XVII Legislatura

XI Commissione

Resoconto stenografico



Seduta antimeridiana n. 3 di Mercoledì 26 giugno 2013

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Damiano Cesare , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE MISURE PER FRONTEGGIARE L'EMERGENZA OCCUPAZIONALE, CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

Audizione di esperti della materia.
Damiano Cesare , Presidente ... 2 
Boeri Tito , Professore di economia presso l'università Bocconi di Milano e membro del Comitato di redazione de «La Voce.info» ... 2 
Trivellato Ugo , Professore emerito presso la Facoltà di Scienze statistiche dell'università di Padova e ricercatore dell'Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche (IRVAPP) ... 6 
Damiano Cesare , Presidente ... 10 
Rizzetto Walter (M5S)  ... 10 
Baldelli Simone (PdL)  ... 11 
Gribaudo Chiara (PD)  ... 11 
Maestri Patrizia (PD)  ... 11 
Damiano Cesare , Presidente ... 12 
Boeri Tito , Professore di economia presso l'università Bocconi di Milano e membro del Comitato di redazione de «La Voce.info» ... 12 
Trivellato Ugo , Professore emerito presso la Facoltà di Scienze statistiche dell'università di Padova e ricercatore dell'Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche (IRVAPP) ... 13 
Damiano Cesare , Presidente ... 14 

ALLEGATO: Documentazione presentata dagli esperti ... 15

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero: Misto-MAIE;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CESARE DAMIANO

  La seduta comincia alle 9,10.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di esperti della materia.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle misure per fronteggiare l'emergenza occupazionale, con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile, l'audizione dei esperti della materia.
  Sono presenti il professor Tito Boeri, professore di Economia dell'Università Bocconi di Milano e membro del comitato di redazione de Lavoce.info, e il professor Ugo Trivellato, professore emerito presso la facoltà di Scienze statistiche dell'Università di Padova e ricercatore dell'Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche.
  Avverto che gli auditi hanno messo a disposizione della Commissione una documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato). Nel ringraziarli ancora una volta per la loro presenza, do loro la parola.

