XVII Legislatura

Commissione parlamentare per le questioni regionali

Resoconto stenografico



Seduta pomeridiana n. 7 di Giovedì 23 marzo 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLA RELAZIONE ALL'ASSEMBLEA SULLE FORME DI RACCORDO TRA LO STATO E LE AUTONOMIE TERRITORIALI E SULL'ATTUAZIONE DEGLI STATUTI SPECIALI

Audizione del Presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno.
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 3 
Pajno Alessandro , Presidente del Consiglio di Stato ... 3 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 14 
Pajno Alessandro , Presidente del Consiglio di Stato ... 14 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 14

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIANPIERO D'ALIA

  La seduta comincia alle 8.45.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del Presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del Presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, nell'ambito dell'indagine conoscitiva deliberata dalla Commissione per l'esame della relazione all'Assemblea sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali e sull'attuazione degli statuti speciali.
  Nel rinnovare i ringraziamenti al presidente Pajno per la sua disponibilità e per la collaborazione che ha con questa Commissione, gli cedo subito la parola per la sua relazione.

  ALESSANDRO PAJNO, Presidente del Consiglio di Stato. Desidero, innanzitutto, ringraziare il presidente e tutti i componenti della Commissione per la possibilità che mi è stata data, ancora una volta, di intervenire attraverso un'audizione ai lavori della Commissione dopo l'approvazione del documento conclusivo riguardante le forme di raccordo tra Stato e autonomie territoriali, con particolare riguardo al sistema delle conferenze, e dopo l'importante relazione del presidente D'Alia sugli stessi temi.
  Sia nelle relazioni sia nel documento vengono identificate le questioni fondamentali che si pongono dopo l'esito non confermativo del referendum, sicché il punto di partenza non può che essere costituito da quel documento e dalla relazione medesima.
  L'esito non confermativo del referendum costituzionale ha posto fine a una situazione per la quale, in nome del futuro superamento del bicameralismo paritario e della configurazione del Senato come Camera delle autonomie, si era sostanzialmente avallata la scelta di non modificare la situazione vigente nel raccordo tra Stato e autonomie, così lasciando inattuate le disposizioni che pure su tale raccordo erano chiamate a fornire soluzioni anche temporanee, e tuttavia non inefficaci, e a rinviare altresì interventi di modifica su meccanismi già sperimentati e di indubbio rilievo, come il sistema delle conferenze.
  Si tratta di una situazione che, in attesa di interventi futuri riconosciuti migliori, aveva lasciato alla Corte costituzionale la responsabilità di precisare e stabilire in via pretoria condizioni e limiti di funzionamento dei meccanismi di raccordo, così in qualche modo contribuendo, al di là di ogni intenzione, a incrementare il già fin troppo abbondante contenzioso tra Stato e Regioni sulle questioni riguardanti appunto tale raccordo.
  Riguardata da questo punto di vista, la vicenda dell'esito non confermativo del referendum costituzionale contiene almeno importanti elementi di chiarezza, che a mio modo di vedere non possono essere sottovalutati.
  In particolare, prima di tutto nei prossimi tempi non può esservi spazio per il Pag. 4superamento in via di riforma costituzionale del bicameralismo paritario. Cade così il motivo che aveva indotto a ritardare il ricorso ai diversi strumenti già previsti dall'ordinamento.
  Una mancata attivazione di questi strumenti si risolverebbe, oggettivamente, al di là delle volontà soggettive degli interessati, nel favorire il perdurare di una situazione di incertezza e nell'affidamento alla giurisprudenza della Corte e soltanto ad essa dell'intero governo del fenomeno, che vede persistere l'assenza di un adeguato raccordo nel circuito della democrazia rappresentativa.
  Di conseguenza, a mio modo di vedere non vi è scelta se attuare o meno la previsione costituzionale di cui all'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2011. L'attuazione appare ormai doverosa.
  In questo contesto va posta la questione dell'eventuale idoneità dello strumento dell'intesa a realizzare forme di raccordo volte a riportare il rapporto Stato-Regioni nel circuito parlamentare e non soltanto in quello degli esecutivi.
  Acquistano poi un nuovo rilevo gli ulteriori temi da affrontare indicati nel documento della Commissione e nella relazione del presidente, la cui soluzione era stata sostanzialmente demandata al nuovo bicameralismo: il federalismo speciale, l'autonomia speciale, il regionalismo differenziato.
  Nel nuovo contesto, va valutata la questione del modo in cui effettuare, in particolare, il mantenimento e la riforma nell'attuale sistema delle conferenze. Questo sistema va anche valutato nella sua struttura obiettiva per comprendere se e in che misura esso può contribuire a dare una risposta al problema della restituzione al circuito democratico rappresentativo delle forme di collegamento tra Stato e autonomie.
  Poiché, peraltro, per entrare nel futuro, come diceva Tocqueville, occorre guardare al passato, cercherò di soffermarmi su alcuni punti che riguardano anche la giurisprudenza formatasi sui modi di cooperazione tra i diversi livelli di governo per cercare di trarne alcune indicazioni per il futuro. In particolare, mi soffermerò brevemente sui seguenti punti: la criticità del meccanismo di leale collaborazione tra Stato e autonomie e le soluzioni della Corte costituzionale; la sentenza n. 251 del 2016, il suo valore e le sue indicazioni e qualche accenno alla giurisprudenza successiva; il parere del Consiglio di Stato e gli spunti per il futuro; la struttura dell'intesa e la possibile esportabilità al di fuori dei suoi contesti naturali.
  Affronterò poi alcune questioni riguardanti l'attuazione dell'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2011, alcune osservazioni brevi sul sistema delle conferenze e una notazione finale su regionalismo speciale e regionalismo differenziato.
