XVII Legislatura

Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'Accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione

Resoconto stenografico



Seduta n. 29 di Mercoledì 22 giugno 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Ravetto Laura , Presidente ... 1 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA GESTIONE DEL FENOMENO MIGRATORIO NELL'AREA SCHENGEN, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLE POLITICHE DEI PAESI ADERENTI RELATIVE AL CONTROLLO DELLE FRONTIERE ESTERNE E DEI CONFINI INTERNI

Audizione del responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana, Oliviero Forti
Ravetto Laura , Presidente ... 2 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 3 
Ravetto Laura , Presidente ... 6 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 6 
Ravetto Laura , Presidente ... 6 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 6 
Ravetto Laura , Presidente ... 7 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 7 
Ravetto Laura , Presidente ... 8 
Orellana Luis Alberto  ... 8 
Arrigoni Paolo  ... 9 
Ravetto Laura , Presidente ... 9 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 9 
Arrigoni Paolo  ... 9 
Mazzoni Riccardo  ... 9 
Ravetto Laura , Presidente ... 10 
Mazzoni Riccardo  ... 10 
Filippi Marco  ... 10 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 10 
Ravetto Laura , Presidente ... 11 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 11 
Mazzoni Riccardo  ... 12 
Ravetto Laura , Presidente ... 12 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 12 
Arrigoni Paolo  ... 13 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 13 
Ravetto Laura , Presidente ... 14 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 14 
Ravetto Laura , Presidente ... 14 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 14 
Mazzoni Riccardo  ... 15 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 15 
Arrigoni Paolo  ... 15 
Ravetto Laura , Presidente ... 15 
Brandolin Giorgio (PD)  ... 15 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 15 
Ravetto Laura , Presidente ... 16 
Forti Oliviero , Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana ... 16 
Ravetto Laura , Presidente ... 16

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
LAURA RAVETTO

  La seduta comincia alle 8.40.

Sulla pubblicità dei lavori

  PRESIDENTEPag. 2. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata mediante la trasmissione diretta sulla web-TV della Camera dei deputati.

Audizione del responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana, Oliviero Forti

  PRESIDENTE. Bentornati a tutti dopo le amministrative. L'ordine del giorno reca l'audizione del responsabile dell'ufficio immigrazione della Caritas italiana, il dottor Oliviero Forti.
  Dottor Forti, per lasciare spazio alla sua relazione e ai colleghi, procedo velocemente. Personalmente, mi piacerebbe che lei trattasse per noi i seguenti punti. Il primo punto è una valutazione della Caritas sugli hotspot. Anche se sappiamo che siete una organizzazione extra-governativa, siete però spesso coinvolti in tutti i processi anche di accoglienza, e quindi vorremmo una vostra valutazione sugli hotspot italiani.
  Vorremmo una seconda valutazione sui cosiddetti centri presenti nei Paesi di provenienza. Sappiamo che tentate – non sempre, infatti, vi viene concessa – un'azione di monitoraggio sui centri di provenienza, che in particolare sono oggetto eventualmente di accordi internazionali. Può dirci in generale come funziona questo per Caritas e, in particolare – penso al recente accordo dell'Unione europea con la Turchia – se avete avuto la possibilità di verificare l'andamento di quest'accordo, di verificare questi centri? Qual è la sua valutazione?
  Il terzo è un punto che sta molto a cuore al Comitato, su cui stiamo adesso virando dopo aver affrontato un po’ tutte le questioni anche – mi permetto di dire con orgoglio – grazie a questi commissari che hanno anticipato tutti i problemi. Oggi siamo focalizzati sulla cosiddetta lista dei Paesi sicuri o non sicuri. Ci pare che non ci sia una discussione in atto su questo, almeno a livello istituzionale, che sarebbe necessaria, anche a costo di trovarci magari su posizioni interpretative o politiche differenti. Non si ritiene, a mio avviso, a nostro avviso, troppo accettabile che di fatto ci sia una discrezionalità molto alta nel decidere quali sono i Paesi sicuri e quelli no, e quindi i relativi riconoscimenti dei diritti, comunque la si pensi a proposito di un'integrazione oggi troppo estensiva o non estensiva. Questo comporta, tra l'altro, una discrasia anche tra le decisioni delle commissioni territoriali e quelle dei tribunali. So che siete anche coinvolti nel processo legale.
  Mi piacerebbe una sua valutazione anche a fronte del fatto che ieri, presso la Commissione migranti, il Ministro Orlando è venuto a illustrare questo potenziale pacchetto di istituzione di sezioni specializzate dei tribunali. Dico potenziale, perché, a quanto ho capito, l'ha inviato al Consiglio di ministri, ma ancora non è lettera legislativa, quindi aspettiamo, e anzi lo inviteremo anche per chiarire meglio quest'aspetto.
  Il Comitato si era espresso anche su questo e sulla necessità delle sezioni specializzate. Ieri è stato fatto presente anche dalla sottoscritta che percentuali altissime delle decisioni prese dalle commissioni territoriali vengono di fatto ribaltate dai tribunali, Pag. 3 probabilmente in applicazione di una legge datata, del 2006, sulla protezione umanitaria e sussidiaria, ma non posso affermarlo con certezza. Ieri, per esempio, in audizione alcuni hanno sostenuto che questo accade perché le commissioni territoriali probabilmente non sono altrettanto competenti. Io non la penso così, perché le commissioni territoriali sono organi collegiali, in cui è presente anche l'UNHCR, quindi mi sono stupita di certe osservazioni politiche anche ieri in presenza del ministro. Registrate anche voi questa discrasia e a che cosa l'attribuite? Le commissioni territoriali non sono abbastanza competenti? Non lo sono i giudici ordinari, non per loro colpa, ma perché sono oberati di cause, non hanno la specializzazione, probabilmente non hanno lo stesso materiale, le cosiddette liste dei Paesi sicuri o non sicuri, a disposizione? Come si può risolvere questo problema? Oltretutto, mi diceva prima, e quindi probabilmente confermerà, che la Caritas sta svolgendo un lavoro molto serio sull'individuazione di questa lista di Paesi, cosa che non stanno forse facendo le istituzioni stesse.
  Ringrazio il dottor Forti e gli cedo la parola.

