XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza

Resoconto stenografico



Seduta n. 24 di Martedì 9 maggio 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Zampa Sandra , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA SALUTE PSICOFISICA DEI MINORI

Audizione del professor Federico Bianchi di Castelbianco, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO).
Zampa Sandra , Presidente ... 3 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 3 ,
Zampa Sandra , Presidente ... 8 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 8 ,
Zampa Sandra , Presidente ... 11 ,
Prina Francesco (PD)  ... 11 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 11 ,
Prina Francesco (PD)  ... 11 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 12 ,
Prina Francesco (PD)  ... 12 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 12 ,
Prina Francesco (PD)  ... 12 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 12 ,
Prina Francesco (PD)  ... 12 ,
Zampa Sandra , Presidente ... 12 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 12 ,
Prina Francesco (PD)  ... 14 ,
Lupo Loredana (M5S)  ... 14 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 14 ,
Lupo Loredana (M5S)  ... 14 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 15 ,
Zampa Sandra , Presidente ... 15 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 15 ,
Zampa Sandra , Presidente ... 15 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 15 ,
Lupo Loredana (M5S)  ... 15 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 16 ,
Blundo Rosetta Enza  ... 16 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 16 ,
Blundo Rosetta Enza  ... 16 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 16 ,
Zampa Sandra , Presidente ... 18 ,
Bianchi di Castelbianco Federico , Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) ... 18 ,
Zampa Sandra , Presidente ... 18

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE
SANDRA ZAMPA

  La seduta comincia alle 13.15.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.

  (Così rimane stabilito).

Audizione del professor Federico Bianchi di Castelbianco, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professor Bianchi di Castelbianco, direttore generale dell'Istituto di Ortofonologia (IDO), che peraltro segue con grande passione e dedizione i temi della salute dei minori. Ci siamo conosciuti tanti anni fa e io già lo conoscevo in questa veste.
  Se non vado errata, tra l'altro, ha un'attività collaterale: la pubblicazione di un periodico on line che riguarda l'infanzia, su cui credo molte volte ritroverete cose che voi stessi avete dichiarato, nel senso che segue molto l'attività dei parlamentari. Si chiama «Dire minori».
  Prima di dare la parola al professor Bianchi di Castelbianco, vorrei informarvi che stiamo concludendo ormai questa lunga e molto impegnativa indagine conoscitiva. Abbiamo già nominato i relatori che seguiranno il documento su tutta la parte dell'oncopediatria e delle cure palliative. Io mi auguro di vedere presto avviato anche il documento che riguarda una precedente indagine conoscitiva sulle comunità di accoglienza. Prima che diventi vecchio, occorre farlo, perché il tempo rende obsoleto anche quello che ancora non abbiamo neanche chiuso.
  Pregherei il professor Bianchi di Castelbianco di contenere il suo intervento in una ventina di minuti, in modo che i colleghi abbiano il tempo di fare domande e lei, soprattutto, abbia il tempo per le repliche.
  Do la parola al professor Bianchi di Castelbianco per lo svolgimento della sua relazione.