  Sappiamo tutti che l'articolo 11, di cui si discute oggi e che è rimesso al centro dell'attenzione dei lavori della Commissione, non è stato attuato per via dell'attesa dell'attuazione del bicameralismo paritario. Quali criteri sono stati elaborati dalla giurisprudenza per far fronte a questo vuoto? Li ricordo brevemente, anche se sono richiamati nel documento.
  Innanzitutto, c'è quello della sussidiarietà legislativa, della cosiddetta chiamata in sussidiarietà (Corte costituzionale, sentenza n. 303 del 2003, la cosiddetta «sentenza Mezzanotte»). Nella perdurante assenza dell'attuazione dell'articolo 11, si provvedeva attraverso un esercizio della competenza legislativa statale, che prevedeva l'allocazione a se stessa di funzioni amministrative o di funzioni che rientravano nelle competenze delle Regioni, ma si sottolineava la necessità di un'intesa forte in fase attuativa.
  Questa giurisprudenza è stata una giurisprudenza flessibile, perché l'intesa forte è andata progressivamente perdendo questo connotato di una forza importante. La giurisprudenza costituzionale ha interpretato questo requisito in modo sempre meno rigoroso. Si è detto, infine, in giurisprudenza che bastava, per assicurare la completezza del fenomeno, la non drastica preminenza della volontà dello Stato.
  Il secondo strumento di attuazione è il cosiddetto «paradigma dell'intreccio», che ricorre quando vi è una difficoltà strutturale Pag. 5 a individuare gli ambiti materiali di appartenenza della competenza tra Stato e Regioni. Quali criteri venivano utilizzati per risolvere questo paradigma dell'intreccio?
  Da una parte, c'era il criterio della prevalenza della volontà dell'uno o dell'altra. Normalmente, si leggeva questo a favore della prevalenza statale. In secondo luogo, nell'impossibilità di stabilire la prevalenza, la giurisprudenza costituzionale invitava a ritenere competente il legislatore statale, salvo regolare l'esercizio della funzione regolamentare e amministrativa successiva a valle della legge, in modo da rispettare il principio di leale collaborazione. C'è una giurisprudenza abbastanza sostenuta in questo senso (sentenze della Corte costituzionale n. 33 del 2011, n. 278 del 2010, n. 339 e n. 88 del 2009).
  Infine, c'è quello che può essere chiamato il «paradigma della forte incidenza». Ove l'esercizio della funzione legislativa da parte dello Stato anche in materia di competenza esclusiva sia in grado di determinare una forte incidenza sulle Regioni, si rende necessario che gli atti sub-legislativi, quindi gli atti attuativi, siano posti in essere mediante un contributo cooperativo delle Regioni singolarmente o attraverso la conferenza. Anche qui c'è una giurisprudenza costituzionale molto variegata (sentenze n. 88 del 2003, n. 232 del 2003, n. 134 del 2005, n. 250 del 2009, n. 88 del 2014).
  Infine, un ulteriore criterio di risoluzione del problema è quello della reinterpretazione in senso estensivo delle competenze legislative statali a partire dal 2010. Alcune clausole di competenza statale sono state interpretate dalla Corte in maniera piena, in maniera estensiva: quella della «concorrenza» e quella dell’«ambiente» e dell’«ecosistema», quella dell’«ordinamento civile», quella del «coordinamento della finanza pubblica», tutto per riportare la disciplina alla competenza statale.
  Quali sono le caratteristiche di questa condizione che veniva fuori dalla giurisprudenza della Corte costituzionale? O, in sostanza, non vi erano forme di collaborazione, e la sussidiarietà legislativa, quella della citata sentenza Mezzanotte del 2003, in realtà non prevede nessuna forma collaborativa, perché attribuisce a un solo soggetto la competenza, in questo caso allo Stato, o una collaborazione, ma non nella fase legislativa, bensì in quella attuativa, fosse questa dell'attuazione della legislazione delegata o anche della fase regolamentare, legata a un'attuazione non legislativa.
  Questa soluzione oggettivamente incrementava l'importanza del ruolo del sistema delle conferenze, un sistema che, come sapete, nacque per finalità diverse e che era sempre stato legato all'iniziativa del Governo.
  Voglio ricordare a tutti che del sistema delle conferenze, che è disciplinato da un apposito decreto legislativo, vi è cenno anche nella disciplina che riguarda la Presidenza del Consiglio dei ministri perché viene riportato alle competenze del Presidente del Consiglio in materia di rapporti con lo Stato, le Regioni e con le autonomie. La struttura del decreto legislativo n. 30 luglio 1999, n. 303, che disciplina la Presidenza del Consiglio, prevede che la Presidenza del Consiglio sia un tramite, in alto, con il sistema dell'Unione europea e, in basso, con il sistema delle Regioni e delle autonomie.
  Questo sistema fa sì che le conferenze diventino il luogo in cui il sistema regionale e locale nel suo insieme si fa carico dell'interesse generale, un interesse che comprende vari livelli di governi.
  È chiaro che la conferenza nasce in un modo specifico, in riferimento cioè al sistema amministrativo, proprio perché le competenze almeno iniziali delle conferenze riguardano l'attività amministrativa-regolamentare. Nasce nell'ambito dei rapporti tra esecutivi, ma acquista progressivamente anche una funzione di partecipazione attraverso forme di pareri a importanti iniziative legislative normalmente governative. Pensate alla legge finanziaria o alla cosiddetta legge di semplificazione.
  Voglio adesso richiamare l'attenzione sulla struttura fondamentale delle intese, perché tornerò su questo punto per cercare di valutarne l'esportabilità. L'intesa, strutturalmente, secondo il nostro ordinamento, Pag. 6nasce all'interno dei rapporti tra gli esecutivi, regionali e locali da una parte, ed esecutivo nazionale. È un elemento di composizione degli interessi all'interno degli esecutivi.