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Buongiorno, ben trovati e grazie per quest'opportunità.
  Le domande coprono un ampio spettro del tema collegato alla mobilità umana in questa particolare fase storica. Inizierei subito dal tema hotspot, che non è più un tema nuovo, ma che rimane sullo sfondo. Tengo a sottolineare che l’hotspot è un sistema, non un insieme di centri, come spesso si tende a pensare, che poi si concretizza fisicamente nella realizzazione di alcuni centri, al momento esclusivamente nel sud Italia. Nell'intenzione della Commissione europea lo scopo sarebbe quello di individuare i soggetti che, giunti sulle nostre coste, troveranno un percorso obbligato di ritorno forzato nei propri Paesi quando non hanno le caratteristiche per chiedere la protezione internazionale. Coloro che, invece, hanno queste caratteristiche, potranno essere inseriti nei circuiti ordinari di accoglienza e protezione o, addirittura, ambire a quella che ben conoscete, ovvero la procedura di ricollocamento, la relocation, sulla quale siamo stati già profondamente critici, non tanto per l'intenzione, che è lodevole e noi stessi l'abbiamo appoggiata, ossia quella di condividere la responsabilità tra i vari Paesi, ma nell'implementazione che nei fatti non ha funzionato. Questo è il primo dato, che ci dà la misura di come l'idea dell’hotspot sia stata fallimentare in partenza nella misura in cui, purtroppo, non è solamente una procedura. Quella dell’hotspot è una scelta politica precisa. Andava fatta una verifica preliminare a livello europeo da parte della Commissione sulle capacità dei singoli Paesi di accettare un sistema di questo tipo. Non è stato fatto e gli effetti sono quelli che conosciamo, ossia un'incapacità da parte di chi è chiamato a implementare questo sistema a trovare uno strumento efficace. Per cui coloro che hanno le caratteristiche, come dicevo, potranno accedere al sistema di relocation, ma oggi questo è residuale. La maggior parte di coloro che arrivano nel nostro Paese entrano regolarmente nel circuito di accoglienza e di protezione. Peraltro, lo fanno dopo un periodo, che è stato oggetto di osservazione e di profonde critiche da parte nostra e di altre organizzazioni, un momento iniziale di implementazione abbastanza confuso. Abbiamo registrato, purtroppo, una violazione sistematica dei diritti. Sul presunto principio di Stato terzo sicuro, le persone venivano intercettate allo sbarco e non messe nelle condizioni, come previsto dalla legge, di chiedere protezione internazionale, e questo con modalità che ci hanno visto, anche nostro malgrado, coinvolti.
  Soprattutto sull'agrigentino abbiamo dovuto fare i conti con gruppi, soprattutto di subsahariani, che, una volta giunti, si sono trovati con questo decreto di respingimento alla frontiera senza essere stati correttamente informati e senza avere l'opportunità, come era scritto nel decreto, di tornare al proprio Paese d'origine. Abbiamo, quindi, prodotto per alcuni mesi degli irregolari di fatto, ai quali delle risposte Pag. 4andavano date. Chiaramente, le organizzazioni umanitarie hanno provveduto in tal senso, ma hanno anche provveduto a denunciare nelle sedi opportune questa situazione, che è rientrata. Noi abbiamo potuto recentemente visitare con una delegazione l’hotspot di Pozzallo, e abbiamo potuto verificare che questa pratica non viene più portata avanti. Di questo siamo soddisfatti, ma a questo punto ci chiediamo quale sia il senso degli hotspot, se nelle intenzioni dell'Europa abbiano ancora un senso. Non funziona la relocation, non si riesce a fare quel lavoro – passatemi il termine – di selezione all'arrivo di queste persone, che a nostro avviso comunque rimane inopportuno stante il fatto che ognuno ha diritto personalmente a chiedere protezione. Solo dopo una verifica si potrà dire se questa persona deve rimanere sul territorio o rientrare nel proprio Paese. Finché non ci saranno le condizioni perché questo avvenga, chiaramente saremo lì a denunciare queste situazioni.
  L'altra questione è che l'Italia si è assunta la responsabilità di implementare il sistema hotspot sulla base del principio di Stato terzo sicuro laddove questo principio non vige nel nostro sistema. Non abbiamo una norma nel sistema italiano che dice che l'Italia applica il principio di Stato terzo sicuro. Non è mai stato fatto, noi diciamo fortunatamente. Quindi, oggi non possiamo dire a chi proviene dal Mali o dalla Costa d'Avorio, ad esempio, che automaticamente non ha diritto di chiedere protezione internazionale. Questo non c'è nel nostro sistema normativo. Conseguentemente, implementare nei fatti una procedura di questo tipo è illegittimo, come abbiamo fatto presente in tutti i luoghi consentiti in tal senso.
  Rispetto alla situazione internazionale, come sapete e per chi non lo sa lo ricordo oggi, Caritas è un network mondiale. Insieme alla Croce rossa siamo la realtà più diffusa a livello planetario. Abbiamo una presenza in tutti i Paesi del mondo, a eccezione di alcuni, che non permettono proprio la presenza della Chiesa cattolica. Sostanzialmente, però, in tutti i Paesi dai quali provengono migranti la Caritas c'è, in misura diversa, laddove possiamo con forze maggiori, laddove non ci è permesso con piccole realtà, ma sempre nell'ottica di osservazione di quello che accade. L'accordo tra Unione europea e Turchia a cui si faceva riferimento è stato per noi un altro elemento di grande preoccupazione. Non sta a me, né avremmo il tempo di entrare nel dettaglio dell'accordo, però capite bene che quello che è avvenuto ci ha profondamente preoccupato. Ha richiamato, infatti, alla memoria un vecchio accordo di qualche anno fa con il Governo libico, che andava nel senso di chiedere a un Paese terzo, nella fattispecie la Turchia, di contenere i flussi migratori verso l'Europa, evidentemente prevedendo però il trasferimento di fondi europei e il riconoscimento della possibilità di giungere in Europa in assenza di visto per i cittadini turchi.
  Questo ha creato subito dei problemi in termini di rispetto dei diritti umani. Abbiamo potuto constatarlo attraverso le nostre Caritas, in Grecia particolarmente, come ha potuto constatarlo anche l'UNHCR, poi sottrattasi alla presenza presso i centri nell'isola di Lesbo, che si sono trasformati nottetempo da centri di accoglienza in centri di espulsione. Un rapporto di Human Rights Watch dice come non siano stati garantiti tutti i diritti previsti in questi casi per le persone forzatamente trasferite da un Paese a un altro. Soprattutto, le garanzie che la Turchia può dare sono minime. L'avevamo già registrato nel passato. Nonostante il grande sforzo di questo Paese nell'accoglienza – circa 2 milioni di persone oggi accolte in Turchia – non ci era mai stato permesso fino a oggi di operare all'interno dei campi. È qualcosa che ha voluto gestire completamente il Governo turco. Questa non è una valutazione di merito sulla modalità di accoglienza e di tutela, ma non siamo nelle condizioni di monitorare come vorremmo e come crediamo sarebbe giusto questa situazione in Turchia. Come sapete e come riportato dalla stampa, inoltre, gli ultimi fatti al confine turco preoccupano non poco. La reazione della polizia di frontiera al tentativo di cittadini siriani di attraversare il confine dà, con la morte di un paio di Pag. 5famiglie, la misura della preoccupazione che si può determinare. In Grecia oggi abbiamo circa 57.000 persone, il residuo della vicenda Idomeni, di quelli che sono rimasti bloccati sulle isole a seguito dell'accordo tra Unione europea e Turchia, che vanno gestite. Non sono poche per un Paese come la Grecia. Noi siamo presenti con una serie di centri per cercare di dare sollievo e orientamento. Sono persone che non sanno che destino le attende relativamente a questa situazione. Evidentemente, il panorama oggi è abbastanza confuso. Dico anche che ci dobbiamo attendere, con la chiusura, a seguito dell'accordo tra Unione europea e Turchia, della rotta balcanica, probabilmente un aumento delle migrazioni attraverso il Mediterraneo centrale, anche se i dati oggi ancora non lo confermano, perché i numeri sono in linea con quelli dello scorso anno.
  Vado al tema del Paese terzo sicuro. Come vi accennavo, l'Italia a oggi non ha mai adottato questo criterio. È chiaro che le commissioni territoriali vengono opportunamente formate affinché in audizione, quando ascoltano il richiedente protezione internazionale, siano nelle condizioni – perché hanno fonti attendibili, le COI (Country of Origin Information) – di valutare se la storia raccontata dal richiedente protezione internazionale è sostenibile, soprattutto rispetto al Paese di provenienza. La decisione non è presa sulla base solo del fatto che provengo da un Paese o da un altro, ma su una serie di elementi che devono essere portati all'attenzione della commissione da parte del richiedente protezione internazionale. Insieme danno il quadro che porterà al giudizio di accoglimento della domanda o di rigetto.
  Lei accennava correttamente al fatto, come registriamo da anni, che spesso si è in presenza di una discrasia tra i giudizi delle commissioni e, a fronte del ricorso davanti al giudice ordinario, la decisione dello stesso, che in diversi casi risulta positiva rispetto a quella della commissione. Non sta a me dire chi ha ragione e chi torto. Chiaramente, ognuno fa il suo lavoro, e io credo sempre che lo faccia al meglio. Credo che sia un problema non tanto procedurale, quanto a monte di formazione. Ai giudici si chiede di svolgere in questo caso un lavoro rispetto al quale non hanno sempre un'adeguata preparazione, loro malgrado, perché non sono stati messi spesso nelle condizioni di averla. Da più tempo si chiede e si immagina anche a livello istituzionale di fare dei tentativi in certe direzioni. Non c'è in questo senso una non volontà, ma al momento un'incapacità, dettata dalle tante cose che sono sul piatto in questa situazione, a creare dei percorsi assimilabili tra la formazione garantita alle commissioni e quella garantita ai giudici, già e solo a partire dalle fonti che si utilizzano per la decisione. Un magistrato può non essere messo nelle condizioni di accedere alle stesse informazioni delle commissioni territoriali, che spesso sono ricche invece, hanno dossier-Paese costantemente aggiornati che permettono loro di dare un giudizio probabilmente anche più circostanziato. A volte, il giudice non ha quest'opportunità e, non in tutti i casi, va a intercettare le fonti disponibili, non sempre così complete. Questo può portare a una diversità di giudizio, stante poi il fatto che nessuno si attende sempre una totale omogeneità tra i giudizi. Esiste il ricorso proprio per questo. Il giudice deve essere messo nelle condizioni, eventualmente, di ribaltare la decisione della commissione territoriale.
  In alcuni contesti, questa è storicamente una situazione a tratti anche anomala, per cui sembra quasi che il giudizio della commissione venga ribaltato dal giudice automaticamente. Partendo dal presupposto che credo non ci sia, neanche a pensarlo, la volontà da parte del giudice di ribaltare ideologicamente la decisione della commissione, suppongo si tratti solamente di una questione di tipo procedurale. Su questa bisogna intervenire. Bisogna trovare il sistema perché si specializzino i giudici. Questo è assolutamente necessario, non solo rispetto alle commissioni e alle decisioni, ma rispetto a tutto il pacchetto immigrazione, che oggi come sapete pesa molto, per non dire troppo, sul lavoro degli uffici giudiziari d'Italia. Questo è un altro dei grandi problemi su cui bisogna trovare Pag. 6quanto prima una soluzione, perché i numeri sono destinati ad aumentare.
  È chiaro che con il panorama che abbiamo davanti, diversamente dal recente passato, chi sta arrivando in Italia probabilmente rimarrà in Italia. Non avrà più la possibilità di «sgonfiare» la base di presenze trasferendosi al nord Europa. La vicenda di Ventimiglia è evidente in questo senso. Abbiamo situazioni di persone che rimangono bloccate, che probabilmente saranno redistribuite sul territorio nazionale, che faranno richiesta di protezione, che faranno ricorso. Gli scorsi anni riuscivamo a gestire il fenomeno anche attraverso la scelta di queste persone che poi abbandonavano l'Italia. Oggi questo è sempre più complicato, difficile, per cui ripeto che il numero delle persone che intasano in alcuni casi gli uffici giudiziari potrebbe aumentare anche solo per questo motivo. Su questo siamo dell'idea che si debba intervenire. Non è, quindi, solo un problema legato al Paese terzo sicuro. Peraltro forse saprete che il 27, la settimana prossima, si dovrebbe discutere presso il Parlamento europeo di un emendamento presentato dalla Commissione proprio sul tema Paesi terzi sicuri. Su questo Caritas Europa, di cui siamo parte, che io rappresento per quanto riguarda la Commissione migrazione, ha predisposto un apposito comunicato stampa, un documento che potrei farvi anche avere...

