XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza

Resoconto stenografico



Seduta n. 23 di Martedì 2 maggio 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Zampa Sandra , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA SALUTE PSICOFISICA DEI MINORI

Audizione della professoressa Franca Benini, responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche, e della dottoressa Lucia De Zen, referente per Terapia del dolore e cure palliative pediatriche AAS5 Friuli occidentale Pordenone.
Zampa Sandra , Presidente ... 3 
Benini Franca , responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche ... 3 
Zampa Sandra , Presidente ... 7 
De Zen Lucia , referente per Terapia del dolore e cure palliative pediatriche AAS5 Friuli occidentale Pordenone ... 7 
Zampa Sandra , Presidente ... 12 
Zanin Giorgio (PD)  ... 13 
Prina Francesco (PD)  ... 13 
Benini Franca , responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche ... 13 
Prina Francesco (PD)  ... 13 
Benini Franca , responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche ... 13 
Prina Francesco (PD)  ... 13 
De Zen Lucia , referente per Terapia del dolore e cure palliative pediatriche AAS5 Friuli occidentale Pordenone ... 13 
Prina Francesco (PD)  ... 13 
Zampa Sandra , Presidente ... 14 
Benini Franca , responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche ... 14 
Zampa Sandra , Presidente ... 14 
Benini Franca , responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche ... 14 
Zampa Sandra , Presidente ... 15 
De Zen Lucia , referente per Terapia del dolore e cure palliative pediatriche AAS5 Friuli occidentale Pordenone ... 16 
Zampa Sandra , Presidente ... 16 
Benini Franca , responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche ... 16 
Zampa Sandra , Presidente ... 16 
Zanin Giorgio (PD)  ... 16 
Benini Franca , Responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche ... 16 
Zampa Sandra , Presidente ... 17 

ALLEGATO 1: Documentazione presentata dalla dottoressa Franca Benini ... 18 

ALLEGATO 2: Documentazione presentata dalla dottoressa Lucia De Zen ... 62

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE
SANDRA ZAMPA

  La seduta comincia alle 12.40.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.

  (Così rimane stabilito).

Audizione della professoressa Franca Benini, responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche, e della dottoressa Lucia De Zen, referente per Terapia del dolore e cure palliative pediatriche AAS5 Friuli occidentale Pordenone.

  PRESIDENTE. Ho l'obbligo di dare comunicazione che il 14 giugno parteciperò a un evento promosso dalla Garante dell'infanzia e dell'adolescenza della Regione Umbria in materia di minori stranieri non accompagnati. Peraltro, il giorno successivo, sarò a Milano per due giorni di seminario sulla stessa materia.
  L'ordine del giorno di oggi reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla tutela della salute psicofisica dei minori, che ormai è davvero alle ultime battute, l'audizione della professoressa Franca Benini, che ringrazio molto, responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche, e della dottoressa Lucia De Zen, referente per Terapia del dolore e cure palliative pediatriche AAS5 Friuli occidentale e Pordenone.
  Sono stata, peraltro, a Pordenone tre giorni fa, per ragioni di lavoro.
  Comincerei dalla professoressa Benini, dando poi la parola alla dottoressa De Zen, non prima di avervi veramente ringraziato molto.
  Quest'audizione ci sta permettendo di conoscere la situazione delle cure per malattie molto gravi, che ovviamente mettono a rischio la salute e anche il benessere, inteso nella sua interezza e nella sua completezza, così come ovviamente coinvolgono, trattandosi di bambini, anche intere famiglie, quindi i genitori.
  Stiamo rendendoci conto che ci sono realtà molto differenziate nel nostro Paese, cosa che non sorprende, ma è ragione di rammarico, tanto più riguardando l'aspetto che caratterizza questa Commissione, che è l'infanzia. Ci si augurerebbe sempre che si riuscisse a fare un'eccezione, almeno da questo punto di vista. Ci sono realtà straordinariamente avanzate e davvero di grandissimo e straordinario valore e situazioni molto più complicate, con possibilità di accesso alle cure e anche condizioni in cui le cure sono erogate molto diverse.
  Darei la parola alla professoressa Benini, che accompagnerà il proprio intervento con materiale che ha portato e con le slide, e poi alla dottoressa De Zen. Vi pregherei di non superare, con entrambi gli interventi, i 30-35 minuti, anche perché, se arrivano dai colleghi domande o se vogliamo fare degli approfondimenti, dobbiamo darvi il tempo di fare le repliche. Grazie.