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Sono uno psicoterapeuta dell'infanzia. Dirigo un centro per l'infanzia accreditato da oltre quarant'anni. Abbiamo fatto formazione per operatori socio-sanitari per oltre quarant'anni e adesso abbiamo una scuola di specializzazione per medici e psicologi.
  Abbiamo circa 1.000 bambini in carico. L'infanzia e l'adolescenza ovviamente sono il nostro cavallo di battaglia, nel senso che è ciò di cui ci occupiamo da sempre. Abbiamo oltre 100 sportelli d'ascolto nelle scuole romane per rilevare le difficoltà dei ragazzi e constatiamo che nonostante i nostri sforzi per conoscere per tempo i possibili comportamento a rischio, arriviamo sempre in ritardo. Con i bambini più piccoli rileviamo tanti problemi e ancor di più con i genitori.
  L'Istituto di Ortofonologia (IdO) è un centro di ricerca e terapia per l'età evolutiva, composto da circa 130 operatori. Abbiamo, quindi, tutta una serie di servizi che ci permette di avere un quadro abbastanza ampio e siamo presenti in molte parti d'Italia. Adesso siamo stati invitati sia in Italia Pag. 4che all'estero, per formare operatori sia di centri di terapia che dell'università. In questi ultimi anni l'argomento è l'autismo, ma nel passato lo abbiamo fatto anche per altro.
  Il disagio nei bambini, negli adolescenti e nelle famiglie lo abbiamo visto crescere nel tempo Ricordo un'audizione al Senato circa 20-25 anni fa. Mi chiesero: «Come mai tutti questi psicologi in Italia?» Risposi: «Guardate, purtroppo, sta succedendo come in America, e tra poco avremo uno psicologo per ogni famiglia». Mi ricordo che si misero a ridere. Adesso stiamo ancora peggio: abbiamo uno psicologo per ogni elemento della famiglia. Ciò significa che il malessere è aumentato, perché altrimenti non ci sarebbe questa richiesta.
  Adesso ci troviamo in una situazione un po’ complicata come «esperti», riguardo il fatto che tanti comportamenti dei bambini vengono subito etichettati come patologici invece di essere compresi per quello che sono. Vorrei farvi un esempio banale, poi mi sposterò sull'autismo e le soluzioni cosiddette «facili».
  Stamani sono stato al Ministero dell'Istruzione, l'Università e la Ricerca, in quanto siamo stati incaricati due anni fa di individuare i bambini plusdotati in diverse regioni d'Italia. La plusdotazione, cioè i bambini con un alto potenziale intellettivo, in Italia sono circa 500.000, il che significa che è una popolazione enorme. Di questa popolazione non si sa assolutamente nulla, salvo di qualche grandioso talento che suona o disegna o fa delle cose meravigliose.
  Quello che è importante sottolineare è che i bambini che individuiamo nelle scuole vengono indicati come bambini-problema. Bambini-problema significa che a questi bambini, nonostante il loro alto potenziale intellettivo, vengono molto spesso diagnosticati disturbi rilevanti come l'ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder), la dislessia o il disturbo della condotta.
  Quello che voglio dire è che noi esperti abbiamo un'incapacità nell'individuare questi bambini, ma la beffa più grande è che, siccome non li capiamo, li diagnostichiamo con una patologia che riguarda il loro comportamento.
  Ricadono in queste etichette ’patologiche’ soprattutto i maschietti, poiché le femmine hanno un'intelligenza adattiva che permette loro di comprendere l'andamento della classe, si adeguano. Il maschio resta sempre irruento, turbolento, e ciò lo porta chiaramente ad essere classificato come disturbatore.
  Per farvi un esempio, noi siamo stati in circa 300 scuole d'Italia per ora, e abbiamo informato e formato gli insegnanti. Dopodiché, abbiamo dato loro un protocollo affinché potessero segnalarci quello studente che secondo il loro parere poteva essere un plusdotato.
  Alla fine, su mille segnalazioni, che hanno significato mille batterie di test, ne abbiamo individuati 510. Il che significa che una volta che gli insegnanti sono formati, hanno la capacità di comprendere e distinguere i diversi comportamenti e quindi i diversi bambini.
  Tuttavia, questi bambini hanno quasi tutti una diagnosi di tipo patologico, cosa che ovviamente non corrisponde alla realtà. Lo dico fondamentalmente per segnalare come tanti problemi siano misconosciuti o riportati ad un problema diverso. Il MIUR sicuramente farà qualcosa a breve per affrontare questo problema.
  Un altro problema che abbiamo avuto in Italia, da cui siamo invasi, è la dislessia. Adesso nelle classi troviamo da quattro a sette bambini con diagnosi di dislessia: da quattro a sette dislessici su una classe di 25 bambini. Siccome non è un'epidemia, significa che c'è un errore nel criterio di valutazione.
  Clinicamente – io lo affermo ovunque – è un problema di valutazione. Si è verificata una situazione in stile americano, benché negli Stati Uniti adesso le cose siano leggermente cambiate. Si valutava quanto tempo il bambino impiegava a leggere una frase e quanti errori faceva. Se superava un certo tempo o faceva un tot di errori, la diagnosi era dislessia. Purtroppo alla diagnosi di dislessia veniva attribuito anche un deficit neurologico.
  Io e tanti come me ci siamo battuti ad oltranza per dire che come modalità diagnostica non ha la minima validità e abbiamo Pag. 5 cercato di dimostrarlo. Abbiamo fatto una cosa molto semplice per dimostrare che una difficoltà negli apprendimenti non può essere legata unicamente a un deficit neurologico: abbiamo svolto una ricerca in dodici scuole pubbliche di Roma, chiedendo prima agli insegnanti quanti bambini dislessici avevano nelle prime classi. Ci risposero che erano circa 300 su una popolazione di circa 1200 alunni. In seguito abbiamo formato gli insegnanti e alla fine dell'anno abbiamo chiesto: «Quanti ne avete adesso?» Ci hanno risposto: «Circa 70». È stata l'informazione che ha permesso loro di effettuare una valutazione diversa e diminuire il numero delle segnalazioni.
  La seconda cosa importante a cui volevamo arrivare era vedere di questi 70 bambini la percentuale di dislessici tra i minori iscritti a scuola a sei anni. Erano circa il 2/3 per cento, mentre la percentuale tra i bambini iscritti a cinque anni raggiungeva il 14/15 per cento. Questo sta a indicare che gli esiti negativi a un test erano dettati non da un problema intellettivo, ma da un problema di maturità. Quegli stessi bambini, se fossero andati a scuola a sei anni, non avrebbero mai avuto una diagnosi di dislessia, perché non avevano certo un problema neurologico.
  Abbiamo svolto questa indagine pubblicandola ovunque, per dimostrare che il primo problema che abbiamo riguardo all'infanzia è la clinica, cioè la valutazione. Naturalmente, le patologie ci sono, non è nascondendole che le risolviamo, ma neanche incrementandole.
  Questo è un problema enorme. Praticamente ormai in Italia, seguendo la scia americana, si sta usando il criterio evidence based in modo superficiale, il che significa vedere se vi sia un problema, se la eventuale proposta funziona o non funziona ecc. Non si tiene conto che in un ambito clinico un comportamento problematico non ha sempre un'unica origine, ma può averne diverse.
  Banalmente, se una persona dice «non dormo da tre notti», le viene detto «allora soffri di un disturbo del sonno», con tutte le conseguenze. Ma non è vero. La valutazione deve contemplare la conoscenza della sua realtà di vita: se ha litigato con i famigliari, se ha discusso in aula, se ha mangiato pollo e peperoni, se la moglie lo ha tradito, non dorme per tre giorni, ma non può essergli diagnosticato tout court un disturbo del sonno, possiamo dire che ne soffre a causa di uno stato di agitazione dovuta a situazioni diverse. Ci siamo persi la valutazione clinica del soggetto e adesso abbiamo un numero spropositato di diagnosi basate solo sui sintomi. Il criterio è che la valutazione del bambino va fatta globalmente e non sul segmento che è più o meno doloroso, più o meno in difficoltà, perché non funziona. Per darvi un'idea, il Ministero dell'istruzione ha esposto a Firenze l'ultimo dato: su una popolazione di 8 milioni di studenti, ne abbiamo 1,3 milioni certificati con una qualche diagnosi, che rappresenta una cifra iperbolica.
  Accanto a questi, adesso, altri che si dicono «esperti» hanno indicato che nel resto della popolazione infantile adolescenziale abbiamo quasi il 20 per cento di malattia mentale, ma spesso, con un dato del genere, chi dovrebbe curare crea danni maggiori a chi deve essere aiutato.
  Se si va a fare la somma, si trova che nella popolazione infantile abbiamo 1,3 milioni di quelli certificati presso il Ministero dell'istruzione per difficoltà varie e in più ce ne sono come minimo un altro milione, che sono quelli malati di mente, il che significa che abbiamo 2,5 milioni e mezzo di bambini che sono diagnosticati in qualche modo, ma spesso è solo un disagio/malessere psicologico che viene interpretato in modo non adeguato. Ciò significa che, se voi vedete cinque bambini per strada, due dovrebbero stare male. È questo il problema che abbiamo sull'infanzia: troppa facilità nel delegare al bambino la responsabilità del suo comportamento indicando una base di patologia. Su questa situazione vediamo tutti una spinta molto forte.
  Facciamo degli esempi. Sono 45 anni che io faccio questa attività e ho visto passare le grandi mode d'aiuto. Tanti anni fa c'erano dei metodi per risolvere il problema dei bambini con danno cerebrale, che si chiamava «Doman-Delacato». Io andai ad Avezzano a vedere cosa facessero, Pag. 6perché dovevo capire. Era un addestramento che si faceva fare al bambino e si affermava che con questo metodo doveva sicuramente migliorare. Tutto era nato da una ricerca svolta negli Stati Uniti che prevedeva di far girare un cane messo su un piatto rotante. Quando il cane morì lo sezionarono, trovando che l'area cerebrale deputata all'equilibrio sembrava leggermente più grande. Da lì costruirono lo slogan «la funzione crea la struttura», quindi se io muovo un braccio ad una persona paralizzata, a livello celebrale si ricrea la struttura che consente di nuovo il movimento. Non era assolutamente vero, ma ci hanno creduto in tutta Italia e anche la sanità ha passato soldi a tutti per questo metodo. Nel corso del tempo, ogni sette-otto anni circa, abbiamo un'ondata di novità che si presenta come «metodo risolutivo».