  TITO BOERI, Professore di economia presso l'università Bocconi di Milano e membro del Comitato di redazione de «La Voce.info». Signor presidente, nei quindici minuti che mi sono stati allocati vorrei innanzitutto offrire alcuni dati sul profilo del disagio occupazionale, cercando di fare una contabilità dello stesso, riferire alcuni elementi parziali sugli effetti della legge n. 92 del 2012 e cercare di discutere alcune proposte che potrebbero affrontare il problema occupazionale in Italia, soprattutto la disoccupazione giovanile, commentando le anticipazioni sin qui disponibili sul Piano del lavoro che dovrebbe essere al varo del Consiglio dei ministri in seduta odierna.
  Vi ho distribuito alcune diapositive che saranno disponibili fra un paio di giorni sul sito della Camera, e che sono disponibili già da oggi sulla mia homepage personale sul sito dell'Università Bocconi.
  Partiamo da alcuni dati sulla situazione occupazionale in Italia. Abbiamo circa 3 milioni di disoccupati, a cui si devono aggiungere altri 3 milioni di persone cosiddette «lavoratori scoraggiati», cioè persone che sono disponibili immediatamente a lavorare, ma che non stanno facendo una ricerca attiva – quindi non vengono classificati come disoccupati – semplicemente perché sono convinti che non ci sono posti di lavoro per loro.
  In più, negli ultimi mesi abbiamo avuto un incremento delle ore di cassa integrazione, soprattutto la cassa integrazione straordinaria, quella che si riferisce a problemi strutturali delle imprese, con lavoratori che sono stati messi a zero ore. Se prendiamo il totale delle ore di cassa integrazione e lo dividiamo per le ore lavorate tipicamente in Italia, giungiamo a Pag. 3una stima su base annuale di quasi 900.000 persone che oggi sono in questa condizione.
  Infine, abbiamo il part time involontario, cioè persone che lavorano part time ma vorrebbero lavorare full time, circa 700.000. In termini di eccesso di offerta o di disponibilità di lavoro full time, sono circa 350.000 persone.
  Se sommiamo tutte queste grandezze, arriviamo a una stima di più di 7 milioni di persone che oggi in Italia sono in condizioni di disagio occupazionale o, se volete, una stima dell'offerta di lavoro che non trova oggi corrispettivo nella domanda di lavoro nel nostro Paese.
  Questo è il problema centrale. Si tratta di una cifra imponente. Molto grave è la situazione che si è creata in questi anni di dura recessione. Praticamente un sesto della nostra popolazione in età lavorativa si trova in queste condizioni. Il problema è quello della domanda di lavoro, non dell'offerta; non è tanto un problema di mobilitare, mancano i posti di lavoro più che mancare i lavoratori. Negli ultimi anni abbiamo avuto addirittura un incremento della disoccupazione superiore alla riduzione dell'occupazione. Ciò dimostra il fatto che c’è volontà e disponibilità a lavorare, ma i posti di lavoro mancano.
  Sul piano distributivo, questo ha avuto effetti molto pesanti sulla povertà. Abbiamo avuto un forte incremento della povertà associata alla disoccupazione e abbiamo squilibri molto forti, superiori a quelli di altri Paesi. In Italia, in particolare, abbiamo una concentrazione del disagio occupazionale sui giovani, che è molto grave; nel nostro Paese il tasso di disoccupazione tra 15 e 24 anni è quasi quattro volte superiore alle altre fasce d'età. Non ci sono altri Paesi OCSE in cui il rischio di disoccupazione è così fortemente concentrato sui giovani. Abbiamo altri Paesi in cui il tasso di disoccupazione giovanile, magari, è più alto che in Italia, come la Spagna ad esempio, ma in rapporto alle altre fasce di età è il doppio, mentre in Italia è quattro volte superiore.
  Passiamo a un giudizio rapidissimo su ciò che sappiamo oggi sulla legge n. 92 del 2012 e sui suoi effetti. Si è molto parlato di questa legge riguardo alla disciplina dei licenziamenti. I primi dati disponibili sembrano dirci che, in realtà, questa legge sembra avere avuto più effetti sulle assunzioni che sui licenziamenti. Lo vediamo comparando quello che è successo ai licenziamenti collettivi e a quelli individuali. Come sapete, i licenziamenti collettivi non sono stati toccati dalla riforma, mentre è stata modificata la disciplina dei licenziamenti individuali. Se compariamo il primo semestre del 2012, prima dell'entrata in vigore della riforma, e il secondo semestre del 2012, vediamo che sono aumentati soprattutto i licenziamenti collettivi, quelli non toccati dalla riforma. Questo ci dice che, in realtà, sui licenziamenti non sembra esserci stato un effetto significativo della riforma.
  Vediamo, invece, degli effetti importanti sul lato delle assunzioni. C’è stato un calo delle assunzioni che si è concentrato su quelle figure contrattuali su cui la riforma era intervenuta maggiormente, ad esempio il lavoro a chiamata. Ci sono forme contrattuali che erano state abusate in passato e di cui la riforma ha voluto scoraggiare l'utilizzo, sicuramente con qualche ragione, però – questo a mio avviso è il limite di questa riforma – non ha creato un percorso d'ingresso alternativo verso cui indirizzare i lavoratori che non avevano più la possibilità di accedere a queste figure contrattuali. Chiaramente se l'alternativa è passare da una situazione di estrema instabilità a una più stabile è un discorso, ma se l'alternativa è passare alla disoccupazione credo che non fosse desiderabile.
  Questo è stato un errore di impostazione della riforma, che non ha pensato a creare un percorso di ingresso alternativo che in qualche modo desse maggiore stabilità o indirizzasse verso la stabilità. Si è puntato sull'apprendistato, un contratto che ha limiti di età, limiti per il tipo di qualifiche cui ci si può rivolgere, e peraltro è soggetto a normativa regionale. C’è stato un iter molto lungo di approvazione della legge stessa, quindi siamo di fatto arrivati disarmati di fronte a questa situazione. Pag. 4Purtroppo, credo che sin qui la legge n. 92 del 2012 abbia contribuito a rendere ancora più pesanti l'emorragia di posti di lavoro e i dati sull'occupazione in Italia, cosa di cui certamente non c'era bisogno, considerato che già la recessione ha falcidiato posti di lavoro.
  Passiamo alle cose che si potrebbero fare e ad alcuni commenti sulle anticipazioni – probabilmente oggi avremo il testo, quindi potremo esprimere un giudizio più di merito – che sono state fatte nei giorni scorsi sul Piano del lavoro.
  Innanzitutto lasciatemi rivolgere un appello a tutti coloro che hanno responsabilità istituzionali sul mercato del lavoro: basta con gli annunci ! Gli annunci sul mercato del lavoro sono estremamente deleteri. Pensate a un datore di lavoro che sta decidendo di assumere alcune persone perché deve sostituirne altre; se sente dire che il Governo – e lo sente dire da ministri, sottosegretari, persone che sono impegnate, quindi immagina che si tratti di una presa di posizione credibile – sta studiando delle decontribuzioni o delle riduzioni del carico fiscale per le nuove assunzioni, fa la cosa ovvia di aspettare ad assumere i lavoratori per poter fruire di questi sconti contributivi. Se questo avviene su scala ampia, vuol dire che abbiamo un calo delle assunzioni che appesantisce ulteriormente il bilancio occupazionale, riduce la domanda e via dicendo: una serie di effetti che non possono che aggravare le conseguenze recessive sulla nostra economia. In definitiva, gli annunci sono estremamente deleteri; è meglio non dire nulla, preparare i provvedimenti e, una volta che questi sono maturi, comunicarli.
  In secondo luogo, c’è molta evidenza empirica che interventi temporanei sulle assunzioni rischiano di portare a sprechi di denaro pubblico, cosa che in questo momento non possiamo assolutamente permetterci.
  Abbiamo avuto in Italia due esperienze significative: la prima è quella del bonus assunzioni, più forte al Sud, il cosiddetto «bonus Sud» che era stato introdotto dal Governo Amato nel 2000; la seconda, molto più recente, è quella del provvedimento dell'ottobre del 2012, che voleva in qualche modo incentivare la trasformazione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato e anche la stabilizzazione dei contratti precari.
  Ebbene, l'esperienza del bonus Sud, che è stata studiata abbastanza approfonditamente in Italia, ci dice che si tende ad avere un altissimo tasso di fruizione di queste misure, per cui la spesa aumenta in modo molto forte. A quel punto, un Governo che ha dei tetti di spesa interviene per restringere la spesa, pone dei rubinetti. Sono soprattutto le imprese che avrebbero comunque fatto queste assunzioni che ne fruiscono, mentre i datori di lavoro che potrebbero essere convinti dalla decontribuzione e dalla riduzione del carico fiscale a fare delle assunzioni, siccome sanno che si tratta di una misura temporanea che non può resistere nel tempo perché i fondi a disposizione sono limitati, non prendono iniziativa di assunzioni a tempo indeterminato. Lo fanno, invece, coloro che avrebbero comunque assunto dei lavoratori.