  FRANCA BENINI, responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche. Grazie a Pag. 4voi per questa opportunità. Stiamo parlando di due argomenti che sembrano un po’ a latere. Negli ultimi anni, c'è stato un grosso cambiamento tecnologico, che ha causato un abbassamento impressionante della mortalità infantile, portando a guarigione bambini che precedentemente di sicuro non avevano alcuna prospettiva di vita.
  Questo ha, però, determinato anche la comparsa di un cambiamento di bisogni assistenziali, creando nuove tipologie di pazienti e di situazioni e anche determinando nuovi obiettivi di salute. Fra questi obiettivi, sicuramente ci sono la terapia del dolore e le cure palliative pediatriche.
  Tutti noi sappiamo che cos'è il dolore, ma, quando ne parliamo in ambito pediatrico, molto spesso sembra che questo sia collegato solo a qualcosa di emotivo, mentre la letteratura ci dice che si tratta di un sintomo trasversale: il cento per cento dei bambini, senza limite d'età, percepisce il dolore, quindi il bambino, anche estremamente prematuro, come il bimbo che pesa 300 grammi, percepisce dolore e lo percepisce in maniera molto più importante rispetto alle età successive, fino a tre anni di età. Si tratta di un sintomo frequente e, secondo i dati nazionali, più dell'80 per cento dei bambini che entrano in ospedale hanno una patologia con dolore. A questo, si associa una prevalenza di dolore che supera l'80 per cento dei casi del dolore che provochiamo noi per la diagnosi oppure per la terapia.
  Un altro aspetto è che si tratta di un sintomo che viene dato per scontato. Molto spesso si dice «piangi che ti passa» oppure «che diventi grande». Bene, la ricerca ha portato, in realtà, in questi ultimi quarant'anni, a definire che attualmente il dolore in ambito pediatrico è drammaticamente ipotrattato ed è un sintomo anche molto pericoloso. Si è scoperto recentemente che il cervello in formazione del bambino, quando subisce un dolore non trattato, si modifica, quindi quello che noi non copriamo durante le prime età della vita lo ritroviamo nell'adulto, in cui viene modificata la soglia algica: si tratta quindi di un importante problema di salute a 360 gradi.
  È un po’ più complesso definire che cosa sono le cure palliative pediatriche. La prima cosa che dobbiamo dire, secondo la definizione dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), è che non sono le cure dei bambini che stanno per morire, ma dei bambini che hanno una malattia inguaribile e un'alta complessità di gestione, quindi le cure palliative pediatriche si differenziano in maniera notevole da quanto previsto per le cure palliative dell'adulto. L'obiettivo – lo dice la letteratura – è la qualità della vita, che è molto difficile da definire in ambito pediatrico, ma è far sì che un bambino possa rimanere tale fino agli ultimi istanti di vita.
  Quali sono i bambini che hanno bisogno di cure palliative? I neurologici, i muscolari, i metabolici, i cardiopatici – gli oncologici rappresentano una piccola fetta di questi bambini e sono meno del 18 per cento – ma il dramma è che questi bambini sono in continuo aumento.
  Questo lavoro evidenzia che ogni anno c'è un aumento di una percentuale dello 0,8 su 10.000 bambini. Questo è dovuto, da un lato, all'attività della medicina, che, portando molte soluzioni del problema, contemporaneamente permette a molti bambini di vivere nell'inguaribilità.
  Quanti sono questi bambini in Italia? In questo momento, ce ne sono 30.000. Per ogni bambino malato, 300 persone modificano la vita. Da un punto di vista sociale, quindi, si tratta di un'onda lunga che ricade non solo sulle famiglie, ma anche in ambito scolastico, in ambito lavorativo e in ambito relazionale.
  Le evidenze ci dicono anche che gli strumenti terapeutici ci sono: riusciamo a coprire per il 98 per cento il dolore efficacemente e, se facciamo bene le cure palliative, modifichiamo la qualità della vita e facciamo vivere anche più a lungo questi bambini, in una percentuale superiore al 99 per cento dei casi.
  L'Italia, inoltre, ha strutturato la legge n. 38 del 2010, che assicura il diritto anche del bambino, indipendentemente dall'età, all'accesso alle cure palliative e alla terapia Pag. 5del dolore. Si tratta di una legge importante, la prima a livello europeo, perché definisce il bambino diverso dall'adulto e specifica che chi si occupa di bambini deve essere formato a livello pediatrico e avere un'organizzazione di base consona ai bisogni del bambino. Questo modello si evidenzia con la formazione di una rete.
  Che cosa succede se parliamo, dalla scienza alla normativa, di quanto il bambino e la famiglia possano veramente godere di tutti questi strumenti? Bene, questa è un'indagine semplice da fare su Google Trends: se noi inseriamo i termini «dolore» e «algologia», vediamo che, dopo la legge n. 38 del 2010, l'interesse via via sta aumentando, ma, se noi inseriamo anche la parola «bambino», vediamo che siamo veramente fermi.
  I dati scientifici raccolti recentemente e pubblicati sulla letteratura internazionale ce ne danno conferma. Praticamente, un bambino viene valutato per l'entità del suo dolore nel 26 per cento dei casi, quando entra in ospedale, e solo nel 33 per cento di questo 26 per cento si usano strumenti adeguati, mentre la terapia viene fatta per un bambino su due.
  C'è un altro lavoro, pubblicato l'anno scorso, in cui si è studiato il prosieguo della gestione del dolore durante i ricoveri. Bene, solo un bambino su dieci viene seguito, per quanto riguarda la valutazione del dolore, secondo gli schemi a disposizione a livello internazionale e la terapia viene utilizzata in un terzo dei casi, nonostante ci sia un dolore medio-severo. Come vedete, nel 33 per cento dei casi, le mamme gestiscono il dolore.
  Quando viene usata poi la terapia antalgica, che cosa succede? Il fattore età è drammatico: per ogni anno di età che aumenta, medici e infermieri gestiscono meglio il dolore nel 14,8 per cento dei casi. Pur partendo dall'idea che quanto più questi bambini sono piccoli maggiore è il dolore percepito, nei bambini più piccoli si fa meno, ma anche nei ragazzi di diciotto anni, come vediamo, l'appropriatezza d'uso dei farmaci si riduce al 33 per cento.
  In globale, succede che, per un bambino su quattro che arrivano in ospedale o in un ambulatorio del pediatra di famiglia, il dolore viene valutato, quindi è come avere la febbre e non misurarla, mentre solo uno su tre viene trattato.
  Le cure palliative presentano una situazione ancora più negativa: meno del 5 per cento dei 30.000 bambini attualmente eleggibili può accedere alle cure palliative. Anche in questo caso, mi rifaccio un po’ a quanto diceva lei prima: la possibilità è condizionata dalla patologia in causa, per cui i bambini oncologici sono un po’ più «fortunati» degli altri, ma anche dal luogo di residenza, come l'Italia del nord, e soprattutto dall'età, poiché vengono gestiti soprattutto i bambini di un'età borderline con quella adulta, quindi al di sopra dei dieci anni di età. È come se ci fosse una grossa dissonanza fra quanto è possibile fare e quanto si fa, quando si parla di questi argomenti.
  Abbiamo appena finito un importante studio con l'Istituto superiore di sanità per capire dove sono le criticità e sono state individuate quattro aree di grande interesse.
  La prima di queste è il contesto socioculturale, perché si fa fatica a pensare che il bambino possa avere dolore e che possa morire, quindi, per lui soprattutto, la medicina viene vista solo ed esclusivamente come salvifica. Non è possibile concepire l'errore della perdita e, soprattutto per questa età, c'è una carenza drammatica di informazione, quindi gli aggettivi con i quali normalmente, anche in ambito sanitario, si parla di questi argomenti sono «inaccettabile», «difficile» e «negato», ma il passo all'impossibile è vicinissimo.
  C'è il caso che mi piace accennare di una bimba che, l'anno scorso a novembre, è morta per un neuroblastoma, una malattia oncologica. Il padre ha avuto il coraggio di seguire su Facebook tutta la storia di questa bimba e, quando lei è morta, ha messo l'immagine del momento della morte, dicendo «ci sono alcune malattie che non possono guarire, però vi prego fate che la vita sia dignitosa e che il dolore sia controllato».
  Che cosa c'è attualmente in Italia? Secondo un lavoro fatto con la Fondazione Pag. 6Lefebvre e l'Istituto superiore di sanità su una popolazione rappresentativa italiana, solo il 6,9 per cento conosce che cosa sono le cure palliative e il metodo attraverso cui hanno conosciuto le cure palliative è la televisione nel 32 per cento dei casi; il dramma, guardando l'area pediatrica, è che solo il 7,1 per cento degli intervistati riteneva le cure palliative adatte per l'area pediatrica, e quello che mi fa ancora più paura è che uno su quattro pensa che il bimbo sotto i sette anni di vita non percepisca dolore e non senta il peso della malattia inguaribile. Che cosa possiamo fare? Possiamo lavorare moltissimo su una comunicazione sociale adeguata.
  Abbiamo a che fare con un bambino che è speciale ed è in continuo e assoluto cambiamento. Inoltre, le patologie sono diverse. C'è una famiglia che lo gestisce e una peculiarità drammatica di situazione, che non è soltanto legata ai chili di peso, che continuano a crescere, ma è una situazione in evoluzione relazionale, cognitiva, di responsabilità e di scelte. Quei bambini hanno dei bisogni particolari, poiché le malattie sono complesse, e vivono molti anni, ma questi bisogni devono essere riconosciuti. Certo, i più facili sono i clinici, ma poi ci sono dei bisogni sociali, perché allontanare un bambino dall'ambito sociale e dalla scuola è come non dargli quello che gli è dovuto. Quei bambini hanno bisogno di crescita spirituale, per cui si innescano delle problematiche etiche importantissime.
  Poi, abbiamo a che fare con una famiglia che fa fatica a mantenere il suo ruolo, perché festeggia il compleanno del figlio, ma diventa la responsabile della care di un bambino del tutto peculiare e che, alle volte, gestisce in maniera drammatica l'ambito di tipo sanitario.
  In uno studio recentissimo che abbiamo fatto a Padova, una famiglia con un bambino che ha una malattia inguaribile dedica una media di 8 ore al giorno a procedure sanitarie. Questa famiglia, di conseguenza, scoppia. I numeri divisi in un gruppo di pazienti seguiti e pazienti non seguiti dalle strutture ci dicono che la rottura del nucleo familiare, se il paziente non è seguito, è di quasi uno su tre. La rinuncia del lavoro della madre è quasi normale e raggiunge il 64 e più per cento, ma anche il padre cambia lavoro. Il cambio globale dei progetti futuri della famiglia con perdita di ruolo è di 1 su 2. I numeri cambiano favorevolmente con un approccio istituzionalizzato nei confronti della malattia, quindi la famiglia ha bisogno di educazione, riferimento clinico, sostituzione e molto altro.
  Che cosa possiamo proporre? Dobbiamo valutare la peculiarità dell'essere bambino non come un handicap, ma come un valore assoluto.
  Sulla formazione, possiamo dire che in Italia, purtroppo, non esiste nessuna possibilità di essere formati su questi argomenti – in ambito infermieristico, forse un po’ di più – in ambito medico durante i corsi di laurea. Nei percorsi di specializzazione, secondo un lavoro che abbiamo fatto nel 2014, un medico pediatra in cinque anni ha una media inferiore a un'ora all'anno di studio e di preparazione su questi argomenti. Poi, se consideriamo che il 30 per cento di queste formazioni viene fatto in corsi opzionali, ci si rende conto perché il pediatra non sa che cosa sono la terapia del dolore e le cure palliative pediatriche.
  Secondo un lavoro del 2015 fatto su una compagine di pediatri che partecipa ai maggiori congressi nazionali, solo il 18 per cento conosce la legge n. 38 e quello che ne deriva, quindi, molto probabilmente, dobbiamo lavorare ancora molto sulla formazione intesa come professionalità.
  Poi, c'è il contesto politico-normativo, che provoca numerose alterazioni della ricaduta della legge. Ci sono tempi diversi di ricezione e di adeguamento nonché problemi economici e organizzativi. Si tratta di una legge che, peraltro, ci viene riconosciuta dall'ONU, per quanto riguarda le cure palliative pediatriche, come modello. Questa legge ha una visione del tutto peculiare della sanità: si basa sull'analisi dei bisogni, organizza una rete specialistica dedicata per ampi bacini d'utenza, in maniera tale che l'elevata competenza del team possa essere portata a casa, e parla anche dell’hospice pediatrico, una struttura dedicata al bambino, che non è l’hospice per Pag. 7l'adulto dove si va a morire, ma un trampolino di lancio per permettere a queste famiglie, e anche agli operatori della salute, di poter seguire a casa i bambini nell'inguaribilità.
  A che punto siamo, a sette anni dalla legge? La normativa è stata fatta in 14 su 21 regioni e province autonome. Abbiamo poi, con un'indagine telefonica, valutato anche che cosa viene fatto realmente per i pazienti di quelle regioni e i numeri calano notevolmente in alcune realtà, spiegando come solo il 5 per cento dei bambini possa essere seguito. La situazione diventa ancora più drammatica, quando parliamo di hospice. Ci sono meno di dieci posti letto in hospice pediatrico per 30.000 bambini.
  Si tratta di un problema di costi? No. La letteratura, che è moltissima, ha ormai definito che riusciamo a dare delle risposte a domicilio, riducendo in maniera drammatica i costi, quindi l'obiettivo che ci dobbiamo porre a livello normativo è soprattutto l'uniformità delle risposte. Si tratta di un'uniformità che si può raggiungere? Certamente.
  Abbiamo l'ipotesi della rete regionale del Veneto, costituita già dal 2003, con le caratteristiche funzionali: la rete è dedicata solo al paziente pediatrico e ha una reperibilità h24, 7 giorni su 7 ed esiste una équipe multidisciplinare dedicata, che segue i bambini in tutte le realtà e contemporaneamente fa formazione, raccoglie dati e ricerca.
  Questa mattina avevamo in carico 130 bambini in tutta la regione: si tratta di una specie di «ospedale liquido», dove non esiste il reparto, ma esistono le case. Inoltre, ci sono quattro bambini in hospice e c'è un'attività di consulenza continua (h24), che, per quanto riguarda il dolore specialistico, è aperta ai medici e ai familiari.
  Ecco i risultati: la qualità percepita è ottima, ma soprattutto, parlando nel concreto, c'è una riduzione drammatica del numero dei ricoveri di questi pazienti, che sono i più complessi in assoluto, perché da 9,7 siamo passati a 3 ricoveri all'anno, con un numero di ricoveri per acuzie che è di 0,6 all'anno. C'è un calo di giorni passati da questi bambini e queste famiglie in terapia intensiva e c'è la frequenza in ambito scolastico nel 73 per cento dei casi, con una ripresa del lavoro da parte della mamma, che, come vedete, è del 64 per cento. L'altro dato sicuramente importante è la valorizzazione del ruolo del medico di famiglia e del pediatra di famiglia, che, con un supporto a rete continuativo e h24, entra praticamente a pieno livello nella gestione di questi bambini nel 75 per cento dei casi.
  Il luogo di morte dei bambini è nel 75 per cento dei casi la casa. Abbiamo bisogno del vostro aiuto per salire questa scala. Ci siamo accorti che il problema è drammatico, ma nascosto, ed è un problema del quale, a livello culturale, si fa molta fatica a parlare: molto spesso i genitori ci dicono «solo adesso mi accorgo di quello che mi manca a livello sanitario».
  Gli strumenti ci sono perché c'è un'ottima legge e ci sono degli ottimi professionisti, che peraltro hanno bisogno di estrema formazione. Solo in questo modo possiamo far sì che quello che molto facilmente dichiariamo inaccettabile diventi dovuto; quello che alle volte ci sembra troppo difficile diventi solo complesso, come complessa è qualsiasi professione, se si fa bene; quello che è negato diventi finalmente evidente e perché, per tutti i bambini in Italia, quello che viene considerato attualmente impossibile diventi possibile.

