XVII Legislatura

XI Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 7 di Mercoledì 13 gennaio 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Damiano Cesare , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'IMPATTO IN TERMINI DI GENERE DELLA NORMATIVA PREVIDENZIALE E SULLE DISPARITÀ ESISTENTI IN MATERIA DI TRATTAMENTI PENSIONISTICI TRA UOMINI E DONNE

Audizione di rappresentanti della Confindustria.
Damiano Cesare , Presidente ... 3 
Albini Pierangelo , direttore dell'Area lavoro e welfare di Confindustria ... 3 
Damiano Cesare , Presidente ... 6 
Piccolo Giorgio (PD)  ... 6 
Gnecchi Marialuisa (PD)  ... 6 
Di Salvo Titti (PD)  ... 7 
Rizzetto Walter (Misto)  ... 7 
Damiano Cesare , Presidente ... 8 
Albini Pierangelo , Direttore dell'Area lavoro e welfare di Confindustria ... 8 
Gnecchi Marialuisa (PD)  ... 9 
Albini Pierangelo , Direttore dell'Area lavoro e welfare di Confindustria ... 9 
Damiano Cesare , Presidente ... 10 

ALLEGATO: Documenti depositati dai rappresentanti della Confindustria ... 11

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale - Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CESARE DAMIANO

  La seduta comincia alle 15.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della Confindustria.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'impatto in termini di genere della normativa previdenziale e sulle disparità esistenti in materia di trattamenti pensionistici tra uomini e donne, l'audizione di rappresentanti di Confindustria.
  Ringrazio i nostri ospiti, a nome di tutta la Commissione e a nome mio, per la loro partecipazione all'odierna audizione.
  Segnalo che sono presenti Pierangelo Albini, direttore dell'Area lavoro e welfare, Giulio De Caprariis, vicedirettore dell'Area lavoro e welfare, Maria Magri, dirigente dell'Area lavoro e welfare e Zeno Tentella, delle relazioni esterne.
  Nel ringraziare ancora una volta i nostri ospiti, do loro la parola per lo svolgimento della relazione.

