XVII Legislatura

Commissione parlamentare per la semplificazione

Resoconto stenografico



Seduta n. 30 di Giovedì 13 marzo 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Tabacci Bruno , Presidente ... 3 

Audizione dei professori Efisio Espa, Nicola Lupo, Maria Alessandra Sandulli e Giulio Vesperini:
Tabacci Bruno , Presidente ... 3 
Sandulli Maria Alessandra , Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università degli Studi Roma Tre ... 4 
Lupo Nicola , Professore ordinario di diritto delle assemblee elettive presso l'Università Luiss Guido Carli ... 5 
Espa Efisio , Docente di economia presso la Scuola Nazionale dell'Amministrazione ... 7 
Vesperini Giulio , Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università della Tuscia ... 9 
Tabacci Bruno , Presidente ... 13 
Taricco Mino (PD)  ... 13 
Pagliari Giorgio  ... 14 
Tabacci Bruno , Presidente ... 14 
Sandulli Maria Alessandra , Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università degli Studi Roma Tre ... 15 
Lupo Nicola , Professore ordinario di diritto delle assemblee elettive presso l'Università Luiss Guido Carli ... 15 
Espa Efisio , Docente di economia presso la Scuola Nazionale dell'Amministrazione ... 16 
Vesperini Giulio , Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università della Tuscia ... 17 
Tabacci Bruno , Presidente ... 18 

ALLEGATO: Memoria consegnata dal dottor Salvatore Rossi, Direttore Generale della Banca d'Italia e Presidente dell'Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni (IVASS) ... 19

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BRUNO TABACCI

  La seduta comincia alle 8.15.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione dei professori Efisio Espa, Nicola Lupo, Maria Alessandra Sandulli e Giulio Vesperini.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione dei professori Efisio Espa, Nicola Lupo, Maria Alessandra Sandulli e Giulio Vesperini, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla semplificazione legislativa ed amministrativa.
  In poco più di tre mesi, nonostante le vicende politico-istituzionali, siamo riusciti ad audire un ampio spettro di soggetti interessati a queste tematiche, traendone un quadro molto approfondito e sfaccettato, che sta a noi ora tradurre in un documento conclusivo nel contempo agile e incisivo.
  Proprio a causa delle vicende politico-istituzionali citate, non siamo riusciti ad audire il direttore generale della Banca d'Italia e presidente dell'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, dottor Salvatore Rossi, nonostante la sua reiterata disponibilità. Il dottor Rossi ci ha comunque mandato il suo contributo, di cui autorizzo la pubblicazione in calce ai resoconti della seduta odierna (vedi allegato).
  Segnalo anche che il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione mi ha inviato una lettera in cui esprime le sue scuse per l'impossibilità a prendere parte all'indagine conoscitiva, considerato che il Governo si è insediato da poco e data anche la ristrettezza dei nostri tempi. L'obiettivo, infatti, è quello di concludere l'indagine conoscitiva entro il 31 marzo. Il Ministro ci esorta a proseguire il nostro lavoro, nella convinzione che le sarà utile, anche ai fini della definizione delle linee programmatiche in materia di semplificazione.
  Con il Ministro Madia e con il Sottosegretario Rughetti siamo rimasti d'accordo che, una volta approvato il documento conclusivo, faremo con loro il punto della situazione.
  Avverto anche che la prossima settimana convocherò la riunione dell'Ufficio di presidenza (come sempre allargata ai rappresentanti dei gruppi), per un primo scambio di opinioni sul materiale e sulle conoscenze acquisiti nel corso dell'indagine e sulla struttura del documento conclusivo.
  Dopo queste comunicazioni, passiamo ora all'audizione dei professori qui presenti. Il professor Nicola Lupo ha approfondito con grande competenza i temi relativi alla semplificazione normativa. I professori Espa, Sandulli e Vesperini sono tra i maggiori esperti in materia di semplificazione amministrativa ed hanno anche acquisito diverse esperienze all'interno delle strutture di governo.
  Mi dispiace che il tempo a nostra disposizione sia limitato. Avremmo dovuto tenere l'audizione lunedì 10 marzo, contando Pag. 4su tempi più lunghi, ma, come voi sapete, non è stato possibile, perché in quella data l'impegno pressante riguardava l'approvazione della legge elettorale alla Camera.
  Sono quindi costretto a invitarvi ad uno sforzo di sintesi. Quello che è importante è che voi siete qui. Eventualmente potrete depositare la documentazione che riterrete opportuno lasciare agli atti.
  Do la parola ai nostri ospiti per lo svolgimento delle loro relazioni.

  MARIA ALESSANDRA SANDULLI, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università degli Studi Roma Tre. Grazie per questa audizione. La tematica che io pensavo di approfondire, visto il tempo ristretto a disposizione, è quella delle misure di semplificazione rispetto ai provvedimenti di autorizzazione.
  Siamo in presenza di una legislazione alluvionale, farraginosa e sicuramente caratterizzata da una grande precarietà. Si tratta di un tema sul quale avete già svolto moltissime audizioni e che probabilmente sarà affrontato anche dal professor Lupo.
  A fronte di una legislazione così complessa e della difficoltà di reperire le fonti normative di riferimento, non solo sotto il profilo temporale e sotto il profilo del richiamo (a volte poco chiaro) ad altre disposizioni, ma anche con riferimento alla molteplicità delle fonti (sovranazionali, nazionali, regionali, di primo grado e di secondo grado), il fatto che venga lasciata all'operatore la responsabilità di individuare il quadro normativo applicabile è una misura di complicazione e non di semplificazione.
  In tutti questi anni, apparentemente, il silenzio-assenso, la denuncia di inizio di attività – prima – e la segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA) – poi –, sono state considerate misure di semplificazione amministrativa. In realtà, così come sono disciplinate, sono misure «ingannevoli» di semplificazione.
  Mi spiego meglio. Il regime prevede che il soggetto che intende realizzare un'attività possa auto-dichiarare il rispetto della normativa vigente e utilizzare lo strumento della segnalazione. Se l'amministrazione non esercita entro un termine ristretto (trenta o sessanta giorni, secondo la normativa vigente) il potere di controllo, tale soggetto si illude di poter andare avanti nella sua attività.
  L'attuale articolo 19 della legge n. 241 del 1990 prevede che l'amministrazione possa comunque esercitare un potere di autotutela. Il regime del potere di autotutela è analogo a quello previsto per il provvedimento espresso, quindi sembrerebbe che chi ha operato attraverso una segnalazione abbia le stesse garanzie della persona alla quale sia stato rilasciato un provvedimento espresso.
  In realtà non è così, perché la legge n. 241 contiene anche l'articolo 21, cui non si fa mai riferimento, che, riguardo alla stessa ipotesi nella quale è previsto l'esercizio del potere di autotutela – cioè la mancanza dei presupposti normativi per l'utilizzo dello strumento –, afferma la totale equiparazione dell'attività realizzata in base alla segnalazione certificata di inizio attività, come se questa, quindi, fosse completamente senza titolo.
  Se l'attività è senza titolo non c’è nessun tipo di garanzia. Nessun affidamento viene riconosciuto a colui che ha iniziato un'attività, fondandosi sulla legge che prevede che ciò si possa realizzare in base a SCIA. Dato che l'amministrazione non ha eccepito alcunché, il soggetto va avanti e magari dopo dieci anni l'amministrazione o il giudice penale gli comunicano che non ricorrevano i presupposti per l'inizio dell'attività e che l'attività medesima è totalmente abusiva. Questo terrorizza gli investitori italiani e stranieri.
  Lo stesso problema si verifica per il silenzio-assenso. Come stabilisce l'articolo 20 della legge n. 241 del 1990, oggi quasi tutte le attività possono essere realizzate, se i presupposti per l'attivazione sono vincolati, in base a SCIA, altrimenti in base al silenzio-assenso. Anche il silenzio-assenso ha lo stesso difetto: a fronte del decorso di un determinato lasso di tempo, si forma il provvedimento implicito di autorizzazione.Pag. 5
  L'articolo 21, però, dice che in mancanza dei presupposti quel provvedimento è tamquam non esset e quindi l'autorizzazione non si è mai formata. Il soggetto, che crede di trovarsi dinanzi ad un silenzio-assenso, si trova di fronte al nulla. Dopo dieci anni la sua opera non è mai stata condonata, la sua attività è stata sempre abusiva, con tutto quanto ne consegue sul piano delle sanzioni amministrative e delle sanzioni penali.
  Questo è un problema enorme, che è anche abbastanza facile da risolvere. Io mi sono permessa di depositare una proposta di modifica normativa degli articoli 19, 20 e 21 della legge n. 241 del 1990, che incide pochissimo su queste disposizioni. Si tratta di una proposta elaborata nell'ambito di una commissione di studio per la qualificazione della buona amministrazione. Penso che potrebbe essere un buon punto di partenza.
  Per ora lascerei la spazio ai colleghi.

