigente, sono invece esclusi dall’applicazione del patto di stabilità interno - secondo le regole previste per i comuni aventi corrispondente popolazione.

 

Con l’abrogazione della citata disposizione, viene, dunque, ribadita l’esclusione dal patto di stabilità dei comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti anche laddove costituissero unioni di comuni per l’esercizio in forma associata delle funzioni e dei servizi pubblici loro spettanti.

 

In relazione a tale abrogazione, andrebbe valutato se essa è suscettibile di determinare effetti finanziari negativi sui saldi di finanza pubblica.

 

In merito all’esercizio associato di funzioni fondamentali, si ricorda che, per effetto dell’articolo 19 del D.L. n. 95/2012, l’esercizio associato di funzioni fondamentali è obbligatorio per i comuni al di sotto di soglie demografiche stabilite dallo stesso articolo.

Si tratta dei comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, esclusi i comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o di più isole e il comune di Campione d’Italia.

 

Per quanto concerne l’applicazione del patto di stabilità interno ai comuni che gestiscono in forma associata le funzioni fondamentali, si ricorda che, in base alla disciplina vigente, le unioni di comuni istituite per la gestione associata delle funzioni fondamentali non sono assoggettate al patto di stabilità interno. Le regole del patto si applicano ai singoli enti che partecipano alla gestione associata, se aventi popolazione superiore a 1.000 abitanti.

 

Il comma 2 reca una disposizione di carattere transitorio, volta a graduare gli effetti della fusione tra comuni. La disposizione prevede che i comuni risultanti da una fusione, qualora istituiscano i municipi, possono mantenere nei territori degli ex comuni – che corrispondono ai nuovi municipi in cui è articolato il nuovo ente - tributi e tariffe differenziate per ciascuno di essi, non oltre all'ultimo esercizio finanziario del primo mandato amministrativo del nuovo comune sorto dalla fusione (in sostanza cinque anni dall'elezione).

 

Il comma 3 concerne, infine, il Primo Programma “6000 campanili” di cui all'articolo 18, comma 9, del decreto legge 69/2013.

La norma citata ha destinato 100 milioni di euro per il 2014 a contributi statali a favore dei piccoli comuni (con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti), delle unioni composte da comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti e dei comuni risultanti da fusione tra comuni, ciascuno dei quali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti per la realizzazione di interventi infrastrutturali di adeguamento, ristrutturazione e nuova costruzione di edifici pubblici (compresi gli interventi per l'adozione di misure antisismiche); interventi per la realizzazione e manutenzione di reti viarie e delle infrastrutture accessorie o delle reti telematiche, nonché interventi per la messa in sicurezza del territorio.

Il Programma 6.000 campanili riguarda il finanziamento di piccoli interventi: la norma infatti prevede che il contributo per il singolo progetto sia compreso tra 500.000 euro e un milione di euro e che il costo totale del singolo intervento possa superare il contributo richiesto soltanto nel caso in cui le risorse finanziarie aggiuntive necessarie siano già immediatamente disponibili e spendibili da parte del Comune proponente.

La procedura per avere accesso ai finanziamenti è descritta nella norma richiamata e si conclude con l’emanazione di un decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di approvazione del Programma degli interventi.

Il comma 3 in esame dispone che i progetti presentati dalle unioni di comuni devono avere accesso prioritario ai finanziamenti.

 

 

 


 

Disposizioni finali

Il capo VI, formato dal solo articolo 23, chiude il disegno di legge con una serie di disposizioni finali.

Il comma 1 abroga i commi 3 e 4 dell’art. 32 del testo unico degli enti locali (D.Lgs. 267/2000), concernenti, rispettivamente, gli organi e la potestà statutaria delle unioni di comuni, il cui contenuto è stato sostituito od è confluito negli articoli 18, 19, comma 1, e 20 del presente provvedimento.

Il comma 2 elimina l’obbligo di tenere le elezioni per il rinnovo degli organi provinciali esclusivamente nel periodo 15 aprile -15 giugno, come previsto dalla legge 182/1991; l’obbligo rimane solamente per le elezioni comunali.