  PRESIDENTE. Ne approfitto per chiederle, anzitutto, se ci fa avere il documento. Gli uffici, per cortesia, ne fanno copia e la consegnano a tutti i commissari. Chiedo agli uffici di verificare l'esito della votazione dell'eventuale emendamento del Parlamento europeo e di inviare una segnalazione a tutti noi via e-mail.

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Nel documento, come leggerete, c'è una nostra sostanziale contrarietà all'individuazione di un sistema che solo sulla base del Paese di provenienza possa decidere sul destino di queste persone, ribadendo, come ho fatto anch'io all'inizio, che bisogna rispettare il principio per cui ogni persona ha diritto di fare la richiesta di protezione, sulla base della quale la valutazione deciderà sul destino di queste persone. L'automatismo del rinvio di queste persone in maniera forzata nei Paesi di origine sulla base del Paese è quello che non vorremmo. Potrebbe darsi il caso della creazione di una lista, che oggi non esiste a livello europeo. Questo è un altro grande problema, ogni Paese decide a livello nazionale. Scusate l'enfasi, ma questo crea non pochi problemi. Se, ad esempio, si adotta il sistema di Paese terzo sicuro, per cui se si viene dall'Afghanistan e si fa richiesta di protezione internazionale questa automaticamente non viene accolta perché non è considerato un Paese non sicuro, in altri Paesi, come l'Italia, avviene il contrario. Capite bene che questo legittima anche quel sistema per cui nel progetto migratorio si fanno delle valutazioni su dove fare richiesta, perché si può contare su questa disomogeneità a livello europeo. Se si arriverà a un approccio più omogeneo, che comunque ripeto critichiamo – ma rispetto al principio – ribadiamo in questo documento – nel dettaglio del quale non entro – una serie di attenzioni che chiediamo comunque rispetto all'implementazione di un principio come quello dei Paesi terzi sicuri.

  PRESIDENTE. Nel documento la Caritas ha proprio indicato le aree geografiche o ha indicato degli elementi?

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Abbiamo indicato degli elementi sui quali chiediamo che, se l'emendamento dovesse portare, come si immagina, verso la creazione di una lista europea di Paesi terzi sicuri, comunque ci siano delle garanzie di fondo, a partire dalla possibilità per tutti di fare una richiesta di protezione internazionale, per essere ascoltati, e quindi essere valutati di conseguenza. Nei fatti, per farvi capire, sbarcare dopo un salvataggio in mare e trovarsi un rappresentante delle Forze dell'ordine che ti consegna un foglio dove è scritto – questo accade – che devi recarti nel più breve tempo possibile all'aeroporto Pag. 7 internazionale più vicino, ovvero Fiumicino, e recarti a casa tua, per banalizzare, non solo crea un po’ di imbarazzo, ma rischia di essere fortemente destabilizzante anche per chi è chiamato all'accoglienza, che non riesce a procedere in tal senso.
  Sapete meglio di me che i rimpatri, o meglio più correttamente i ritorni, forzati non si riescono a fare, perché per farli bisogna identificare queste persone, di cui non è scontata l'identificazione perché non hanno documenti, spesso i consolati o le ambasciate dei Paesi d'origine non collaborano come vorremmo. Di fatto, queste persone rimangono in un limbo, senza nessun tipo di protezione sul territorio e la percezione che si ha di queste persone è una percezione negativa da parte dell'opinione pubblica. Avere numeri crescenti di persone in condizione di irregolarità con questi fogli di respingimento, senza che venga garantita alcuna forma di accoglienza, è un problema per tutti, al di là delle idee che si possono avere sul tema. È un problema per tutti, perché arrivano sui territori, chiedono un letto, un pasto, che vanno garantiti. Prima di aderire a un sistema come quello che si immagina, creiamo un sistema locale capace di tenere su queste situazioni. Se saremo in grado di respingere queste persone, rimandandole in sicurezza nei propri Paesi dopo averle identificate, poi discuteremo. A oggi, questo non è possibile. Penso che questa sia una delle motivazioni che hanno portato l'attuale Governo a fare marcia indietro sull'idea di un hotspot come era stato immaginato nei primi mesi. Come vi dicevo, l'unica cosa che aveva prodotto erano tanti irregolari, non tantissimi, ma un numero crescente, che dovevano essere gestiti in qualche modo.