  NICOLA LUPO, Professore ordinario di diritto delle assemblee elettive presso l'Università Luiss Guido Carli. Presidente, grazie anche da parte mia per questo invito molto gradito. Non nascondo un po’ di imbarazzo nel parlare di semplificazione legislativa (mi concentrerei su questo tema), perché è uno di quei casi in cui chi ascolta ne sa sicuramente più di chi parla. Infatti, voi vivete quotidianamente il procedimento legislativo, la situazione dell'ordinamento e le difficoltà dell'attività legislativa.
  Io posso proporre uno sguardo esterno e probabilmente anche un po’ «invecchiato», visto che le mie esperienze su questo tema risalgono a qualche tempo fa. Comunque, ho continuato a studiarlo e proverò a svolgere qualche considerazione. Ho lasciato agli atti anche un documento scritto, che ho terminato qualche giorno fa e che prova a proporre una lettura dell'evoluzione che si è verificata.
  Sul piano della semplificazione legislativa, il bilancio che può essere tratto, almeno a oggi, dopo una ventina d'anni di politiche che si sono proposte l'obiettivo di semplificare l'attività legislativa (si può partire dal 1993, ossia dal momento in cui entrò in vigore la legge n. 537, una delle prime norme in questa direzione, emanata durante il Governo Ciampi, quando il professor Cassese era Ministro per la funzione pubblica), è complessivamente negativo. Gli obiettivi di semplificazione della legislazione che ci si è posti sono in larga parte falliti.
  Eppure, è difficile dire che la sfida va abbandonata o che bisogna smetterla con le politiche di semplificazione legislativa. È una sfida assolutamente necessaria, anche se probabilmente è destinata a conseguire obiettivi limitati, perché le spinte alla complessità e i fattori che devono essere considerati nell'attività legislativa sono inevitabilmente più forti di qualunque politica di semplificazione che possa essere attivata.
  Forse bisogna, un po’ laicamente, entrare nell'ordine di idee che le politiche di semplificazione sono volte a limitare i danni. Occorre quindi abbandonare gli obiettivi palingenetici di riforma complessiva o globale, che chiaramente nessuna istituzione, neanche quella parlamentare, è in grado di fronteggiare, posto che i fattori che spingono verso la complessità sfuggono al controllo delle istituzioni, statali e non solo.
  Eppure, come dicevo, si tratta di una riforma di cui c’è assolutamente bisogno. Lo dico anche e soprattutto considerando che l'Unione europea chiama gli Stati membri a fornire prestazioni nuove. Spesso, anche nei dibattiti politici, abbiamo l'idea che l'Unione europea faccia «saltare» il livello nazionale: è un'immagine profondamente falsa, forse derivante anche da alcuni «padri nobili» dell'europeismo italiano. Il processo di integrazione europea porta invece a una responsabilizzazione, mettendo una contro l'altra le istituzioni degli Stati membri.
  Tra queste istituzioni, ci sono anche quelle che producono leggi. Per esempio, se noi impieghiamo quasi quattro anni per attuare il Trattato di Lisbona sul piano della normativa nazionale, mentre altri ordinamenti ne impiegano di meno, scontiamo questo ritardo in termini di concorrenza Pag. 6tra ordinamenti. Il nostro ordinamento, rispetto alle novità introdotte dal Trattato di Lisbona, paga un handicap, perché per adeguare la normativa interna sono stati impiegati in media tre anni in più rispetto agli altri ordinamenti dell'Unione europea.
  Chiedo scusa per questo inizio un po’ banale. Arriverei sinteticamente alle considerazioni sul procedimento legislativo. Anche su tale tema suonerò forse un po’ fosco: dobbiamo prendere atto del fatto che il procedimento legislativo funzionava in un certo modo fino al 1992-1993. Era basato sull'attività delle Commissioni in sede deliberante o legislativa e consisteva in una partecipazione decisiva del Parlamento alla stesura delle leggi. Da allora ad oggi, non si è trovato un modello alternativo di procedimento legislativo. A mio avviso, questa è la dimostrazione lampante del legame tra evoluzione del sistema politico e caratteristiche del procedimento legislativo.
  Credo che voi sappiate meglio di chiunque altro che anche oggi le degenerazioni cui andiamo incontro, alle quali giustamente il vostro documento di avvio dell'indagine conoscitiva fa riferimento (decreti-legge e leggi di conversione omnibus, maxiemendamenti e questioni di fiducia), non sono altro che la dimostrazione plastica delle difficoltà del sistema politico.
  La struttura omnibus e a voto bloccato di questi provvedimenti ci dimostra tutte le difficoltà cui le coalizioni di maggioranza sono andate incontro in questi vent'anni. Nel procedimento legislativo la ricaduta è evidentemente quella.
  I rimedi tentati sono andati sicuramente nella giusta direzione. Per esempio, faccio riferimento all'esperienza del Comitato per la legislazione, che sicuramente è stata molto significativa, simboleggiando il fatto che le istituzioni parlamentari, e in particolare la Camera dei deputati, assumono la qualità della semplificazione come un obiettivo politico. La Camera ha provato a perseguire tale obiettivo, ma anche in questo caso si è rimasti a metà del guado.
  In questa legislatura si è partiti con una serie di documenti, che hanno posto al centro l'esigenza di ripartire con la riforma del procedimento legislativo. Scontiamo anche il fatto che la mancata riforma del bicameralismo ha fatto da tappo a tutta l'innovazione istituzionale in Italia, in particolare a quella riguardante il procedimento legislativo. La mancanza di una riforma del bicameralismo è stata un'ottima scusa per non innovare il procedimento, e forse anche per legittimare quelle prassi cui facevo riferimento, perché davanti a un bicameralismo di quel tipo, la formulazione da parte dell'Esecutivo di un maxiemendamento si giustifica un po’ di più, specialmente dal punto di vista del Governo.
  Sono andato a rileggere il documento predisposto dagli esperti facenti parte del gruppo di lavoro istituito presso il Quirinale nel marzo dell'anno scorso. Vi si trova un'intera trattazione delle odierne difficoltà del procedimento legislativo, con una serie di rimedi, tra i quali (per citarne uno, agganciandomi al Comitato per la legislazione che menzionavo prima) l'istituzione di un Comitato per la legislazione anche al Senato e l'omogeneità dei progetti di legge.
  C’è un filo conduttore. Il documento della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, che ha operato presso il Governo Letta, riprende alcuni di quei temi. Alcuni di quei temi sono ripresi anche dalla riforma del regolamento della Camera che è in itinere. Mi pare che qualche linea di fondo sulla riforma del procedimento legislativo oggi ci sia e che qualcosa si possa fare, anzitutto su quel piano.
  Accenno rapidamente ad altre due tematiche. La prima è il nodo riguardante testi unici e codificazione. Anche in questo caso, provando a fare un bilancio, seppure in estrema sintesi, è difficile trarre un bilancio positivo. Ciò nonostante, mi pare che qualcosa si stia muovendo. Non a caso, la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali ha ripreso lo spunto elaborato dalla Commissione bicamerale per le riforme presieduta da D'Alema, nel Pag. 7senso di introdurre nella Costituzione una clausola di preferenza per la codificazione, che garantisca una tenuta dei codici approvati, attraverso regole di rafforzamento dei codici nel procedimento legislativo. Mi sembra una misura molto opportuna, che varrebbe la pena provare a perseguire.
  In secondo luogo, ho visto che avete molto approfondito il tema del rinvio, per l'attuazione delle leggi, a provvedimenti attuativi, sempre difficili, tuttavia, da realizzarsi. Anche in questo caso si registra un legame con le difficoltà del sistema politico. Evidentemente, la domanda normativa arriva al sistema politico immatura. L'interesse arriva spesso «nudo» e non «vestito». Il sistema politico, davanti all'interesse, cerca di farlo proprio, ma demanda a tappe successive la sua composizione in sistema e il suo inserimento nell'ordinamento.
  Anche quella è una degenerazione che, a mio avviso, si collega a quelle cui accennavamo sul procedimento legislativo.
  In conclusione, come se ne esce ? La mia sensazione è che il tasso di complessità nei procedimenti normativi in genere sia così elevato che occorre trovare un bilanciamento diverso tra tecnica e politica. Ormai la decisione legislativa è molto più tecnica e molto meno politica. Ovviamente, la decisione deve essere politica (lungi da me l'auspicare una tecnocrazia), ma la politica deve essere tecnicamente molto più consapevole.
  Per poter fare questo, c’è bisogno di un tasso di programmazione e di una capacità di guardare nel medio e lungo periodo molto maggiori di quelli attuali. A quel punto, la politica riesce a governare anche i fattori tecnici. Se invece è schiacciata sulla decisione dell'ultimo momento, è chiaramente vittima del tecnicismo di turno, oppure della superficialità necessaria in quel caso.
  Io trovo che la soluzione più semplice sia l'europeizzazione della programmazione. Noi siamo parte essenziale di un ordinamento, che è grande produttore di norme e di indirizzi e che programma, ossia l'Unione europea.
  Faccio un esempio. Il fatto che il Governo sia dovuto ricorrere allo strumento del decreto-legge per attuare direttive europee è un controsenso assoluto, perché il Governo ovviamente ha concorso ad approvare quelle direttive da anni. Giocare sul fatto che noi sappiamo già moltissimo di quello che avverrà da qui a quattro o cinque anni sul piano della produzione normativa interna (perché conosciamo tutta la parte condizionata dall'Europa), agganciando a questo una programmazione seria, potrebbe consentire un equilibrio tra tecnica e politica molto più soddisfacente e una capacità di incidere e di guardare al medio-lungo periodo, che oggi assolutamente non abbiamo.