  PRESIDENTE. Molte grazie, professoressa. Complimenti per l'efficacia dell'intervento e per la chiarezza e l'incisività. È stata anche in tempi assolutamente correttissimi.
  Passo ora la parola alla sua collega, la dottoressa De Zen.

  LUCIA DE ZEN, referente per Terapia del dolore e cure palliative pediatriche AAS5 Friuli occidentale Pordenone. Buongiorno a tutti e grazie dell'opportunità molto importante che ci avete dato questa mattina.
  Anche io mi ritengo una palliativista giovane. Avere la possibilità di capire quanto si possa fare in Italia, insieme, per questo ambito è sicuramente importante, anche per motivare i giovani pediatri e le giovani équipe che stanno crescendo in questo ambito. Pag. 8
  Io mi sono accordata con la dottoressa Benini per proseguire la presentazione nell'ambito dell'oncoematologia pediatrica, cercando di riassumere anche le audizioni che sono state fatte in precedenza da parte dei miei colleghi e portandovi dei dati attuali, che abbiamo condiviso con la presidente dell'Associazione italiana di Ematologia e Oncologia pediatrica, la professoressa Fagioli, per chiudere con la nostra esperienza in Friuli riguardo ai bambini affetti da patologie oncologiche in cure palliative.
  Per quanto riguarda l'ambito del bambino affetto da malattia oncologica, la difficoltà è che, se ci chiediamo quando egli possa diventare eleggibile alle cure palliative, in realtà, come ha ben spiegato la dottoressa Benini, la risposta è alla diagnosi, anche perché dobbiamo prendere in carico un bambino con una malattia che lo pone a rischio di vita e per la quale esiste uno specifico trattamento, ma questo effettivamente potrebbe fallire.
  In tutto il percorso di malattia, il bambino si trova ad avere bisogno della terapia che lo porta alla guarigione per la sua malattia, ma, in realtà, anche di una terapia di supporto, ossia una terapia di ambito palliativo, che, a seconda della gravità, quindi che si tratti di fase acuta o cronica o della terminalità, diventa un approccio di tipo palliativo, quando si vuole assicurare una risposta ai bisogni e al dolore, e diventa una terapia palliativa di tipo generale, quando i suoi bisogni aumentano di intensità, per terminare con una terapia palliativa di tipo specialistico, quando i bisogni sono molto complessi e l’équipe di oncologia e l’équipe di cure palliative si devono unire per formare un unico team per un'unica assistenza.
  Abbiamo scritto una conferenza di consenso lo scorso anno con la Commissione cure palliative della Società italiana di cure palliative (SICP), per cercare di dare una risposta alla domanda «quando un bambino affetto da tumore è eleggibile alle cure palliative specialistiche?». La risposta è: quando c'è la diagnosi di inguaribilità.
  Uno dei miei maestri in oncologia pediatrica – io sono nata come oncologa pediatra – mi ha sempre insegnato che questa è la diagnosi più difficile. Abbiamo cercato con questa conferenza di consenso di porci la domanda «quando il bambino è inguaribile?» ossia quando ha più recidive di malattia, quando ha una malattia resistente o quando non c'è nessuna possibilità scientifica di guarigione.
  Certo, queste sono delle frasi chiare e pulite, ma difficili da rendere nella pratica perché ci sono continue innovazioni terapeutiche e studi sperimentali aggiuntivi. Anche nelle audizioni precedenti, i professori di oncologia pediatrica vi hanno sicuramente evidenziato come le aspettative di guarigione possano continuamente cambiare rispetto ai nuovi studi e ai nuovi farmaci immessi nel mercato nel mondo scientifico.
  D'altro canto, c'è una situazione drammatica. La famiglia ha delle aspettative di guarigione rispetto a questi bambini, per cui, quando facciamo diagnosi e gli diciamo che questi hanno un'aspettativa di vita del 70-75 per cento, questa percentuale è tutto, anche se, in realtà, un 25 per cento non va bene.
  C'è una difficoltà da parte degli operatori sanitari ad accettare il fallimento. Per me, che sono partita dalla esperienza professionale come oncologa pediatra, accettare che per un bambino, per il quale io ho fatto una diagnosi e che ho inserito in un protocollo, la situazione vada male è difficile e soprattutto c'è una difficoltà a dichiarare l'inguaribilità.
  Che cosa sta succedendo? C'è un ritardo nell'avvio delle cure palliative pediatriche specialistiche, che, alla fine, vengono veramente attivate nella fase di terminalità o di fine vita.
  Dobbiamo, quindi, cercare di migliorare la definizione di inguaribilità, per assicurare al bambino e alla sua famiglia un approccio globale della sua salute e della sua qualità di vita.
  La letteratura e la best practice ci possono dare una mano. Sempre in questa conferenza di consenso, abbiamo cercato di entrare dentro questa definizione di inguaribilità, cercando di evidenziare delle categorie di bambini affetti da tumore per i quali sia necessario attivare, già alla diagnosi, Pag. 9 le cure palliative pediatriche specialistiche.
  Lo dico perché, se io ho un bambino con un glioma intrinseco del tronco, so che purtroppo la medicina per quel bambino ha poco da offrire in termini di guarigione, ma tantissimo in termini di cura. Mi devo attivare subito perché, per quel bambino, probabilmente l'aspettativa di vita è di qualche mese o di un anno e devo garantire a quella famiglia il massimo dell'assistenza.
  Il punto fondamentale è porsi il problema dell'eventuale inguaribilità, durante tutte le fasi della malattia. Questa discussione può venire solo in team: il team dell'oncologo e il team delle cure palliative si confrontano e condividono situazioni difficili e complesse. La parola chiave è sicuramente il lavoro in équipe.
  Siamo andati a vedere come lavorano i centri di ematologia e oncologia pediatrica in Italia e come condividono questi percorsi e queste storie di malattia con i palliativisti. Questa è un'indagine che in parte vi è stata presentata nei mesi scorsi, però, in accordo con la professoressa Fagioli, siccome abbiamo concluso lo studio, vi presentiamo i dati, che erano parziali e coinvolgevano solo 22 centri.
  Abbiamo chiuso nei primi giorni di aprile lo studio, a cui hanno risposto 44 centri AIEOP su 52, quindi l'87 per cento. Gli 8 centri che non hanno risposto sono egualmente distribuiti su tutto il territorio italiano, quindi la fotografia che abbiamo include nord, centro a sud e non ci sono differenze geografiche.
  Si trattava di un questionario, in cui la prima domanda era: nel vostro centro, come viene gestita l'assistenza al bambino o all'adolescente con diagnosi di inguaribilità e alla sua famiglia? La cosa importante è che il 25 per cento condivide la presa in carico con l’équipe di cure palliative pediatriche specialistiche, mentre il restante 75 per cento o fa da solo, come centro di oncologia, oppure nel 18 per cento, ancora probabilmente in una situazione di non aderenza alla legge n. 38 e alle indicazioni che la dottoressa Benini vi ha detto, affida e condivide la storia del bambino con l’équipe di cure palliative non pediatriche, quindi dell'adulto.
  Per il 25 per cento che condivide la presa in carico con l’équipe di cure palliative pediatriche specialistiche, in realtà, bisogna evidenziare il fatto che ci sono undici centri, di cui tre afferiscono alla regione Veneto, quindi condividono la presa in carico con la dottoressa Benini, e due afferiscono alla regione Friuli Venezia Giulia, quindi condividono il caso con la nostra équipe di Pordenone. In realtà, dentro quella fetta del 25 per cento ci sono due regioni e qualche altro centro in Italia, come Roma, Firenze e Torino, e questa è una prima criticità.
  L'altra domanda è: nel vostro centro le cure palliative sono erogate in un contesto di simultaneous care nella fase di terminalità? L'indicazione data da un percorso pulito di cure palliative sarebbe quella del simultaneous care, ma, in realtà, il 48 per cento coinvolge le cure palliative solo nella fase di terminalità.
  Abbiamo chiesto se ci sia uno psicologo strutturato e dedicato all'assistenza. Questo era anche uno dei punti critici, che era stato evidenziato nelle precedenti audizioni. Effettivamente, c'è un 68 per cento di psicologi che appartengono allo stesso Centro dell'Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica (AIEOP), quindi non c'è uno psicologo dedicato alle cure palliative: solo per il 9 per cento si tratta di uno psicologo con comprovata formazione in cure palliative, mentre la restante parte o non ce l'ha oppure fa anche altro.
  La condivisione con i pediatri di libera scelta avviene nel 5 per cento dei casi sempre – anche se poi magari il pediatra non è attivamente coinvolto nel percorso di cura – e talvolta nel 28 per cento dei casi. In realtà, non si coinvolgono i pediatri di base nella comunicazione dell'inguaribilità nel 55 per cento dei casi, anche se poi si dichiara di coinvolgerlo nel percorso di cura.
  Questa è una dissonanza perché, se io non coinvolgo il pediatra, nel momento in cui comunico alla famiglia che quel ragazzo è diventato un paziente inguaribile, faccio fatica a pensare di coinvolgerlo poi Pag. 10nel percorso di cura, quindi mi verrebbe meno quella capacità di dare una continuità assistenziale nei diversi setting, che è uno dei requisiti previsti anche dalla legge.
  Rispetto alla possibilità di usufruire di un'assistenza domiciliare, ci dicono che questa è prevalentemente infermieristica non specialistica nel 46 per cento dei casi, mentre nel 41 per cento è di tipo specialistico. In realtà, potrebbe esserci un bias, anche perché l'Associazione italiana contro le leucemie (AIL) sta supportando numerosi progetti di assistenza domiciliare nel territorio, che non sono di tipo palliativistico, quindi probabilmente, in questo caso, c'è anche una sovrapposizione tra l'assistenza domiciliare fatta in un ambito di progetto di guarigione, come il prelievo e la medicazione, e l'assistenza domiciliare fatta in un contesto di cure palliative.