  PRESIDENTE. Vuole spiegarci qualcosa sul ruolo della Caritas, su tutti i procedimenti in cui vi inserite? Vuole fornirci qualche numero, se ne ha, per darci un'idea del vostro operato?

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. La Caritas è un network mondiale organizzato in regioni, per cui abbiamo una Caritas Asia, una Nord Africa-Medio Oriente, una Europa, una Latino-America, Nord America e Oceania. Sono network regionali, in cui vanno a confluire le Caritas nazionali, come nella fattispecie la Caritas italiana, a sua volta formata dalle diocesi. Vi è una conferenza episcopale nazionale, come ben sapete. Il caso italiano, un po’ anomalo, vede 220 diocesi, e siamo forse il Paese a più alto numero di diocesi a livello mondiale, altrimenti mediamente sono numeri sicuramente inferiori. Se non sbaglio, la Germania ha circa 18 diocesi. Ci ritroviamo in queste Caritas regionali con il ruolo di coordinare azioni soprattutto di advocacy e di lobbying. A livello nazionale, l'operatività è data dalle Caritas diocesane, di Roma, di Agrigento, di Pavia e così via. Tutte lavorano sul tema dell'immigrazione. Quasi tutte sono coinvolte nel processo di accoglienza e di tutela sia ordinaria sia straordinaria. Numerosissime Caritas, credo non meno di 3-4.000 posti, sono all'interno del sistema SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Un numero ancora più elevato è all'interno del sistema dei cosiddetti CAS (Centri di accoglienza straordinaria), quelli prefettizi per intenderci.
  Abbiamo una buona collaborazione con le istituzioni sia locali sia centrali. Siamo costantemente in collegamento con il Viminale, col Dipartimento libertà civili e immigrazione, perché insieme cerchiamo di rispondere alle varie questioni che si pongono costantemente su questo fronte. È chiaro che svolgiamo l'accoglienza, quella istituzionale in particolare, secondo i criteri richiesti dalla legge. Oltre all'accoglienza che si sostanza in vitto, alloggio, tutela sanitaria, tutela legale, seguiamo queste persone nel procedimento che le porterà nella richiesta d'asilo a presentarsi davanti alle commissioni. Abbiamo, quindi, i nostri legali, che aiutano queste persone a preparare le memorie, sono il collegamento con le questure per tutti i documenti necessari. Facciamo un lavoro un po’ a 360 gradi. Da un po’ di tempo, abbiamo attivato una collaborazione con l'operazione «Sophia», EUNAVFOR-Med, come sapete a Pag. 8guida della Marina italiana. Stiamo fornendo kit alle navi che fanno soccorso e salvataggio in mare per fornirli a coloro che, salvati in acqua, spesso arrivano bagnati e sono in condizione di ipotermia. Diamo dei kit d'abbigliamento che permettono alla Marina di fornirli nell'immediato alle persone salvate in mare.
  C'è poi una serie di progetti che vanno al di là dell'emergenza. Vorrei ricordare in questa sede che il prossimo 5 luglio presenteremo il nostro rapporto annuale sull'immigrazione. Quest'anno, forse anche in maniera un po’ provocatoria – lo dico nell'accezione positiva del termine – abbiamo voluto dedicarlo all'integrazione. C'è un intero altro pezzo di questo grande mondo delle migrazioni che si sta un po’ dimenticando, cioè quello dei 5 milioni di migranti che oggi vivono in Italia e che hanno ancora bisogno di risposte, di un certo accompagnamento, di un percorso di integrazione, che rischia di essere messo in secondo piano perché siamo tutti, volenti o nolenti, investiti da questa grande vicenda legata ai cosiddetti profughi. Sul tema dell'integrazione c'è molto da fare. Sappiamo che diverse di queste persone, che non hanno dei progetti facilmente implementabili sul territorio, le ritroviamo in quei circuiti purtroppo di sfruttamento, soprattutto in agricoltura, e per questo abbiamo firmato recentemente un protocollo con i ministeri del Lavoro, dell'Interno e dell'Agricoltura, volto proprio a interventi, che già facciamo da tempo, sul territorio particolarmente coinvolto, Rosarno, Foggia, Nardò, Trani, Ragusa, Caserta, ma anche Saluzzo, territori noti. L'obiettivo è proprio quello di cercare di dare a queste persone un minimo di futuro. Spesso questi sono veramente gli sfortunati tra gli sfortunati. Sono persone in una condizione di grave vulnerabilità e che hanno bisogno di assistenza. La nostra attività un po’ cerca di coprire a 360 gradi questi aspetti.
  Vi dico, infine, che verificheremo a breve anche l'idea anche di sostenere ancor più il tema dei cosiddetti canali umanitari nella convinzione che quest'aspetto non si risolverà solo attraverso i canali umanitari, ma che bisognerà dare dei segnali chiari, soprattutto all'Europa, che non si può pensare che le persone in situazione di maggiore vulnerabilità debbano attraversare il deserto o il Mediterraneo per arrivare in Europa. Almeno queste persone – parliamo delle più vulnerabili – abbiano la possibilità di raggiungerla attraverso delle vie sicure.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il dottor Forti. Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  LUIS ALBERTO ORELLANA. Io ho qualche domanda puntuale. Vorrei tornare sul tema della diversità di decisioni tra le commissioni territoriali e i tribunali. Mi interrogo, oltre che su quella sua segnalazione di specializzazione, in generale sul Ministero della giustizia e sulla sua ritrosia a queste scelte di specializzazione. Nell'ambito generale di ciò di cui si occupa la giustizia, si tende poco a farlo. Abbiamo, al limite, il tribunale per i minorenni, poco più. In genere, ci si occupa un po’ di tutto, dal furto all'omicidio a qualsiasi cosa. In ogni caso, c'è bisogno di tempo.
  Quando le commissioni territoriali prendono una decisione, e su questo chiedo un commento, devono anche motivare meglio le ragioni che hanno spinto a quella decisione. Forse leggendo queste motivazioni anche il giudice di secondo grado può arrivare a capirne bene le motivazioni e condividerle o – come diceva lei, gli appelli servono a quello – qualche volta anche dissentire. Non so se su questo ha qualche esperienza e può fare un commento.
  L'altro punto riguarda i tre pilastri su cui si basa tutta la nostra gestione, concordata con l'Europa. I tre pilastri sono gli hotspot, la relocation, la divisione in quote, e i respingimenti. Da quanto ho capito, siamo tutti ormai convinti che le quote, la relocation, non stiano funzionando, quindi non ci tornerei. Sul tema del respingimento, lo si sta pensando sia verso i Paesi d'origine sia verso il Paese terzo sicuro, ma ci ha detto che non abbiamo nessun fondamento giuridico nella nostra giurisdizione su quest'aspetto. Non ha accennato al Pag. 9discorso del ritorno verso il Paese d'origine: che cosa sta succedendo?
  Infine, vorrei fare una domanda sui corridoi umanitari, ma di fatto ha già anticipato il finale. È un tema che andrebbe assolutamente sviluppato di più, con tutte le difficoltà del caso, e forse mi lasci dire che vedrebbe l'Italia un po’ isolata. Noi assistiamo a una situazione europea in cui molti Stati hanno preso atteggiamenti e scelte molto divergenti da quelle che l'Italia con tante difficoltà e con tanti errori sta assumendo, ma sono scelte ben diverse. Tra l'altro, ci avviciniamo a una Presidenza dell'Unione europea dal 1° luglio della Slovacchia, che fa parte del gruppo di Visegrád, che ha fatto delle scelte ben precise. Credo che a maggior ragione le scelte italiane potrebbe ancora di più avere difficoltà.