  EFISIO ESPA, Docente di economia presso la Scuola Nazionale dell'Amministrazione. Presidente, grazie davvero di questo invito. Vista anche la mole di testimonianze che ci sono state, cercherò di concentrarmi su tre aspetti specifici.
  Il primo riguarda la considerazione, dalla quale probabilmente sono partiti i lavori stessi dalla Commissione, che l'evidente situazione di criticità sul piano della semplificazione amministrativa (cui aggiungerei anche, in maniera più diretta, dei rapporti Stato-imprese) ormai travalica le osservazioni di natura puramente amministrativa e istituzionale, e si traduce in costi veri e propri e in una immagine, anche nel contesto globalizzato, ormai diventata quasi imbarazzante.
  Ho davanti a me alcune semplici elaborazioni di indici, sulla percezione dell'efficacia dell'intervento pubblico, sull'ampio concetto della rule of law e sulla qualità della regolazione della Banca mondiale, secondo i quali siamo – in maniera imbarazzante – di gran lunga agli ultimi posti rispetto ai Paesi con i quali ha un senso confrontarci (Francia, Germania e Regno Unito). Sono tutte informazioni che mi permetterò di trasmettere alla Commissione nei prossimi giorni.
  Aldilà di questi indicatori di percezione, che a volte, essendo costruiti per isole di esperti nazionali, possono anche scontare quello che noi economisti chiamiamo Pag. 8un «bias negativo» degli italiani nei confronti delle regole di funzionamento della propria pubblica amministrazione, abbiamo poi, come è ben noto alla Commissione, una varietà di indicatori molto più puntuali. Questi indicatori vanno dai giorni necessari all'avvio di un'attività produttiva ai permessi di costruzione stimati, fino all'accesso alle forniture elettriche e soprattutto agli obblighi di carattere fiscale che riguardano sia i pagamenti che le procedure necessarie.
  Per questi indicatori, nell'ultimo rapporto Doing business della Banca mondiale, il nostro Paese è al centotrentottesimo posto a livello mondiale. È vero che si tiene conto anche del livello molto elevato delle aliquote legali, ma è anche vero che nei sottoindicatori, che riguardano soprattutto gli obblighi delle aziende nei confronti del fisco, il ritardo è enorme. Questi rapporti circolano molto. Sono tra i pochi segnali concreti che gli investitori internazionali hanno a disposizione, per cui l'analisi puramente amministrativa, procedurale e istituzionale ormai va a tracimare in costi quantificabili.
  Posso fare un esempio: le ore mediamente impiegate da un contribuente italiano per gli obblighi di carattere fiscale sono 269 all'anno, cento ore in più della media dei Paesi OCSE. Basta una piccola stima di quanto vale un'ora per renderci conto di quale perdita in termini di risorse si carichi sul sistema economico nel suo insieme.
  Cito l'ampia offerta di indicatori relativi al funzionamento della nostra pubblica amministrazione, anche per un'altra questione che riguarda alcuni aspetti toccati sia dalla professoressa Sandulli che dal professor Lupo. Se si entra nell'idea (come mi sembra giustissimo) di evitare riforme palingenetiche dell'ordinamento, forse tutta questa serie di indicatori molto puntuali ci offre uno straordinario catalogo di interventi prioritari da realizzare. Ci si concentri sul numero delle procedure di carattere fiscale e sulla rapidità dei rapporti tra contribuente e fisco.
  C’è un aspetto che viene sempre più sottolineato, soprattutto a livello europeo, relativo al modo in cui una pubblica amministrazione deve porsi di fronte ai suoi utenti, che è quello di una maggiore capacità di ascolto. Ascoltare i tecnici delle aziende che, dal loro punto di vista, sono in grado di raccontarci in dettaglio l'inferno procedurale cui spesso vanno incontro, è forse il modo migliore per affrontare molto concretamente singoli aspetti, migliorati i quali, probabilmente, anche l'immagine complessiva del Paese a livello internazionale ne beneficia.
  Il secondo ordine di considerazioni riguarda l'analisi di impatto della regolamentazione (AIR), di cui mi occupo da quattordici anni, cioè dal primo tentativo di introduzione dell'AIR nel nostro ordinamento, nel 2001. Mi limito a queste osservazioni. Il nostro intervento sull'AIR soffre di una maledizione iniziale. Non vorrei semplificare troppo, ma la traduzione della parola inglese regulation in «regolamentazione» ha conseguenze abbastanza pesanti, perché siamo passati da un'impostazione centrata sull'analisi degli oneri e dei benefici a favore delle aziende o contro di esse a un qualcosa che, in linea di principio, tocca a 360 gradi la produzione normativa. Questo francamente è un eccesso di cui nessun Paese si concede il lusso.
  Se si osservano le misure più puntuali adottate negli ultimi anni dal Governo del Regno Unito a proposito della semplificazione dell'attività normativa, riferita specificamente alle piccole e medie imprese, e ancora più specificamente alle microimprese, si scopre che in realtà l'attività di analisi di impatto della regolazione in quel Paese si concentra soprattutto sui rapporti Stato-aziende. Il primo problema è dunque legato al fatto che noi abbiamo interpretato l'AIR come la necessità di valutare ex ante qualsiasi policy il Governo stia pensando di mettere in piedi.
  Fatte salve tutte le considerazioni che sono state svolte autorevolmente di fronte a voi sulle conseguenze negative della decretazione d'urgenza, sottolineo che, se non si esce dall'idea di valutare ex ante la legge, non si riesce nemmeno a concentrarsi su quegli aspetti, magari anche di un Pag. 9decreto-legge, che potrebbero essere più utilmente esaminati a scapito di altri che potrebbero tranquillamente non essere presi in considerazione dall'amministrazione, nel momento in cui la relazione AIR viene associata al provvedimento in essere.
  Sottolineo, da questo punto di vista, una criticità che si osserva in questo momento a livello europeo nei rapporti tra Commissione europea e Parlamento, proprio in relazione all'attività di analisi di impatto. Anche il Parlamento europeo, come a voi è ben noto, si è dotato da due anni di un'unità di valutazione d'impatto. Questa unità di valutazione d'impatto ha un rapporto molto dialettico con il Governo europeo, cioè con le analisi di impatto realizzate dalla Commissione europea.
  Ho l'impressione che una delle tante ragioni della quasi inutilità delle nostre attività di analisi d'impatto sia legata al fatto che l'analisi di impatto è associata al disegno di legge, così come promana dal Consiglio dei ministri, ma ovviamente, poi, in sede di discussione parlamentare, in cui il Parlamento ha tutta la libertà necessaria per introdurre le modifiche che ritiene opportune, l'iniziale analisi di impatto viene inevitabilmente a perdere efficacia e significatività.
  Probabilmente bisogna ragionare anche su un presidio tecnicamente solido a livello parlamentare, che sia in grado di tenere rapidamente conto e di aggiornare l'analisi delle conseguenze attese degli impatti dei provvedimenti. Mi rendo conto che è molto difficile raggiungere tale obiettivo con la posizione della questione di fiducia su maxiemendamenti da parte del Governo.
  Concludo con un'ultima considerazione. Mentre in questi quattordici anni tentavamo, con enorme fatica, di introdurre un po’ di cultura della valutazione all'interno delle nostre amministrazioni, in Europa, da questo punto di vista, è cambiato tutto. Quattordici anni fa l'Unione europea non faceva quasi nulla in termini di analisi di impatto. Credo siano state più di 800 le analisi d'impatto legate a direttive comunitarie.
  La Unit of Impact Assessment della Commissione europea è diventata il terrore delle singole direzioni generali, perché sottopone a un rigorosissimo vaglio tecnico non solo la bozza di direttiva che quella specifica direzione generale ha prodotto, ma anche la stessa analisi di impatto. Adesso, oltre a questo vaglio tecnico molto rigoroso, si aggiunge l'ulteriore verifica da parte del Parlamento.
  Per certi versi, come accennava il professor Lupo, non solo siamo in grado di programmare, ben conoscendo il tipo di programmazione che la Commissione europea realizza sul piano delle sue decisioni di carattere normativo e regolatorio, ma abbiamo anche a disposizione alcuni elementi che ci possono aiutare a ribaltare nel contesto nazionale le conseguenze attese che vengono esplicitate dalla Commissione europea.
  C’è un aspetto che è diventato centrale nel punto di vista della Commissione europea sull'analisi di impatto, che passa sotto il nome di regulatory fitness. È un termine un po’ «da palestra» ma molto efficace. La Commissione europea, ormai da diversi anni, sostiene che, prima di un qualsiasi intervento innovativo sul piano regolatorio, sia necessaria un'analisi a 360 gradi della legislazione di settore, anche per capire bene ciò che è effettivamente necessario dal punto di vista dell'innovazione normativa, evitando quelle che, con un termine un po’ infelice, noi chiamiamo «eccessive turbolenze normative».