  Su questo quadro, che ho cercato di delineare spero con chiarezza, è intervenuta quella sentenza della Corte costituzionale, che voi tutti conoscete, la n. 251 del 2016, quella dell’«intreccio inestricabile». Questa sentenza è stata più volte ricordata e commentata, e in sostanza segna uno scarto nella stessa giurisprudenza della Corte, che va dalla tradizionale non applicabilità al procedimento legislativo del meccanismo dell'intesa all'applicazione del principio di leale collaborazione all'attività legislativa, in una dimensione soltanto attuativa della legislazione delegata.
  La sentenza, come è noto, afferma che è insufficiente lo strumento del parere e che vi è necessità dell'intesa in caso di competenze cosiddette «inestricabili». In questo senso, dichiara in parte qua incostituzionale la legge di delega della riforma Madia nella parte in cui non prevede l'intesa, ma il parere. Sulle competenze inestricabili ci sarebbe, secondo me, molto da dire. Molti giuristi potrebbero affermare che le competenze sono inestricabili fino a quando non sono inestricate. In sostanza, il compito del giurista dovrebbe essere quello di distinguere questo aspetto.
  Noi abbiamo su un piano diverso, il piano della giustizia amministrativa, un'indicazione molto semplice e molto chiara, che è quella per esempio della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per cui le questioni di diritto soggettivo di interesse legittimo sono legate inestricabilmente.
  In realtà, tutta la giurisprudenza, nell'ambito di questa giurisdizione, distingue sempre quando la giurisdizione implica rapporti con diritti soggettivi e quando con interessi legittimi, tanto che fa decorrere un termine dell'impugnazione diversamente a seconda che si sia di fronte a un interesse legittimo, un termine di decadenza, se si sia invece di fronte a un interesse legittimo in materia di pubblico impiego non contrattualizzato, per esempio una controversia economica, un termine di prescrizione. In questo caso, è proprio evidente che si rende possibile il superamento di questo tipo di indicazione. Detto questo, comunque la Corte ha ritenuto che ci fosse lì un caso di competenza inestricabile.
  Come sapete, a questa sentenza ha fatto seguito il parere del Consiglio di Stato n. 2371 del 2016. Questo parere è stato richiesto dal Ministro della funzione pubblica e aveva per oggetto il «che fare» dopo la sentenza della Corte, il «che fare» in una prospettiva costruttiva, cioè nel senso di cercare di capire se esisteva uno spazio e, nel caso che questo spazio esistesse, quali fossero le condizioni per correggere l'errore rilevato, ma non perdere tutto quello che grossomodo era stato realizzato in quel tempo, soprattutto in materie di grande importanza, e mi riferisco al rapporto di pubblico impiego, al testo unico sul pubblico impiego, alla questione delle società partecipate, questioni che avevano occupato Governo e Parlamento per diverso tempo.
  Questo parere del Consiglio di Stato porta alcune indicazioni fondamentali: innanzitutto, la necessità di portare a termine le riforme amministrative. Si dice, cioè, che per quanto possibile il sistema delle riforme amministrative deve essere portato a compimento.
  Questo è importante, perché nella logica della legge Madia le riforme amministrative fanno corpo, cioè non possono essere segmentate. Hanno di fronte un tentativo – vedremo se riuscirà – di cambiare all'interno il sistema amministrativo nel suo complesso. È un tipo di riforma che cambia ad esempio gli strumenti. Per la prima volta nell'ambito delle riforme amministrative, sono previste per esempio anche riforme di modelli societari.
  Normalmente, quello societario era un modello tradizionale di diritto comune: la riforma registra la presenza di quella giurisprudenza della Corte costituzionale, che a far data dal 2007-2008 considera invece quelli societari come modelli organizzativi dell'amministrazione, con il limite che con essi non si eserciti attività imprenditoriale in senso proprio. È un dato estremamente Pag. 7importante dal punto di vista del giurista e anche della strumentazione amministrativa.
  Forse, il quadro di riferimento più significativo di quella riforma può essere legato al quadro precedente delle cosiddette riforme Bassanini: come le riforme Bassanini, si tratta di un tentativo di considerare l'amministrazione nel suo complesso. Portare a termine le riforme amministrative è, quindi, la prima indicazione.
  La seconda è che non sono necessari interventi sulla legge 7 agosto 2015, n. 124, perché la sentenza è autoapplicativa, cioè sostituisce direttamente, al parere, l'intesa.
  Qual è l'incidenza della sentenza? Lo stesso testo della Corte lo dice con chiarezza: esclusivamente la legge delega e non i decreti delegati. Non vi è, quindi, un effetto cassatorio sui decreti delegati: se i decreti delegati sono considerati illegittimi, dovrà darsi luogo a un giudizio di costituzionalità su quello stesso decreto. Indica, sostanzialmente, la generica necessità di utilizzare strumenti correttivi del vizio indicato; indica anche una possibile sanatoria, sia pure in un paragrafo, il paragrafo 9 della sentenza, l'ultimo, molto breve, con cui si dice che si dovrebbero trovare dei mezzi correttivi e vengono implicitamente indicati i decreti correttivi come possibile luogo delle sanatorie.
  Voi sapete che nella riforma Madia, come in altre riforme degli ultimi anni, si prevede la possibilità del primo decreto delegato e, dopo un certo periodo di tempo, di un decreto eventualmente integrativo e correttivo che serva a correggere alcuni errori di funzionamento.
  Qui l'aspetto interessante è che il decreto correttivo viene indicato o sembra essere indicato si potrebbe dire per correggere la legge di delegazione, non per correggere il decreto delegato. È vero anche che, però, dovendosi fare applicazione della disciplina vigente al momento dell'emanazione del decreto, del decreto correttivo non si può fare applicazione se non con la struttura correttiva che la Corte costituzionale ha introdotto. Quando adotto il decreto correttivo e faccio riferimento all'intesa, non faccio altro che applicare la legge vigente al momento dell'emanazione di quel provvedimento, secondo la regola ben nota espressa dal brocardo tempus regit actum, quindi da questo punto di vista con una indicazione specifica.