  PAOLO ARRIGONI. Lei ha parlato, giustamente, di fallimento del sistema di ricollocamento. Questo era nato per ricollocare i migranti che avevano un effettivo bisogno di protezione internazionale, individuando, se non ricordo male, quelle nazionalità per le cui domande di richieste di asilo c'era un esito positivo superiore al 75 per cento. È questo il motivo del fallimento per il collocamento in Italia, posto che siriani, eritrei e iracheni in Italia fino a qualche mese fa erano pochi, o ci sono altri motivi di questo fallimento?
  Ha poi parlato di garantire il diritto di chiedere protezione internazionale a chiunque, ma la Caritas in ordine alla distinzione tra coloro che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale, ovvero fuggono da guerre e da persecuzioni, e i migranti economici fa distinzione? Questi ultimi, una volta identificati tali, debbono essere rimpatriati al loro Paese.
  Sulla questione della lista europea del Paese sicuro, che, una volta individuato, a mio avviso va a diminuire i pool factor, i fattori di attrazione del Paese europeo, non ritiene che una visione della Caritas sostanzialmente contraria all'individuazione di questa lista europea, dove peraltro...

  PRESIDENTE. La Caritas non solo è d'accordo, ma ha fatto una proposta proprio in vista del Parlamento europeo che dovrebbe muoversi perché a livello europeo manca questa lista, che è grave. Ogni Paese ha la sua lista, decide da sé, e quindi poi ci sono i fattori che richiama lei, senatore, per cui a seconda dei Paesi, tra chi è più flessibile e chi meno, il migrante si muove. Caritas – mi corregga se sbaglio – è impegnata, invece, proprio sull'uniformità.

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. È un mix tra voi due, scusate se vi interrompo. Di fondo, siamo contrari alla lista dei Paesi terzi sicuri. Se questa dovesse essere implementata, chiediamo che sia europea e non a livello nazionale.

  PAOLO ARRIGONI. Lei non ritiene che il consentire a molti di evitare il famoso respingimento, il foglio all'arrivo, rappresenti la conferma di fattori di attrazione che mettono in seria difficoltà Paesi come il nostro, dove il sistema di accoglienza sta effettivamente esplodendo. I numeri lo stanno a dimostrare. Ci sono difficoltà e problematiche di natura economica-sociale.
  Ho un'altra domanda: avete mai verificato la qualità dei servizi erogati dai soggetti che si aggiudicano i bandi di accoglienza fatti dalle prefetture? Stanno emergendo non pochi problemi in ordine alle qualità dei servizi.
  Davvero l'ultima domanda che le rivolgo è sui modelli di accoglienza: avete fatto, visto che siete un network globale, un confronto tra il modello italiano e quello degli altri Paesi europei del sistema di accoglienza, di trattamento delle domande e di richieste di asilo da poter «imitare»?

  RICCARDO MAZZONI. Ho una considerazione e una domanda. Lei ci ha detto una cosa sconcertante, cioè che i giudici «di appello» non sono competenti come le commissioni territoriali. Sulla certezza del diritto in questo Paese mi pare sia un altro tassello non proprio commendevole. È come se la Cassazione in un procedimento ordinario non fosse competente come il giudice di primo grado.

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  PRESIDENTE. Mi permetta un'osservazione. Ieri il Ministro Orlando in audizione alla Commissioni migranti – ribadisco l'esigenza che venga a riferire anche in Comitato – ha detto, invece, che lui auspica che le commissioni territoriali si uniformino maggiormente alla giurisprudenza dei tribunali. Ministro dell'interno in una direzione, tribunali e Ministro della giustizia in un'altra.

  RICCARDO MAZZONI. Alla Caritas risulta, come a Frontex, che nel 2016 arriveranno 300.000 profughi attraverso il Mediterraneo? In Grecia ormai ci sono situazioni drammatiche, sia a Lesbo sia nei campi di Atene. Sono condizioni indefinibili. Il flusso è, però, completamente arginato, ci sono motovedette. Quelli che arriveranno, arriveranno in Italia, sicuramente. Le relocation non ci saranno, quindi lei ha detto giustamente che li terremo tutti noi. A questo punto, il sistema SPRAR è esaurito, i CAS, come ha notato anche il senatore Arrigoni, sono centri improvvisati in cui si può innestare molto facilmente la logica dei facili guadagni sulla gestione dell'immediato. Mafia capitale che dice «con gli immigrati si fanno più soldi che con la droga» resta drammaticamente attuale. Come si fa a evitare che quest'anno e nei prossimi anni il sistema collassi e che la gestione degli immigrati vada tutta in mano a personaggi non proprio limpidi? Ecco perché questo sistema non va bene.

  MARCO FILIPPI. Intervengo rapidissimamente. La relazione del responsabile della Caritas stimola moltissime domande. Vorrei che nella replica precisasse due aspetti, che ha centrato molto bene, di cui uno è la questione dell'identificazione. Ha parlato di esperienza fallimentare dell’hotspot, e allora capisco che non è il vostro ruolo, ma sarebbe utile proprio in questa fase di audizione capire se avete un modello, un progetto, per far funzionare quest'elemento, fondamentale, dell'identificazione dei soggetti.
  Il secondo è l'integrazione. Mi fa piacere il rapporto del 5 luglio. Ho apprezzato molto, presidente, il fatto di poter mettere in circolo le informazioni: se riuscissimo ad avere anche quel rapporto, non sarebbe assolutamente male. Sul progetto integrazione, quali sono ancora i limiti che avvertite rispetto ad essa? Credo che, dal punto di vista proprio della possibilità di impiego, di lavoro, di poter utilizzare queste persone, ci sia un elemento di vera integrazione, anche di resa sotto il profilo dell'utilità e della «produttività». È una presenza che altrimenti rischia di essere o canalizzata dall'organizzazione criminale o, viceversa, di finire nell'ozio.