La disposizione, a regime, rende dunque possibile in ogni momento dell’anno lo svolgimento delle elezioni provinciali che, come disposto dall’articolo 12, saranno di secondo grado. Nell’immediato, la norma è presumibilmente finalizzata a poter svolgere le elezioni provinciali nelle province attualmente commissariate ai sensi del decreto-legge 201/2011 nel primo termine utile dopo l’approvazione del disegno di legge.

Il comma 3 abroga alcune disposizioni in materia di unioni obbligatorie di comuni recate dall’articolo 16 del decreto-legge 138/2011 (commi 5, secondo periodo, 6, 7, 8, 9, 10 e 11) e confluite negli articoli 18, 19 e 20 del disegno di legge in esame.

Il comma 4 abroga il comma 115 dell’art. 1 della legge di stabilità 2013 (L. 228/2012) che provvede a prorogare i termini per il riordino delle province recati dal D.L. 95/2012 e dal D.L. 201/2011.

Occorre considerare che tale comma è espressamente richiamato nell’art. 1 bis del disegno di legge di conversione del D.L. 93/2013, introdotto dalle Commissioni I e II nel corso dell’esame in sede referente.

Il comma 5 prevede l’adeguamento da parte delle regioni (ordinarie) alle disposizioni introdotte dal presente provvedimento, da attuare entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore.

Per le regioni a statuto speciale, è previsto l’adeguamento (non alle disposizioni, bensì ai principi del provvedimento) in un tempo più breve (6 mesi) di quello di cui al comma 4. Per le sole regioni Trentino Alto-Adige e Valle d’Aosta, l’adeguamento è richiesto solamente ai fini delle disposizioni in materia di unioni e fusioni di comuni. Infatti, il particolare status delle province autonome del Trentino Alto-Adige, previsto dalla Costituzione, non può essere modificato con legge ordinaria e nella regione Valle d’Aosta le funzioni provinciali sono esercitate dalla regione stessa (comma 6).

Il comma 7 prevede che le città metropolitane e le nuove province – come costituite ai sensi del provvedimento in esame – concorrano al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica nella misura attualmente assegnata alle province di cui alla legislazione previgente ovvero alle quali tali nuovi enti subentrano, secondo le regole vigenti del patto di stabilità interno.

Ciò fino a che non si pervenga ad una revisione della disciplina del patto di stabilità che tenga conto delle funzioni attribuite a tali nuovi enti.

 

Si ricorda che il patto di stabilità interno rappresenta lo strumento normativo funzionale ad assicurare il concorso degli enti territoriali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica assunti dal nostro Paese in sede europea, con l’adesione al Patto europeo di stabilità e crescita (Regolamento UE n. 1466/1997), in considerazione del fatto che i vincoli sul disavanzo e sul debito, previsti dal Patto di stabilità e crescita, si riferiscono al complesso delle amministrazioni pubbliche.

L’obbligo di partecipazione delle regioni e degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica ha peraltro assunto valenza costituzionale con la nuova formulazione dell’art. 119 Cost. - operata dalla legge costituzionale n. 1/2012 che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale - il quale prevede che gli enti territoriali (Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni) sono tenuti a concorrere ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.

La disciplina del patto di stabilità interno per le province e i comuni per il triennio 2013-2015 è recata dall’art. 31 della legge n. 183/2011 (legge di stabilità 2012), come successivamente modificato ed integrato dall’articolo 1, commi 428-447, della legge n. 228/2012 (legge di stabilità per il 2013).

L'impostazione del patto per gli enti locali è incentrata sul controllo dei saldi finanziari.

L’obiettivo del patto consiste, pertanto, nel miglioramento del saldo finanziario, calcolato quale differenza tra entrate e spese finali – con alcune specifiche esclusioni di voci di entrata e di spesa - espresso in termini di competenza mista (criterio contabile che considera le entrate e le spese in termini di competenza, per la parte corrente, e in termini di cassa per la parte degli investimenti, al fine di rendere l'obiettivo del patto di stabilità interno più coerente con quello del Patto europeo di stabilità e crescita).