  Anche sull'autismo abbiamo avuto lo stesso problema. Negli Stati Uniti fanno tante cose belle, ma anche tante cose che sono diverse da come le concepiamo noi. Per farvi un esempio, per loro il modello di integrazione sociale di un ragazzo autistico è questo: vediamo cinque persone insieme, una racconta la barzelletta, tre ridono, il quinto ride un attimo dopo di loro. Se gli chiedo: «Tu perché hai riso?», lui mi risponde: «Io non ho capito, ma ho riso perché hanno riso loro». Questo per loro è un esempio di integrazione, per noi non lo sarebbe. Esternamente sembra integrato, ma in effetti non ha capito, ha solo copiato un comportamento. L'integrazione per noi ha un altro criterio.
  Sull'autismo abbiamo avuto una situazione di questa natura: dobbiamo immaginare che tutti i genitori sono disperati quando nasce un bambino autistico. La patologia di questo bambino ha un'origine genetica o epigenetica, come è più corretto dire adesso, e, quindi, è sicuramente un problema di difficile soluzione. A causa della loro disperazione, questi genitori cercano di tutto. Attualmente, nel 2017, abbiamo tanti bambini che fanno la camera iperbarica, quella per i sommozzatori oppure gli propongono l'idrocolonterapia, che sarebbe un lavaggio intestinale. Questi bambini vanno nelle cliniche: a Firenze ce n'è una molto in voga che ne tratta molti. Pensano che con questo lavaggio intestinale possa migliorare l'autismo. Altri ancora partono per l'Argentina per andare a fare il ricambio del sangue, come se questo potesse portare dei giovamenti.
  Quello che voglio dire è che adesso, nel 2017 (non parliamo di 50 anni fa) tutte queste pratiche miracolistiche che non funzionano vengono proposte a dismisura. Mentre davanti a queste pratiche qualunque persona di buon senso direbbe no, che i genitori dicano sì è comprensibile, perché cercano il miracolo. Sono i cosiddetti «clinici» che fanno queste attività che non funzionano e questo è veramente riprovevole, perché prendono un sacco di soldi, il bambino sta in clinica un mese e poi resta così o peggiora.
  Queste sono pratiche drammatiche. La cosa meno drammatica, però sicuramente complicata, è successa sull'autismo. Alla ricerca di una soluzione che non sempre si può trovare, c'è stato un movimento molto forte diretto ai genitori secondo cui tutto ciò che era psicologico era negativo e tutto ciò che era fare esercizi diventava positivo.
  È nato un metodo, che si chiama ABA (Applied Behavioral Analysis), ideato dal signor Lovaas che collaborava con l'Università della California negli anni 1970. Che cosa ha fatto questo signore? Utilizzava un metodo stimolo-risposta per poter modificare il comportamento dei ragazzi effeminati in un comportamento macho. Significa che li condizionava. Se il ragazzo faceva un certo gesto in modo femminile prendeva una scossa elettrica, mentre se faceva un gesto deciso prendeva una gratificazione. Ovviamente sto semplificando. Il risultato qual è? Da un lato, abbiamo avuto dei ragazzi che hanno raggiunto un comportamento macho, però c'è stato anche chi si è buttato dalla finestra, chi si è poi dato all'alcool, ecc. È chiaro che non si può modificare l'identità con un cambiamento dettato dal condizionamento.
  Questo Lovaas ha poi proposto l'ABA, che secondo lui era un metodo per curare l'autismo, ma che in realtà è un metodo di addestramento, basato sul principio che ho Pag. 7descritto. Negli Stati Uniti ci sono ancora cause in atto per i bambini trattati con scosse elettriche se non rispondevano allo stimolo. Abbiamo anche i video. Ad esempio gli veniva chiesto di stare fermo o sedersi. Se non si sedeva, gli veniva data una scossa elettrica così lo faceva. Poi si diceva: «Visto che obbedisce? Visto che bravo?» Da ciò è nato, in modo molto più soft, un metodo di addestramento.
  Facciamo un passo indietro. È più corretto dire «gli autismi» che non «l'autismo», perché non sappiamo esattamente quando e dove agiscono le cause e abbiamo delle realtà diverse. In questo quadro in alcuni casi, in modo soft, per un ragazzo che si produce da solo dei danni fisici, ad esempio sbatte la testa al muro, certamente anche un addestramento, se gli impedisce di farsi male, ha un valore. Tuttavia, non è questo che cura, o perlomeno può essere un aiuto, ma non una soluzione.
  Nel 2011 sono state pubblicate le linee guida sull'autismo che hanno preso in considerazione il metodo ABA come elettivo prendendo in esame solo gli articoli riportati sulla letteratura internazionale; noi ci siamo sempre occupati di autismo e abbiamo pubblicato sempre in Italia i nostri pensieri, riflessioni e risultati, ma non avevamo mai pubblicato all'estero, perché in Italia all'epoca chi pubblicava sulle riviste internazionali lo faceva come curriculum al fine di partecipare ad un concorso. C'era più che altro un aspetto accademico, dell’impact-factor cioè del riconoscimento scientifico della rivista e quindi dell'autore che pubblicava l'articolo, per noi ciò non aveva interesse. Se un quotidiano citava qualcosa della nostra attività per noi era già importante e sufficiente. Scrivevamo più volentieri libri.
  Siccome il nostro approccio per l'autismo è esattamente l'opposto del metodo comportamentale, chiaramente siamo rimasti tagliati fuori, perché non avevamo pubblicazioni internazionali. Allora abbiamo iniziato a scrivere articoli sulle ricerche che stavamo svolgendo e abbiamo ottenuto l'anno scorso sette pubblicazioni su queste riviste e quest'anno crediamo di poterne pubblicare altre sette tutte sull'autismo. Tutti gli articoli sono consultabili sul sito dell'IdO.
  Stiamo avendo un grande successo, se vogliamo dire così, perché siamo andati ad informare e a formare operatori nei centri e nelle università, in Israele, a New York alla Mountain University, in Brasile, in Cile. Adesso siamo stati invitati a settembre-ottobre all'Università della Colombia di Calì, oltre ad andare in centri di riabilitazione in Sicilia e in Sardegna e in altre regioni.
  La differenza tra i due approcci dove sta? Loro pensano che far ripetere un atto possa favorire lo sviluppo dell'intelligenza, mentre noi diciamo che per arrivare a un buono sviluppo dell'intelligenza si parte dall'affettività. Per noi tutto il lavoro che viene svolto con i bambini è di natura corporea, di natura relazionale e così via. Comunque la definizione che è stata data per descrivere le differenze è semplice e chiara: il metodo ABA prevede un intervento sull'intelligenza in modo Up-Down mentre il nostro approccio prevede un modo Down-Up. Proprio dall'esperienza di tanti anni di terapia per diverse patologie con bambini e genitori abbiamo voluto dare al nostro approccio il nome di «Progetto Tartaruga», per non dare illusioni di metodi miracolistici e immediati.
  Gli esiti che abbiamo avuto sono stati considerevoli e dopo quattro anni di terapia li abbiamo pubblicati sulle riviste internazionali. Prendendo in esame quattro anni di terapia, su un campione di 80 bambini dai 4 ai 14 anni abbiamo avuto il risultato «uscita dall'autismo» – questo è il termine corretto, poi spiegherò perché si usa questo termine – per il 30 per cento dei casi, che è una cifra iperbolica.
  Adesso stiamo per pubblicare – ma ce la faremo per settembre, non prima – i risultati di 2 anni di terapia su un campione di trenta bambini, però, sotto i 5 anni d'età. L'esito finale che pubblicheremo riporterà «un'uscita dall'autismo» nel 40 per cento dei casi, un risultato che è ancora maggiore considerando i 2 anni di terapia e non i 4 della ricerca precedente, ma il campione è composto di bambini presi in terapia a 2 o 3 anni d'età. Pag. 8
  Il termine «uscita dall'autismo» non significa guarigione, è diverso. La valutazione del bambino autistico in tutto il mondo viene fatta con un test che si chiama ADOS (Autism Diagnostic Observation Schedule). È un test molto variegato, complesso e ricco, che è viene utilizzato da tutti come metro della gravità del disturbo. Per semplificare la spiegazione come esempio, non perché corrisponda, se il bambino riporta punteggi da 1 a 6 è nella norma, da 6 a 14 ha un problema, da 14 a 25 ha un autismo conclamato.
  Quello che abbiamo ottenuto è che questo 40 per cento di bambini non presentava più sintomatologia autistica. Premetto che i bambini che seguiamo (negli anni sono stati circa 500) sono tutti videoregistrati, in braccio ai genitori e con tutte le cartelle cliniche. Lo puntualizzo perché si può essere facilmente attaccati per motivi anche non molto etici.
  Abbiamo realizzato due convegni nel 2015 e nel 2016 sull'autismo, sulla diagnosi e sulla terapia per questi bambini. Nel 2015 abbiamo avuto circa 25.000 contatti in tutta Italia e anche all'estero, perché noi i convegni li mandiamo in diretta streaming liberi gratuitamente: i giovani per imparare non hanno soldi da spendere per un convegno. Non hanno 500 euro per spostarsi tre giorni. Allora preferisco dire: «Restate a casa, accendete il computer e seguite in diretta streaming tutti i lavori».
  Lo abbiamo fatto due anni di seguito, un anno l'argomento era la diagnosi e il secondo invece la terapia, e in totale abbiamo avuto circa 40.000 contatti d'interesse. Francamente solo se sei interessato ad una attività scientifica come questa ti colleghi, altrimenti non lo fai.
  Ormai anche ad alti livelli c'è, per fortuna, un cambio di rotta. Anche lo scienziato Vittorio Gallese ha postato un video su YouTube e ha specificato che bisognerebbe passare alla relazione corporea, psicomotoria, con tutto quello che significa, per avere dei risultati e abbandonare l'addestramento.
  Qual è, quindi, la differenza tra guarire e uscire dall'autismo? Il termine «uscire dall'autismo» è più corretto, perché significa che il bambino non presenta più sintomi e manifestazioni di difficoltà che lo riconducono a un quadro autistico.
  È vero che non in tutti riscontriamo la guarigione come intendiamo nel senso comune, ma troviamo che ancora qualcosa non quadra. Ecco perché è importante definire la differenza tra «uscito dall'autismo» e «guarito».
  Comunque, arrivare adesso al 40 per cento è per noi una grande soddisfazione. Quello che stiamo vedendo è che i risultati per fortuna ci danno ragione. Noi proponiamo tra le altre situazioni anche un intervento mamma e bambino insieme, cerchiamo di fare gruppi molto piccoli con tre o quattro operatori psicoterapeuti per gestire la situazione. È un lavoro enorme.
  Quest'anno abbiamo organizzato – lo dico per sottolineare quanto si cerchi di trovare delle strade ulteriori – un laboratorio con gli animali. Come animali abbiamo preso gli asini, oltre a quelli di piccola taglia (cani, conigli etc). Con l'Università di Palermo abbiamo iniziato questa ricerca, che ora abbiamo in corso. L'asino, a dispetto dell'immagine popolare, è uno degli animali più intelligenti e più affettivi, sicuramente più del cavallo.