  Questi strumenti specifici sono, quindi, indicati – naturalmente, non poteva essere diversamente – nel parere del Consiglio di Stato nell'intesa ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, quindi dei decreti legislativi correttivi con quel meccanismo dell'intesa previsto dal testo unico sull'autonomia.
  Quale deve essere l'oggetto dell'intesa? Il parere dice che devono essere tutte le norme del decreto. In sostanza, la Corte non ha provveduto a scandire norma per norma l'indicazione di una possibile incostituzionalità, ma ha indicato che l'intero meccanismo è incostituzionale nella parte in cui non prevede l'intesa. Non c'è, quindi, un'analisi delle singole disposizioni, se possano o meno essere considerate delegate. In questo quadro, è assolutamente ragionevole pensare che l'intesa riguardi il complesso delle norme. Forse, può essere più complicato, ma certamente è più sicuro per assicurare il rispetto della sentenza della Corte.
  Si afferma poi in questo parere che l'efficacia temporale dei decreti correttivi può anche essere retroattiva ex tunc. A fondamento di questo, che cosa si porta? Un argomento effettivamente tratto dalla teoria generale del diritto: poiché le due parti sono presenti, sistema regionale e sistema statale, sia pure negli esecutivi, queste due parti hanno nella loro disponibilità gli effetti del decreto. È una materia disponibile, quindi le parti, se concordano in questo senso una clausola di retroattività, in qualche modo possono andare avanti. È chiaro che il parere cerca di valorizzare al massimo la continuità, cioè quello che bisogna fare.
  Si pone, infine, l'ultimo parere: a che cosa si riferisce questo meccanismo dell'intesa che deve sostituire il parere con riferimento all'attività legislativa? Si riferisce a tutto il novero delle possibilità dei modi, delle forme in cui si attua la dimensione Pag. 8legislativa o si riferisce a dei procedimenti specifici?
  Il parere non indugia su questo, ma è chiaro nell'indicazione. Il riferimento è al solo procedimento di legislazione delegata, e non ad altri, perché sono questi procedimenti di legislazione delegata, e non di altri come quelli di legislazione ordinaria, che finiscono per essere attratti con la procedura di leale cooperazione. Non possono essere utilizzati vincoli procedimentali diversi e ulteriori.
  Questo è legato, per un verso, alla struttura della sentenza, che dice con chiarezza che si riferisce alla legislazione delegata; per altro verso, a considerazioni di carattere generale, perché un meccanismo diverso probabilmente imporrebbe un cambiamento del procedimento legislativo, che ha copertura costituzionale, e quindi non potrebbe essere utilizzato allo stesso modo.
  Perché vi ho fatto questa sintesi? Non solo per cercare di dare il quadro del problema e ciò che può essere utilizzato di questa giurisprudenza dopo, ma per cercare di capire se, come qualcuno ha detto, questo strumento dell'intesa può essere utile al di fuori del suo ambiente naturale, cioè esportandolo con riferimento all'attività di legislazione «ordinaria».
  La mia impressione, e questo approccio a mio modo di vedere dovrebbe renderlo abbastanza evidente, è che vi è una difficoltà, se non addirittura un'impossibilità di esportare l'intesa al di là dell'attività di delegazione legislativa e, più in generale, al di là della fase attuativa della disposizione, sia che questa fase attuativa si attui attraverso una legge di delegazione, sia che si attui attraverso strumenti di normazione secondaria e regolamentare. Perché?
  Come ho detto, sul piano testuale la sentenza fa riferimento solo alla delegazione. Estendere quell'intesa di cui la sentenza parla al di fuori della delegazione legislativa significherebbe modificare il procedimento legislativo, che ha invece copertura costituzionale, quindi non si può modificare.
  L'intesa poi ha una sua intrinseca, a mio modo di vedere, non idoneità. Noi siamo giuristi positivi e partiamo dal diritto positivo: l'intesa è uno strumento, come ho detto, che suppone la presenza dell'esecutivo nazionale e degli esecutivi regionali e locali. Inoltre, è uno strumento che è sempre stato utilizzato in una fase attuativa, non in una fase di tipo progettuale, come quella legislativa.
  Queste osservazioni, a mio modo di vedere, dimostrano la sostanziale impossibilità di utilizzare questa forma dell'intesa come fondamento di ulteriori rapporti collaborativi nell'ambito di organi che siano parlamentari legislativi, quindi non al di fuori degli esecutivi.
  D'altra parte, e qui c'è un'altra osservazione da fare, sarei abbastanza attento nel considerare questa giurisprudenza della Corte costituzionale, che pure è importante e alla quale tutti dobbiamo prestare attenzione, come consolidata.
  Siamo di fronte a quello che noi chiamiamo overruling, un cambiamento di giurisprudenza, un cambiamento di indirizzo, con un meccanismo anche improvviso. Certe volte, per esempio, gli overruling vengono annunciati, mentre qui c'è stata un'applicazione immediata. Per carità, è del tutto legittimo, ma il problema è capire se questo è un overruling che acquisterà stabilità o non l'acquisterà.
  Allo stato degli atti, io credo che non possiamo considerare quest'esito come assoluto, sia perché la sentenza è recente, ed è una sola; sia perché alcune sentenze successive sembrano non tenere in considerazione questo progetto.
  Mi riferisco, in particolare, alla sentenza n. 32 del 2017, una sentenza successiva che dice testualmente: «Questa Corte ancora di recente ha ribadito il principio, proprio in riferimento all'accordo raggiunto nella Conferenza unificata dell'11 settembre 2014, secondo cui “un accordo non può condizionare l'esercizio della funzione legislativa” (sentenza n. 205 del 2016). Ad ogni modo, poiché le disposizioni impugnate devono tutte essere ascritte, come si è detto, a plurimi titoli di competenza statale, nessuna violazione della leale collaborazione può essere imputata allo Stato, non essendovi alcuna competenza regionale incisa». Pag. 9
  Qui, come vedete, il lungo problema delle competenze inestricabili non viene affrontato e viene risolto in due modi. Da una parte, la Corte ribadisce il principio tradizionale se vi è esercizio di funzione legislativa, e quindi non distingue tra la legislazione delegata e la legislazione ordinaria o altro; dall'altra, risolve tutto in concreto dicendo che vi sono plurimi titoli di competenza statale.