  PIERANGELO ALBINI, direttore dell'Area lavoro e welfare di Confindustria. Presidente, onorevoli deputati, siamo noi, come di consueto, a ringraziare, ma non in modo puramente formale, la Commissione per l'opportunità che oggi ci viene data di esprimerci nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle differenze di genere nei trattamenti pensionistici. Abbiamo redatto un documento che contiene alcuni dati e tabelle. Se di interesse, lo lasceremo a disposizione della Commissione a supporto del ragionamento che mi accingo a fare.
  Una prima questione riguarda la dimensione del fenomeno, che vede l'Italia registrare un differenziale medio tra la pensione delle donne e quella degli uomini, che si aggira intorno al 33 per cento. È un dato significativo, ma tuttavia più basso della media europea. Ci sono Paesi che presentano differenziali molto maggiori del nostro. Segnalo, ad esempio, la Germania con il 44 per cento, l'Olanda con il 43 per cento e il Regno Unito con il 41 per cento. I Paesi del blocco dell'Est e alcuni Paesi del Nord, come Danimarca ed Estonia in particolare, registrano invece differenziali molto più bassi.
  Le cause di questo differenziale sono tre e credo siano ben note anche alla Commissione.
  La prima è che in Italia c’è una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. La seconda è che le donne hanno una carriera lavorativa più breve e spesso anche più frammentata di quella degli uomini. Il terzo elemento è che le retribuzioni delle donne sono mediamente più basse di quelle degli uomini.
  Cominciamo da questo ultimo aspetto, che, per certi versi, può essere più direttamente riconducibile alla responsabilità dei datori di lavoro. L'Italia registra una tra le più basse percentuali di differenziale salariale fra uomini e donne. Il dato si aggira fra il 7 e l'8 per cento, la metà del dato medio europeo. La Francia registra Pag. 4un 15 per cento circa e la Germania un 21-22 per cento. Va detto, per onestà, che questo differenziale nel trattamento retributivo delle donne sconta la composizione della percentuale di donne occupate in Italia. Normalmente esse hanno una scolarità più elevata, un titolo di studio più elevato e collocazioni, anche nell'ambito lavorativo, a cui corrispondono retribuzioni più elevate, rendendo meno significativo questo differenziale.
  Abbiamo una situazione più negativa rispetto agli altri Paesi nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Rispetto alla strategia «Europa 2020» e ai suoi obiettivi, che erano stati individuati nel 2010, siamo clamorosamente in ritardo. Abbiamo 13 punti in meno della Francia e 22 punti in meno della Germania. Se, in più, consideriamo i differenziali regionali all'interno del Paese, vediamo situazioni molto differenti. Il tasso di occupazione femminile in Campania nel 2014, ad esempio, era intorno al 27,5 per cento. Nello stesso anno, in Emilia-Romagna era il 59,1 per cento. Questa è una delle più evidenti spiegazioni del ritardo nel raggiungimento degli obiettivi.
  Il terzo elemento riguarda la carriera lavorativa delle donne, mediamente più breve e più discontinua rispetto a quella degli uomini. Le donne occupate in Italia mediamente lavorano 24,5 anni contro i 39,6 anni degli uomini, con uno scarto del 38 per cento, più elevato di quello che si registra nella maggior parte dei Paesi europei.
  Questo, secondo noi, è il cuore del problema, che sconta soprattutto fattori culturali di questo Paese, aventi intensità differente nei diversi territori. Le donne sono deputate alla cura dei figli e della famiglia. Superata la fase in cui devono occuparsi dei figli, molto spesso esse sono chiamate a occuparsi delle persone più anziane. Questo determina una situazione che deve farci riflettere. Nella documentazione che depositeremo ci sono dati di comparazione anche con gli altri Paesi. Come dirò, questo elemento ci aiuta a fare una riflessione su ciò che sarebbe ragionevole fare.
  Noi ci siamo anche preoccupati di capire se il nostro sistema pensionistico eserciti una qualche influenza su questo differenziale e, cioè, se i criteri con cui vengono determinate le pensioni possano avere un ruolo nell'accrescere o attenuare il differenziale di genere. Avrete modo di esaminare la documentazione e mi spiace di non aver fatto in modo di farla pervenire per tempo così da poter ragionare con i dati. La Commissione avrà modo di vedere che non c’è un effetto negativo del nostro sistema pensionistico sul differenziale. Semmai è vero il contrario.
  Il sistema contributivo, sia prima della riforma del 2011 sia dopo la riforma, opera per contemperare questo differenziale. Poiché il criterio di determinazione dei montanti si basa sulla aspettativa di vita, facendo una media tra l'attesa di vita degli uomini e quella delle donne, il metodo di calcolo contributivo finisce per compensare il differenziale, dando luogo ad importi che, considerati cumulativamente, sono maggiori per le donne. Infatti, mentre per l'uomo il rapporto tra i contributi effettivamente versati e il valore dei benefici pensionistici ottenuti (Pvr ratio) è pari a circa 1, come vedrete nelle tabelle, sia prima sia dopo la riforma del 2011, il nostro sistema, con riferimento all'ammontare dei trattamenti pensionistici continua a premiare un po’ di più le donne, il cui Pvr ratio è superiore a quello degli uomini.
  Ciò non significa che il sistema pensionistico di oggi non meriti un'attenta riflessione. Noi riteniamo che sarebbe opportuno fare una riflessione sui criteri che tengono conto della storia lavorativa delle persone, in modo particolare per quanto riguarda la ricongiunzione onerosa e la totalizzazione.
  Ci sono situazioni che finiscono per penalizzare maggiormente le donne rispetto agli uomini perché le donne, più degli uomini, hanno percorsi lavorativi che possono portare a fare esperienze diverse. Credo che quasi tutti abbiamo avuto modo di vedere, in alcune recenti trasmissioni televisive, alcuni esempi di questo tipo, comprensibili in una logica generale, ma Pag. 5in alcune circostanze forieri di effetti straordinariamente iniqui. Questo è un aspetto su cui intervenire.
  A nostro avviso, però, se si dovesse individuare un ambito nel quale intervenire nel contesto italiano, in cui alla donna viene addossato il gravame della famiglia, sarebbe più utile poter contare su servizi alla persona, per l'infanzia e per la non autosufficienza, che consentano alla donna di avere una carriera lavorativa più continua. Da questo punto di vista, noi abbiamo insistito molto perché, in questi anni, si facessero scelte che puntassero sui servizi. Si può facilmente constatare come, nelle diverse aree del Paese, il tasso di occupazione femminile e il tasso di fertilità siano più alti laddove il contesto sociale consente di avere una struttura di servizi più efficiente e funzionale a supporto della famiglia.
  Questo scenario, evidentemente, andrà visto in divenire perché le modalità attraverso le quali si presterà l'attività lavorativa tenderanno a cambiare. Oggi, per esempio, si parla di smart working. Ci saranno processi sui quali intervenire. Nella documentazione da noi preparata abbiamo provato a dare testimonianza dell'attenzione che la contrattazione collettiva ha dedicato a questo tema, nel tentativo di favorire o accompagnare questi processi, tenendo conto delle situazioni che toccano prevalentemente le donne, per non penalizzarne le carriere. Ci rendiamo però conto che ci sono spazi di intervento.
  Nella conclusione del documento che abbiamo preparato, e che volentieri lasciamo a disposizione della Commissione, c’è una parte dedicata a una riflessione sui differenti risultati che si possono ottenere operando, come normalmente fanno quasi tutti i Paesi, in una logica ex post. Diversi Paesi, tenendo conto delle differenti storie lavorative e contributive e degli effetti che possono derivare sul sistema pensionistico, tendono a intervenire con correttivi ex post sui trattamenti pensionistici.
  Qualcosa di questo genere abbiamo anche nel nostro ordinamento, ad esempio, laddove si prevede un anticipo dell'età pensionabile delle lavoratrici madri di quattro mesi per ogni figlio, nel limite massimo di 12, fruibile a scelta come maggiorazione della pensione, se il trattamento è calcolato interamente con il sistema contributivo.
  Sono soluzioni che però, a nostro avviso, tendono a consolidare e cristallizzare lo status quo. Tendono cioè a radicare l'idea che il basso tasso di occupazione femminile debba essere accettato come una condizione data di questo Paese e che si debba sempre intervenire per cercare di temperarne gli effetti ex-post, piuttosto che lavorare a monte per evitare che queste situazioni si determinino.
  Per concludere la nostra audizione, abbiamo fatto alcune riflessioni in ordine a due temi molto dibattuti, di cui anche la Commissione Lavoro si è più volte occupata e su cui anche noi abbiamo avuto modo di pronunciarci in occasione della nostra ultima audizione sul tema più generale delle pensioni. Mi riferisco all’«Opzione donna» e all'idea di un pensionamento flessibile. L'abbiamo fatto non tanto perché siamo convinti che questi due strumenti possano risolvere il problema di cui l'indagine si occupa, ma, al contrario, perché siamo convinti che non siano gli strumenti giusti per risolvere il problema.
  La flessibilità nella scelta dell'età a cui accedere al pensionamento è un tema di cui certamente dovremo occuparci, ma sottolineo semplicemente che la Confindustria esprime perplessità in ordine, ad esempio, all'eventualità di proporre soluzioni come l’«Opzione donna» o il pensionamento flessibile, per affrontare il problema del differenziale di trattamento pensionistico tra gli uomini e le donne.
  Sono strumenti che hanno finalità differenti e che, dal nostro punto di vista, non rappresentano la soluzione strutturale al problema. Se la questione è avvicinare i trattamenti pensionistici dell'uomo e della donna, dobbiamo lavorare sulle condizioni che rendano possibile alla donna seguire percorsi lavorativi e di carriera simili a quelli degli uomini. Ciò è possibile, presupponendo che il Paese cresca e crei occupazione e sviluppo, nella misura in Pag. 6cui una serie di servizi e di azioni a sostegno della famiglia favoriscano questa situazione.
  Ho fatto una sintesi un po’ veloce, ma spero di non aver tradito il senso delle osservazioni che volevamo fare. Credo comunque che la documentazione sia sufficientemente ampia. I colleghi e io restiamo a disposizione per le vostre domande.