  PRESIDENTE. C'è stato il caso di un bambino inglese che ha dato dei segnali. Non aveva praticamente mai parlato e ha detto al suo asino «ti voglio bene» o una cosa del genere.

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). L'asino è affettivo, ha grande memoria e ci riconosce. Abbiamo visto che c'era una persona un po’ «difficile» e trattava male l'asino. Dopo due anni, è tornata questa persona, l'asino l'ha riconosciuta e gli ha dato una musata.
  Noi abbiamo purtroppo questa immagine, diciamo «ha le orecchie da asino» per dire che una persona non è competente, invece con questi bambini è più indicato l'asino che il cavallo, per fare l'esempio dell'ippoterapia, che è più conosciuta.
  Nell'ambito delle patologie abbiamo un problema clinico: la valutazione non può Pag. 9essere fatta in modo segmentario. Per farvi un esempio della difficoltà, quando viene un bambino o una famiglia, in primo luogo non si dovrebbe mai parlare davanti ai bambini; invece lo fanno tutti ed è un grande errore, come se il bambino non capisse quello che viene detto, mentre invece lo comprende perfettamente.
  In secondo luogo, la storia del bambino ha un'importanza enorme. Certamente nell'autismo c'è un danno a monte, che pare avvenga in gravidanza. Lo stanno studiando, comunque, il bimbo nasce così. Sull'autismo adesso stanno prendendo tutti una posizione molto più morbida. Per questi bambini essere sottoposti a 20-25 ore di terapia a settimana è un delirio, non è un aiuto, perché è una ripetizione di esercizi, non è una progressione, una costruzione o una progettualità.
  Infatti, cominciano a dire che dopo otto mesi i risultati ottenuti non progrediscono o perlomeno restano stabili, perché in tutte le terapie con i bambini (ma anche con gli adulti) deve esserci un'elaborazione da parte del soggetto per poter crescere. Io non posso ricevere solo stimoli dall'esterno per diventare intelligente. Devo elaborare, ma per farlo devo partecipare; e per partecipare devo avere una motivazione, non posso ripetere delle cose solo perché me lo ordinano. Anche se le faccio, non significa che sono mie, ma che le ho copiate. È come la differenza tra copiare e scrivere. Non è assolutamente la stessa cosa.
  La terapia che si svolge con i bambini è basata sulla relazione e, quindi, sul gioco. All'interno del gioco si riesce ad arrivare a un risultato. Non può essere che io gli faccio fare gli esercizi e dopo lo faccio giocare: il gioco è un elemento fondamentale al quale il bambino partecipa.
  Facciamo questo con i bambini autistici, ma anche con tutti i bambini che abbiamo, perché con i bambini non funziona la richiesta, funziona la partecipazione, come del resto anche con noi adulti.
  Mi viene da ridere pensando che lunedì mattina andrò su RaiUno, dove mi hanno invitato per chiedermi: «Come fare a dare la felicità ai bambini?». Quello che vorrei dire è che su questo termine (come fare) ne fanno una piccola trasmissione su RaiUno, perché abbiamo tantissimi bambini infelici. L'Italia è al 50° posto: i bambini non riescono più ad avere la serenità di vivere le cose per quello che sono.
  Vi faccio un esempio. Con gli sportelli nelle scuole noi seguiamo forse 200.000 adolescenti direttamente, più altri 5 milioni su un portale. Per darvi un'idea, uno dei più grandi problemi nei comportamenti dei giovani non è la droga e neanche l'alcol, ma il sesso. Il problema del sesso nei giovani è così forte che non se ne ha idea.
  Dovete pensare che sette-otto anni fa (o forse dieci) grazie a dei film molto famosi, i ragazzi impararono a scindere la sessualità dall'affettività. Questa spiegazione data dal mondo adulto – chiamiamolo in questo modo – ha significato che se io faccio sesso non c'è bisogno del sentimento, quindi non ha un valore etico, morale o semplicemente di innamoramento. Di conseguenza, ne posso fare quanto voglio, tanto non conta.
  Adesso siamo pieni di ragazzi che fanno delle cose sessualmente molto discutibili e non sto facendo il moralista. Non accade a 18 anni, ma nelle scuole medie, dove abbiamo problemi di malattie veneree, di gravidanze, di comportamenti veramente stupidi, che li segnano. Il bullo almeno dice che si è divertito a fare un danno, mentre loro non si sono neanche divertiti, si sono fatti un danno e non si sono divertiti. Qual è la cosa incredibile? In quarta e in quinta elementare abbiamo i bambini coi video porno, perché seguono i ragazzi più grandi.
  Un elemento che ci fa capire la situazione del nostro Paese e di tutti noi è che nelle scuole, quando noi riusciamo a formare un corso di educazione sessuale, che chiamiamo «L'alchimia dell'amore», per dire «esiste il sesso, esiste il sentimento, non ti buttar via, cioè fai come vuoi però almeno ragiona», calano tutti questi comportamenti a rischio, perché i ragazzi sono stati informati. Se sono informati sono in grado di decidere e sono molto più sani degli adulti nelle loro decisioni.
  I docenti sono d'accordo su fare il corso di educazione sessuale, e anche i ragazzi, i genitori no, perché affermano: «Se lei glielo spiega, poi loro lo fanno». È il contrario: se Pag. 10noi glielo spieghiamo, lo faranno di meno, perché già lo fanno tutti.
  Noi adulti abbiamo un modello sociale che non è aderente alla realtà che viviamo e non è aderente alla realtà dei bambini e dei ragazzi. Arriviamo sempre tardi, sempre dopo, quando i guai sono già successi. Noi facciamo sempre un recupero dei cocci, ma non riusciamo a svolgere la vera prevenzione, che è quando riusciamo a informare i ragazzi. Se li informiamo, sono molto più sani e competenti di quanto gli possiamo attribuire. Esiste, quindi, uno spaccato clinico e sociale particolare.
  Ci sono poi i genitori. Noi abbiamo ormai da 15 anni un servizio, il servizio madre-bambino, «Mamme a bordo», dove vengono le madri con figli sani a chiedere: «Come posso dialogare con mio figlio?» Noi facciamo dei gruppi mamma-bambino e praticamente, detto in modo banale, insegniamo loro a stare insieme. Poche sedute, pochi incontri e tutti sorridenti.
  Vorrei dire un'altra cosa importante. Voi sapete che tutti hanno parlato del bullismo, ma la verità, o per lo meno quello che pensiamo noi, è che usare la parola «bullismo» ha sviato un po’ l'attenzione. Io prima veniva chiamato nelle scuole superiori perché c'era il bullo, il vero prepotente, poi venni chiamato alle medie. Dopo di che sono stato chiamato alle elementari, poi alla scuola materna. Adesso vado nei nidi.
  Sono dodici anni che io tengo un corso a 600 assistenti di asili nido e scuola dell'infanzia su cosa fare con i bambini. Questi bambini a due anni nei nidi danno calci, morsi, testate, hanno comportamenti veramente violenti. Alla luce di questo, io andai al comune di Roma e chiesi: «Possiamo fare qualcosa?» Proposi un progetto che si chiamava «Mancano gli abbracci». È molto semplice. Con il pediatra dell'asilo e con gli assistenti, noi operatori l'abbiamo scientificamente chiamato «massaggio pediatrico», ma fondamentalmente erano coccole ed è calata l'aggressività. Questi bambini che andavano e davano la testata al bambino di due anni che gli stava accanto si erano placati.
  Questi bambini sono aggressivi per poi diventare bulli. Vorrei farvi capire con un esempio come mai questa aggressività – ce lo dobbiamo dire – nasce così presto rispetto a una volta. Io 30 anni fa dicevo alle mamme: «Senta, signora, me la fa la cortesia? Lo iscrive all'ultimo anno di materna?» Mi rispondevano: «No, sta meglio con me e con la nonna».
  Adesso io dico alle mamme: «Signora, può stare il primo anno di vita con lei?» Mi rispondono: «No, perché lavoro». Questo è un problema sociale, non è un problema della mamma, perché la mamma se non va al lavoro non porta a casa lo stipendio e il papà da solo non ce la fa, quindi il bambino viene lasciato al nido il più presto possibile per poter tornare al lavoro. I bambini si sentono abbandonati e sviluppano un sentimento di rabbia.
  Vi indico un altro piccolo segnale. Le persone più grandi forse ricorderanno che una volta per strada c'erano tanti bambini col ciuccio, tant'è che si diceva: «E togli sto ciuccio». Il ciuccio era molto più sano, perché i bambini o si ciucciavano il dito o si ciucciavano il ciuccio e dopo un po’ si addormentavano. La madre gli toglieva il ciuccio, il dito calava. Se dovevano giocare, se lo staccavano e giocavano. Adesso non c'è più questo ciuccio, i bambini si ciucciano la lingua, tant'è che i dentisti dicono: «L'apparecchio lo deve mettere, però soffre di deglutizione atipica, cioè spinge con la lingua sui denti. Se non correggiamo questo, metto l'apparecchio ma poi quando lo tolgo spinge i denti un'altra volta».
  Questa deglutizione atipica così diffusa è determinata dal fatto che i bambini quando sono piccoli si auto-consolano ciucciandosi la lingua, facendo questo movimento. Lo fanno quando vanno al nido, ed è una difesa corretta, non è una cosa insana. Questo è quello che succede, con molta semplicità, anche se noi non ce ne accorgiamo.
  Tornando al discorso precedente, abbiamo visto che in questi asili nido dove c'erano più coccole c'erano bambini più calmi, più tranquilli e, quindi, meno bulli successivamente. Ecco perché dico che abbiamo Pag. 11 un problema nell'infanzia e nell'adolescenza che è clinico e sociale.
  Un altro esempio di come siano cambiate le cose. Io trent'anni fa dicevo: «Signora, suo figlio dorme in una stanza e lei con suo marito dorme di là». Adesso quando la mamma mi dice: «Io il bambino lo porto alle 7,30 al nido e lo riprende alle 6 del pomeriggio», gli dico: «Signora, se lo porti a dormire con sé, perché altrimenti lei fa la mamma nel weekend, cioè sta col bambino il sabato e la domenica e gli altri giorni no. Perlomeno dorma con lei, almeno c'è un contatto fisico e non c'è un distacco».
  Io stesso dopo trent'anni ho cambiato opinione, perché è cambiata la realtà. Una volta i bambini uscivano da scuola alle 12,30, alle 13,00 erano a casa e la madre stava con loro, c'era tutto un rapporto che non ci può più essere. Quello che non ci può più essere lo sappiamo, però dobbiamo comprendere che lascia il vuoto di non essere più seguiti.
  Quando mi chiamarono in una scuola famosa, il Convitto nazionale qui a Roma, i ragazzi mi dissero: «Tu parli sempre di noi e noi facciamo le domande a te». C'erano anche una giornalista e Moccia, lo scrittore di libri per ragazzi. Io dissi: «Guardate, io rispondo alle vostre domande, però, per dimostrarvi quanto siamo tutti uguali, facciamo così: io vi faccio due domande, però voi rispondete tutti insieme. Pronti? Quando i vostri genitori vi vedono dopo l'uscita da scuola e vi domandano “Come è andata oggi?” cosa rispondete?» Mi risposero tutti e 600 in coro: «Bene». Poi gli chiesi: «E quando vi chiedono cosa avete fatto oggi?» «Niente».
  Questa è la risposta di tutti i bambini a tutte le famiglie. Tramite il registro elettronico adesso riescono a capire se è stato interrogato o meno. È un problema di cui noi non ci rendiamo conto, ma che ha delle implicazioni su violenza e legalità.
  Girando per l'Italia, facemmo un'inchiesta con questionari agli studenti. Due sono state le cose che ci hanno colpito. Abbiamo chiesto ai ragazzi: «Cosa vorreste dagli adulti e dalla scuola?» Dissero e dicono anche adesso: «Le telecamere nei bagni». Infatti, nel piccolo box della tazza entrano in tre e uno finisce con la testa nella tazza del bagno. Se ci fossero le telecamere questo non potrebbe succedere.
  La seconda cosa che hanno chiesto – che è quella che onestamente mi ha amareggiato mostrandomi quanto siamo incapaci – i ragazzi delle scuole medie e delle superiori è stata: «Vorremmo che i docenti si fermassero un'ora in più oltre le lezioni per conoscerci, perché loro non conoscono noi e noi non conosciamo loro».
  È agghiacciante pensare che il mondo pedagogico, oltre che didattico nel senso della formazione, non sappia cogliere queste necessità. In cinque anni con 25 giovani, uno perde la casa, uno ha un lutto, uno si droga. Intendo dire che accadono dei mutamenti eclatanti e se uno non ha la conoscenza si perde tutti e 25 i ragazzi.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  FRANCESCO PRINA. È stato veramente stimolante e interessante. Ringrazio il dottore per aver portato questa sua competenza. Io avrei tre o quattro domande da porle. Non so se chiamarla «emergenza educativa», non so come definirla. Comunque, vorrei sapere quanto è importante tenere insieme bambini e bambine, ragazzi e ragazze normodotati con quelli in difficoltà e con quelli plusdotati, come diceva lei, e se questa è anche una questione terapeutica, perché ci sono molte teorie che dicono che questi debbono avere anche dei momenti separati. Vorrei sapere la sua proposta su questo.