  GIULIO VESPERINI, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università della Tuscia. Mi limiterò a svolgere alcune considerazioni molto rapide, riservandomi di inviare in mattinata stessa alla segreteria della Commissione il testo più ampio che ho predisposto in occasione di questa audizione.
  Le considerazioni che vorrei fare riguardano le tendenze delle politiche più recenti sulla semplificazione amministrativa. Concordo con il professor Lupo, che ha riferito le sue considerazioni sulle politiche di semplificazione legislativa, datandole al 1993. Le politiche di semplificazione Pag. 10amministrativa possono datarsi a qualche anno prima, ovvero a partire dalla legge n. 241 del 1990. Siamo in un arco di tempo sostanzialmente coincidente. La storia delle politiche di semplificazione in questi anni è stata ricostruita numerose volte. Io, come dicevo, voglio limitarmi ad alcune rapide considerazioni sulle tendenze più recenti, sui problemi, sulle novità e sulle prospettive che queste tendenze pongono.
  Innanzitutto, come avveniva nel passato, continuano ad esserci troppe norme che parlano di semplificazione. Questi che sto per riferirvi sono calcoli che ho elaborato io, e quindi prendeteli con beneficio d'inventario. Credo comunque che diano un'idea. Nel solo 2013 il Governo e il Parlamento hanno adottato complessivamente ventuno misure di semplificazione amministrativa (più di una e mezza al mese). Nella scorsa legislatura se ne contano una quarantina, quindi circa otto all'anno. Oltre ad essere abbondante, la legislazione muta rapidamente.
  Parlavo prima della legge n. 241 del 1990, la norma con la quale sono stati introdotti, in termini generali, i principi sulla semplificazione. Questa legge, nel corso della passata legislatura, ha subìto 53 modifiche, che hanno toccato oltre un terzo dei suoi articoli, e altre cinque modifiche riguardanti altrettanti articoli si sono aggiunte nel corso di questa legislatura.
  A ciò aggiungo che l'espansione normativa non ha riguardato solo lo Stato. Fra il 2005 e il 2012, per esempio, sedici regioni hanno approvato norme generali di semplificazione, alle quali si aggiungono numerose norme settoriali.
  Questo offre alla nostra attenzione un paradosso: la normativa sulla semplificazione soffre della stessa patologia di ipertrofia dalla quale è affetta la produzione normativa nel suo complesso. Da un lato, come molti hanno sostenuto in modo autorevole nel corso delle audizioni di fronte a questa Commissione, la complicazione amministrativa ha tra le sue cause più importanti proprio la legislazione alluvionale, caotica e frammentaria. Dall'altro lato, la medicina somministrata per curare la malattia contiene lo stesso virus che, secondo il comune sentire, è alla base dell'insorgenza della malattia stessa.
  Naturalmente, si può ragionare sulle cause di tale situazione. Indico solo alcune di quelle che, a mio avviso, sono le cause, che sono di tre tipi. Innanzitutto, credo che la grande quantità di misure sulla semplificazione sia un indizio del fallimento di quelle precedenti. Se la diagnosi è corretta, però, è discutibile il rimedio, perché si presuppone che il problema non riguardi l'applicazione delle norme, ma si possa risolvere aggiungendone di nuove. Queste, spesso, si rivelano inefficaci e sollecitano l'adozione di altre leggi. Oltre a non produrre risultati tangibili ai fini dell'obiettivo prefissato, l'eccesso di regole – come affermava molto bene la professoressa Sandulli a proposito di una delle norme chiave della semplificazione – determina incertezza e disorientamento in quanti devono interpretare e applicare la legge.
  La seconda ragione è legata al fatto che la semplificazione amministrativa è parte integrante delle politiche per il contenimento della spesa e per la crescita economica. Il presupposto dal quale si muove è che un'amministrazione che è organizzata e agisce in modo semplice reca vantaggi non solo ai cittadini e alle imprese, ma anche alle finanze pubbliche. È un legame che ha ormai radici risalenti, che è stato introdotto per la prima volta nella legge che citava il professor Lupo, la legge n. 537 del 1993, legge collegata alla sessione di bilancio del Governo Ciampi, ma, come è a voi ben noto, si consolida negli anni successivi. Se si scorre l'elenco delle misure, anche recenti, adottate per affrontare la crisi economica e finanziaria, si vede che molto spesso al loro interno sono contenute misure di semplificazione.
  Una terza ragione è quella delle cosiddette «leggi-manifesto», adottate più per ottenere consenso e meno per essere applicate. Mi ha colpito molto la tabella consegnata, nel corso delle audizioni svolte, da Confindustria, nella quale l'elenco dei tanti provvedimenti attuativi Pag. 11delle leggi di semplificazione adottate dal 2008 al 2013, che sono ancora da adottare, occupa ben undici pagine.
  La seconda tendenza è che si complica più di quanto si semplifica. Si potrebbe pensare che ci sono tante leggi e che, seppure in modo confuso e contraddittorio, il tasso di semplificazione dei procedimenti e dell'organizzazione amministrativa probabilmente è cresciuto in modo molto significativo. Non c’è dubbio che in questi anni si siano prodotti una serie di effetti positivi, ma, al tempo stesso, un'analisi attenta della legislazione dimostra che le misure di complicazione sono più numerose di quelle di semplificazione. Questo è il secondo paradosso.
  Io non dispongo di dati recenti al riguardo. Faccio un piccolo passo indietro: tra il 1994 e il 2008 ho lavorato, insieme ad altri colleghi, in un osservatorio sull'attività dei Governi, con la finalità di verificare i risultati ottenuti dai Governi stessi su una serie di politiche, tra le quali quelle di semplificazione. Fornirò solo un dato, in modo molto semplificato: in questi quindici anni sono state censite 5.868 misure di semplificazione e 6.655 di complicazione. Per ogni misura di semplificazione adottata, ce n'erano quindi 1,2 che complicavano l'amministrazione.
  Avendo tempo, potremmo discutere ed entrare nel dettaglio di questi dati. Comunque, si evidenzia un problema serio delle politiche di semplificazione, una sorta di schizofrenia tra una costante, e forse eccessiva, attenzione riposta verso l'adozione di nuove norme di semplificazione e una disattenzione, altrettanto costante nel tempo, per un governo complessivo delle politiche di semplificazione stesse. Quello che viene fatto da una mano sembrerebbe essere disfatto dall'altra.
  Finora ho parlato di regolamentazione sulla semplificazione, però nella normativa più recente è prevista una pluralità di vie amministrative alla semplificazione. Si è formata una sorta di amministrazione della semplificazione, fatta di un complesso di organismi che ne assumono la cura e di una pluralità di funzioni amministrative preordinate agli obiettivi che quella politica si pone.
  La semplificazione amministrativa, quindi, non viene più concepita solo come un obiettivo che possa essere raggiunto prevalentemente attraverso norme, ma si prevede l'esercizio di una pluralità di funzioni pubbliche (pianificazione, concertazione, valutazione, supporto e formazione del personale) e si impone alle amministrazioni una serie di obblighi che prima non erano previsti: si tratta di un cambiamento importante, che si produce non per svolte improvvise ma per effetto di una serie di aggiustamenti successivi.
  Va detto, però, che il passaggio a questo approccio più marcatamente amministrativo delle politiche di semplificazione costituisce un fatto recente, tutt'altro che consolidato, che deve trovare una sistemazione adeguata e che, come ho appena detto, affianca ma non sostituisce un approccio fortemente orientato alle norme.
  La considerazione successiva riguarda la dimensione conoscitiva delle politiche di semplificazione. C’è un'importante tendenza innovativa che si manifesta in questi anni, quella che posso definire «lo sviluppo della dimensione conoscitiva delle politiche di semplificazione».
  Risparmio i cenni sugli antecedenti dal punto di vista storico di questa dimensione. Mi limito semplicemente a ricordare che si va diffondendo una tecnica di indagine sui gravami connessi all'attività amministrativa, consistente nella misurazione degli oneri amministrativi, che permette di acquisire la conoscenza dei punti di maggiore problematicità dell'azione amministrativa, dei maggiori oneri che essa comporta a carico di cittadini ed imprese e, su questo, impostare interventi di semplificazione vera e propria. Alle spalle di un intervento di semplificazione c’è quindi un'attività complessa di raccolta, sistemazione ed elaborazione dati, che a sua volta implica l'intervento di una pluralità di soggetti.