  L'esperienza del 2012 – abbiamo presentato dei dati elaborati dall'Agenzia del lavoro del Veneto recentemente su Lavoce.info – è anch'essa molto indicativa di questi rischi di spreco di danaro pubblico legati a questi interventi temporanei sui flussi del mercato del lavoro. La stima che viene effettuata è che circa due terzi delle risorse impegnate (le risorse sono state esaurite nel giro di un mese, come sapete) sono andate a datori di lavoro che avrebbero comunque fatto le loro assunzioni. Quindi, questi provvedimenti estemporanei, con finanziamenti limitati, che agiscono soltanto sui flussi rischiano unicamente di tradursi in grandi sprechi di denaro pubblico.
  Altra misura che è stata anticipata – poi vedremo in che misura verrà contenuta nel Piano del lavoro – è quella della cosiddetta «staffetta generazionale». Anche in questo caso, ci sono molte controindicazioni, oltre a un messaggio credo sbagliato che viene dato ai lavoratori, i quali, avendo già dovuto subire l'incremento Pag. 5molto ripido dell'età di pensionamento, oggi si sentono dire che stanno togliendo un posto di lavoro ai giovani; peraltro, non è vero, perché c’è complementarietà tra giovani e anziani sul mercato del lavoro. Credo che non sia questo il modo di procedere per creare opportunità di lavoro per i giovani.
  Su questo aspetto dei lavoratori anziani lasciatemi fare una considerazione. Un problema di quella riforma delle pensioni a cui bisognerebbe porre rimedio è il fatto di non avere garantito maggiore flessibilità in uscita; ci sono davvero moltissime eterogeneità. Si sarebbe dovuto introdurre, a mio giudizio, riduzioni attuariali sull'importo delle pensioni, permettendo ad alcuni di andare in pensione prima, con delle pensioni più basse, e chiaramente avendo i datori di lavoro la possibilità di continuare a versare i contributi per i lavoratori così usciti dal mercato del lavoro.
  Un'operazione che andrebbe fatta, ed è molto importante farla in questo momento, per affrontare il tema degli esodati, senza oneri aggiuntivi per le casse dello Stato, è permettere ai lavoratori che hanno versato la previdenza integrativa di avere un'anticipazione delle loro prestazioni previdenziali integrative. Questo ridurrebbe un po’ il costo sociale per queste fasce di lavoratori.
  Ho parlato dei limiti della legge n. 92 del 2012 e anticipato alcuni commenti sui potenziali provvedimenti che verranno presi oggi. Mi auguro che non si ripeteranno gli errori del passato.
  Che cosa si può fare, oltre che disfare ? Credo che una parte dei provvedimenti oggi allo studio in qualche modo torneranno indietro rispetto ad alcune misure introdotte dalla legge n. 92 del 2012: toglieranno alcuni vincoli burocratici, accelereranno i tempi di passaggio da un contratto a tempo determinato a un altro contratto a tempo determinato. Penso che si tratti di misure giuste, perché alcuni oneri burocratici che erano stati imposti da quella legge vanno a svantaggio di tutti, e non è questo il modo giusto di scoraggiare l'abuso dei contratti temporanei. Se si vuole far questo bisogna imporre dei minimi retributivi piuttosto che imporre dei costi burocratici, che vanno a vantaggio unicamente della burocrazia, non del lavoratore né del datore di lavoro. Tuttavia, disfare una legge non è ciò che ci porta a risolvere il problema occupazionale. Pensiamo alla situazione precedente alla legge n. 92 del 2012, che non era certamente rosea, quindi è evidente a tutti che tornare indietro non risolve.
  Che cosa si potrebbe fare, dunque ? Innanzitutto, a mio giudizio, si dovrebbe creare questo canale d'ingresso alternativo del mercato del lavoro che oggi manca in Italia, laddove abbiamo una dicotomia molto forte tra i lavoratori temporanei e i lavoratori a tempo indeterminato.
  In Italia abbiamo l'anomalia – come viene mostrato in alcuni grafici che vi ho lasciato – per cui abbiamo tutele contro il licenziamento che sono concesse indipendentemente dalla durata dell'impiego. In altri Paesi le tutele sono gradualmente crescenti nella durata dell'impiego. Ciò è comprensibile, soprattutto in mansioni che richiedono un certo livello di qualifiche, laddove è molto importante per il datore di lavoro sincerarsi sulle qualità effettive del dipendente (quindi egli ha bisogno di un tempo per saggiare le competenze del lavoratore) e lo stesso lavoratore ha bisogno di capire meglio le competenze e le mansioni che gli vengono richieste. Ciò quindi richiederebbe che ci fossero tutele che sono gradualmente crescenti nella durata dell'impiego. Oggi, invece, il lavoratore che viene assunto con un contratto a tempo indeterminato il giorno dopo l'assunzione è protetto come un lavoratore che ha venti anni di anzianità aziendale.
  In secondo luogo, bisognerebbe ridurre la forte incertezza che oggi esiste sui costi dei licenziamenti. In Italia, peraltro, non garantiamo alcuna compensazione al lavoratore che viene licenziato, con licenziamento economico, con giusta causa. Ci sono dei fattori economici alla base di questo. È giusto che comunque il datore di lavoro contribuisca, come avviene in altri Paesi, anche in questo caso. Ci sono dei modi per ridurre l'incertezza sui costi dei Pag. 6licenziamenti e avere queste tutele crescenti. Un modo potrebbe essere quello di introdurre un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (che crescano gradualmente nel tempo). Alcune proposte, al riguardo, sono state depositate anche alla Camera e io spero che questa strada verrà perseguita, perché è proprio questo il canale d'ingresso nel mercato del lavoro oggi mancante. Si tratta di un'operazione a costo zero per le casse dello Stato.
  Ci sono, poi, altre cose che si possono fare non a costo zero. La più importante, a mio giudizio, sarebbe concentrare tutte le risorse oggi disponibili nella riduzione della pressione fiscale sul lavoro, farlo sullo stock piuttosto che sulle semplici assunzioni. Se le risorse sono limitate ci si può concentrare soprattutto sui redditi più bassi.
  Vi è un'operazione che si può fare in questo contesto, ed è un'operazione ben diversa dalla fiscalizzazione degli oneri sociali che mi sembra sia contemplata nel Piano del lavoro al varo oggi. Tra l'altro, la fiscalizzazione degli oneri sociali va nella direzione di spostare gli oneri sulle generazioni future, perché di fatto vuol dire che stiamo trasferendo gli oneri previdenziali non finanziati al futuro, non stiamo versando i contributi previdenziali per dei lavoratori e, invece, queste pensioni dovranno essere pagate in futuro.
  L'operazione opposta che andrebbe fatta, a mio giudizio, oggi in Italia è quella di introdurre un incentivo condizionato all'impiego e un minimo salariale, per cui lo Stato si impegna a garantire che c’è un pagamento orario al di sopra di una certa cifra. Possiamo partire anche da livelli bassi, ad esempio 5 euro all'ora: notate bene, in Italia ci sono moltissimi lavoratori che lavorano a 2, 3, 4 euro all'ora, soprattutto nel Mezzogiorno. Quindi, lo Stato copre la differenza tra la retribuzione fornita nel settore privato e questi 5 euro e introduce un salario minimo, altrimenti i datori di lavoro avrebbero interesse a dichiarare che pagano il lavoratore un euro, per far coprire allo Stato una differenza molto più significativa. Quindi, al massimo può trattarsi di un euro che viene integrato dalle casse dello Stato. Questa operazione spingerebbe all'emersione, perché per poter fruire di questo sostegno, che andrebbe al lavoratore e in parte al datore di lavoro, bisognerebbe dichiarare il lavoro, versare i contributi, quindi sarebbe esattamente un'operazione opposta, che viene in parte finanziata dal fatto che le future pensioni di questi lavoratori vengono pagate dai loro contributi.
  Un'operazione concentrata sulle retribuzioni più basse sarebbe molto utile per aumentare l'opportunità di impiego per questi lavoratori, che sono quelli che oggi hanno subito di più la crisi occupazionale, e avrebbe tra l'altro degli effetti importanti anche sull'andamento della nostra economia. Come dicevo all'inizio, questo è un problema di domanda di lavoro. Si dovrebbero quindi concentrare gli sforzi sui lavoratori con redditi più bassi, il che porterebbe effetti più significativi sul piano non soltanto dell'equità, ma anche dello stimolo alla domanda aggregata.
  L'ultimo grafico della presentazione che ho depositato ci dice che la propensione al consumo delle persone, il 20 per cento, che hanno i redditi più bassi è circa il doppio di quella del 20 per cento più ricco della popolazione. Quindi, dare a queste persone dei redditi più alti vuol dire anche stimolare significativamente i consumi in Italia e contribuire, in questo modo, anche al rilancio della nostra economia.