  Questo è un segno del fatto che la giurisprudenza della Corte ancora non si è consolidata su questo principio. Utilizzerei, quindi, come è ovvio, questi strumenti, ma starei anche un po’ attento a vedere se questo possa diventare uno strumento consolidato. In una giurisprudenza ancora successiva, dello stesso anno 2016, viene utilizzato il principio di prevalenza per risolvere le questioni, quindi non c'è questo ritorno al principio delle competenze inestricabili, tra l'altro anche molto problematiche sotto diversi aspetti.
  Le osservazioni che precedono dimostrano, a mio modo di vedere, che se si vuole passare a una diversa stagione del rapporto cooperativo tra Stato e Regioni, occorre procedere con l'attuazione del famoso allargamento della Commissione bicamerale per le questioni regionali previsto dall'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2011 e pensare ad altre soluzioni costituisce secondo me un fuor d'opera.
  Perché questo adempimento è, a mio modo di vedere, necessario e in qualche modo doveroso istituzionalmente. Perché il fallimento del referendum sulla riforma costituzionale esclude che possano esserci strumenti diversi a Costituzione invariata. Le soluzioni giurisprudenziali, per quanto ricercate, sono oggettivamente insufficienti e una certa insufficienza manifestano anche i meccanismi dell'intesa per le ragioni che ho cercato di esprimere.
  Penso che occorra partire senza farsi impressionare eccessivamente dalle difficoltà, che pure l'attuazione dell'articolo 11 presenta. Dico anche che l'attuazione dell'integrazione della Commissione bicamerale con la rappresentanza regionale non suppone l'abbandono del «sistema delle conferenze», ma semmai la sua parziale modificazione o, in qualche limite, forse un parziale ridimensionamento per evitare sovrapposizioni per la sua messa a punto, ma il sistema delle conferenze rimane importante. Anzi, vorrei dire che il combinato disposto tra integrazione della Commissione bicamerale e attuazione di un sistema delle conferenze più efficiente potrebbe offrire una copertura complessiva del rapporto Stato-Regioni a tutte le forme di collaborazione tra Stato e autonomie.
  Veniamo adesso all'attuazione dell'articolo 11. Nella stessa giurisprudenza della Corte costituzionale, l'attuazione dell'articolo 11 è un second best, perché il first best sarebbe l'attuazione del bicameralismo. Su questo tema molte indicazioni preziose sono contenute nel documento della Commissione, nella relazione del presidente D'Alia, quindi non cercherò di svolgere tanto quelle indicazioni. Anche nei lavori del Comitato paritetico della XIV legislatura si trovano moltissime cose di grande utilità che possono essere utilizzate. Sinteticamente cercherò di richiamare l'attenzione su alcuni profili.
  C'è un profilo generale, che per il giurista è interessante, che non può essere passato sotto silenzio: vi è un intreccio tra la giurisprudenza costituzionale che si è formata in questo periodo e le prassi instauratesi prima dell'attuazione dell'articolo 11. Il quesito è: può essere utilizzata la giurisprudenza costituzionale per configurare il modo di essere della Commissione integrata? O, detto più semplicemente, questa giurisprudenza costituzionale ci dice qualcosa sul modo con cui questa Commissione integrata deve essere utilizzata?
  Qui le risposte devono essere prudenti. La prima risposta sarebbe, naturalmente, favorevole: sì, perché la giurisprudenza della Corte descrive in via generale la natura della relazione cooperativa tra Stato e Regioni. Una seconda risposta potrebbe essere più prudente: sì, ma con grande attenzione, perché questa giurisprudenza si è sviluppata proprio perché l'articolo 11 non era stato attuato. Se ne deduce che l'attuazione dell'articolo 11 potrebbe portare anche qualche mutamento nella giurisprudenza successiva; questa stessa giurisprudenza Pag. 10 potrebbe, in presenza dell'attuazione dell'articolo 11, essere dunque in parte rivista.
  Credo che esista una risposta ragionevole tra queste due opzioni possibili e ho cercato di identificarla provando a capire quali sono i punti saldi che la giurisprudenza della Corte ha identificato nel rapporto tra Stato e Regioni e che debbono, probabilmente, caratterizzare anche quella forma di cooperazione che sarebbe attuata con l'articolo 11. Sintetizzerei così.
  L'articolo 11 sancisce in via formale una forma di federalismo cooperativo ed è importante per questo, perché è un'affermazione di questa forma di federalismo. Questo ci consente anche di superare alcune incertezze sul tipo di federalismo (competitivo, non competitivo). Qui l'idea di fondo è la cooperazione tra Stato e Regioni.
  Questo federalismo cooperativo ha un carattere preciso ed è tale da richiedere sempre la presenza di Stato, Regioni, Province autonome ed enti locali. È, quindi, un federalismo che ha una struttura già configurata.
  Il problema si pone per le Province, come voi sapete, per la legge Delrio e per la mancata conferma della riforma costituzionale. Penso che in questo momento, in mancanza della riforma costituzionale, le Province non possano essere tirate fuori da questa indicazione.
  Il sistema risultante dall'attuazione dell'articolo 11, quello che si andrà a fare, non può essere meno ricco e meno intenso di quello che è stato complessivamente delineato dalla Corte nel periodo di inattuazione dell'articolo 11. Non possiamo, con l'attuazione dell'articolo 11, far retrocedere la qualità dei rapporti a una condizione diversa da quella che c'era nel rapporto tra Stato e autonomie.