  PRESIDENTE. Ringraziando il dottor Albini, autorizzo la pubblicazione della documentazione depositata, in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
  Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIORGIO PICCOLO. Ringrazio gli ospiti. Ho da fare solo una richiesta di chiarimento. La discussione sulle differenze nel trattamento pensionistico riguarda sia il mercato del lavoro sia le carriere. Lei ci ha dato due dati. Il primo è un differenziale del 30 per cento circa tra i trattamenti pensionistici di uomini e donne. La domanda è volta a capire come sono stati costruiti i dati. Il dato sul differenziale è ricavato dall'importo complessivo dei trattamenti percepiti. Dal momento che le donne fanno meno carriera, si comprende perché, alla fine, c’è questa differenza, che, però, non riguarda le imprese. Lei parlava anche di un differenziale nel trattamento salariale. Come è stato ricavato questo dato ? C’è una differenza salariale a parità di mansioni ?
  Il differenziale del 30 per cento del montante complessivo dei trattamenti pensionistici dimostra che tra le donne ci sono meno quadri e meno dirigenti complessivamente, che comporta, quindi, un differenziale salariale, che incide poi sul montante per determinare la pensione. L'altro dato, invece, che riguarda il differenziale retributivo, è calcolato a parità di mansioni – nel passato c'era questa differenza – o è calcolato su un montante complessivo ?
  Sono due dati su cui vorrei avere un chiarimento.