  Rispetto ai decessi, nel 2015 i Centri AIEOP intervistati hanno dichiarato 333 decessi, di cui il 39 per cento è avvenuto a domicilio, il 32 per cento nel reparto di oncoematologia pediatrica e il 12 per cento in terapia intensiva. C'è un 7 per cento di altro, che in realtà corrisponde agli hospice degli adulti. Anche in questo caso, probabilmente si tratta di una terminalità che non è stata gestita secondo le indicazioni e la normativa.
  Rispetto al domicilio, il 39 per cento corrisponde a 139 bambini, distribuiti in 39 Centri. Questo vuol dire che, a parte alcuni centri più grossi, come quelli di Padova, Genova e Monza, che hanno dichiarato dei numeri piuttosto alti, gli altri sono bambini deceduti a domicilio e sparsi in 39 centri. Questo vuol dire che l’expertise dei Centri AIEOP rispetto alla terminalità a domicilio non è ritenuta così importante o non è un percorso ben strutturato perché, se si dichiararono 1-2 decessi a domicilio, forse non c’ una rete o un percorso ufficiale.
  Rispetto al programma di supporto all'elaborazione al lutto, solo il 7 per cento ha un percorso istituzionalizzato, mentre il 57 per cento ha un percorso che non è istituzionalizzato e viene organizzato a seconda delle situazioni e anche delle richieste dei genitori; però un 36 per cento non ha programmi di supporto all'elaborazione al lutto, anche se sappiamo quanto accompagnare le famiglie nella terminalità e aiutarle a superare la perdita del figlio sia fondamentale per aiutare quella famiglia a ricostruirsi e ad avere ancora dei desideri e delle progettualità nella coppia, ma anche per i figli e per i fratelli del bambino che è venuto a mancare, quindi io lavoro nel momento della terminalità per portare poi un benessere sociale e psicologico a quella famiglia. Anche in questo caso, i numeri sono effettivamente ancora troppo bassi.
  Riguardo alla formazione, semplicemente vorrei dire che i medici fanno prevalentemente una formazione di master di primo o secondo livello e corsi di perfezionamento, mentre gli infermieri fanno più una formazione interna o sul campo. Mi piace evidenziare che i medici hanno solo un 8-10 per cento di bisogno di formarsi in cure palliative pediatriche e terapia del dolore, mentre gli infermieri hanno bisogno quasi del 38-40 per cento. Anche in questo caso, dico sempre alle mie infermiere «voi siete quelle che tirano e che trascinano perché le infermiere hanno una sensibilità che, per quanto io sia pediatra e sia nata come pediatra, magari qualche volta come medici ci perdiamo un po’ per strada».
  Abbiamo chiesto: se ritenete che le vostre cure palliative siano in difficoltà nello sviluppo, secondo voi qual è il problema principale? Solo il 3 per cento ci ha sottolineato le difficoltà economiche. La maggior parte ci ha esposto come criticità la carenza del personale, la sua formazione e le difficoltà organizzative, in quanto lavorare in rete e in team vuol dire organizzarsi e questo non è sempre facile.
  Vi porto l'esperienza di Pordenone perché volevo concludere con un messaggio positivo: non è facile, ma insieme ce la possiamo fare. Noi siamo partiti nel 2011, con una rete di cure palliative e assistenza domiciliare pediatrica a Pordenone. La nostra è una rete a 360 gradi e a me piace dire che in questo momento sto seguendo sì 60 bambini, ma 155 familiari, cioè, in realtà, io conto, considerandoli come pazienti, anche i familiari. Pag. 11
  Racconto sempre un aneddoto: quando lavoravo in oncologia pediatrica a Padova, sapevo tutto della malattia residua della leucemia di quel bambino, ma sapevo poco della sua famiglia. Spesso non vedevo i fratelli e le sorelle perché al centro specialistico viene un genitore con il figlio e difficilmente tutta la famiglia; invece, andando a casa, conosco la realtà che vivono tutti i giorni: conosco i fratelli e i nonni, che magari a volte vivono insieme, e mi rendo conto dei problemi dell'abitazione e del problema sociale. Il genitore racconta le sue difficoltà economiche e magari le difficoltà col marito o con la moglie.
  Attorno a tutti questi familiari, ci sono pediatri di base, medici di medicina generale, distretti, ambiti, scuole, volontariato, centri specialistici, ospedali locali. C'è, quindi, un mondo. Noi siamo piccoli, anche se lavoriamo bene, secondo me, perché ci sono un medico, un'infermiera e una psicologa.
  Ci tengo a sottolineare che la psicologa è assunta dall'ospedale. Anche questa è una delle criticità emerse nelle audizioni precedenti, per cui il 75 per cento degli psicologi è finanziato con borse di associazioni di volontariato. Noi abbiamo fortemente voluto che fosse una dipendente dell'azienda perché è giusto così.
  Abbiamo tutti fatto formazione, quindi mi richiamo anche al concetto di prima: si può fare la formazione sia per i medici che per le infermiere. Inoltre, abbiamo due progetti sperimentali di moduli sul respiro e una dietista, finanziati dalla Fondazione Maruzza e dall'Associazione contro le leucemie.
  Portiamo a domicilio praticamente tutti. Anche gli oncologi vengono a fare le visite domiciliari con noi o altri specialisti, come il neurologo, il fisiatra, il logopedista eccetera. A casa facciamo tutto, a parte le indagini radiologiche. Facciamo anche le chemioterapie e le trasfusioni e facciamo la formazione perché, quando si va a casa, portiamo il pediatra di base e l'infermiera dell'Assistenza domiciliare integrata, la quale imparerà a gestire un bambino, essendo prevalentemente abituata ad avere pazienti anziani. Anche la scorsa settimana, un infermiere mi ha detto «in questo momento, il paziente più giovane che sto seguendo ha 82 anni e lei, dottoressa, mi sta chiedendo di seguire un bambino di due anni». Però, se si va insieme, ci si trascina e si crea formazione ed esperienza.
  A domicilio, gestiamo anche la terminalità. Mi soffermo a spiegarvi cosa voglia dire prendere in carico il bambino terminale a casa.
  Noi condividiamo tutto il percorso con i genitori e con i colleghi oncologi. La scorsa settimana abbiamo avuto un colloquio post mortem con i genitori di un ragazzo, che ci ha lasciato un mese fa, e con la sorella di 12 anni. L'aggettivo col quale il papà ha definito l'esperienza della terminalità a domicilio è stato «grandioso» e mai mi sarei aspettata che un genitore mi dicesse una cosa del genere.
  La mamma mi ha detto «non ho percepito soluzione di continuità, passando dall'oncologia pediatrica, dove mi aspettavo di trattare mio figlio per la guarigione, a una terminalità, andando a casa per accompagnarlo e per garantirgli la qualità di vita che lui voleva», anche perché lui voleva tornare a casa. Il papà ci ha detto «quando voi mi avete preso in carico e mi avete spiegato che il ragazzo ci stava lasciando, mi sono spaventato, ma, nel momento in cui ho visto che voi eravate in sintonia con gli oncologi, perché vi siete parlati e c'è stato il passaggio di consegne, ed eravate così decise a portarci a casa e a dare a mio figlio l'assistenza, ho detto ci sto ed è andata bene».
  Questo vuol dire che, insieme, ce la possiamo fare, anche perché l’équipe di cure palliative pediatriche è sempre presente h24, come diceva la dottoressa Benini. Il papà, a casa, mi ha detto «ero sicuro che, in qualsiasi momento avessi avuto bisogno di qualcosa, voi c'eravate». Questo è fondamentale perché, altrimenti, la legge ci può dire che dobbiamo incrementare la terminalità a domicilio e che dobbiamo incrementare la rete, ma, se non hai la possibilità di esserci h24, il genitore non accetta, ha paura e torna in ospedale.
  Abbiamo un programma di supporto nell'elaborazione del lutto. Vi ho raccontato Pag. 12 dell'incontro fatto a tre settimane dal momento del decesso, in cui rivediamo il percorso di malattia. A questo incontro vengono anche gli oncologi perché, insieme a loro, rivediamo quello che abbiamo fatto e rivediamo insieme se qualcosa si poteva fare diversamente. Inoltre, cerchiamo anche di rispondere a domande che i genitori non ci hanno mai posto, magari per timore o per paura, visto che hanno talmente tanti pensieri. Inoltre, valutiamo il rischio del lutto patologico e le progettualità future.
  Per noi operatori è importante ritrovarsi faccia a faccia con questi genitori per evitare anche il nostro burnout e per condividere con loro anche la nostra sofferenza, perché non è che noi siamo immuni, quindi veramente chiudiamo il cerchio. Lo chiudiamo per quanto riguarda l’équipe di cure palliative, ma, in realtà, lo proseguiamo con la psicologa, che continua a incontrare i genitori finché ne hanno bisogno.
  Questo è solo un flash per dire che anche nelle cure palliative si può fare ricerca. Abbiamo un programma innovativo di telemedicina perché, come avete visto prima, è facile dire «faccio rete», ma se voglio essere in sintonia con il pediatra di base o con l'infermiera dell'Assistenza domiciliare integrata devo comunicare, quindi la tecnologia ci viene in aiuto. Questo programma è condiviso tra operatori con un foglio di terapie informatizzato, per cui la terapia che il bambino fa a domicilio si può vedere in tempo reale in cloud e tutti gli operatori autorizzati ad entrare, come il pediatra di base, vedono se io ho modificato la terapia. Questo accade soprattutto nell'ambito della terapia del dolore. Possiamo rilevare i parametri vitali a domicilio perché io posso avere il saturimetro e altri presìdi a casa.
  Abbiamo i progetti di volontariato e la Fondazione Lefebvre ci sostiene già da anni in un progetto bellissimo, quello dei «Moduli di respiro». Forniamo due infermieri e due educatori che fanno parte dell’équipe e che vanno a domicilio per regalare tempo ai genitori e alla famiglia. Questo vuol dire che io posso mandare il genitore a mangiare la pizza con il coniuge, quindi posso aiutarlo in quello che diceva prima la dottoressa Benini, cioè a continuare a fare coppia e famiglia, perché mi occupo io del loro figlio, e loro ci dicono «siamo sereni quando chiudiamo la porta di casa». Inoltre, li portiamo in montagna e portiamo i clown a domicilio, quindi, invece di portarli in corsia, li portiamo a casa.
  In una poesia che Giovanni ci ha scritto, mi piace l'ultima frase perché, se un bambino di otto anni dice che, con la domiciliare, la malattia è come se fosse andata via, penso di aver fatto goal, facendo quello che è giusto fare in un ambito di cure palliative a domicilio.