  UGO TRIVELLATO, Professore emerito presso la Facoltà di Scienze statistiche dell'università di Padova e ricercatore dell'Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche (IRVAPP). Signor presidente, parlare dopo Tito Boeri mi aiuta perché ci sono alcune sovrapposizioni. Vorrei rappresentare sostanzialmente alcune considerazioni.
  La prima riguarda una misurazione un po’ più realistica del tasso di disoccupazione allargata o, come è stato chiamato nel rapporto BES di ISTAT-CNEL, «tasso di mancata partecipazione al lavoro». Pag. 7Come sapete, una persona è considerata disoccupata quando ha fatto un'azione attiva di ricerca nelle ultime quattro settimane; se non l'ha fatta perché scoraggiata, non è contata fra i disoccupati.
  L'Eurostat ha cominciato a contare anche questi «scoraggiati», ma in un modo molto pasticciato, quasi in modo che non si capisca bene cosa succede. L'ISTAT con il rapporto BES ha costruito un indicatore chiaro: al numeratore disoccupati in senso stretto più scoraggiati, al denominatore tutti gli esposti al rischio, cioè le forze di lavoro più gli scoraggiati.
  Ho solo i risultati del 2011, altrimenti avrei dovuto lavorare sui dati individuali e questo avrebbe portato via tutto il tempo. L'Italia è in una situazione drasticamente anomala rispetto all'Europa: è l'unico Paese in cui gli scoraggiati sono molti di più dei disoccupati. La Spagna ha 5 milioni di disoccupati e un milione di scoraggiati; l'Italia aveva nel 2011 2.100.000 disoccupati e 2.900.000 scoraggiati. Il passaggio dal tasso di disoccupazione stretto al tasso di mancata partecipazione al lavoro era dall'8,4 al 18 per cento. Se è pensabile che di fronte alla crisi una parte degli scoraggiati si sia attivata, la stima di Tito Boeri che oggi i disoccupati, al di là di cassa integrazione e via dicendo, siano circa 6 milioni è una stima realistica.
  Credo che questo ci porti a riflettere, anche perché chi non reitera ricerche di lavoro è tendenzialmente un disoccupato di lunga durata, che è difficile recuperare.
  La seconda considerazione, sulla linea di Tito Boeri, è che il problema cruciale per l'Italia non risiede tanto sul fronte dell'offerta di lavoro, che pure avrà bisogno di formazione, retraining, placement, ma sul fronte della domanda, cioè dare capacità al sistema produttivo di esprimerla e capacità del settore pubblico di favorirne un'evoluzione che la dilati e la orienti verso una maggiore competitività. Puntare tutto sulla riduzione del costo del lavoro vuol dire fare una concorrenza internazionale verso il basso e non verso l'alto, e questo, a mio avviso, per l'Italia è rischioso.
  Il problema chiave – lo dico in modo sommario e sbrigativo, dunque in parte inadeguato – non sono tanto i flussi fra i vari tipi di contratti modificati dalla legge n. 92 del 2012, ma i frequenti e lunghi episodi di disoccupazione che si interpongono fra un contratto e l'altro. Detto in altre parole, è il problema di carriere lavorative frammentate.
  Se guardate la figura 2 – è un po’ vecchia, perché l'INPS è avara nel distribuire i dati nuovi – vedete che in un periodo in cui l'economia andava bene e in cui i requisiti per la disoccupazione ordinaria sono gli stessi di adesso, se prendiamo lavoratori occupati nel 2004 che hanno cominciato a lavorare cinque anni prima, quindi hanno cinque anni di storia lavorativa, di questi il 45 per cento se fosse licenziato avrebbe diritto all'indennità di disoccupazione e il 55 per cento non lo avrebbe. Con queste carriere frammentate non si riesce ad accumulare anzianità contributiva. Questo è un problema che credo si sia acuito con la crisi e merita attenzione.
  La terza considerazione è che il problema diventa veramente un puzzle perché, nell'arco tra il 1998 e oggi, il nostro Paese non si è attrezzato per disegnare, monitorare e valutare politiche pubbliche, e segnatamente politiche del lavoro, in modo da selezionare quelle efficaci per incrementare l'occupazione. È uno degli argomenti chiave di Tito Boeri. Su questo fronte l'Italia registra un ritardo grave rispetto ad altri Paesi europei, anche di nuova accessione: Lituania, Lettonia ed Estonia stanno operando con un'efficacia e con un'attenzione a noi sconosciute. È un ritardo che non si copre in un battibaleno.
  Cito tre esempi per evitare che il discorso sembri strano. L'analisi di impatto della regolazione è stata istituita nel 1999; la valutazione di impatto della regolazione è stata istituita nel 2005. Credo che nessuno più di voi possa dire che gli esiti sono stati trascurabili.
  Secondo esempio: quando è arrivato alla Camera il testo della legge n. 92 del 2012 il Servizio studi – Dipartimento lavoro Pag. 8della Camera lo ha accompagnato con l'usuale scheda di lettura. C’è un passo del quale cito solo le prime e le ultime tre righe (in mezzo c’è la spiegazione del tutto) che si riferisce alla norma della legge n. 92 del 2012 che prevede monitoraggio e valutazione delle politiche pubbliche del lavoro: «Merita in questa sede ricordare che l'articolo 17 del decreto legislativo n. 276 del 2003, più noto come legge Biagi, già prevedeva un sistema di monitoraggio statistico e valutazione delle politiche del lavoro». La citazione prosegue con specificazioni sulla commissione di esperti, sui compiti, sulla definizione delle linee guida, fino all'obbligo di un rapporto annuale al Parlamento. L'Ufficio studi della Camera conclude: «Il sistema di monitoraggio statistico e valutazione delle politiche del lavoro previsto dall'articolo 17 della legge Biagi, tuttavia, è rimasto del tutto inattuato e nessun rapporto annuale è mai stato presentato al Parlamento».
  Va aggiunto, a mo’ di tardiva consolazione, che il nuovo ministro si è attivato con grande rapidità e ha costituito la commissione della quale ha già tenuto, presiedendole, due riunioni.
  Il terzo esempio è quello a cui si riferiva Tito Boeri e che vorrei ampliare. C’è una non persuasiva comprensione degli effetti delle leggi e, prima di dire in generale perché, degli effetti degli incentivi per il lavoro in favore di donne e giovani under 29 introdotti con la legge «salva Italia». È uscito il comunicato stampa nel quale si legge che sono 24.581 i contratti di lavoro attivati grazie – la sottolineatura sul «grazie» è mia, non del comunicato stampa – al Fondo straordinario previsto dal «salva Italia» a favore dei giovani under 29 e delle donne. Sostanzialmente si riconoscevano 12.000 euro di premio all'impresa che trasformava un rapporto di lavoro precario in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e somme inferiori per altri meccanismi di parziale stabilizzazione.
  Il problema è che se non ci fosse stata la legge non è che le imprese non avrebbero licenziato e assunto, ma avrebbero continuato a licenziare e assumere. L'effetto della legge non è il numero di trasformazioni da contratti a termine a contratti a tempo indeterminato, ma piuttosto il numero aggiuntivo di assunzioni a tempo indeterminato che ha generato rispetto a quello che sarebbe stato un trend naturale.
  Immaginate che ci sia una retta parallela, per cui ogni mese ci sono mille assunzioni. Nel mese x, quando si applica quest'agevolazione, le assunzioni sono 1.300. L'effetto della legge non è 1.300, ma 300, ossia la differenza fra quel che è successo e quel che sarebbe successo se non ci fosse stata la legge.
  Come diceva Tito Boeri, i conti fatti molto di fretta da Bruno Anastasia, che sono analisi preliminari molto grezze, dicono che i due terzi delle assunzioni sarebbero state fatte comunque, il che vuol dire che il costo per incentivare un'assunzione in più non è 12.000 euro, ma 30.000-32.000 euro. Infatti, gli altri avrebbero assunto comunque. Si è dato un premio alle imprese. Speriamo che lo usino bene. Le imprese italiane usano i premi nei modi più svariati.
  Se volete un'evidenza molto più forte, che credo interesserà in particolare il presidente Damiano, osservate la figura 3, che illustra un'esperienza fatta sette o otto anni fa solo in provincia di Torino, mentre nel resto della regione non c'era un'incentivazione alla trasformazione dei precari. Tenuto conto di quest'elemento, e tenuto conto di come è cresciuta l'occupazione nelle altre province torinesi, che sono sufficientemente omogenee, l'effetto della legge è stato nullo. Vedete che le due linee nella figura 3 si sovrappongono.
  Non vorrei fare la parte del vecchio professore didascalico, che è un ruolo sgradevole, soprattutto quando si è vecchi. Il punto è che per disegnare politiche che possano essere efficaci nel colmare questo gap, ci sono tre condizioni. La prima è ovvia: in generale, se una politica è disegnata e realizzata in modo chiaro e con obiettivi specificati, si può sapere se funziona Pag. 9o meno. Ciò è vero se ci si pone la domanda, ma se non ci si pone la domanda, il problema non esiste.
  È normale che vi sia una ragionevole propensione in favore dell'efficacia delle politiche da parte del decisore, ma la domanda non emerge se dominano la presunzione di efficacia (per cui si pensa che poiché è stata varata, la norma diventerà realtà), o se ci sono preoccupazioni propagandistiche. La mia impressione è che ci siano un eccesso di fiducia nella norma, e una scarsa attenzione alla realizzazione della politica e ai correttivi che questa richiederebbe.