  MARIALUISA GNECCHI. Vi ringraziamo per essere venuti all'audizione.
  Non abbiamo dubbi sul fatto che il problema delle pensioni, visto che la pensione è il riassunto della vita lavorativa di ogni singola persona, si risolve a seconda di come si risolvono, a loro volta, le questioni legate all'occupazione, alle retribuzioni e alla durata della carriera. C’è poi il fatto che uomini e donne dovrebbero avere pari responsabilità familiari, prima ancora che professionali, e sappiamo che questa è una condizione discriminante.
  Ciò di cui avremmo bisogno dai datori di lavoro da voi rappresentati, che sono significativi in termini sia numerici sia di qualità dei contratti di lavoro – è ovvio che le collaboratrici domestiche o chi lavora in agricoltura abbiano meno speranze di raggiungere livelli di pensione significativi –, è capire come si possa agire durante il rapporto di lavoro per favorire le donne dal punto di vista professionale.
  A differenza di quanto lei ci ha detto – lo vedremo meglio quando leggeremo dati e numeri della vostra documentazione –, siamo convinti che il sistema contributivo non sia una soluzione né per gli uomini né per le donne. I motivi sono gli stessi che ha detto lei, ma, fino a quando non si modificheranno il coefficiente di trasformazione e il procedimento di rivalutazione del montante contributivo, c’è un rischio povertà per tutti e, in particolare, per chi versa meno contributi. Questo è evidente e stiamo cercando di capire quali correttivi introdurre.
  Lei ha anche commentato le proposte di legge attualmente all'esame della Commissione, essendo la Confindustria già intervenuta sul tema. In termini di misura della pensione, noi siamo assolutamente convinti che la strada giusta per il futuro, su cui chiediamo anche a voi di impegnarvi insieme a noi, sia la costituzione di uno «zoccolo», pari all'assegno sociale, al quale sommare i contributi effettivamente versati. Altrimenti, è evidente che i lavoratori, e in particolare le lavoratrici, non avranno più interesse a versare i contributi, potendo comunque contare sull'assegno sociale. Il fatto stesso che esista un Pag. 7assegno sociale, unito al rischio di pensioni contributive basse, può spingere, a maggior ragione, verso il lavoro nero.
  Sulle trasmissioni televisive in onda in questo periodo, io sono totalmente critica e insoddisfatta. Addirittura, le oscurerei e vieterei di partecipare e assistere, perché creano solo grande confusione. Pur essendo io convinta che quella sulle ricongiunzioni onerose sia una disposizione sbagliata, che non si riesce a correggere, e che le maggiori vittime siano le donne – del resto essa è stata introdotta per penalizzare le donne e impedire alle lavoratrici del pubblico impiego di trasferire gratuitamente i propri contributi all'INPS e accedere prima al pensionamento –, quelle trasmissioni non chiariscono perché la norma è stata introdotta e da chi e quali sono le vere conseguenze derivanti dalla sua introduzione. Perfino Giuliano Cazzola ieri ha fatto la figura dell'incompetente, perché non ha avuto la possibilità di spiegare ! Lo scopo di quelle trasmissioni non è fare informazione, ma, se possibile, creare ancora maggiore disorientamento e spingere verso il lavoro nero.
  Siamo convinti che sulle disposizioni che regolano le ricongiunzioni si debba agire, perché penalizzano i lavoratori. Il fatto stesso che il calcolo sia uguale a quello per il riscatto del periodo di laurea, periodo in cui non è versata la contribuzione, a differenza degli altri periodi, fa sì che i lavoratori e le lavoratrici paghino due volte i contributi. Con questa indagine speriamo di individuare una serie di correzioni da fare davvero.
  La vostra audizione e la documentazione che ci lasciate saranno utili. Cercheremo di utilizzarle per andare in questa direzione.