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). La risposta è semplice. Il problema è che il momento separato è qualcosa di individuale che serve a lui per qualcosa, per imparare. Quello che serve a tutti è l'integrazione, per crescere nel senso della condivisione e del rispetto.

  FRANCESCO PRINA. Abbiamo i gruppi formali e i gruppi informali, il gruppo classe per esempio.

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  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Nella classe l'integrazione, se viene fatta in modo corretto, aiuta tutti, anche colui che è sano a rivalutare la propria salute invece di buttarla via. Se io vedo che un compagno non cammina e io invece cammino bene, forse prima di andare a fare una cosa stupida do valore alla mia vita. Se, invece li allontano dalla mia vista, perdo i valori umani.

  FRANCESCO PRINA. Quindi è ottimale dal punto di vista formativo ed educativo tenerli insieme, come fa la scuola italiana, a differenza di altre scuole europee.

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Tanti anni fa sono stato in Francia, dove mi hanno fatto vedere un istituto e mi hanno detto: «Abbiamo fatto l'integrazione anche noi. Quella è la classe di tutti i bambini con difficoltà e quella è degli altri senza difficoltà e sono tutti nella stessa scuola». Dico: «Questa non è integrazione, questo è un tiro al bersaglio».

  FRANCESCO PRINA. Passo alla seconda domanda. Io mi sono occupato in regione Lombardia di dislessia con la legge regionale 2010 n. 4. Lei ha detto che ci sono da quattro a sette ragazzi con problemi di dislessia in ogni classe. Sarebbe interessante sapere se questo dato è in aumento perché evidentemente una volta non venivano diagnosticati questi casi, come oggi con la legge che abbiamo istituto a livello regionale e a livello nazionale; normalmente nella mia regione la diagnosi precoce si fa a tappeto in seconda elementare. Vorrei capire se è il momento giusto.

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Il momento è giusto ma con una opportuna formazione i docenti potrebbero intervenire prima e far superare molti ostacoli prima della fine della seconda elementare.