  In secondo luogo, c’è una classe di metodi che si è ormai affermata in tutto il mondo sviluppato, che spiega i successi parziali (dopo aver imparato dagli errori) di molte politiche del lavoro, e che va sotto il nome di «analisi controfattuale». Il nome è bizzarro ed esoterico, ma il significato è nitido e semplice.
  L'effetto di un intervento non è la differenza fra il dopo e il prima, perché, oltre alla legge, ci potrebbero essere stati molti altri fattori che hanno determinato una dinamica spontanea di crescita o di diminuzione; e non è neanche la differenza fra i trattati e i non trattati, perché può darsi che finiscano per essere trattati da un provvedimento i più bravi, anziché i meno bravi, e quindi è alla loro bravura, e non alla legge, che va attribuita buona parte dei risultati.
  L'effetto di un intervento è la differenza fra quanto si osserva, su un dato insieme di beneficiari e in un dato tempo, in presenza dell'intervento, e quanto si sarebbe osservato, sugli stessi beneficiari e in quello stesso tempo, in assenza dell'intervento. È immediato notare che delle due situazioni noi ne osserviamo una sola. Infatti, se trattiamo una persona, la vediamo come trattata e non la possiamo vedere come non trattata, e viceversa. Quello che non vediamo è quello che chiamiamo «controfattuale».
  L'obiettivo della valutazione degli effetti di politiche è ricostruire in maniera credibile il controfattuale, detto altrimenti «che cosa sarebbe successo ai beneficiari in assenza dell'intervento», e determinare l'effetto della politica, ossia la differenza fra quello che è accaduto a seguito della politica e quello che sarebbe accaduto se la politica non fosse stata fatta.
  Su questo c’è una letteratura che data dai primi anni 1960, ha quindi cinquant'anni, ed è consolidata e sperimentata in tutti i campi, compresi il campo biomedico, il campo epidemiologico, il campo economico e il campo sociale. Anche in Italia, nelle università e nei centri studi, c’è una serie di competenze in materia. Molti ricercatori fanno studi di valutazione. Nella nota presentata dall'addetto c'era un riferimento ad alcuni miei lavori di rassegna di questi studi, e in particolare sul lavoro, che trovate anche qui.
  Secondo me, anche in questo momento di estrema difficoltà congiunturale, occorre una veduta lunga. Occorre ricordare il messaggio finale di Padoa-Schioppa. Bisogna far attenzione alla veduta corta. Possiamo prendere provvedimenti rapidi, ma bisogna essere disposti ad aggiustarli e avere un orizzonte. Dobbiamo impostare subito attività di monitoraggio e valutazione in un'ottica prospettica. Nello stesso momento in cui disegniamo la politica, ci poniamo già la questione di come un comportamento opportunistico degli utilizzatori può distorcerla.
  Un ultimo blocco di considerazioni riguarda in particolare gli argomenti urgenti. Su questo tema, sarò più generico di Tito, convergendo su molte delle sue indicazioni.
  Innanzitutto, sono molto scettico sull'importanza che si tende ad assegnare all'apprendistato. Il nostro apprendistato non ha mai avuto niente a che vedere con l'apprendistato alla tedesca (la formazione duale). In Germania l'età massima per cominciare l'apprendistato è 15 anni. L'apprendistato dura tre anni; poi c’è un percorso di crescita professionale, attraverso le Fachhochschule, che è una sorta di ingegneria pratica. Riassumendo, l'apprendistato comincia al massimo a 15 anni, dura tre anni, e combina formazione Pag. 10sul lavoro e fuori del lavoro, in modo molto integrato, con un forte interesse dell'impresa a che questo ci sia.
  Noi abbiamo inventato un sistema che, tranne che nel periodo aureo delle scuole della bottega artigiana, si compone di tre apprendistati. L'ultimo si può estendere ai dottori di ricerca fino a 29 anni, e può durare fino a cinque anni. Ciò vuol dire che si può essere dottore di ricerca e apprendista fino a 34 anni. I vantaggi sono il sottoinquadramento di due livelli nella qualifica; il pagamento di poco più della metà degli oneri sociali; e l'assenza di costi di risoluzione a percorso concluso, anche se si tratta di un contratto a tempo indeterminato.
  In realtà sto esagerando. Infatti, se le imprese non assumono nessun apprendista, hanno dei vincoli nell'impiego di ulteriori apprendisti, ma i costi sono molto differenti. Occorre riflettere molto attentamente su questo disegno dell'apprendistato che, secondo me, è sbagliato. Lo dico in modo brutale.
  La seconda indicazione è che bisognerebbe cercare di adottare una pluralità di interventi, diversi per aree e per popolazioni ammissibili, in una logica propriamente sperimentale, che non diano benefici automatici a pioggia o basati sul «primo arrivato, primo servito», ma cerchino di incidere al margine, modificando i comportamenti delle imprese in favore dell'occupazione, e non dando un premio a tutte indistintamente. So che è difficile, ma bisognerà cominciare.
  Infine, ritengo che occorra investire, in quantità e qualità, sui centri per l'impiego, perché, anche col concorso del settore privato, hanno e avranno un ruolo cruciale per l'incontro fra domanda e offerta, anche nel breve termine. Infatti, le condizioni imposte dal programma dell'Unione europea, Youth Guarantee, che pare in arrivo, sono estremamente severe su come occorre seguire la persona. C’è la possibilità che nella contrattazione noi riusciamo a portare all'Italia qualche centinaio di milioni di euro per la messa in campo dello Youth Guarantee. Non nascondo la preoccupazione di dover restituire molti di quei milioni, se non obbediamo agli standard molto severi che l'Unione europea impone.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il professor Trivellato. Come vedete, queste audizioni sono di alto profilo, di contenuto e di spessore culturale, e ci aiuteranno sicuramente nel valutare il pacchetto lavoro in arrivo dal Governo.
  Do la parola ai deputati che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  WALTER RIZZETTO. Signor presidente, innanzitutto ringrazio i professori, che sono due ospiti di eccellenza rispetto a questo tema. Vorrei fare una valutazione ed una domanda. Ci avete dipinto una situazione sconfortante, a tutti gli effetti, che, secondo me, è una fotografia reale di quanto stiamo vivendo.
  Come ricordavate, l'INPS fa fatica a dare i numeri. Molto probabilmente, se chiedessimo all'ex Ministro Fornero, ci direbbe che gli esodati sono ancora 65.000, e non una fascia più alta.
  Avete toccato il tema dell'apprendistato, che tra l'altro è affrontato anche da varie mozioni che sono state firmate da tutti i giovani parlamentari sotto i 35 anni, riguardanti la Youth Guarantee. L'apprendistato sta vivendo una fase drammatica. Come ricordava il dottor Boeri, parliamo addirittura di apprendistato su gestione regionale, quando i nostri giovani vanno a fare l'apprendistato in Germania, in Belgio o in altri Paesi, e una volta rientrati in Italia quest'apprendistato non è neppure riconosciuto. Noi parliamo di base regionale, quando invece dovremmo guardare all'Europa.
  Altrettanto drammatica è la situazione dei centri per l'impiego. Speriamo che questi 500-600 milioni, che, come auspichiamo, dovrebbero arrivare dal progetto europeo della Youth Guarantee, possano incidere soprattutto sui centri per l'impiego, che attualmente non esistono. Un nostro giovane oggi deve andare a chiedere lavoro presso le agenzie interinali.
  C’è poi un altro problema, che voi conoscete sicuramente molto bene, che Pag. 11riguarda i NEET, ragazzi dai 15 ai 24 o 29 anni. C’è una quantificazione numerica: si parla di 6 o 7 milioni di giovani. Sarebbe interessante capire, anche con le altre Commissioni competenti, il costo che subisce il nostro Paese rispetto a questi giovani. Infatti, se un giovane è disoccupato e quindi grava sulla sua famiglia, non riesce neanche ad avere la voglia di cercare un lavoro, rischiando di finire invischiato in fenomeni di delinquenza, ludopatie e tossicodipendenze. C’è anche un costo sociale a latere, che secondo me è molto importante.
  Abbiamo capito che ormai l'indirizzo è quello della flessibilità in uscita. Vedevo il nostro presidente che sorrideva. Penso che sia una cosa che tutti noi, a breve, dovremmo studiare. Faccio un'ultima domanda rapida e chiudo. Tutti noi parliamo di incentivi o contributi. Secondo il mio modesto e basico modo di pensare, il contributo, in tutti i settori, è un elemento che droga il mercato. Faccio degli esempi molto semplici. Se il Governo stanziasse dei contributi per l'acquisto di auto elettriche da qui a fine anno, è chiaro che il datore di lavoro, ossia il concessionario, assumerebbe un altro venditore sino a dicembre per vendere auto elettriche. A gennaio decadrebbe il contributo, e ci ritroveremmo un altro disoccupato. Questo, a mio parere, droga il mercato del lavoro.
  Arriveremo mai ad un giorno in cui per andare a lavorare non dovranno necessariamente esserci dei contributi o degli incentivi ?