  TITTI DI SALVO. Vorrei fare solo una brevissima considerazione. Siccome il dottor Albini si è soffermato sulla differenza di salario tra uomini e donne e il mio collega Giorgio Piccolo ha sottolineato il punto, chiedendo di chiarire come sono stati costruiti i dati, sulla scorta di un'antica discussione che facemmo in altra sede, io vorrei sottolineare che una delle ragioni di questa differenza, come voi sapete benissimo, sta nel fatto che, anche se si paragonano le retribuzioni di una donna e di un uomo che fanno lo stesso lavoro e hanno lo stesso salario – per legge non c’è differenza salariale –, alla fine dell'anno il reddito della donna comunque è probabilmente più basso, perché ha usufruito dei permessi non retribuiti per accudire familiari.
  Lo dico per sottolineare che la legge di stabilità per il 2016 ha affrontato questo problema risolvendo almeno una questione, su cui verteva l'antica discussione. Oggi le donne che vanno in congedo di maternità potranno comunque partecipare del premio di produttività perché quel periodo non sarà più considerato un'assenza. Mi piaceva non tanto dare un'informazione conosciutissima dai presenti, quanto segnalare che, in realtà, le differenze salariali nascono, a parità di retribuzione e di salario, per il problema della divisione dei compiti, che dobbiamo risolvere.

  WALTER RIZZETTO. Vorrei fare una riflessione su due punti.
  Sono d'accordo con la collega Gnecchi quando dice che la pensione è la chiusura della vita lavorativa. Sono anche d'accordo con i colleghi che dicono che, per la maternità e per l'accudimento delle persone che vivono con loro, le donne in Italia si trovano ad avere un montante contributivo inferiore a quello degli uomini. In Europa questo si chiama gender pay gap. Non ricordo con esattezza i dati da lei citati, ma in Europa il gap medio è del 16,2 per cento, mentre in Italia siamo attorno al 5,5 per cento.
  C’è anche da sottolineare che in Italia settori quali la metalmeccanica e la chimica utilizzano personale maschile più che femminile. Ricordo, in primis a me stesso, che è vero che, come diceva la collega Di Salvo, non dovrebbero esserci differenze sostanziali quando nel mondo del lavoro entra una donna o entra un uomo. È anche vero, però, che, attualmente, secondo i dati ISTAT, il 18 per cento dei lavoratori in Italia è sprovvisto Pag. 8di qualsiasi tipo di tutela garantita dai contratti nazionali, o da accordi sindacali in materia, o, quanto meno, da un salario minimo. Il 18 per cento dei lavoratori, uomini e donne, in Italia non beneficia in alcun modo di quanto previsto dai contratti nazionali o da accordi sindacali che ancorino la loro busta paga ad una paga oraria.
  La prima domanda è quanto, secondo voi, potrà incidere nei prossimi anni, anche sulla scorta di quanto appena affermato dai colleghi, un sistema puramente contributivo – io credo che inciderà molto – sulla posizione lavorativa delle donne occupate part-time e di quelle alle quali non vengono pagati in modo continuativo i contributi. Nei call center, ad esempio, spesso predominano le donne e, come sappiamo, i call center sono uno dei punti deboli del sistema con riferimento all'adeguatezza dei contributi e alla regolarità del loro versamento.
  La seconda riflessione riguarda un punto ormai di strettissima attualità. Non ho capito, con riferimento all'ultima parte dell'intervento del dottor Albini, se la flessibilità riesca, a suo avviso, o non riesca a superare questo tipo di ostacolo.