  FRANCESCO PRINA. L'altra questione riguarda la funzione della scuola, dalla prevalenza istruttiva alla prevalenza educativa. Evidentemente il mondo e la famiglia cambiano, quindi la nostra scuola deve scegliere se intraprendere la strada di farsi carico di più elementi di educazione e non solo di istruzione.
  C'è il tema molto importante della formazione degli insegnanti e delle famiglie, perché non si adoperino due linguaggi diversi. Infatti, è indispensabile che la linea educativa della maestra o del maestro sia quella del papà, della mamma e dei fratelli per i casi che lei esponeva.
  Il gioco è un'attività che deve essere in qualche modo valorizzata e aumentata nell'età tipica del passaggio dalle elementari alle medie? Perché? A ciò si lega la domanda conclusiva, che riguarda il dialogo intergenerazionale. Nella mia generazione (stiamo parlando degli anni 1960-1980) il conflitto tra genitori e ragazzi avveniva nelle prime classi delle superiori, mentre oggi, dal mio punto di vista, si è spostato alle classi della media.
  Il gioco è anche un po’ violentato dalle nuove forme di gioco virtuali, creando difficoltà per quello che una volta era posticipato e adesso è anticipato. In che modo il gioco potrebbe essere rivalutato per superare anche questo tipo di conflitto, che si è spostato a un'età inferiore?

  PRESIDENTE. Io avevo compreso che il passaggio da cinque a sette fosse per evidenziare che c'è un eccesso di allarme, cioè che vengono considerati dislessici bambini che spesso hanno solo problemi, difficoltà o sofferenze. Comunque, lascio la parola a lei, dopo ci tornerò.

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Sarò veloce nelle risposte. Trenta-quaranta anni fa a Firenze noi facevamo le stesse cose che si fanno adesso che sono state dette con la legge, identiche, solo che adesso si fanno in modo più elettronico. Non è vero che sono aumentati i dislessici, la verità è che è cambiato il modo di insegnare, tant'è che molte scuole stanno tornando a trent'anni fa in modo più analitico che globale. Si faceva Pag. 13tutto un avvicinamento alla scrittura con le cornicette e i quadratini, che adesso si salta, perché devi saper scrivere subito.
  Siamo paradossali. Adesso si dice che a sette anni si trova il dislessico, però si trova sempre allo stesso modo: quanti errori e quanto tempo, che non è una modalità clinica sana. Per esempio, la comprensione non viene quasi considerata, mentre, se io leggo male e comprendo il testo, significa che il processo di lettura è innestato, altrimenti non comprenderei.
  Ci sono due cose incredibili. Se in prima elementare la maestra il primo giorno chiede «chi di voi sa leggere e scrivere?», quasi tutti alzano la mano. La dimostrazione è che a Natale, tre mesi dopo l'inizio della scuola, tutti scrivono la lettera a Babbo Natale. Se fossero due anni per il discorso della dislessia, allora saremmo al paradosso. Dopo tre mesi leggono e scrivono, quindi il problema è la comprensione del fenomeno, non in termini di sintomatologia, ma in termini di acquisizione.
  Le fobie scolari una volta erano minime. Significava che quando il bambino andava a scuola e per la prima volta lasciava la famiglia, vomitava. Se lei va il primo giorno di scuola, a sei anni, in una scuola qualunque italiana, sono tutti bambini che hanno fatto perlomeno tre anni di materna, se non addirittura il nido. Ma sono aumentate le fobie scolari, sono aumentati i mutismi selettivi. In prima elementare le mamme accompagnano i bambini dentro il bagno o i bambini non vogliono uscire da casa, nonostante l'esperienza di tanti anni nella scuola. Allora c'è qualcosa che non va, non è che in prima elementare sono andati in un luogo di mostri. Il bambino dovrebbe entrare e dire: «Salve, oggi cosa si fa? Sono cinque anni che mi sbattono da un banco all'altro». Eppure non succede. Ciò significa che una domanda ce la dovremmo porre: perché sono aumentate tutte queste patologie? Prima non c'erano, o ce n'erano molte di meno, perché quando un bambino ha le fobie se ne accorgono tutti.
  Per quanto riguarda il discorso della scuola come educazione, noi facciamo un gioco che si chiama «Gli ultimi educatori». Sono rimasti solo i genitori e ormai tra genitori e figli c'è una grande difficoltà. Io una cosa chiedo a Natale ai genitori anche quando vado in televisione. Chiedo di fare un solo regalo sotto l'albero, non 10.000 regali che poi il bambino al quarto e al quinto dice «Basta, io voglio giocare». Chiedo un bigliettino che dice: «Papà ti regala due ore a settimana da soli». Cosa sono due ore a settimana? Niente. Ma cosa significa che non lo fa nessuno? Se il padre deve passare con il figlio due ore a settimana, mi fa la domanda: «Che ci devo fare?» «Che ci devi fare? Ci devi stare». Allora la madre, che normalmente passa più tempo col bambino, sorride e dice: «Devi stare anche tu con tuo figlio». Loro stanno in casa, uno col televisore, uno con la partita, uno col giornale. Se gli chiedi «Ma tu lo conosci tuo figlio?», rispondono «Ormai è grande». «Ma ha sei anni, come può essere grande?»
  C'è un'impossibilità di gioco e di educazione che è gravissima. Abbiamo delegato alla scuola l'educazione, specie quando abbiamo allungato il tempo pieno. Non l'hanno capito neanche a scuola. Cosa fanno? Gli danno i compiti per il pomeriggio quando escono da scuola.
  Io vorrei vedere uno in Italia che, senza essere iscritto a sindacati, lavora dalla mattina alle 8, termina alle 6 del pomeriggio, prende le pratiche sottobraccio e dice: «Va bene, vado a casa, faccio questo e poi domattina alle 8 ricomincio daccapo». Succederebbe la rivoluzione. Invece, ai bambini glielo fanno fare e poi gli chiedono: «Che c'è? Hai difficoltà a scuola?» E loro dicono: «La odio».
  Nel 2000 facemmo una ricerca «Vivere bene la scuola». Tra i bambini delle elementari, partendo dal centro di Roma arrivando all'estrema periferia, abbiamo incontrato di tutto e abbiamo avuto un 32 per cento di ragazzi che voleva andare via da scuola. Parlo del 2000, diciassette anni fa.
  Adesso abbiamo fatto un'indagine con l'Università di Urbino sulla paura di ragazzi e bambini di essere molestati e aggrediti: fuori dalla scuola il 14 per cento, dentro la scuola il 33 per cento. Una volta, a suo tempo, si diceva: «Entra a scuola, Pag. 14mettiti accanto al bidello e sei salvo». Adesso è: «Scappa da scuola che hai più possibilità di salvarti».
  Quello che abbiamo creato è un problema enorme, però, se non ne prendiamo atto, ogni volta facciamo un piccolo segmento e ci troviamo con tutti i bambini che stanno male.
  Un altro aspetto è il gioco. I bambini a cinque o sei anni vogliono la festa da McDonald's, mentre una volta gli davamo il pallone. I preadolescenti a undici anni sono già in piena rotta coi genitori.
  Se un ragazzino porta il telefono a scuola e la maestra dice «Me lo lasci qui sulla scrivania e lo prendi dopo», arrivano i genitori dicendo «Lei impedisce a mio figlio di parlare con la mamma». Se sta dentro alla scuola, se suo figlio sta male, la chiameranno! Nessuno però dice una parola.
  Quello che è più drammatico non è che la mamma si comporta così, ma che non ce n'è uno che dice: «Guardi che lei è cretina». Gli dicono: «Va be’, parliamone». Come parliamone? No, se sta dentro alla scuola, la scuola è protetta; se la scuola non è protetta, non lo mandi a scuola.
  Per dare un'idea, l'unica cosa che io ho trovato che ha funzionato – dico l'unica per occupare i ragazzi di scuola media, perché dopo è già tardi – per trovare l'integrazione ed evitare le risse – voi vi farete una risata, però è così – sono i balli di gruppo.
  Avevamo ragazzi e ragazze che ballando insieme avevano stabilito una più facile relazione. Avevano undici, dodici e tredici anni e anche oltre. Imparano a stare insieme, a condividere «tu fai una cosa, io ne faccio un'altra», è piacevole, sorridono. Non sorridono mai, sono tutti arrabbiati!