  Quali sono poi gli elementi fondamentali del meccanismo cooperativo predisposto dalla Corte costituzionale? Quali sono questi elementi?
  Questa cooperazione deve essere efficace, quindi non può essere un mero coinvolgimento, non può risolversi in un mero parere e deve essere una cooperazione efficace. Questa cooperazione non deve essere legata alla buona volontà, ma trasformarsi in meccanismi giuridicamente efficaci e apprezzabili. In terzo luogo, però, la cooperazione non può accettare lo stallo a tempo indeterminato, cioè non può diventare uno stallo, deve esserci un modo di uscire dal sistema, deve essere prevista una via di fuga dallo stallo. Questo è il quadro.
  La cooperazione poi deve tener presente che l'attuazione dell'articolo 11 si riflette in regole che riguardano, questa volta sì, il procedimento legislativo. Il secondo comma dell'articolo 11 detta, infatti, alcune norme anche sul modo di votazione in relazione ai pareri resi e la loro trasformazione in emendamenti, quindi interviene sul procedimento legislativo.
  L'articolo 11 si riflette sul procedimento legislativo in generale, quantomeno con riferimento alla precedente legislazione ordinaria. Così si introduce, a mio modo di vedere, nella misura delle norme previste dall'articolo 11, un possibile sindacato della Corte costituzionale sul procedimento legislativo. In altri termini, qualcuna delle parti potrebbe far valere la violazione dell'articolo 11 davanti alla Corte costituzionale, perché qui c'è un procedimento previsto da una norma costituzionale, quale è l'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001.
  Potrebbe rimanere aperta una questione sulla decretazione d'urgenza, che ha livelli del tutto diversi. Certamente, la decretazione d'urgenza in quanto tale non può essere soggetta a questi meccanismi. Forse, qualche riflessione andrebbe fatta sulle leggi di conversione, che invece potrebbero avere qualche spazio, ma è un tema ancora tutto da affrontare.
  Veniamo adesso all'articolo 11. Che tipo di disposizioni contiene l'articolo 11? Contiene due tipi di disposizioni: nel primo comma, una norma sull'integrazione possibile, cioè una norma su una facoltà data dall'ordinamento di prevedere quest'integrazione; nel secondo comma, una norma sul procedimento legislativo dei progetti di legge presi in considerazione quando si sia scelto di procedere all'integrazione. Dà, quindi, un'indicazione.
  Ora, l'articolo 11 pone un problema delicato di rapporto tra norme costituzionali, Pag. 11 regolamenti parlamentari e legge statale. Perché?
  Secondo la norma costituzionale, la scelta per l'integrazione è riservata ai regolamenti parlamentari, quindi sono i regolamenti parlamentari che devono operare questa scelta, sennonché la Commissione bicamerale per le questioni regionali si innesta su una disposizione costituzionale, l'articolo 126, che contiene una riserva di legge per la riforma della Commissione e per le modalità della sua costituzione. Ne deriva che la scelta per la semplice integrazione può farsi luogo mediante regolamento parlamentare, come è espressamente previsto, e sempre attraverso il regolamento parlamentare può essere disciplinato il funzionamento della Commissione.
  Vi sono, però, dei profili che probabilmente chiedono anche un intervento diverso. Vi potrebbe essere necessità di intervento legislativo ove si dovesse scegliere se modificare la composizione della Commissione bicamerale per le questioni regionali, eventualmente riducendo il numero dei componenti appartenenti al Parlamento nazionale.
  Un'operazione di questo genere, siccome incide sulla norma primaria coperta da riserva di legge, l'articolo 126 della Costituzione, non può essere fatta che con legge statale. Perché dico questo? Nel dibattito è stato giustamente osservato che, per evitare formazioni pletoriche, entrambe le rappresentanze dovrebbero essere limitate.
  A mio modo di vedere, potrebbe esservi comunque spazio per la legge ordinaria tutte le volte che si superi la questione della mera integrazione e del mero funzionamento, cioè tutte le volte che si vada al di là di questi ambiti, riservati direttamente dalla Costituzione al regolamento parlamentare.
  Un problema rilevante si pone, ad esempio, con riferimento alla questione riguardante la designazione di rappresentanti di Regioni ed enti locali. Questo profilo va certamente lasciato all'autonomia delle Regioni, ma ci si può porre il problema: va lasciato all'autonomia delle singole regioni o del sistema regionale e locale nel suo complesso?
  Probabilmente, la risposta più coerente sarebbe la seconda. In questo caso, una legge statale, che attraverso il meccanismo delle conferenze esistente possa essere contrattata, negoziata con il sistema regionale e locale per prevedere un sistema comune al sistema regionale, potrebbe costituire una buona risposta al problema.
  Sul numero e sulla composizione viene richiamata l'attenzione sull'assoluta necessità della pariteticità di questa Commissione e sulla necessità, come dicevo prima, per legge di diminuire anche i componenti statali, perché son troppi. Sulla designazione delle Regioni vi ho detto.
  Sarebbe utile che fossero presenti rappresentanti dei Consigli regionali, ma anche rappresentanti dei Governi. I Consigli regionali integrano il profilo legislativo, ma avere presente anche chi è responsabile dell'attuazione delle politiche potrebbe essere utile.
  Relativamente alla composizione degli enti locali, qui si parla dei Consigli delle autonomie locali o della componente locale della conferenza.
  Entrambe le soluzioni hanno dei profili problematici. Riunire i Consigli delle autonomie locali, che pure sarebbe logico sul piano generale, spesso non è facile. La componente locale della conferenza avrebbe bisogno forse di una copertura, perché sono presenti ANCI e UPI, che sono associazioni, come sapete, non riconosciute, non hanno la stessa struttura. Comunque, uno di quei due sistemi va bene, purché si vada avanti.
  Il voto, infine, dovrebbe essere sempre per componenti, e non potrebbe essere altrimenti, perché verrebbe meno il senso di questa modifica.