  Un'altra tendenza è la dimensione policentrica delle misure di semplificazione. A differenza di quanto avveniva quindici o Pag. 12venti anni fa, oggi le politiche di semplificazione non sono più solamente statali, ma interessano anche le regioni, da un lato, e l'Unione europea, dall'altro.
  Per quanto riguarda le politiche regionali e locali, è interessante notare come il rapporto tra Stato e autonomie regionali e locali su questo punto si è sviluppato lungo varie linee, per esempio una serie di accordi tra Stato, regioni e autonomie locali per coordinare e programmare questa o quell'attività di semplificazione, l'istituzione di tavoli misti e la replica che a livello regionale si è fatta di alcune tecniche usate a livello statale, come quelle di misurazione e riduzione degli oneri amministrativi.
  C’è un bilanciamento complesso, sulla base della normativa costituzionale del 2001, per cui da un lato gli spazi per una politica di semplificazione per regioni e autonomie locali sembrerebbero essere aumentati; dall'altro lato lo Stato ha fatto spesso ricorso alla riserva costituzionale per la determinazione dei livelli minimi di prestazioni, per estendere la propria disciplina anche al fine di semplificare procedimenti regionali e locali.
  Dell'europeizzazione hanno già parlato i colleghi, in particolare il professor Espa e il professor Lupo, quindi sull'argomento non torno, però osservo che si tratta di un altro aspetto di questa dimensione policentrica.
  Per quanto riguarda la partecipazione dei privati, c’è una tendenza recente a un maggior coinvolgimento dei privati nelle politiche di semplificazione. Nella retorica delle politiche di semplificazione amministrativa è costante l'affermazione secondo la quale si tratta di politiche a tutela dei cittadini e delle imprese. L'elemento nuovo che emerge in questi anni è lo sviluppo delle misure di partecipazione congegnate in vario modo.
  Penso, per esempio, alle linee guida per la predisposizione dei piani per la riduzione degli oneri amministrativi, elaborate dal Dipartimento della funzione pubblica nel 2009, che prevedono che per ciascun piano si costituisca un tavolo di monitoraggio, formato, oltre che dai rappresentanti dell'amministrazione, del Dipartimento della funzione pubblica, dell'Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione, anche da membri degli organismi di rappresentanza degli interessi economici e sociali e delle associazioni di tutela dei cittadini.
  Si è parlato, anche nel corso di questa audizione, della consultazione che il Dipartimento della funzione pubblica ha svolto sulle cento procedure più complicate da semplificare. Norme più recenti attribuiscono ai privati, inoltre, nuovi strumenti di tutela contro i ritardi dell'amministrazione e contro la mancata osservanza delle misure di semplificazione da parte delle amministrazioni.
  L'ultimo aspetto interessante riguarda il modo in cui si conforma un'organizzazione di governo delle politiche di semplificazione. Si potrebbe pensare che se le politiche si stabilizzano e si articolano in modo crescente nel corso del tempo, diventi ancor più necessario disporre di un apparato di governo che provveda a guidarne gli sviluppi. In questi ultimi anni si registra una forte instabilità negli apparati di governo preposti a queste politiche e un frequente mutamento degli strumenti dei quali essi si avvalgono.
  Ricordo rapidamente i passaggi essenziali di questa vicenda. Innanzitutto si è registrata un'oscillazione continua tra un modello imperniato sulla formazione di un governo centrale della politica di semplificazione, in genere basato su Palazzo Chigi e Palazzo Vidoni, e un altro modello che fa leva invece sulla responsabilizzazione delle singole amministrazioni, dilemma ancora non risolto.
  In secondo luogo, il polo di governo centrale delle politiche stesse è a sua volta poco chiaro. Non solo, come ho già accennato, le competenze si dividono tra Dipartimento della Funzione pubblica e Presidenza del Consiglio, ma nel corso del tempo si sono andati aggiungendo altri organismi. Ad esempio, il Comitato interministeriale per l'indirizzo e la guida strategica delle politiche di semplificazione, previsto in una legge del 2006; nell'ultimo Pag. 13Governo Berlusconi, inoltre, fu nominato un apposito Ministro per la semplificazione normativa.
  Il terzo aspetto è legato al fatto che muta la considerazione prestata al ruolo degli esperti. Nel 1999 venne istituito un nucleo per la semplificazione, composto di venticinque esperti, che però nel 2002 venne soppresso. Nel 2006, a supporto di quel comitato interministeriale che ho ricordato poco fa, venne istituita un'unità per la semplificazione, composta di 20 esperti, ma nel 2008, con il nuovo Governo, sono mutate sostanzialmente la qualità e la composizione di questa unità. Proliferano invece gli incarichi a singoli esperti, ma sull'attività da essi svolta non si dispone di un quadro d'insieme.
  In conclusione, abbiamo un'organizzazione di governo delle politiche di semplificazione che si va sviluppando, ma ciò avviene in modo caotico e turbolento. Questo naturalmente osta alla stabilizzazione di culture, di professionalità, di indirizzi e di tradizioni.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MINO TARICCO. Io vorrei porre un quesito. Innanzitutto, vi ringrazio per lo spaccato che ci avete fornito e per le novità prospettate rispetto a quanto ci è stato riferito nel corso delle audizioni. Mi pare che un tratto comune dei vostri interventi sia il suggerimento di evitare di credere di poter trovare soluzioni miracolistiche e di concentrarsi sulle poche cose che si possono fare.
  Inoltre, ci avete offerto uno spaccato su alcune questioni. Nel corso delle audizioni svolte mi sono convinto, invece, che ci siano alcuni nodi di fondo, che probabilmente sono anche alla radice di molte delle situazioni nelle quali ci troviamo. Cito due questioni che sono emerse e su cui mi piacerebbe ascoltare il vostro parere.
  La prima questione è legata al fatto che noi non abbiamo soltanto una legislazione molto complicata, polverizzata e atomizzata in 30.000 rivoli, con 30.000 attori che giocano in 30.000 campi (che di per sé è già un problema), ma abbiamo anche una legislazione che muta con la velocità della luce. Io a volte provo a mettermi nei panni di chi opera in uno studio professionale di consulenza. Sarà un divertimento fantastico: tutte le settimane devono riaggiornare tutto, perché sostanzialmente è cambiato tutto.
  Bisogna immaginare interventi normativi che «intervengano» sui presupposti di fondo. Voi citavate il fatto che l'incedere dei percorsi normativi a livello comunitario ha una sua struttura molto programmata e strutturata. Probabilmente occorre svolgere una seria riflessione sulle modalità con cui ciò avviene.
  Mi viene in mente un'idea: potremmo immaginare una norma costituzionale che stabilisca che nessuna norma può entrare in vigore prima di sei mesi dalla sua emanazione, il che costringerebbe ad una programmazione. Non è possibile che la notte del 31 dicembre di tutti gli anni stabiliamo le regole che cominciano a valere dal primo gennaio dell'anno seguente.
  La mia proposta è un po’ provocatoria. Si potrebbe elaborare una norma costituzionale che preveda che le norme che devono entrare in vigore dal primo gennaio dell'anno seguente non possono essere emanate dopo il 30 giugno, perché le norme entrano in vigore sei mesi dopo. Mi riferisco, ad esempio, a tutte le norme che hanno una ricaduta in termini di modifica di norme fiscali. Occorre una norma che costringa il legislatore a non immaginare di inventarsi una norma da applicare dall'oggi al domani, perché ovviamente tutto questo trascina dietro di sé, a catena, numerose conseguenze pratiche. Si potrebbe immaginare di inserire nella Costituzione una norma che stabilisca, ad esempio, che i codici si possono modificare soltanto in sessioni specifiche di modifica e non sono modificabili con legge ordinaria.
  Non sto qui a farvi l'elenco delle considerazioni che in questo percorso, almeno a me, hanno suscitato elementi di riflessione. Pag. 14Visto che il vostro approccio è stato esattamente antitetico a questo, vorrei sapere se, a vostro avviso, affrontare alcune questioni da tale punto di vista sia un delirio di follia di una persona convinta di poter ancora cambiare il mondo, oppure una riflessione sulla quale valga la pena ragionare.