  PRESIDENTE. Molte grazie davvero, dottoressa. Le sue sono informazioni molto preziose e indicano, come dicevo nella breve introduzione, la capacità e le eccellenze del nostro Paese, quindi fa piacere sentirle. Esprimo anche la nostra ammirazione a entrambe, che avete scelto una specializzazione che comporta una capacità di generosità e di dedizione molto alta.
  Il deputato Zanin vuole già fare una domanda, ma anche il collega Prina. Vorrei anch'io farne, professoressa Benini. Lei ha parlato del tema del dolore fornendo un'informazione che, per quanto mi riguarda, confessando la mia ignoranza, non conoscevo: più si è piccoli e più si avverte il dolore.
  Non ho capito bene come si misura il dolore, cioè come fa un genitore o un familiare a capire che un bambino piccolissimo è in una situazione di dolore, che non è il mal di pancia del neonato (per intenderci), e se c'è sufficiente educazione da questo punto di vista, anche perché ho l'impressione che non sia così.
  Anche in questo caso, la distanza tra la realtà, la legge e le eccellenze è enorme. Riflettevo sul fatto che anche i suoi dati confermano che la televisione è praticamente il veicolo, lo strumento e il media assolutamente più capace di arrivare ancora adesso alle famiglie, quindi a informarle.
  Penso che sarà anche molto bene che questa Commissione trasmetta i dati al Presidente della Rai, Monica Maggioni, quindi almeno alla televisione pubblica, e Pag. 13forse anche ai colleghi della Vigilanza Rai perché, anche se ora c'è molta informazione scientifica, in questo caso si tratta di mandare messaggi più di pubblica utilità.
  Do la parola prima al collega Zanin e poi al collega Prina.