  C'è un problema poi di interpretazione dell'articolo 11, primo e secondo comma. Quando si parla di integrazione, il tema che si pone è: l'integrazione suppone una partecipazione della componente regionale e locale limitatamente a quei procedimenti legislativi presi in considerazione dal comma 2 o anche con riferimento a profili più ampi? Pag. 12
  Secondo me, è possibile provvedere, perché la norma in generale dice che è possibile provvedere all'integrazione. Perché, quindi, l'integrazione non dovrebbe essere possibile – è nel dominio dei regolamenti parlamentari – a eventuali altri profili? Il riferimento, per esempio, è a eventuali pareri e iniziative non coperte da previsione costituzionale per quanto riguarda il procedimento legislativo.
  L'articolo 11, comma 2, invece, contiene a mio modo di vedere una norma su competenze tipiche e funzioni integrate. Quella norma, a mio avviso, va interpretata in modo restrittivo, altrimenti avremmo una dilatazione tale delle competenze della Commissione integrata che tecnicamente potrebbe rivolgersi a materie le più disparate. Questo non solo costituirebbe un aggravio al procedimento legislativo, ma toglierebbe secondo me anche la mission, il senso proprio dello scopo. Se voglio raggiungere un risultato, devo mirare a questo risultato e non estenderlo troppo. Naturalmente, le eventuali possibili norme dei regolamenti parlamentari dovrebbero evitare, appunto, lo stallo nel procedimento legislativo, perché questo sarebbe un problema grave.
  Veniamo, adesso, alle Conferenze Stato-Regioni e Stato-città e Conferenza unificata. Si può porre una prima questione.
  Le conferenze, se venisse attuato l'articolo 11, conserverebbero una competenza sull'attività legislativa? Voi sapete che l'accordo riguarda anche i profili attuativi regolamentari di legislazione delegata e vi sono anche pareri su iniziative legislative importanti.
  Ora, mentre sulla legislazione delegata e sui profili regolamentari non vi è nessun problema – secondo me, quella competenza è importante, deve restare, perché resta nella fase attuativa della disciplina – forse qualche problema si può porre nella sovrapposizione che potrebbe esserci tra attività della commissione integrata e parere generale su un procedimento legislativo generale. Qui forse bisognerebbe fare una riflessione per evitare delle sovrapposizioni.
  Abbiamo adesso la sede parlamentare, che è la sede propria per queste cose. Quella era una sede di supplenza. Rimane valido, invece, tutto ciò che riguarda sia la legislazione delegata sia l'eventuale attuazione di regolamenti attuativi della disposizione.
  Devo dire anche che le conferenze hanno svolto un ruolo molto importante, addirittura prima della stessa modifica del Titolo V. Di questo sono stato anche testimone. Durante l'attuazione del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, ho svolto anche le funzioni di commissario straordinario del Governo per il federalismo amministrativo. Allora, abbiamo fatto l'unico trasferimento di risorse finanziarie umane e strumentali dallo Stato alle Regioni e agli enti locali in attuazione delle leggi Bassanini.
  In quel caso si ricorse a uno strumento di grande interesse: quest'operazione fu preceduta da un'intesa tra Stato e Regioni sui profili finanziari e sui modi di interpretare i bilanci recessivi. La mia idea fu la seguente: mettiamo insieme la Ragioneria generale dello Stato e le ragionerie generali delle Regioni e dei Comuni perché queste trovino un linguaggio comune.
  Effettivamente, questo strumento ha funzionato, perché consentì di fare quell'operazione, quei trasferimenti di risorse, funzioni e così via. Lo strumento della conferenza, quindi, ha avuto un ruolo importante già prima della riforma del Titolo V. Sono stati da qualcuno indicati come strumento di governo del federalismo amministrativo.
  Le conferenze dovevano avere, in particolare la Conferenza unificata, un ruolo importante anche nel federalismo fiscale. Ricordate i provvedimenti sul federalismo fiscale che attribuivano un ruolo significativo a questa conferenza. Le conferenze hanno, quindi, un ruolo istituzionale importante. Sono previste, come vi dicevo, dallo stesso decreto legislativo che disciplina l'organizzazione e il funzionamento della Presidenza del Consiglio.
  Naturalmente, le conferenze presentano anche alcuni profili di criticità, che sinteticamente possono essere indicati nel modo seguente. C'è una certa sovrapposizione tra il livello politico e il livello amministrativo, cioè la conferenza segue un livello amministrativo Pag. 13 e, a un certo punto, fa un salto politico quando arriva all'ultimo momento dell'approvazione. Qui forse occorrerebbe distinguere meglio i due profili.
  C'è un collegamento più difficile con il sistema di funzionamento delle amministrazioni centrali e con il cosiddetto pre-Consiglio dei Ministri, quello che esamina i provvedimenti che saranno portati in Consiglio dei ministri. Lì una presenza direttamente della conferenza, non attraverso il Ministro per gli affari regionali, potrebbe essere utile per dare più corpo.
  La conferenza è oggi totalmente assorbita dalla figura del Presidente del Consiglio e dal Ministro per gli affari regionali. Si potrebbe pensare alla costituzione di forme collaborative paritetiche tra Stato e Regioni.
  Interverrei poi sulla struttura, oggi un po’ barocca (Conferenza Stato-Regioni, Conferenza Stato-città, che si riunisce molto meno), per un'unica conferenza con due sezioni, che si riuniscono separatamente per gli affari che le riguardano, e insieme per le questioni comuni. Sarebbe sempre importante il voto per componenti; sarebbe importante anche una co-presidenza o presidenza a turno di rappresentante statale e di un rappresentante regionale. Potrebbe essere importante la costituzione di un ufficio di segreteria comune e non di un ufficio di segreteria che è una struttura organizzativa della Presidenza del Consiglio.
  Infine, passo a qualche indicazione sugli Statuti speciali, tema posto ancora dalla relazione.