  GIORGIO PAGLIARI. Grazie dell'audizione. Io credo che, se si vuole, si deve affrontare radicalmente il problema, altrimenti si rischia di rimanere sempre e comunque nella stessa situazione. Si tratta di problemi che devono essere risolti prima sul piano legislativo e poi anche sul piano dell'impostazione della legislazione amministrativa.
  Se non troviamo un sistema per semplificare il quadro normativo attuale in chiave di ricostruzione del quadro stesso e, su questa base, non troviamo una regola per una ordinata legislazione successiva, non avremo mai neanche la possibilità di controllare ciò che facciamo. Il fenomeno, che i professori hanno illustrato, della sovrapposizione di norme spesso in contraddizione oppure incomprensibili, continuerà ad esistere, se non si modifica il contesto nel quale si deve legiferare.
  Ritengo sia ottima l'idea dei codici, che è l'idea dei testi unici e dei riferimenti per materia precisi, che comportano una modifica del codice, lasciando quindi inalterato il quadro di riferimento.
  Prima di arrivare all'emanazione del provvedimento, si potrebbe svolgere una valutazione preventiva di organicità di quanto inserito nel testo, quello che in Parlamento è, da un lato, il drafting e, dall'altro, il coordinamento alla fine del procedimento legislativo.
  Sempre sul piano dell'attività legislativa (ma questo è un compito che riguarda più la politica) si pone il tema che ha sollevato la professoressa Sandulli: porsi la questione di un chiaro riparto tra la scelta politica e la scelta tecnica, soprattutto nel senso di svolgere una valutazione preventiva degli effetti di strumenti o di fattispecie che si introducono nell'ordinamento.
  Quelle sulla SCIA e sul silenzio-assenso sono considerazioni sacrosante. Verificare l'impatto dell'introduzione della SCIA, ma soprattutto del silenzio-assenso, sarebbe stata una valutazione importantissima. Peraltro, l'introduzione di tali fattispecie, con tutta evidenza, fa i conti con la realtà delle pubbliche amministrazioni. Questo è un altro tema. Nonostante i successivi passi di modifica della legislazione relativa, quante volte si incontra un'amministrazione che nega il silenzio-assenso, che contesta che questo sia intervenuto e quindi, sulla base di questa normativa, crea un quadro di complicazione e non di semplificazione ?
  Sul piano della legislazione di semplificazione amministrativa, io rimango convinto dell'idea che il legislatore debba scegliere quale modello di amministrazione vuole. Se usciamo decisamente dal modello dell'amministrazione ottocentesca e ci collochiamo nel modello dell'amministrazione del controllo successivo, apriamo lo spazio ad una vera semplificazione e ci poniamo il problema della capacità dell'amministrazione di esercitare efficacemente il controllo successivo.
  Parlare di controllo preventivo vorrebbe dire che la massima parte delle attività (è chiaro che non potrebbe essere una regola totalmente generalizzata) potrebbe essere iniziata a seguito della presentazione di una pura domanda. Di conseguenza, tutte le questioni relative ai ritardi per ottenere le autorizzazioni verrebbero radicalmente rimosse. Ovviamente, dovrebbero essere applicate le opportune cautele e qualche eccezione, ma io credo che una misura così radicale sia l'unica che darebbe il quadro in cui far operare la semplificazione.
  Comunque, se non ci si vuol muovere in questa direzione, è chiaro che bisogna almeno riflettere sull'introduzione di princìpi generali più organici in materia di semplificazione e vedere se tale semplificazione, una volta fissati i princìpi generali, anziché passare dalla legislazione, possa passare dalle autonomie locali.