I meccanismi di calcolo degli obiettivi di saldo sono ancorati alla capacità di spesa di ciascun ente locale, corrispondente al livello di spesa corrente mediamente sostenuto in un triennio. L’obiettivo di saldo, per ciascuno degli anni dal 2013 al 2016 viene determinato, per ciascun ente, applicando alla spesa corrente media sostenuta nel triennio 2007-2009, come desunta dai certificati di conto consuntivo, determinate percentuali, fissate nella seguente misura per ciascuna tipologia di ente:

·         province: 18,8% per gli anni 2013 e successivi;

·         comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti: 14,8% per gli anni 2013 e successivi;

·         comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti: 12,0% nel 2013 e 14,8% nel 2014-2016.

Ai fini del concorso al contenimento dei saldi di finanza pubblica, gli enti sono tenuti a conseguire, in ciascuno degli anni, un obiettivo di saldo finanziario di competenza mista non inferiore al valore individuato in base al suddetto meccanismo.

 

Il comma 8 precisa che non sono innovate le disposizioni relative all’organizzazione periferica delle amministrazioni dello Stato in relazione alle disposizioni riguardanti province e città metropolitane.

Si ricorda in proposito che l’art. 10 del decreto-legge 95/2012 ha previsto una ampia riorganizzazione della presenza dello Stato sul territorio. Già in precedenza il decreto-legge 138/2011 aveva previsto la razionalizzazione di tutte le strutture periferiche dell'amministrazione dello Stato e la loro tendenziale concentrazione in un ufficio unitario a livello provinciale (art. 01).

Il comma 9 reca una norma di chiusura volta, tra l’altro, ad assicurare l’attuazione del disegno di legge.

Si demanda, infatti, al Ministro per gli affari regionali e le autonomie il compito di predisporre, entro 60 giorni, programmi di attività con la finalità di accompagnare e sostenere l’applicazione degli interventi di riforma previsti dal presente provvedimento (prevedendo misure, quali ad esempio la nomina di commissari, per assicurare il rispetto dei tempi previsti per gli adempimenti attuativi).

Con tali programmi si dovrà assicurare anche l’attuazione della razionalizzazione degli enti regionali, provinciali e comunali che non è oggetto del presente disegno di legge, ma che ha la sua base normativa nell’art. 9 del decreto-legge 95/2012.

 

L’articolo 9 (commi da 1 a 7) del citato decreto-legge 2013 pone obblighi agli enti territoriali in tema di soppressione, accorpamento e riduzione di oneri finanziari di enti, agenzie o organismi prevedendo, tra l’altro, quanto segue:

-      regioni, comuni e province devono procedere alla riduzione, soppressione o accorpamento di enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, ad essi riconducibili, che esercitano, anche in via strumentale, funzioni fondamentali (ai sensi dell’art. 117, 2° comma, lett. p) Cost.) o funzioni amministrative spettanti a comuni, province e città metropolitane ai sensi dell’art. 118 Cost.;

-      sono escluse le aziende speciali e le istituzioni che gestiscono servizi socio-assistenziali, educativi e culturali;

-      la ricognizione degli enti da sopprimere o da accorpare è subordinata ad un accordo da perseguire in sede Conferenza unificata;

-      nella stessa sede è prevista la conclusione di un’intesa, per definire modalità e tempistica per l'attuazione degli obblighi di cui sopra;

-      in caso di mancato intervento da parte degli enti territoriali interessati entro il termine di 9 mesi, si prevede l’automatica soppressione degli enti e viene inoltre comminata la sanzione di nullità di tutti gli atti successivamente adottati;

-      è fatto divieto agli enti locali di istituire nuovi enti per lo svolgimento di funzioni amministrative, sia fondamentali sia conferite.