  Io vorrei suggerire due piste di riflessione che devono a mio modo essere realizzate per portare avanti questi progetti, innanzitutto su autonomie speciali, così come previste dagli Statuti delle varie Regioni, e autonomie differenziate, così come previste dalla legge costituzionale n. 3 del 2001.
  Occorrerebbe chiedersi quali sono gli elementi di differenza e gli elementi di assonanza tra questi due tipi di autonomia, che nascono da condizioni diverse. La condizione dell'autonomia speciale nasce dal riconoscimento di una condizione storica, che può essere culturale, linguistica, ma anche legata allo sviluppo economico. L'autonomia differenziata nasce dalla considerazione che un salto di qualità delle competenze regionali potrebbe assicurare meglio la qualità del servizio al cittadino, per cui in quel momento quella Regione può rispondere in modo più efficace all'esigenza. C'è in entrambi i casi l'esigenza di promuovere la qualità della vita del cittadino, ma i punti di partenza sono diversi. Questa riflessione certe volte secondo me non viene fatta. Dovremmo farla in modo specifico.
  Se poi occorre, come è giusto fare, proseguire con le autonomie speciali, credo che dovremmo porci oggi il problema di identificare in modo specifico la mission, la missione di queste autonomie speciali.
  La mia idea è che le autonomie speciali, in generale, fatte salve le differenze, dovrebbero servire ad anticipare i processi di cambiamento, non a costituire un elemento con cui si ratifica a posteriori un cambiamento avvenuto nella legge statale, ma con cui si sperimenta una soluzione più avanzata di quella che l'ordinamento generale dà, in modo da consentire per una riflessione futura di mettere a fattor comune quella esperienza.
  Questo me l'ha detto la lettura di alcuni dibattiti ormai risalenti sulle autonomie speciali, in particolare sull'autonomia della mia Regione. Io sono siciliano, ho fatto qualche lettura in quel senso, e ricordo alcuni discorsi interessanti dell'allora Presidente della Regione, poi Ministro dell'interno, Franco Restivo, che richiamava moltissimo l'attenzione su questo maggior servizio ai cittadini e su una modernizzazione del servizio, quindi sulla possibilità che strumenti attuativi meno barocchi di quelli che esistevano a livello statale potessero essere utilizzati.
  C'è anche in parte l'esperienza. Talvolta, l'autonomia speciale è servita anche a frenare nel tempo l'attuazione di riforme che funzionavano nel resto del Paese. Un esempio per tutti, se volete banale, è quello che riguarda la legge 7 agosto 1990, n. 241, entrata in vigore nelle varie Regioni dopo che l'hanno recepita con un testo identico. Pag. 14Da questo punto di vista, dovremmo evitare che le autonomie speciali funzionino in questo modo. Dovrebbero funzionare, invece, in relazione al miglioramento, a un dinamismo maggiore per quanto riguarda i cambiamenti.
  Quanto alle questioni riguardanti le autonomie speciali, un ruolo speciale ce l'ha quella del funzionamento delle Commissioni paritetiche. Su questo ho già svolto a suo tempo una mia audizione e mi richiamo a quello che si è detto. Quello che è carente è il raccordo tra le Commissioni paritetiche e la fase successiva.
  Lì molti strumenti potrebbero essere utilizzati, da quello del silenzio-assenso per l'approvazione di certi provvedimenti, a quello di un obbligo di esame da parte del Consiglio dei ministri degli schemi di provvedimenti adottati. Una certa codificazione del procedimento di formazione del decreto delegato potrebbe portare a compimento queste cose.
  Vi chiedo scusa se vi ho intrattenuto a lungo su tutti questi profili, ma questo era il tema che era stato posto e ho cercato di dare una risposta.
  La mia idea, conclusivamente, è che siamo in una fase particolare, nella quale non ci assiste più la prospettiva della riforma costituzionale. Tra l'altro, è una prospettiva presente anche nell'articolo 11, che a sua volta contiene una forma provvisoria, in previsione dell'approvazione della riforma costituzionale. Adesso dobbiamo attuare una disciplina che non è stata attuata e che nella stessa configurazione legislativa è provvisoria. Secondo me, questa è la prima scelta, la scelta più urgente.
  Attorno a questo va costituito tutto il sistema delle conferenze. Abbiamo, però, un'esperienza già importante, e quindi con piccoli ritocchi secondo me questi sistemi possono funzionare insieme.
  L'augurio è che si realizzi quel profilo cooperativo scritto nelle nostre norme costituzionali.

  PRESIDENTE. La ringraziamo, presidente. La relazione ci fornisce una serie di spunti di riflessione concreta sul percorso che vorremmo fare e che vorremmo proporre al Parlamento. È stato molto utile, tra l'altro, anche il suo contributo sulla parte relativa al rapporto tra Governo, Parlamento e Conferenza Stato-Regioni da definire grazie anche al parere del Consiglio di Stato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2016. Come Commissione, abbiamo chiesto ai Presidenti di Camera e Senato di esaminare anche gli schemi di decreti legislativi.
  È chiaro che questo porrà alcuni problemi. Ne cito uno: che cosa può succedere nel caso in cui il Parlamento chieda al Governo di modificare parte degli schemi di decreti legislativi che siano stati già oggetto d'intesa?

  ALESSANDRO PAJNO, Presidente del Consiglio di Stato. Bisognerebbe rifare l'intesa.

  PRESIDENTE. Esattamente. È chiaro che la sentenza apre una serie di scenari, rispetto ai quali cerchiamo anche come Commissione, ancorché non integrata, di dare un contributo per sminare un po’ di problemi in via preventiva anche dal punto di vista del contenzioso. È evidente, però, che l'unico percorso che abbiamo davanti, difficile ma necessario, è quello dell'attuazione dell'articolo 11.
  Ringrazio il presidente Pajno. Ringrazio i colleghi.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.45.