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

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  MARIA ALESSANDRA SANDULLI, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università degli Studi Roma Tre. Comincio dalle ultime osservazioni. Ho un po’ paura di lasciare una realtà così importante in mano alle autonomie locali.
  La codificazione è sicuramente uno strumento importante e valido e sarebbe opportuno che le norme contenute nelle leggi quadro, nei testi unici e nei codici non siano modificabili con lo strumento normativo ordinario. Noi facciamo davvero una fatica mostruosa per individuare le disposizioni applicabili, pur essendo persone che lavorano nel campo. Figuriamoci quanta fatica facciano le persone normali, che non sono giuriste e che non sono abituate a compiere tali operazioni.
  A mio avviso, partiamo da un errore di fondo: la delega correttiva. Lavorando alla codificazione (mi è capitato di farlo alcune volte), mi è sembrato allucinante scrivere una norma con l'idea di modificarla eventualmente l'anno successivo. L'approccio della precarietà alla norma è sbagliato, perché intanto c’è qualcuno nei confronti del quale la norma stessa viene applicata.
  Temo che non risolverebbe la situazione neanche pensare che le norme si applichino dopo sei mesi. Direi, piuttosto, che occorre far sì che, una volta che l'organismo politico ha dato le sue direttrici, le norme siano vagliate da tecnici e non siano modificate dopo l'approvazione con la «scusa» del drafting, con l'inserimento al loro interno di norme di ogni tipo che, come sappiamo tutti benissimo, possono modificare completamente il portato di alcune disposizioni.
  Ad esempio, in ciascuno dei decreti cosiddetti Sviluppo Italia o Crescitalia relativi alla liberalizzazione delle attività, erano contenuti riferimenti come «fatto salvo quanto previsto dall'articolo 3», ma in seguito erano inserite norme che prevedevano esattamente il contrario. È questo che bisogna evitare. Una volta impostata un'ipotesi normativa, bisogna forse stabilire che Commissioni stabili (a mio avviso preferibili rispetto a Commissioni individuate di volta in volta), composte da tecnici, più o meno volontari, svolgano un minimo di controllo sulla leggibilità della norma: basterebbe questo.
  A mio avviso non è opportuno stabilire che la norma entra in vigore solo dopo sei mesi, ma piuttosto che non può disciplinare ex novo, cambiando completamente la normativa, situazioni nelle quali si applicavano criteri completamente diversi fino a un giorno prima. Io auspicherei piuttosto una graduazione degli effetti. A volte gli effetti possono essere opportuni anche un giorno dopo; altre volte un po’ meno. Occorre dare un senso di minor precarietà. È giusto crederci, però bisogna cercare il sistema migliore per farlo.

  NICOLA LUPO, Professore ordinario di diritto delle assemblee elettive presso l'Università Luiss Guido Carli. Prima di rispondere alle domande poste, ne approfitto per chiarire il senso del mio pensiero, che purtroppo non è stato molto chiaro, per mia responsabilità.
  Lungi da me dire che non bisogna volare alto. L'approccio al tema della semplificazione, soprattutto legislativa, richiede la capacità di avere una visione complessiva, non fermandosi alla micro-operazione. La mia era semplicemente una forma di cautela: volevo dire «evitiamo di avere ambizioni di riordinare il mondo».
  Qualche volta si è arrivati addirittura ad ipotizzare strumenti molto innovativi, tendenzialmente d'applicazione generale, magari non molto sofisticati tecnicamente e non molto condivisi, neppure a livello tecnico.
  L'esempio più macroscopico, a mio avviso, è quello dei testi unici misti, composti da disposizioni legislative e regolamentari (ai sensi dell'articolo 7 della legge n. 50 del 1999). Si è creato un meccanismo nuovo, senza che ci fosse neanche la condivisione a livello tecnico che quello strumento fosse idoneo a raggiungere lo scopo. Infatti, dopo l'emanazione di sette testi unici misti, non ne sono più stati emanati e si è fatta una marcia indietro, che evidentemente ha creato più danni che altro.Pag. 16
  Lo stesso, con qualche cautela in più, si può dire anche sull'operazione «taglia-leggi», probabilmente pensata con un obiettivo condivisibile e con incentivi non distribuiti male, però tecnicamente non abbastanza meditata. Successivamente questa operazione è stata rimeditata dal legislatore, che è tornato sul tema più volte, anche alterando il disegno originario in modo decisivo e non soddisfacente, per esempio applicando il meccanismo dei decreti legislativi correttivi, cui faceva riferimento la professoressa Sandulli e che io non trovo così negativi, se applicati in modo corretto. Tutto sommato, è un modo per restare nell'ambito dei princìpi della delega e assestare «microelementi» della disciplina. Quello stesso meccanismo, applicato invece al taglia-leggi, diventa chiaramente eversivo, in quanto vanifica l'obiettivo dello strumento che è stato posto in essere.
  A me sembra sia necessario disegnare strumenti idonei, in maniera meditata e tecnicamente attrezzata. Perciò, come dicevo, occorre che sia la politica sia la tecnica condividano uno stesso obiettivo.
  In questo senso, capisco la ratio della proposta volta a stabilire che tutte le leggi entrano in vigore sei mesi dopo. Spesso si sente parlare di un'altra provocazione, quella di «far tacere» per un anno il legislatore: la comprendo, però chiaramente è impensabile che il legislatore non sia in condizione di approvare una legge che entri in vigore a strettissimo giro per fronteggiare un'emergenza (vi sono tante emergenze reali), o che per un anno il legislatore faccia altro che approvare leggi. I bisogni di normazione, infatti, sono oggettivi. Basti pensare alla «drammaticità» in ogni ipotesi di rinvio di qualche giorno per consentire un'ulteriore lettura presso la Camera o presso il Senato, che voi vivete meglio di chiunque altro. Io andrei molto cauto nel pensare a strumenti ben costruiti.
  In qualche modo questa volatilità della legislazione, cui giustamente fate riferimento, è anche frutto del procedimento legislativo. Guardiamo piuttosto a quello. I maxiemendamenti, in realtà, non producono effetti negativi solo perché contengono numerosi commi e quindi sono difficili da leggere, ma anche perché alterano profondamente il procedimento di formazione della legge. Le norme contenute in quella disposizione, infatti, non sono volute, perché non sono frutto della volontà della maggioranza. È chiaro chi ha voluto tutto il pacchetto, ma non è chiaro chi ha voluto quella singola disposizione e non si sa neanche ricostruirne il meccanismo.
  In questo modo si producono norme che non hanno né padre né madre e non sono state pensate in maniera adeguata. A quel punto, vengono ripensate a breve, non sono applicabili, sono in contrasto con il diritto dell'Unione europea, sono incostituzionali e violano le competenze regionali.
  Allora, piuttosto che pensare a rimedi sul post-emanazione, pensiamo a rimedi che facciano funzionare bene il procedimento legislativo, che da vent'anni non funziona. Forse questo produrrà qualche effetto positivo.