  SIMONE BALDELLI. Signor presidente, ringrazio il professor Boeri e il professor Trivellato e mi scuso anticipatamente per il fatto che porrò la domanda e poi dovrò andare in Aula, perché la seduta sta iniziando. Tuttavia, la risposta rimarrà agli atti.
  Essendo stato fatto un lavoro importante di chiarificazione in ordine ai dati statistici che riguardano la disoccupazione, vorrei capire, secondo una vostra stima, quanto incide il sommerso sui dati relativi alla disoccupazione. È vero che è difficile stimarlo, ma è anche vero che, se si considera il sommerso, che pure è una presenza importante, specie in certe zone del Paese, come un dato strutturale, questo dato non può che essere incluso in quelli che noi definiamo «scoraggiati», e che invece hanno trovato una collocazione nel sistema del lavoro al di fuori della legalità. Questo evidentemente è un dato che incide. Se fosse vero che tutti gli scoraggiati sono davvero tali, noi avremmo da anni un problema di rivolta sociale.
  Vorrei capire quale stima di massima – dato che non può essere effettiva – si può fare dell'incidenza del sommerso, in tutte le sue sfaccettature, su questo dato.

  CHIARA GRIBAUDO. Signor presidente, ringrazio i nostri ospiti per le relazioni assolutamente importanti e ricche di stimoli e riflessioni. Preso atto dei dati e della situazione, vorrei capire che cosa ne pensate rispetto a quella miriade di lavori atipici che non hanno un contratto nazionale di riferimento, e come si potrebbe intervenire, a vostro avviso, per garantire un equità nel compenso. Rispetto a questo tema, la riforma Fornero aveva già introdotto una novità sull'albo dei giornalisti, che mi pare abbia avuto degli effetti positivi.
  Vi chiedo se potete darci alcune delucidazioni rispetto a questo.