  FRANCESCO PRINA. La più grande difficoltà degli educatori informali in giro per le associazioni è quella di farli cantare in coro.

  LOREDANA LUPO. Innanzitutto la ringrazio per tutte le informazioni che ci ha dato. Da mamma sono abbastanza preoccupata, però gioco tantissimo con i miei figli e anche mio marito, quindi spero funzioni.
  Lei ha parlato di educazione sessuale, che può essere preventiva e, quindi, evitare questo distacco tra la sessualità e l'affettività, che è fondamentale per avere un equilibrio normale nella vita. Se si dovesse pensare di introdurla realmente, con una funzione di conoscenza, senza che il genitore possa scegliere, ritengo che ci sono delle cose che fanno bene alla salute e c'è poco da fare, bisogna semplicemente erudire il bambino, null'altro. Da che fascia di età dovremmo introdurre questo tipo di informazione?

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Perlomeno (perché i genitori non lo accettano prima) dalla prima media. Prima diventerebbe una rivoluzione. Tanto non cambia, l'importante è informarlo.
  Voi dovete immaginare che noi sul sito abbiamo messo la rubrica «L'esperto risponde» e abbiamo visto che su 1.000 domande 700 riguardavano il sesso. Quando abbiamo messo la rubrica «Se so è meglio», perché il discorso era questo, in due anni abbiamo avuto 70.000 richieste d'aiuto, adesso siamo a centinaia di migliaia.
  Vi faccio una domanda. La logica vorrebbe che i bambini, i ragazzini, gli adolescenti di undici-dodici anni abbiano un rapporto col medico. I maschietti vanno dal medico solo al pronto soccorso quando sbattono col motorino. Su cento femminucce quante mamme portano la figlia dalla ginecologa? Dieci su cento. Ciò significa che 90 femminucce su cento non sanno neanche che cos'è l'igiene intima e tutto il ciclo del loro sviluppo.
  Come fanno allora ad accettare che ci sia l'educazione sessuale se non portano neanche la figlia in loro presenza dalla ginecologa? Non parlo di piccoli comuni isolati, ma di Roma, perché se no perdiamo il senso della gravità della questione.

  LOREDANA LUPO. Vorrei capire un'altra cosa. Siccome lei ha fatto notare che l'incidenza della dislessia è maggiore se il Pag. 15bambino viene introdotto all'interno della scuola in maniera precoce, non sarebbe più indicato tentare di fare dei test di ammissione iniziali?

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Il problema è che hanno provato a fare questo mirando all'intelligenza. Tutti i bambini di cinque anni che vanno a scuola anticipatamente sono intelligenti, non ce n'è uno che non lo sia, ma non sono maturi. Il problema vero è che i genitori dicono: «Perché lui va in prima elementare a cinque anni e mio figlio no? Mio figlio è scemo? Allora ci mando anche il mio». Tuttavia, non è maturo, non è pronto.
  La crescita dei bambini non è legata solo alla prestazione, è legata anche a un vivere, a un sapere, a un saper stare. Abbiamo il bambino che ha bisogno di sperimentare per capire, di un po’ più di tempo, ma di un tempo nella norma.

  PRESIDENTE. Mi scusi se la interrompo. Riguardo a quanto ha appena detto, volevo chiederle se dove si va a scuola un anno prima avete incrociato i dati per vedere se c'è un'incidenza maggiore di bambini con difficoltà.

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Sì, ne troviamo molti con disturbi di apprendimento. Dovrebbe cambiare il tipo di insegnamento, perché ai bambini di cinque anni non viene proposto l'insegnamento per i cinque anni, ma dovrebbe coprire l'insegnamento per chi ne ha sei. All'ingresso in prima, dopo tre mesi deve scrivere la letterina a Babbo Natale, anche se ha cinque anni. Perché questo è il programma. Per poter svolgere un discorso didattico proficuo, l'insegnante si dovrebbe adeguare a chi ha davanti.

  PRESIDENTE. Lei dice che non succede perché comunque hanno un altro programma o meglio è sempre lo stesso?

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Si deve cambiare la modalità. È chiaro che se si ha un bambino di otto anni è diverso.
  Tanto per darvi un'idea, avevamo tanti bambini adottati che venivano dall'estero. Io chiedevo: «Con questo bambino che fate?» «Gli diamo il sostegno»; «Perché gli date il sostegno? È normale, sta bene, è intelligente» «Eh, ma non parla la lingua italiana». Allora dico: «Scusate, che avete fatto? Ha sette anni. Dove lo inserite?» «In terza elementare, perché adesso ne fa otto a giugno». «Ma non parla la lingua! Che senso ha metterlo a otto anni in terza elementare? Fermiamolo». «No, perché se si ferma poi perde il gruppo».
  Quello che voglio dire è che stiamo rincorrendo molte volte una forma burocratica piuttosto che di contenuto. Se il bambino non sa la lingua italiana, come fa a rapportarsi con gli altri? Come fa ad apprendere? L'interesse è apprendere. Se lo metti in seconda elementare, che gli dici? È ucraino. Dicono: «Però è molto educato». «È molto educato, perché non ti dà un pugno di protesta. Se metteste uno di voi in un'assemblea di turchi, dopo un po’ ve ne andreste». Invece, il bambino dall'Ucraina deve stare seduto, buono, fermo e poi ha il sostegno accanto. Che gli dice? Parla ucraino? No, però gli dà tante pacche sulle spalle.
  Ecco qual è il paradosso. Occorre adeguarsi alla situazione. Non può essere considerato un danno se si ferma un anno in prima elementare. Preferiscono mandare molti bambini che hanno difficoltà in seconda elementare, invece di fermarli un anno per poi farli arrivare tranquilli fino all'università. Preferiscono spostarli avanti. Più aumenta la difficoltà, più loro vanno peggio e poi dicono: «Hai visto che sta male?» E io dico: «Certo che sta male, se lo fermavano prima, stava benissimo».

  LOREDANA LUPO. Vorrei un'ultima informazione. Oggi si tende a dare ai bambini un carico maggiore, nel senso che vedo già nelle fasi del nido e della materna bambini che devono fare sport, hanno il corso di inglese ed altro ancora. Questo incide psicologicamente, insieme alla mancanza d'affetto costante e all'assenza del genitore?

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  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Più che l'affetto, il problema è che una volta il bambino si annoiava, ma la mamma non si spaventava, gli diceva: «Inventati qualcosa». Allora lui il primo giorno si annoiava, il secondo giorno diceva: «Questa è un'astronave». Invece, adesso: «Ti porto a cavallo, ti porto a cinese, ti porto a inglese, ti porto da qualche parte».
  Dobbiamo dargli la possibilità di sperimentare. La noia è come la paura: la paura deve esistere, altrimenti non esisterebbero i bambini e i genitori prudenti. Il concetto di paura non è sbagliato, si può vincere, ma deve essere presente. La noia significa che, se io faccio qualcosa e mi annoio, preferisco non farla e ne trovo un'altra. Se io sono passivo, chiedo «Allora che faccio?», rispondendo «Ti porto fuori», «Facciamo merenda», «Datti da fare», può darsi che qualcosa migliori.

  ROSETTA ENZA BLUNDO. Innanzitutto la ringrazio per averci fatto con questa audizione uno spaccato reale della situazione dei giovani nelle scuole.
  Io concordo pienamente sulla priorità del benessere a scuola, quindi bisogna attivare le giuste relazioni e indirizzare tutti gli interventi che può fare il mondo della scuola a una finalità unica, che è quella di far sentire bene il bambino, garantire l'autostima di ciascuno, perché ogni bambino, anche se non ha delle grandi potenzialità, a mio avviso, ha la possibilità di avere una propria autostima.

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Ha il diritto di vivere bene.