  GIORGIO ZANIN. Grazie, presidente.
  Volevo associarmi anzitutto al commento che ha fatto la presidente nel ringraziarvi personalmente per il lavoro che svolgete. La seconda sottolineatura preliminare è senza dubbio il fatto che, dopo quello che avete presentato in termini di dati, possiamo anche, in un certo qual senso, confermare quello che in generale, nel corso del ciclo di audizioni per quest'indagine conoscitiva, abbiamo già ripetutamente potuto toccare con mano, cioè che il nostro Paese ha veramente a disposizione un know-how eccellente per gestire tantissime situazioni ad alto livello di complessità e per rendere possibile e accessibile la risposta sui dettati degli indirizzi generali, che sono in tanti documenti e che tutti noi conosciamo in astratto, ma che poi bisogna tradurre in forma concreta.
  C'è un aspetto che più mi ha colpito e su cui magari c'è maggiore attenzione. La presidente ha sottolineato l'importanza di fare leva sugli strumenti che abbiamo a disposizione a livello nazionale e in qualche misura ai mezzi di comunicazione e di informazione; ma il tema vero, che mi pare, dottoressa Benini, di dover toccare, è quello della formazione dei pediatri di base, perché si tratta di un'ora annua soltanto, ma la qualità dell'informazione che principalmente passa a quel livello, come sappiamo tutti, è fondamentale.
  Che cosa si può fare? Qual è l'indirizzo da seguire? Ovviamente questi aspetti riguardano l'ordine e non abbiamo potestà legislativa diretta, però credo che, nel panorama delle azioni possibili, sia nelle corde di questa Commissione realizzare e mettere a fuoco alcuni spunti.
  Questo tema mi sembra particolarmente incisivo perché poi è la liaison che mette a disposizione lo sviluppo del know-how e che trasforma la domanda anche in offerta.