  EFISIO ESPA, Docente di economia presso la Scuola Nazionale dell'Amministrazione. Io prendo alla lettera la provocazione e ne colgo un aspetto molto importante. Spesso quella estrema volatilità delle regole cui accennava il professor Vesperini si ripercuote nell'ambito di destinazione delle regole, che io identifico innanzitutto (semplificando) nello sterminato universo di circa 4 milioni di aziende del nostro Paese, che sono 1,5 milioni in più di quelle tedesche, con tutti i problemi che conosciamo in termini di polverizzazione, ma anche di capacità di reazione, come si intravede anche in questa fase così difficile.
  L'idea di dare un periodo di respiro, ai fini dell'assorbimento del cambio di regole, onestamente mi sembra sia non solo una provocazione, ma, quantomeno in alcuni ambiti (penso, ad esempio, a quello tributario), un elemento di grande buonsenso.
  Non saprei valutare se occorre stabilire un principio costituzionale, ma sono convinto che in alcuni casi l'estrema instabilità, con i costi associati agli oneri di Pag. 17compliance e agli oneri amministrativi in senso lato, possa essere meglio parata dalle aziende con un adeguato periodo di preparazione. È chiaro che soluzioni di questo tipo non risolvono il problema a monte della qualità delle regole.
  Se mi è consentito, torno sulla questione dell'analisi di impatto della regolamentazione, perché molte testimonianze che voi avete ascoltato hanno sottolineato la necessità che l'analisi di impatto si collochi molto a monte del processo decisionale. È chiaro che se le amministrazioni, come spesso accade, riempiono un modulo, è fondamentalmente una razionalizzazione ex post di una decisione già assunta.
  Gli esempi migliori di AIR, che sono molto generalizzati al di fuori dei confini del nostro Paese, sottolineano che queste attività e i costi ad esse associati hanno un senso se il legislatore viene messo in condizione di avere a disposizione una pluralità di informazioni e di elementi di analisi che gli consentono di calibrare meglio il proprio intervento.
  Svolgo un'ultima considerazione, che prende spunto dall'audizione molto interessante del consigliere Alessandro Pajno, circa l'appesantimento delle regole, come spesso accade, ad esempio, in occasione del recepimento di una direttiva comunitaria. Il consigliere Pajno faceva riferimento soprattutto al codice degli appalti. Segnalo che la Commissione europea, nella riflessione ancora in fieri sul regulatory fitness, stima che oltre un terzo degli oneri amministrativi che si scaricano su cittadini e aziende deriva dalle modalità di recepimento delle direttive comunitarie.
  Probabilmente, serve una maggiore attenzione anche in quello che apparentemente sembra essere un aspetto quasi automatico, ovvero una regola scritta a livello europeo che poi deve trovare attuazione nei singoli Stati membri dell'Unione.
  Resta da capire – confesso che io non l'ho ancora capito – perché, quasi geneticamente, a tutti i livelli istituzionali, costruiamo barriere regolamentari che, come vi accennavo, risultano essere superiori a quelle di qualsiasi altro Paese. Forse lo facciamo perché siamo schiavi di una sorta di sospetto preventivo nei confronti dei soggetti destinatari delle regole.
  Anche negli altri Paesi esistono le autorizzazioni preventive. I permessi di costruzione non sono regalati dalle amministrazioni, ma sono costruiti su tempi e procedure che consentono a un'azienda di avere più certezze e di avere tempi di risposta da parte dell'amministrazione molto più brevi rispetto ai nostri.

  GIULIO VESPERINI, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università della Tuscia. Aggiungo pochissime considerazioni. Quanto affermava l'onorevole Taricco è sicuramente molto interessante.
  A me, in generale, preoccupa aggiungere nuove norme. Lo si è capito da ciò che ho detto. Io capisco lo spirito di provocazione, però nutro una preoccupazione ancora più forte verso norme costituzionali che determinerebbero un elemento di scarsa flessibilità.
  Detto questo, aldilà dello strumento, a me pare che quanto affermato dall'onorevole Taricco colga due problemi: da un lato, vi è il problema di evitare la continua normazione e, dall'altro, vi è la necessità di una programmazione più ragionevole dell'azione normativa.
  Io pongo un problema: su entrambi questi punti il Parlamento e il Governo hanno già assunto le loro posizioni. Per quanto riguarda il Governo, in una direttiva si impegnò a predisporre all'inizio di ogni anno un'agenda dei provvedimenti normativi, per consentire una sorta di programmazione del proprio lavoro di iniziativa normativa, limitatamente a ciò che si ritenga programmabile. È passato quasi un decennio e non si ha traccia di questa agenda normativa.
  Il decreto-legge n. 69 del 2013, convertito nella legge n. 98 del 2013, prevede esattamente ciò che l'onorevole Taricco ipotizzava potesse essere spostato a livello costituzionale, e cioè che gli atti normativi del Governo fissano una data di decorrenza dell'efficacia degli obblighi amministrativi Pag. 18introdotti a carico di cittadini e imprese al primo luglio o al primo gennaio successivi alla loro entrata in vigore, fatta salva la sussistenza di particolari esigenze di celerità. Vi è quindi una serie di strumenti che gli organi supremi dell'ordinamento costituzionale italiano hanno già previsto.
  Si riesce a capire perché si stenta a tradurre in pratica queste proposte, che sono assolutamente condivisibili ?
  Relativamente alla seconda osservazione, ho accennato alla dimensione conoscitiva della politica di semplificazione. Naturalmente l'alto profilo dell'indagine che voi state concludendo darà un contributo molto importante al fine di tracciare un quadro complessivo dello stato delle politiche di semplificazione.
  Questa dimensione conoscitiva, che naturalmente io riferivo all'amministrazione, a mio avviso è in grado di dare una spinta formidabile alla vera semplificazione.
  In varie circostanze ho seguito lo sviluppo delle politiche di semplificazione. Se dovessi dire dove si è fatta la semplificazione negli ultimi cinque o sei anni, io individuerei il Dipartimento della funzione pubblica, e in particolare l'Ufficio per la semplificazione amministrativa, che, attraverso l'attività di misurazione degli oneri amministrativi, cioè di ricognizione dei costi connessi all'attività amministrativa, e nel successivo intervento di correzione, ha ottenuto dei risultati. Sul sito del Dipartimento della funzione pubblica questi risultati sono stati quantificati.
  A mio avviso, ovviamente, le norme sono importanti e fare un lavoro di aggiustamento e di razionalizzazione del quadro normativo sulla semplificazione è sicuramente altrettanto importante, ma la partita vera si gioca nel governo delle politiche di semplificazione in quanto tali, nella coerenza – e quando il Governo dice che intende predisporre un'agenda normativa e poi non lo fa non è coerente – e, come affermava il professor Espa, nell'analisi d'impatto della regolamentazione.
  Sappiamo da anni che si predispongono troppe AIR, ma esse sono poco incisive. Questo disperde le energie e non consente di concentrarsi sugli aspetti più importanti. Si svolge poca valutazione d'impatto della regolamentazione (VIR), cioè poca analisi successiva, mentre l'Unione europea sta ormai imperniando tutta la sua politica sulla valutazione successiva delle misure e della loro efficacia.
  Se fossi chiamato a dire cosa si può fare oggi, io privilegerei questo aspetto. Come diceva il professor Lupo, non abbiamo bisogno di mettere a tacere il legislatore, ma abbiamo bisogno di un legislatore che si preoccupi di rimettere a punto i riferimenti essenziali e di un Governo e di un'amministrazione che invece siano chiamati a lavorare con grande lena su questi temi.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro chiusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.35.

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