  PATRIZIA MAESTRI. Signor presidente, ringrazio per i contributi, che non ho potuto ascoltare interamente, ma che comunque leggerò. Seguo anche on line quello che scrivete e quindi conosco quello che state facendo, che è di grande interesse per tutti noi.
  Ho una riflessione rispetto alle politiche attive del lavoro, e ai centri per l'impiego, che non hanno quel ruolo attivo che dovrebbero avere. Non è così in tutto il Paese. In Emilia-Romagna, pur non costituendo il perno principale, i centri per l'impiego riescono a mediare tra domanda e offerta per circa il 12-13 per cento, fornendo anche servizi importanti, ad esempio di orientamento al lavoro. Tuttavia, essi dipendono dalle province, Pag. 12che nel prossimo futuro non ci saranno. In Emilia-Romagna si sta ragionando su un'agenzia che possa svolgere quest'incarico, ma la situazione diventa abbastanza complicata e si rischia anche di disperdere la grande professionalità di chi lavora in questo settore.
  Sappiamo che attualmente l'incrocio tra domanda e offerta, quando si parla di privato – in Emilia-Romagna non è stato autorizzato il privato – è realizzato dalle agenzie interinali. Gli eventuali contributi che potrebbero arrivare per le politiche attive del lavoro dovrebbero essere erogati a quegli organismi, pubblici o in integrazione col privato, che effettivamente portano risultati. Oggi lo fanno le imprese di outsourcing, magari dopo accordi di aziende in crisi, e non sempre riescono. Bisognerebbe quindi cercare di avere contributi mirati.