  ROSETTA ENZA BLUNDO. Esatto. Io sono interessata a capire – adesso è tardi, ma ci sarebbero una serie di domande che vorrei fare – secondo lei quale importanza ha la diagnosi e se se ne stanno facendo troppe invece di attivare una progettualità scolastica che prevenga una serie di diagnosi, come si diceva prima, di eventuali discalculie e dislessie, che in realtà sono altro.
  Inoltre, vorrei un parere sulla legge 170 del 2010 sui disturbi specifici dell'apprendimento. Io sto considerando di rivedere un po’ quel testo, perché a mio avviso ha forse creato questa situazione di ingerenze per eccessive diagnosi.
  L'ultima domanda che le pongo è: quale possibilità c'è per il mondo della scuola di individuare una nuova modalità di didattica da inserire, ma senza soppiantare la possibilità di garantire degli apprendimenti fondamentali quali sono la giusta e corretta modalità di scrivere, le conoscenze matematiche, le conoscenze della grammatica, visto che anche gli adulti commettono errori gravissimi? Addirittura sulle leggi ci sono interpretazioni diverse, perché magari non si comprende il valore e il significato di un termine.
  La scuola italiana, per dare una risposta a tutte queste emergenze e a tutte queste richieste dei giovani, che lei ha ben riassunto in una serie di episodi e frasi semplici sul vissuto, deve indirizzarsi verso una didattica innovativa, che è quella di permettere ai ragazzi di sentirsi più partecipi e più protagonisti della scuola, e deve anche tutelare apprendimenti fondamentali.
  Qual è il suo parere su questo aspetto?

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Il problema è che quando si formula una diagnosi sintomatica, a seguire vi è un progetto sintomatico, il che significa che io prendo un segmento, sia come diagnosi sia come aiuto, ma mi sono perso tutta la persona. Questa è la risposta a quello che sta accadendo.
  Se la madre è depressa per motivi suoi giustificati (lutto o quello che sia) per tre anni, quando si riprende e il bambino ha cinque anni e va a scuola, non possiamo pensare che quei tre anni passino senza conseguenze. Quello che intendo dire è che non è la sintomatologia il punto fondamentale. Ho visto delle situazioni incredibili che non vengono mai prese in considerazione.
  Per fare un esempio banale, i bambini dislessici sono molto più numerosi tra i Pag. 17bambini adottati. Non è che questi presentino un danno neurologico, il bambino adottato è semplicemente più abbandonato degli altri, perciò hanno una percentuale maggiore di disturbi.
  Il bambino allontanato ha subito un trauma psichico. Stanno finalmente capendo che quando si verifica un trauma, questo può comportare varie manifestazioni, che possono essere la dislessia o il fatto che non parli o che non dorma. Il trauma incide. Se lo capiscono in Europa, lo capiremo anche in Italia. Noi lo stiamo dicendo da tanto, ma ci vuole una autorità amministrativa per far seguire una linea.
  Ricordo la giusta imposizione per legge, che obbligava i genitori a dire ai figli che sono adottati. Prima non glielo dicevano. Era un dramma, perché questi bambini crescevano con delle ombre mostruose e avevano delle forme di mania. «Perché non gliel'ha detto?» «Non è il momento» «Ma ha otto anni! Come pensate che poi non lo venga a sapere e sia peggio?» Questo è per dare un'idea.
  La legge 170 ha portato moltissimi soldi a tanta gente. Sono girati milioni e milioni con la dislessia. Se facciamo finta di niente, non riusciremo mai a modificare nulla: quel che è stato è stato. Magari, se si potesse cambiare il futuro, saremmo tutti contenti.
  Che cosa si può fare sugli apprendimenti? È molto semplice. Ci sono due aspetti. Visto che mandiamo i bambini al nido e alla scuola dell'infanzia, significa che il nido in un modo e la scuola dell'infanzia in un altro li devono favorire.
  Studiosi di tutto il mondo, americani inclusi – cito Bruner – dicono che tutte le elaborazioni che avvengono a livello cerebrale per giungere a un discorso simbolico, quindi a capacità astratte, nascono dal momento fisico, non dal momento della didattica che si fa a scuola. La capacità matematica nasce dall'organizzazione del corpo, non perché io faccio le capriole, ma perché lo vivo e lo esperimento.
  C'è tutto un lavoro che deve essere fatto nella scuola materna o dell'infanzia. Dopo ci potremo trovare bambini che vanno a scuola sereni e con la massima facilità imparino. Questa è la prima cosa.
  In secondo luogo, sono cambiati i tempi e ci deve essere un modo diverso di insegnare, perché abbiamo ragazzi diversi. Io quando vado nelle scuole vedo che la famosa LIM (Lavagna interattiva multimediale) è una stupidaggine, perché non la usa nessuno. I ragazzi guardano il professore e dicono: «Professore, guardi che sta sbagliando». Siamo fuori luogo, allora dobbiamo ricominciare. Nella scuola, tenendo conto di qual è il programma di studi necessario e giusto, dobbiamo dare delle forme di appartenenza e di esperienza.
  Noi cosa stiamo facendo? Guardiamo cosa fanno gli americani. Se fanno sport alle 4,00 e lingua cinese alle 5,00, noi copiamo. Ma non abbiamo gli stessi figli, né la stessa cultura, quindi la didattica deve essere diversa. Nelle stanze dei ragazzi americani trovate tutte le coppe del mondo, come se tutti fossero diventati campioni di tutto, e sotto i medicinali. Sono 11 milioni i ragazzi che prendono il Ritalin o farmaci per l'ADHD, e non sapete quanti ne prendono per la depressione. È un'altra società, bella o brutta che sia, ma noi non siamo loro e, quindi, dobbiamo rivedere e fare nelle scuole attività diverse.
  Per darvi un'idea, noi abbiamo fatto un progetto di un giornale nella scuola, che è partito a dicembre, che è «La scuola fa notizia». I ragazzi lo scrivono e i ragazzi lo leggono, perché non leggono i giornali. È inutile che diciamo che devono leggere. Se La Repubblica è passata da 750.000 a 250.000 copie, significa che c'è stato un crollo impressionante della lettura. Non possiamo pensare che leggano i giovani se anche gli adulti non la considerano importante. Su Repubblica.it vedono le fotografie e le curiosità più che gli articoli. Lo dico perché è una verità conosciuta.
  Abbiamo fatto questo giornale on line che si chiama «La scuola fa notizia». Da dicembre a gennaio abbiamo ingaggiato 250 redazioni scolastiche, con un professore che gli fa da «capo redattore». Seguiamo questi giornali. Loro scrivono, ed è una bella cosa, e informano così anche i loro pari. Si tratta di scuole pubbliche, medie e Pag. 18superiori. Adesso tutti scrivono, mandano foto, pensieri e gli altri li leggono. È l'unico modo per informarli, perché tanto noi non ce la facciamo nel modo tradizionale.
  Per quanto riguarda il discorso sessuale, quando se la dicono fra ragazzi una cosa corretta gira, ma gira anche quella sbagliata. Allora ci siamo messi nello stesso circuito loro. Dove passano le stupidaggini, mettiamo anche qualche cosa corretta, in senso sanitario o ideologico (ideologico nel senso di calma e di pace).
  La legge 170 sarebbe da modificare, per fare una grande differenza tra ciò che è difficoltà scolastica e ciò che è dislessia. I dislessici ci sono sempre stati, però non in questa misura. All'epoca, chi aveva difficoltà anche familiare e poi andava male a scuola non veniva considerato dislessico, si diceva «bambino con difficoltà familiare e difficoltà scolastica», non aveva un'etichetta. È questa la prima problematica.

  PRESIDENTE. Professore, ci sarebbero tante altre domande e approfondimenti da fare, compreso quello sulla povertà educativa, sulle connessioni con tutte le realtà che lei ha evocato. Ci troveremo un'altra volta.

  FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO, Direttore Generale dell'Istituto di Ortofonologia (IdO). Quando volete.

  PRESIDENTE. Peraltro, è stato anche molto piacevole ascoltarla, perché ha parlato in un modo pieno di entusiasmo e di passione, che si sente accompagna il suo lavoro, quindi due volte grazie.
  Lei sa che i testi vengono raccolti e pubblicati, quindi gli altri colleghi potranno conoscerlo. Noi speriamo di risentirla. Torneremo sicuramente a invitarla.
  Ringrazio il professor Bianchi di Castelbianco e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14.20.

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