  PRESIDENTE. Se non ci sono altri interventi, vorrei fare un'osservazioni anch'io. Mi ha incuriosito – anche se forse non si tratta del termine giusto – l'ultima nota che lei ha fatto. Mi riferisco alla relazione tra «Opzione donna», flessibilità nell'accesso al pensionamento e miglioramento della condizione femminile. Anch'io non vedo questa relazione, nel senso che «Opzione donna» è intervenuta su una situazione specifica e, sicuramente, può aiutare le lavoratrici che versano in determinate condizioni, tant’è che, dopo la «riforma Fornero», c’è stata un'adesione crescente a tale opzione, anche se si tratta pur sempre di migliaia di persone in Italia.
  Sulla flessibilità, il nostro intendimento consegue a questo ragionamento. Ho chiesto conferma all'onorevole Gnecchi, perché quando, alle volte ho qualche incertezza, lei mi riporta al numero giusto. Nel 2043, quando io avrò 95 anni, per andare in pensione con la pensione di vecchiaia sarà necessario avere 69 anni e 10 mesi, stanti le attuali regole. Domando a chi per allora dirigerà la Confindustria, la CGIL, la CISL, la UIL e l'UGL – sempre che ci siano ancora tutte queste associazioni – a chi servano fabbriche di settantenni, con i figli e i nipoti disoccupati.
  Il nostro intendimento con la flessibilità è anche quello di aiutare il ricambio generazionale. È evidente che non c’è solo il problema della fatica per chi fa un lavoro manuale. C’è anche il fatto che quelli della mia generazione non sono proprio la generazione del digitale. Sono di un'altra cultura, fanno fatica ad adattarsi e, forse, non reggono i ritmi. È evidente che quella misura, a nostro giudizio, dovrebbe aiutare sia i lavoratori che intendano lasciare prima il lavoro sia le imprese, per quel naturale ricambio di manodopera, che, secondo noi, può favorire la produttività dell'impresa, l'adattamento, l'innovazione e la produttività del Paese. È un'osservazione laterale rispetto ai temi che affrontiamo oggi.
  Do ora la parola al dottor Albini per la replica.

  PIERANGELO ALBINI, Direttore dell'Area lavoro e welfare di Confindustria. Le risposte sono abbastanza impegnative. Comincio col dire qualcosa sui dati ed, eventualmente, il collega De Caprariis integrerà. Vorrei citare la fonte. Ho dato due dati. Il primo riguarda il differenziale pensionistico di genere, che è determinato sulla base di dati che l'Unione europea raccoglie dal 2003 su un campione di 27.000 famiglie distribuite in 800 comuni d'Italia, misurando le condizioni e la qualità della vita di queste famiglie. Sono dati statistici che vengono rilevati su base europea.
  Il differenziale a cui prima faceva riferimento anche l'onorevole Rizzetto è ricavato dai dati Eurostat che misurano il differenziale di genere. Sono dati statistici di livello europeo, calcolati in Italia con lo stesso criterio. Dalla nostra documentazione, che è molto più analitica e precisa della mia esposizione, avrete modo di Pag. 9apprezzare come l'Italia si colloca nel panorama europeo. Se è il caso, prego il collega Giulio De Caprariis di integrare.
  Le altre domande che sono state poste ruotano tutte attorno a due questioni. La prima è cosa possono fare le imprese e, conseguentemente, la contrattazione collettiva per colmare i differenziali che «la natura» impone alla donna rispetto all'uomo. Io sono stato veloce su questo passaggio. Qualcosa è previsto nella contrattazione collettiva. Qualcosa già era previsto nella legislazione previgente. Qualcosa mi è stato ricordato qui. Tutto va nella logica di cercare di colmare queste differenze.
  In coda a questo ragionamento c'era l'obiezione posta dall'onorevole Rizzetto, in ordine al fatto che forse, al netto di quanto diceva prima il presidente circa la sopravvivenza delle parti sociali e di Confindustria, il salario minimo potrebbe essere garanzia di un livello di copertura maggiore per i lavoratori occupati in aziende diverse dalle grandi aziende normalmente rappresentate da Confindustria, che svolgono attività di servizio borderline o sono prive di una contrattazione collettiva. È un tema affrontato nella delega del cosiddetto Jobs Act, che è stato modificato in una logica non di antagonismo con il contratto collettivo, ma di complementarietà.
  C’è anche un problema di questa natura. Probabilmente è marginale, ma esiste anche in questo Paese. Ci sono situazioni che siamo abituati a registrare e a «tollerare». Si faceva l'esempio delle differenze tra la grande industria e l'agricoltura, ma il settore dei servizi si allarga sempre di più ed è interessato da fenomeni di questo tipo. I processi di digitalizzazione e la possibilità di fornire molti servizi «da remoto» pongono problemi sempre più importanti sotto questo profilo.
  L'altro filone del ragionamento attiene alla funzione delle pensioni. Il nostro sistema pensionistico non è il migliore del mondo. Forse non è neanche il peggiore, così come appare dalle trasmissioni televisive. Pur essendo anch'io convinto, come l'onorevole Gnecchi, che la sera un buon libro è meglio di un talk show, ieri sera, rincasando dopo una cena di lavoro, mi sono imbattuto in uno scorcio di trasmissione, in onda su una rete nazionale, in cui una persona diceva una cosa che alle persone di buon senso appariva comprensibilissima. Diceva di aver lavorato 16 anni in una banca e 26 anni in una scuola, mentre una sua amica aveva lavorato per gli stessi anni nella scuola. Nonostante avesse versato più contributi dell'amica, quella persona avrebbe percepito una pensione inferiore.
  Per avere la stessa pensione avrebbe dovuto versare 55.000 euro.