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Per quanto riguarda le commissioni territoriali, è vero, adesso sono numerose. Peraltro, dopo la vicenda dello scorso anno, il Governo ha opportunamente ritenuto di aumentarne il numero sul territorio, perché erano assolutamente insufficienti. Anche la capacità di tutte le commissioni non è certificabile da me rispetto alla qualità della decisione. È chiaro che i numeri, a volte anche la diversa preparazione – qui si parla anche di competenze diverse all'interno delle commissioni – può portare anche da parte delle stesse a elaborare decisioni che trovano magari nel giudice correttamente una decisione diversa da quella presa inizialmente. Per questo insisto sul fatto che si dovrebbe, come ho visto in altri Paesi europei, istituire proprio un sistema, come in parte già esiste, ma rafforzato ancora di più, con il coinvolgimento dei giudici, centrale: quasi una scuola – passatemi il termine, che può sembrare eccessivo – cui tutti possono accedere, coloro che avranno delle responsabilità in tal senso. Tenteranno poi nella propria soggettività – chi giudica deve far leva anche sulle proprie sensibilità e soggettività – di partire da un percorso condiviso e, soprattutto, da testi accessibili a tutti.
  Quanto ai respingimenti verso i cosiddetti Paesi d'origine, sappiamo che purtroppo il respingimento, oltre a essere un fallimento del progetto migratorio, è difficilmente implementabile, o almeno questo ci dicono i dati del nostro Paese. Voi leggete anche i dati del Ministero dell'interno sulle cosiddette espulsioni: hanno sempre dei Pag. 11numeri più contenuti rispetto a quello che ci si potrebbe attendere, ma questo è dovuto, come si diceva verso la fine, alla questione identificazione. Questo, però, è un problema storico. Oggi non è esclusivamente attribuibile, credo, all'incapacità dei vari Governi che si sono susseguiti nel nostro Paese nel rimandare queste persone. È anche questa una procedura molto complessa, che richiede la partecipazione di vari soggetti. Prima citavo, tra gli altri, i rappresentanti dei Paesi d'origine. È chiaro che, se ho pronto un gruppo di persone da rinviare nel proprio Paese, ma non dispongo della collaborazione delle autorità di quel Paese per certificare l'origine – a me possono dire che sono del Paese confinante, non avendo documenti – io non posso imbarcarli su un aereo forzatamente. Dico banalmente che la stessa compagnia aerea mi chiede un documento che certifichi che queste persone provengono dal Mali o dal Gambia. Per farlo ho bisogno gli accordi bilaterali con questi Paesi, che non sono sempre facili. Ci sono degli accordi ormai da diversi anni con alcuni, non ci sono ancora con altri Paesi. Come gestire queste persone?
  È chiaro che si tratta di persone – noi abbiamo la preoccupazione, che è anche il nostro mandato prima di tutto, dell'assistenza e della tutela di queste persone – che si trovano in un limbo. C'è sulla carta la necessità di rinviarle nei propri Paesi d'origine, perché ci sono le condizioni per farlo, ma non si riesce a farlo. Su questo credo che si debba anche un po’ sottrarsi alla tentazione del dibattito ideologico. Qui si tratta, invece, di mettersi a lavorare e capire quale sia la procedura... Non esiste un modello...

  PRESIDENTE. Il modello che richiamavano Arrigoni e il collega?

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Mi perdoni, è un modello politico. Qui bisogna essere capaci come politica di mettere in moto un sistema a partire dagli accordi bilaterali con questi Paesi. Non c'è, purtroppo, o forse per fortuna, la ricetta magica. Forse alcune procedure sono più veloci, perché si riesce meglio con le compagnie aeree a gestire questa cosa, ma il problema non è la compagnia aerea, bensì avere un accordo bilaterale con questi Paesi e, dopo aver fatto tutte le verifiche del caso e avere in mano gli elementi per dire che una persona va rinviata forzatamente nel proprio Paese, avere le condizioni per farlo. Spesso queste condizioni non ci sono, e quindi il problema è che abbiamo persone che non possono stare in Italia perché non ne hanno diritto, non possono essere rinviate nei propri Paesi d'origine: a queste persone una risposta bisogna darla, piaccia o non piaccia. Possiamo anche andare in piazza a urlare che devono essere mandati fuori tutti i clandestini dal nostro Paese, ma deve essere chiaro chi, come e quando. Questo non è un tema secondario, ma importante.
  Sul tema dei corridoi umanitari mi fa piacere la domanda. Dico sempre che non ci sono soluzioni, o meglio non ci sono ricette monodose su questo grande tema epocale delle migrazioni. Avendo un po’ di realismo, mai direi che attraverso i corridoi umanitari risolveremo il problema delle migrazioni verso l'Europa. Credo, però, e lo dico rappresentando un importante organismo come la Caritas, che oggi i corridoi umanitari sono la possibilità di salvare vite, perché portare anche solo mille persone da questi Paesi significa ridurre, visto il rapporto uno a tre di morti in mare, a 300 i morti, un'operazione di salvataggio come forse mai prima siamo riusciti a fare. Dal punto di vista simbolico, è un grande messaggio che diamo a quest'Europa completamente assente. Come abbiamo fatto con Mare Nostrum – perdonatemi – che ricordate è stato oggetto di critiche e attacchi, soprattutto da parte dell'Europa, anche i corridoi umanitari potrebbero diventare un modello. Oggi Operazione Sophia non lo è, ma potrebbe diventare un modello. Noi dobbiamo garantire sicurezza a tutti. Soprattutto ai più vulnerabili potremmo garantire un accesso in sicurezza all'Europa.
  Passo alle tante domande del senatore Arrigoni. Ha ragione sul 75 per cento. Questa era la percentuale che ci si era Pag. 12preposti per effettuare i ricollocamenti in giro per l'Europa. Non credo che i collocamenti non funzionino per questo motivo, perché avevamo pochi siriani, eritrei o cittadini della Repubblica Centrafricana, l'altra nazionalità, anche un po’ curiosa, visto che in Italia non ne abbiamo mai ricevuti, se non pochi numeri. Il problema è, appunto, trovare i Paesi disponibili ad accogliere queste persone. Leggete i giornali sicuramente più di me e siete molto più attenti alla politica europea e ricordate bene che, all'indomani della proposta dell'alto rappresentante Federica Mogherini rispetto all'agenda europea di effettuare i collocamenti, le reazioni sono state a dir poco scomposte, a partire dal Governo britannico, che disse qualche giorno prima o dopo l'agenda europea che mai avrebbero avuto sul proprio territorio profughi ricollocati dall'Italia o dalla Grecia, e i Paesi ricordati prima, soprattutto in Europa orientale, che si sono completamente opposti. È chiaro che il sistema oggi esistente prevede che le persone che vogliano aderire a questo ricollocamento abbiano un percorso diverso dagli altri, ma bisogna aspettare mesi e mesi prima di trovare una soluzione a questo ricollocamento. Purtroppo, inoltre, non sempre incontra il favore delle persone che sono arrivate in Italia. Mettiamoci anche nei loro panni, e ripeto che non è un giudizio di merito: è chiaro che, se a chi viene con l'idea di raggiungere e di ricongiungersi con propri familiari in Germania viene proposto un ricollocamento in Portogallo o in Romania, si crea un problema. Possiamo anche stigmatizzare questo tipo di comportamento – ognuno è libero di farlo in propria coscienza, ma questo è un ulteriore problema che si pone e rispetto al quale bisogna trovare una soluzione. Nei fatti, anche il fallimento del ricollocamento è legato alla non volontà da parte dei Paesi di aderire a questa cosa.

  RICCARDO MAZZONI. Quello che ci ha detto ora è un passo indietro addirittura rispetto al Regolamento di Dublino, che prevedeva comunque ricongiungimenti familiari come clausola. È un passo indietro. Se hai i familiari in Germania...

  PRESIDENTE. Credo che stia giustamente dicendo che il fatto che l'Europa si sia arrogata pure il diritto di decidere che chi ha titolo vada ricollocato dove vuole l'Europa e dove non vuole lui è strano. Questo va nell'ottica della tua proposta, poi accolta in Parlamento, che sui ricongiungimenti familiari bisognerebbe fare leva. Chi vuole ricongiungersi alla famiglia non si capisce perché debba essere ricollocato in un Paese in cui la famiglia non c'è.