 

Il comma 10 reca la formula di invarianza finanziaria del disegno di legge, la cui attuazione non deve apportare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

 

Come già evidenziato, nell’art. 23 non si riscontrano disposizioni di coordinamento con la normativa vigente in tema di funzioni e entrate fiscali delle province, di unioni di comuni. Va poi segnalata l’opportunità, che riguarda soprattutto il testo unico per gli enti locali di cui al decreto legislativo 267/2000, di formulare come novella tutte le disposizioni del testo in esame che modifichino disposizioni già vigenti.



[1]     Con l’art. 1, comma 169, della legge di stabilità per il 2013, L. 228/2012, è stata prevista la facoltà di ricorso alle Sezioni riunite della Corte dei conti, in speciale composizione, avverso gli atti di ricognizione delle amministrazioni pubbliche annualmente operata dall'ISTAT ai sensi dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196.

 

[2]     La popolazione indicata per ciascuna provincia è la somma della popolazione dei comuni compresi nella provincia stessa secondo i dati ufficiali del Censimento 2011 di cui al d.P.R. 6 novembre 2012 (pubblicato nella G.U. n. 294 del 18 dicembre 2012) con le modifiche apportate dal DPR 19 luglio 2013 (G.U. 28/8/2013, n. 201).

[3]     Si ricorda che, sulla base dell'art. 9 della legge 122/1951, sono stati emanati i decreti del Presidente della Repubblica che hanno determinato i collegi uninominali per l'elezione dei consigli provinciali di Milano (d.P.R. 14 giugno 2010), Torino (d.P.R. 3 marzo 1961 n. 74), Bari (d.P.R. 6 aprile 2009), Bologna (d.P.R. 3 marzo 1961 n. 74), Firenze (d.P.R. 5 novembre 1993), Genova (d.P.R. 20 marzo 2011), Venezia (d.P.R. 29 luglio 2011), e Reggio di Calabria (d.P.R. 30 novembre 2010).

[4]     I commissari straordinari sono stati nominati con decreti del Presidente della Regione del 2 luglio 2013, pubblicati nella G.U. Serie Generale  n. 170 del 22 luglio 2013.

[5]     Ai sensi dell'art. 23 co. 18 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. con modificazioni, dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214.

[6]     Ai sensi dell'art. 23 co. 19 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. con modificazioni, dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214.

[7]     Ai sensi dell'art. 23 co. 16 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. con modificazioni, dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214.

[8]     Ai sensi dell'art. 17, co. 4, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95, conv. con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 135.

[9] Tale Trattato è stato dall’Italia firmato il 15 ottobre 1985 e ratificato l’11 maggio 1990, con entrata in vigore il 1° settembre 1990.

 

[10] Con l’art. 1, comma 169, della legge di stabilità per il 2013, L. 228/2012, è stata prevista la facoltà di ricorso alle Sezioni riunite della Corte dei conti, in speciale composizione, avverso gli atti di ricognizione delle amministrazioni pubbliche annualmente operata dall'ISTAT ai sensi dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196.

 

[11]    Il “patto di stabilità verticale” è attualmente disciplinato dall’articolo 1, commi 138-140, della legge n. 220/2010 (Legge di stabilità 2011). La disciplina, introdotta per la prima volta in riferimento all'esercizio 2009 dall’articolo 7-quater del D.L. n. 5/2009 – e confermato per il 2010 dal D.L. n. 2/2010, articolo 4, comma 4-sexsies – prevede la possibilità per gli enti locali ‘virtuosi’ di escludere dai vincoli del patto alcune particolari tipologie di spese in conto capitale, considerate necessarie a fronteggiare la crisi economica. L’esclusione avviene nei limiti degli importi autorizzati dalla regione di appartenenza – che a sua volta deve essere autorizzata dal Ministero dell’economia e delle finanze - la quale procede, contestualmente, alla rideterminazione del proprio obiettivo programmatico del patto per l’anno di riferimento per un ammontare pari all'entità complessiva degli importi autorizzati in favore degli enti locali compresi nel proprio territorio, al fine di garantire – considerando insieme regione ed enti locali - il rispetto degli obiettivi finanziari.