  FRANCESCO PRINA. Mi associo alla presidente nell'apprezzamento e nel fare i complimenti per l'esposizione e per quello che state facendo e l'eccellenza che esprimete. Volevo fare delle domande specifiche alla dottoressa Benini e alla dottoressa De Zen.
  Dottoressa Benini, i dati che ho sentito, anche se sono arrivato leggermente in ritardo, erano nazionali?

  FRANCA BENINI, responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche. Sì.

  FRANCESCO PRINA. Alcuni erano nazionali e altri regionali. Però, quello dei 30.000?

  FRANCA BENINI, responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche. È un dato nazionale.

  FRANCESCO PRINA. Benissimo. Sarebbe interessante sapere l'emigrazione sanitaria sud-nord, tanto per intenderci, perché, da tutte le audizioni fatte, avvertiamo questo risultato, che purtroppo è un dato reale. Sarebbe interessante sapere se, in questa fase di età, la questione è legata al territorio.
  Poi, abbiamo sentito che solo 14 regioni su 20 hanno deliberato una legge regionale.
  Dottoressa De Zen, il supporto psicologico alla famiglia per il lutto è previsto dalla legge o è solo sperimentale, per quanto riguarda il vostro centro o i centri di eccellenza?

  LUCIA DE ZEN, referente per Terapia del dolore e cure palliative pediatriche AAS5 Friuli occidentale Pordenone. È previsto.

  FRANCESCO PRINA. Mi sembrava interessante che lei dicesse che non si tratta solo dei 60 bambini che le sono affidati, ma di 155 perché evidentemente l'interazione con quello che succede per la fase terminale di assistenza o di accompagnamento è davvero complessiva per tutta la famiglia e non per il singolo caso.

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  PRESIDENTE. Prima di darvi la parola per la replica, approfitto per aggiungere anch'io una domanda.
  In molti luoghi ci sono anche associazioni no profit, che accompagnano il vostro lavoro, come a Bologna, che io conosco bene, che, per esempio, provvedono a seguire anche nel post mortem i fratelli.
  Vorrei capire se c'è qualcosa del genere. Per esempio, nella formazione siamo molto attivi, cioè ci sono davvero, anche da questo punto di vista, delle eccellenze, che addirittura in qualche caso contribuiscono a mantenere i ricercatori con borse di studio.
  Do la parola alla professoressa Benini per la replica.

  FRANCA BENINI, responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche. Alla prima domanda «è possibile misurare il dolore nel bambino piccolo?», rispondo di sì. Ci sono dei termometri di valutazione del comportamento e dei parametri fisiologici, che ci permettono di capire se il bambino ha male e addirittura quanto male ha. In più, esistono, nei casi estremamente dubbi, delle modalità di tipo specifico e, alle volte, sperimentali, come, per esempio, l'analisi spettrografica del pianto. Addirittura, in alcune situazioni, soprattutto nei bambini con problemi cognitivi, in cui fai veramente fatica a capire se si tratti di dolore o di patologia neurologica in avanzamento o meno, si ricorre anche a indagini più specifiche, come test funzionali.
  Le mamme possono utilizzare questi strumenti. Stiamo, infatti, partendo con una campagna informativa: visto che facciamo fatica a cambiare gli operatori, cercheremo di lavorare sull'incremento della domanda conscia di quello che si può fare.

  PRESIDENTE. Che segnali dà un neonato che ha male? Piange con particolarità intensità?

  FRANCA BENINI, responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche. Il pianto non viene considerato un segno patognomonico del dolore, perché il bambino può piangere per fame, per voglia di coccole o per capricci. È molto più significativa la sudorazione delle mani o dei piedi ed è molto più significativa la frequenza cardiaca o la pupilla che diventa piccola, ma quello che è caratteristico è un grimage (espressioni peculiari) tipico a livello del volto.
  Esistono delle scale che le mamme utilizzano anche per i bambini con handicap e che si costruiscono con i genitori, che permettono di fare questo tipo di valutazione. Alle volte, si dice che non si usano perché si impiega tanto tempo. Tutto questo non è noto, ma è anche dovuto al fatto che, come abbiamo detto, la prima criticità è culturale. Il dolore è qualche cosa di normale e si tende a dire: «Piangi pure che diventi grande» o «Piangi che ti passa».
  Il secondo problema è sicuramente quello della formazione. Questo è un problema critico a due livelli: in primo luogo, non si fa formazione e, in secondo luogo, adesso, anche se si volesse partire con i centri, si fa molta fatica a trovare degli operatori formati. La formazione prima della laurea, a livello di medico, infermiere e psicologo, è una necessità, perché è importantissimo riuscire a capire che la medicina, qualche volta, non può fare nulla e che quei pazienti non possono essere abbandonati, quindi bisogna cominciare dalle prime fasi di formazione.
  Addirittura, in alcuni Paesi, si comincia a parlare di cure palliative e terapia del dolore nel primo biennio di medicina perché ti metto di fronte alle enormi possibilità innegabili della medicina, però ti metto di fronte anche alla possibilità che queste enormi possibilità possano fallire.
  Non a caso, il 90 per cento dei medici che si occupano di dolore e di cure palliative, come la sottoscritta, hanno un percorso lunghissimo di area critica, per cui tu ti porti dietro una miriade di strumenti, sempre più innovativi, perché vai all'estero, ci stai anni, porti l'Ossigenazione extracorporea a membrana (ECMO) e fai tutto, ma basta quel bambino per il quale la cosa non funziona e metti sul piatto della bilancia quanto è costato quel mio interventismo. Questo non significa rinunciare alla ricerca Pag. 15e alla guarigione, ma significa utilizzare in maniera adeguata quello che la medicina e la scienza ci forniscono.
  Assolutamente, è necessaria una formazione prima della laurea al medico, all'infermiere e allo psicologo. So che il MIUR sta lavorando in questa logica. Purtroppo, non esistono grosse personalità che possono fare formazione in questo settore.
  L'altro campo è la formazione specifica. La legge n. 38 aveva un articolo che definiva la necessità di formare dei percorsi formativi di alta specializzazione, che purtroppo non sono professionalizzanti, ma le fa la persona perché ha bisogno di sentirsi formato, e sono Master di secondo livello biennali. Attualmente, in Italia ce ne sono tre e sono percorsi molto complessi perché danno, a parte i contenuti di gestione clinica, anche tutti i contenuti della governance, quindi in merito alla strutturazione del centro, come si lavora in équipe e come funziona la rete.
  Ora, se io avessi un sogno e una bacchetta magica, lavorerei molto sulla formazione prima della laurea e anche nel percorso di specializzazione in pediatria o anestesia, che sono le uniche due figure riconosciute per legge in grado di lavorare all'interno dei centri di riferimento, quindi prevederei degli ampi spazi durante la scuola di specializzazione.
  È necessario un punto chiaro con un indicatore chiaro perché, quando mi riferisco al dolore, non parlo solo da un punto di vista psicologico. Devo saper usare molto bene i farmaci e devo mettermi all'altezza di quel bambino anche per dare un supporto di tipo psicologico, per cui, se non riesco a darlo, devo avere chiara in testa una rete per attivare quel tipo di supporto. Queste informazioni non ci sono.
  La terza domanda era relativa alla migrazione. Un po’ di anni fa, ho lavorato per il Ministero della salute nell'ambito dei progetti di sviluppo delle cure palliative pediatriche. Praticamente, ho fatto il giro delle regioni per recuperare dei dati che non si hanno a disposizione: non si ha il numero dei bambini che hanno una malattia inguaribile e, soprattutto, non si sa dove questi muoiano.
  Mi ricordo che sono andata in Regione Basilicata. Quell'anno, in Basilicata non era morto nessun bambino. Ecco perché siamo andati a spulciare le storie di questi bambini, che erano morti a Roma, a Bologna, in Veneto e al Gaslini di Genova. Ci siamo messi a lavorare seriamente ed è stato creato un nucleo. Devo dire che la regione Basilicata ci dà l'esempio sulla possibilità di fare le cose: si è costruito un centro e si è costruita una rete.
  Certo, non è tutto oro quello che luccica: mantenere una rete è difficilissimo ed è molto più facile aprire un centro trapianti che parlare di queste cose, anche perché si finisce sui giornali, si hanno fondi, si ha personale e si hanno risorse. Tuttavia, nell'arco di tre anni, i bambini hanno cominciato a tornare con le loro famiglie e a vivere l'inguaribilità in regione Basilicata. Attualmente, c'è un nucleo che ha in carico 20 bambini.
  Il percorso della migrazione è, secondo me, di per sé sbagliato, come concetto di dover eradicare la mia famiglia, mio figlio e me stesso, però è logico che ciascuno di noi va dove gli viene offerta una possibilità migliore.
  Quello che è drammatico, quando non c'è più nulla da fare per la guarigione, è che queste famiglie continuino a vivere al di fuori della loro realtà. All’hospice dove io lavoro, molto spesso ci arrivano richieste da tutte le regioni d'Italia di poter venir lì e io continuo a dire che questo non è un posto dove si viene a morire, ma si viene a imparare per vivere a casa propria con una realtà difficile da gestire, con qualcuno che è fuori dalla porta e che h24 ti riesce a risolvere i problemi, non solo clinici: se il papà perde il lavoro, se la mamma va in crisi depressiva, se il fratello viene bocciato e magari sta prendendo una brutta via, se il paziente non ha tutti i diritti economici che gli sono dovuti.
  Questo insieme di situazioni certo non modifica il risultato collegato alla malattia, ma ne modifica in maniera rilevante la qualità e il vissuto.