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Su questo, evidentemente, ma anche su Dublino. Le indagini sulla possibilità di avere familiari congiunti in giro per l'Europa sono spesso complicate, non portano a nulla, quindi queste persone sono in attesa per mesi. È chiaro che chi ha ancora nel progetto migratorio l'idea di arrivare in Europa per fare soldi per pagare il proprio debito, per mandare denaro a casa, non può stare mesi in un centro d'accoglienza senza fare nulla, spesso senza avere alcuna possibilità, per cui decide spesso di lasciare e di superare de facto tutte le previsioni, anche giuste, che però non riescono a trovare un riscontro nella realtà.
  Per quanto ci riguarda, sulla distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo in protezione, noi accogliamo quelli che o ci inviano le prefetture o entrano nel sistema SPRAR, e che devono poi andare in commissione per l'audizione. È evidente che io per primo, nei limiti delle mie possibilità, ai colleghi suggerisco sempre, soprattutto in una fase successiva a quella del ricorso, di valutare bene se sia il caso di suggerire o meno a questa persona il ricorso. Il ricorso non deve diventare l'occasione strumentale per far rimanere in accoglienza queste persone. Noi per primi siamo contrari. Se ci sono le condizioni, se abbiamo chiaro dalla storia che ha presentato ai nostri colleghi che sono persone che non otterranno una forma di protezione, dobbiamo comunque suggerire un percorso diverso, che è comunque complicato, signori. Non è che suggerire di non fare ricorso dia un'altra soluzione. Significa farli uscire dal centro, ed essere in condizione irregolare ed espellibili. Questo prevede la Pag. 13legge. Questo gli si dice nei fatti. Sappiamo, come dico sempre e dico anche in quest'occasione, che escono dal centro SPRAR e entrano dalla porta del centro d'ascolto della Caritas dicendo che li abbiamo fatti uscire dal cento SPRAR o dal CAS, ma che loro non hanno nulla, non hanno dove dormire, dove mangiare. Sempre alla Caritas tornano, quindi ce li ritroviamo entrati dalla finestra. Questo è il tema che stiamo affrontando. È, però, evidente che in coscienza, anche per quello che vi dicevo prima, per evitare un ingolfamento del sistema giudiziario, evitiamo di mandare in automatico queste persone davanti al giudice ordinario, solo perché questo gli garantisce – questo prevede la legge – un'accoglienza anche nelle more del ricorso.
  Sulla lista dei Paesi sicuri ci siamo chiariti. Il sistema d'accoglienza sta esplodendo? Nei fatti ancora no. Ci sono delle criticità, soprattutto territoriali. Su questo forse avete già ascoltato da qualcun altro che avete avuto qui in audizione prima di me. Noi abbiamo un sistema SPRAR sottodimensionato – siamo non so se a 24-25.000 posti – e un sistema CAS sovradimensionato. Questo è a dimostrazione del fatto che non siamo ancora riusciti come sistema Paese a dare un'accoglienza ordinaria, che è quella dello SPRAR, non quella dei CAS, a tutte le persone che raggiungono il nostro territorio. L'obiettivo è avere 120.000 posti negli SPRAR, che però come sapete è un sistema che si avvale opportunamente della collaborazione degli enti locali.
  L'ente locale è titolare del progetto SPRAR, ed è l'ente locale che aderisce...

  PAOLO ARRIGONI. Scusi, lo scorso anno è stato fatto un bando per aumentare da 20.000 a 30.000 i posti SPRAR. Probabilmente, se ne sono aggiunti 5.000, neanche 10.000. Stiamo parlando di un rapporto di uno a cinque tra posti governativi e centri temporanei d'accoglienza. Sta esplodendo questo sistema.

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Mi fa piacere che lo sottolinei. Io stavo arrivando a quello che lei dice. È molto ben informato. Qual è il problema? Il sistema SPRAR, che dovrebbe essere un sistema ordinario e che fa leva sui comuni, oggi non trova la partecipazione attiva di tutti i comuni. Se non sbaglio, circa 500 comuni su 8.000 oggi aderiscono allo SPRAR, tanto che il dibattito sullo SPRAR obbligatorio o meno è presente. Tutti i comuni per alcuni dovrebbero avere comunque una quota di migranti sul proprio territorio. Oggi questo non è possibile. L'adesione è volontaria, ed è chiaro che su alcuni territori quest'adesione è più complicata rispetto ad altri. Questo porta a un costante sottodimensionamento. Come diceva bene il senatore, i bandi SPRAR a volte vanno deserti, almeno per metà, proprio per quest'assenza di adesione. Come si supera il problema? Con i centri d'accoglienza straordinaria. È la prefettura che dice a un territorio che bisogna collocare delle persone, però è chiaro che è il percorso meno virtuoso dal nostro punto di vista. Noi per primi vorremmo spingere affinché ci fosse una maggiore condivisione in questo senso, visto che comunque ormai il dato si attesta su un ingresso annuale che va dai 100.000 ai 150.000 migranti ogni anno nel nostro Paese. Avendo ancora dei tempi troppo lunghi tra l'accoglienza, l'audizione e la definizione dello status, è chiaro che non si riesce a fare un processo di sgonfiamento di anno in anno, e ci portiamo in accoglienza ancora persone che sono arrivate lo scorso anno. Se queste persone avessero già concluso il percorso, avremmo posti liberi, che oggi non abbiamo, per cui se ne chiedono ancora di più.
  Sulla qualità dei servizi, l'altro grande tema, come sapete, purtroppo, abbiamo tutti vissuto male varie vicende, a partire dalla situazione di Mafia capitale, ma tengo anche a dire che ci sono più di 100.000 persone in accoglienza, migliaia di soggetti interessati. Vi posso assicurare che in molti casi le accoglienze sono virtuose, funzionano, in altri no. Il problema è quello del monitoraggio. Esiste un problema di monitoraggio, cioè un problema di verifica costante sulla qualità di quest'accoglienza. Non esiste oggi un sistema di monitoraggio Pag. 14centralizzato. Chiaramente, lo SPRAR, per quello che può, nelle risorse disponibili, verifica i progetti, però spesso per tutti, tra SPRAR e CAS, la verifica è formale. Se ci sono i requisiti, se vengono presentati e se sono adeguati, poi noi ci sentiamo in dovere come organizzazione di tutela di segnalare tempestivamente tutte quelle situazioni che non vanno. Tra segnalazione e intervento, però, non c'è sempre un automatismo, e a volte le situazioni purtroppo sfuggono di mano. Vorrei ribadire che, almeno per quanto ci riguarda, come sistema Chiesa italiana, abbiamo circa 24.000 posti d'accoglienza, tra i 24.000 e i 25.000 posti d'accoglienza tra SPRAR, CAS e accoglienze di altra natura, cui arriverò dopo parlando di modelli d'accoglienza, anzi è la domanda successiva, quindi ci vado immediatamente. Stiamo sperimentando da oltre due anni la cosiddetta accoglienza in famiglia. Abbiamo un progetto nazionale che si chiama «ProTetto rifugiato a casa mia», che è stato rafforzato dopo le parole del Santo Padre, il quale ha chiesto a tutte le parrocchie d'Europa di aprire le proprie porte. Stiamo tentando questa sperimentazione, cioè chiediamo ai parroci, agli istituti religiosi e anche alle famiglie di accogliere queste persone in casa, nelle canoniche, ma sempre con l'obiettivo molto chiaro di far seguire queste persone da famiglie tutor.
  Vogliamo che la famiglia e la comunità locale si prendono a carico queste persone, che non significa sborsare soldi, ma far vivere a queste persone una normalità che non hanno mai visto, che spesso per loro è la strada, i poliziotti, i servizi sociali. Si tratta di creare quel minimo di cordone di sicurezza intorno a queste persone, che ripeto serve a tutti, soprattutto per...

  PRESIDENTE. Chi rifonde le spese, scusi?