  MARIALUISA GNECCHI. È un furto.

  PIERANGELO ALBINI, Direttore dell'Area lavoro e welfare di Confindustria. Non lo so. Io non lo definirei un furto, ma sicuramente, vista con gli occhi del buonsenso, appare come una cosa incongrua. Molte di queste regole si sono sedimentate nel tempo, una volta perché è stata scoperta una «furbata» e la si è voluta impedire, un'altra volta perché c'erano gli esodati da salvaguardare, e così via. Tutte queste nostre peculiarità determinano situazioni come queste.
  Indubbiamente c’è da fare la riflessione a cui ci invita il presidente Damiano. Noi abbiamo costruito – lo dico, come forse ho già fatto, come dirigente di Confindustria che si occupa di relazioni industriali – un modello di relazioni, di strumentazioni contrattuali e di protezioni, attraverso gli ammortizzatori sociali, orientato verso la pensione, che realizzava, prevalentemente, il tentativo di favorire il ricambio dentro le imprese. Le imprese, egoisticamente parlando, non possono che salutare con grande entusiasmo il fatto di poter sostituire una persona agée con un giovane virgulto, nativo digitale. È un ovvio interesse dell'impresa.
  Credo però che in questo momento dobbiamo fare i conti con una riforma che era necessario fare in un certo momento storico, come ha ammesso lo stesso autore della riforma nella trasmissione televisiva Pag. 10di ieri sera. Forse non è stata fatta con gradualità e ha avuto delle conseguenze da affrontare. Si tratta di trovare, secondo me, risposte di tipo strutturale. Una domanda di fondo dobbiamo porcela. Se vogliamo garantire l'universalità delle protezioni con un sussidio di cittadinanza, un sussidio per la disoccupazione e un trattamento pensionistico, bisogna avere le risorse.
  Se invece abbiano in mente un Paese all'americana, dove la gente accantona con il sistema contributivo qualcosa che le darà la possibilità di vivere, ci dobbiamo riferire ad un altro modello. Forse la storia italiana chiede di contemperare queste due logiche, cercando di correggere le molte iniquità che abbiamo seminato nel passato. Nel passato, di situazioni poco comprensibili come quelle descritte ieri sera in televisione, anche se per ragioni del tutto logiche, ne sono state create diverse.
  Con questa risposta un po’ «ecumenica» ho provato a soddisfare tutte le richieste.

  PRESIDENTE. Grazie della risposta «ecumenica». Del resto, siamo a Roma e questa risposta si confà all'anno della misericordia e al Giubileo.
  Ringrazio tutti gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.45.

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ALLEGATO

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