  PRESIDENTE. Tocca a lei, dottoressa De Zen.

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  LUCIA DE ZEN, referente per Terapia del dolore e cure palliative pediatriche AAS5 Friuli occidentale Pordenone. Vorrei aggiungere al discorso sulla migrazione, che, rispetto a quando lavoravo in oncologia pediatrica a Padova, dove avevo i bambini e le famiglie che arrivavano dal sud prevalentemente e da altre regioni, adesso, lavorando in un ambito di cure palliative pediatriche, mi trovo a osservare quasi la migrazione al contrario: a Pordenone e soprattutto in Friuli, ci sono molte famiglie, che vengono dal sud per via delle caserme e dell'Esercito e che, per quanto noi le aiutiamo, sono socialmente sole. Queste famiglie scelgono con il nostro supporto – ne abbiamo portati a casa tanti – di ritornare nei loro paesi d'origine e nelle loro città, dove cerchiamo di inserirli nella loro rete sociale per un aiuto. In effetti, comanda la qualità di vita e sanno che in qualche modo noi li possiamo continuare a seguire. Tant'è che coinvolgiamo la pediatria locale e cerchiamo di dare una mano.
  Queste famiglie rientrano nelle loro città, quindi mi sono trovata veramente a vedere uno spostamento di famiglie completamente dettato da bisogni diversi: il bisogno della qualità e il bisogno di condividere il fatto di avere un bambino così gravemente ammalato e non il centro specialistico che ti dà la risposta terapeutica, il che è già tantissimo. Non so se riesco a spiegare la differenza.
  Questo effettivamente è un modo per aiutare le famiglie a condividere e a vivere con questi percorsi di malattie, che possono durare anche tanti anni. Anche questo è un grosso problema, perché le traiettorie di vita dei bambini in cure palliative pediatriche non sono i 90 giorni delle cure palliative dell'adulto, ma durano anni, per cui, in questi anni, dobbiamo sostenere le famiglie.

  PRESIDENTE. Rinnovando davvero il nostro ringraziamento, provvederemo anche a far avere quest'audizione alla ministra Lorenzin. Sarà nostra cura farle avere questi dati su cui occorre riflettere, secondo me.
  Tutte le nostre indagini si concludono con documenti che vanno all'attenzione del Parlamento. Tali documenti vengono consegnati e sono a disposizione anche di quanti vogliano leggerli pubblicamente, nel senso che questi vengono pubblicati sul sito della Camera. Avevamo già stabilito che l'onorevole Zanin fosse relatore di quest'indagine conoscitiva.
  Credo che il numero degli hospice stia aumentando per la parte che abbiamo potuto audire qua. Siamo stati informati che ci sono almeno, se non erro, due iniziative in corso.

  FRANCA BENINI, responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche. Ce ne sono di più. Il grosso problema è l'avvio, perché alcuni hospice sono già pronti da tempo, ma non partono: manca il personale e ci sono delle priorità diverse. Torniamo al discorso per cui è più facile attivare un centro trapianti cuore e polmone che non attivare un hospice pediatrico.

  PRESIDENTE. È anche vero, però, che, come voi ci confermate, questi bambini e ragazzini, soprattutto quelli che possono indicare in qualche modo la propria volontà, mediamente vogliono tornare a casa.

  GIORGIO ZANIN. Solo per dire che forse uno spunto che aveva dato prima la presidente non è stato registrato. Con questa domanda lo rilancio.
  Il ruolo delle associazioni no profit che interagiscono mi pare un elemento non soltanto utile, ma anche da sviluppare. Abbiamo riordinato, peraltro, il terzo settore durante questa legislatura e questo è un passaggio importante.

  FRANCA BENINI, Responsabile del Centro di riferimento Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche. Posso dire che le cure palliative in Italia sono cominciate da un'attenzione di pochi professionisti coordinati da una fondazione. La Fondazione Maruzza Lefebvre ha coordinato, quindici anni, fa un gruppo di tre persone, che, da lì, ha iniziato a lavorare in maniera coordinata in network. Si è cominciato, Pag. 17 quindi, a lavorare sulla proposta della legge.
  È importantissimo che ci sia una legge, anche per la formazione, perché, fino a quando c'è questa carenza drammatica all'interno dei percorsi formativi, è il no profit che fornisce la formazione degli operatori, quindi il ruolo c'è sia all'inizio che come mantenimento.

  PRESIDENTE. Ringraziamo i nostri ospiti.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 13.45.

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ALLEGATO 1

Documentazione presentata dalla dottoressa Franca Benini

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ALLEGATO 2

Documentazione presentata dalla dottoressa Lucia De Zen

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