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Al momento, la Chiesa italiana attraverso i fondi dell'8 per mille. Questa è un'attività che viene da noi direttamente finanziata e ha un costo – vorrei sottolinearlo – inferiore rispetto all'accoglienza ordinaria. Tante attività che oggi richiedono coinvolgimento di cooperative, di soggetti esterni, vengono situate sul volontariato e altre formule. Neanche questa, come per i canali umanitari – vorrei sottolinearlo – è la soluzione. Non immaginiamo un rifugiato in tutte le famiglie italiane per risolvere il problema dell'accoglienza, ma anche questo è un modo per far arrivare all'opinione pubblica un'idea del tema, che non è sempre connotato da quella negatività che spesso ammanta tutto il fenomeno dell'immigrazione.

  PRESIDENTE. Mi permetto di dire che sarebbe come sancire il fallimento delle istituzioni. Visto che i cittadini pagano le tasse anche per vedere espletato questo servizio, arrivare e dire che il pubblico non è in grado di gestire questi temi e che li demandiamo al privato... Capisco l'impegno, ma secondo me questo è un tema che andrebbe affrontato anche in una discussione istituzionale. Gli SPRAR non ci sono, la capienza non c'è, facciamo i bandi ai privati, e adesso spostiamo anche l'onere sulle famiglie. Va benissimo l'impegno Caritas, ma secondo me il sistema pubblico dovrebbe garantire certe cose, altrimenti...

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Assolutamente. Spesso, affrontando il tema, affermiamo che questo è un sistema non sostitutivo, ma complementare. E lo diciamo perché è chiaro che al pubblico non possiamo chiedere di implementare quelle dinamiche che solo la famiglia è in grado di garantire. Lo dico in quest'autorevole sede ma, non volendo sminuire il valore di questo confronto, dico sempre che anche andare al cinema insieme, a mangiare una pizza insieme, dà quell'idea di una presenza che non è sempre estranea, lontana, legata ai centri d'accoglienza, ma una presenza della comunità, di cui bisogna prendere atto, altrimenti rimaniamo sempre bloccati sull'idea che c'è bisogno di trovare una sistemazione a persone che sono altro rispetto a noi. Le famiglie in questo un po’ ci possono aiutare, possono aiutare l'opinione pubblica ad accettare questa presenza, che di fatto c'è. Pag. 15
  Dico spesso anche che non c'è ormai da dire che si è contrari o favorevoli. Questa è la situazione, e con questo dobbiamo fare i conti. Cercare di aiutare questo processo attraverso la comunità potrebbe essere non dico la soluzione...

  RICCARDO MAZZONI. Noi abbiamo presentato al Senato una proposta di legge in questo senso al Senato. In alcune famiglie – parliamo, per esempio, di minori non accompagnati, che sono purtroppo tanti sparsi per il territorio – con 32 euro al giorno per un immigrato, che vanno magari al centro turistico che si è riconvertito nei mesi invernali, si può dare una famiglia a un minore non accompagnato, che può essere seguìto. Non si tratta di un'abdicazione dello Stato, ma anche di umanizzare l'accoglienza.

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Sono assolutamente d'accordo. Quello dei minori, che è stato accennato, è l'altro grande tema che varrebbe la pena forse di affrontare, anche perché stanno arrivando molti minori non accompagnati più giovani rispetto al passato, 12-13 anni. Questo crea non poche sfide in tal senso.
  Quanto ai fornitori, su questo come dicevo non c'è una cabina di monitoraggio, e quindi tutto evidentemente è demandato al buonsenso, al rispetto delle regole e a un controllo che non voglio porre in termini di controllo serrato, ma anche di una proficua collaborazione tra soggetti. Ripeto che quando qualcosa non va, è sempre giusto segnalarlo innanzitutto a chi se ne rende responsabile e dopo all'autorità. Più volte l'abbiamo fatto anche noi con le prefetture quando vedevamo che le cose non funzionavano. Se in un CAS so che quella cooperativa ha i fondi previsti dalla prefettura per un certo tipo di servizi, e poi mi trovo il migrante che bussa alla Caritas per un pasto caldo, mi devo porre il problema del perché me lo sta chiedendo: perché non gli viene fornito? Lì si fanno verifiche e successive assegnazioni. Capisco anche i prefetti, che stanno vivendo una stagione difficile. È un peso non da poco trovarsi in poche ore a gestire qualche centinaio di migranti nel proprio territorio e a ricollocarli. Noi abbiamo anche cooperative di pulizie che si sono riconvertite, che non vuol dire che non stiano facendo un buon lavoro – non è un giudizio di merito – ma spesso le condizioni mancano in partenza. Su questo il ragionamento è più a 360 gradi.

  PAOLO ARRIGONI. Il sistema di accoglienza sta esplodendo.

  PRESIDENTE. Accederemo alla richiesta del senatore Mazzoni di un'audizione ogni due settimane, non più ogni settimana. Siamo l'unico Comitato che si regola così. Se, però, doveste giudicarle non sufficienti, torniamo indietro. Proviamo con la proposta Mazzoni e poi vediamo.

  GIORGIO BRANDOLIN. Ringrazio anch'io il responsabile della Caritas, al quale non abbiamo chiesto se sa se funzionino o meno i centri presenti nei Paesi di provenienza di queste persone, subsahariani per capirci. Funzionano, non funzionano, è una stupidaggine, è qualcosa che in prospettiva può servire?

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Quello che lei dice fa parte di quello che in letteratura viene chiamato processi di esternalizzazione, l'idea che l'Europa possa gestire attraverso accordi con i cosiddetti Paesi di transito. È quello che è stato fatto con la Turchia. Sull'Africa subsahariana, in particolare, so che ci sono dei contatti in tal senso. Si sta procedendo per valutare in alcuni Paesi di portare avanti la creazione di questi centri. Ripeto che abbiamo grandi riserve su questa dinamica, anzitutto da un punto di vista di approccio al tema. L'idea che Paesi come la Turchia o, anche peggio mi sento di dire, dell'Africa subsahariana siano in grado di garantire a queste persone tutele e accoglienza secondo quegli standard che già noi facciamo fatica a garantire è molto lontana dalla realtà. Se, però, a proposito del realismo a cui faceva cenno, questo dovesse avvenire, è chiaro Pag. 16che almeno chiediamo una presenza qualificata degli organismi internazionali e di tutela dei diritti affinché si possa verificare l'implementazione di questi accordi e intervenire a sostegno laddove ce ne fosse bisogno perché queste persone comunque non vivano un'ulteriore sconfitta rispetto all'idea di migrazioni che avevano.
  Oltretutto, purtroppo in Libia sappiamo, anche da altre testimonianze, quello che hanno vissuto queste persone, che tipo di centri erano quelli e la collaborazione che parzialmente anche l'Italia ha avuto in quella vicenda.

  PRESIDENTE. Probabilmente, non si tratta tanto di istituire dei centri nei Paesi di provenienza per l'accoglienza, quanto per l'identificazione. Io sono d'accordo con lei, magari gli standard non sono altissimi, ma non possiamo continuare a gestire un sistema in cui li facciamo venire tutti da noi e decidiamo chi va rimpatriato e chi rimane da noi. Non è un sistema sostenibile né dall'Europa né dall'Italia. Almeno dei posti presidiati da organismi internazionali, dove però si individui chi ha diritto a spostarsi verso l'Europa e chi no, probabilmente vanno pensati...

  OLIVIERO FORTI, Responsabile Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. Se questi centri nei Paesi di transito, dove vengono mandate spesso queste persone, non trovano un riscontro e se non hanno trovato con la relocation una disponibilità a farle accogliere da parte dell'Europa, rischiano di diventare semplicemente dei centri chiusi di detenzione. Puoi anche identificare queste persone, ma se poi non hai un Paese, come la Polonia o come la Gran Bretagna, che ne accetta il trasferimento, le rimettiamo in un limbo.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il dottor Forti, saluto i colleghi e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.45.