  PRESIDENTE. Do la parola al professor Boeri e al professor Trivellato per la replica.

  TITO BOERI, Professore di economia presso l'università Bocconi di Milano e membro del Comitato di redazione de «La Voce.info». Grazie per i commenti, molto stimolanti e importanti, e per le domande. Devo dire che condivido molte delle preoccupazioni dell'onorevole Rizzetto sulla situazione del nostro mercato del lavoro. Nello specifico, condivido la sua considerazione riguardo ai contributi e agli incentivi e agli effetti dopanti sul nostro mercato del lavoro. Io credo che la strada maestra dovrebbe essere cercare ridurre il più possibile la pressione fiscale sul lavoro, e farlo in modo permanente, cioè con degli interventi che non siano estremamente selettivi e temporanei, ma che riducano gli oneri fiscali che gravano sul lavoro per tutti.
  Questa dovrebbe essere la strada da seguire, perché avrebbe una serie di effetti positivi. Non soltanto aumenterebbero i salari netti e diminuirebbe il costo del lavoro per le imprese, riducendo quindi il cuneo che si insinua tra il costo del lavoro e quello che viene pagato al lavoratore, ma si avrebbero anche effetti importanti sulla nostra capacità di raggiungere quelle parti del mondo in cui c’è una domanda che continua a essere forte. Non dimentichiamoci, infatti, che mentre l'Italia vive il sesto anno di recessione, l'economia mondiale, dopo la piccola parentesi del 2008-2009, è continuata a crescere ai tassi precedenti. Quindi, se noi riusciamo a intercettare quella domanda, avremo degli effetti positivi sull'occupazione in Italia. Io credo che questa dovrebbe essere la strada principale.
  Chiaramente le risorse sono limitate, ma usiamo tutte le risorse disponibili e troviamone altre, facendo una seria spending review, partendo anche dal capitolo del lavoro, dove ci sono grandissime sacche di sprechi, soprattutto per quanto riguarda la formazione. Credo che spendiamo tantissimi soldi in attività formative su cui non è mai stata fatta una valutazione seria. A mio giudizio, una parte consistente di queste risorse potrebbero essere meglio indirizzate riducendo le tasse sul lavoro.
  Alla domanda posta dall'onorevole Baldelli riguardo all'incidenza del sommerso lascerò rispondere il professor Trivellato, che ha più competenza di me a riguardo. Comunque, i dati sulla disoccupazione dovrebbero tenere conto del sommerso. Parliamo di persone che dichiarano di non lavorare neanche un'ora nella settimana di riferimento, e quindi le persone che lavorano nel sommerso non vengono contate nella disoccupazione. È chiaro che c’è un problema nelle statistiche disponibili su questo. Il sommerso è effettivamente un problema molto serio in Italia. Le proposte che ho fatto nella mia relazione introduttiva vorrebbero appunto favorire l'emersione del sommerso.
  Riguardo alla domanda dell'onorevole Gribaudo sulla questione dell'equo compenso per i lavoratori atipici, io credo che in Italia abbiamo un problema di copertura dei minimi contrattuali per molti lavoratori. Al di là delle forme contrattuali precarie, abbiamo anche dei lavoratori che Pag. 13hanno dei contratti di lavoro regolari, ma che non vengono coperti dalla contrattazione collettiva.
  A mio giudizio, in Italia bisognerebbe introdurre uno strumento che esiste in altri Paesi: il salario minimo orario. Penso che sarebbe utile anche nel contesto in cui si introduca un incentivo condizionato all'impiego. Quest'operazione andrebbe estesa in qualche modo ai lavori atipici, dove è più difficile una contabilità oraria delle remunerazioni, e quindi bisognerebbe trovare dei corrispettivi mensili.
  A mio avviso, è questa la strada per scoraggiare l'abuso di quelle figure contrattuali, piuttosto che introdurre dei vincoli burocratici, anche perché la flessibilità può essere accettabile, nel momento in cui si definiscono degli standard retributivi minimi. Se una persona ha una retribuzione che supera una certa soglia, può anche dotarsi degli strumenti assicurativi per fronteggiare eventuali periodi di disoccupazione successivi.
  Infine, per quanto riguarda le politiche attive del lavoro, io penso che in questo momento, data la situazione occupazionale, soprattutto sul lato della domanda, queste non possano essere la priorità. Certamente, in questo momento dobbiamo dotarci di una capacità di gestire le politiche attive decisamente migliore. È vero che in alcune province – penso alla provincia di Milano – ci sono delle competenze. Con il potenziale superamento delle province, bisogna chiaramente non privarsi di queste competenze.
  Al tempo stesso, bisogna partire davvero con una base informativa adeguata. Credo che questa sia la cosa che il settore pubblico può fare meglio e che non ha fatto sin qui. Infatti, vediamo che le basi informative sui posti vacanti sono aggiornate con quasi cinque anni di ritardo, quindi non possono assolutamente servire.

  UGO TRIVELLATO, Professore emerito presso la Facoltà di Scienze statistiche dell'università di Padova e ricercatore dell'Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche (IRVAPP). Non ho molto da aggiungere.
  Rispondo all'onorevole Rizzetto. Sono d'accordo sull'importanza di una riduzione del carico fiscale, ma l'obiettivo non è non avere più politiche, ma piuttosto avere politiche efficaci, meno fantasiose, meno dispersive, e meno categoriali. Arrivare ad avere politiche efficaci è la chiave. Vediamo che in alcuni Paesi questo succede. Ad esempio, l'Inghilterra ha avviato una politica per lavoratori che hanno vari gradi di disabilità. Gli operatori accreditati a fare questo intervento, a seconda del grado di disabilità, sono pagati in parte dopo sei mesi. Invece, la grossa parte del pagamento avviene dopo due anni, una volta verificato che questa politica è riuscita a inserire le persone nel percorso di un lavoro protetto e dignitoso.
  L'obiettivo è attrezzarsi per fare politiche attive del lavoro, il che vuol dire avere buone basi informative e buoni metodi per valutarle, e avere voglia di fare queste due cose.
  La domanda dell'onorevole Baldelli è di quelle alle quali è impossibile rispondere, perché misurare il sommerso racchiude in sé una contraddizione. Ciò nonostante, possiamo tentare di argomentare. Innanzitutto, questi non sono risultati di dati amministrativi, ma sono risultati di indagini sulle forze di lavoro. Si tratta cioè di domande rivolte a persone sulla loro partecipazione al lavoro. Può essere che un lavoratore in nero voglia celare quest'esperienza, ma il fenomeno è certamente minore rispetto a quanto avviene per i dati amministrativi. Grosso modo, se non ricordo male, l'economia sommersa è stimata dall'ISTAT in circa un quarto dell'economia reale del Paese. L'economia sommersa non riguarda soltanto il lavoratore totalmente sommerso, ma anche l'ora di straordinario sommerso, di un lavoratore che non denuncia lo straordinario, e a cui non è chiesto di denunciarlo. Io credo che se c’è una sovrastima nei dati, questa è dell'ordine del 10-12 per cento, non di più.
  Sono d'accordo sull'ipotesi di un salario minimo orario. L'interrogativo dell'onorevole Maestri è importante. C’è una forte eterogeneità nel Paese, non solo nei livelli Pag. 14di sviluppo, ma anche nelle capacità di funzionamento di istituzioni pubbliche come i centri per l'impiego. A seconda delle zone del Paese, questi funzionano bene, abbastanza bene, male, o non funzionano tout court. Il dato importante di cui tener conto per un investimento, anche selettivo, soprattutto in presenza di un rischio di cancellazione delle province, è che, al di là della Youth Guarantee, i finanziamenti del Fondo sociale europeo sono sempre più collegati al fatto che alla dimensione passiva del sussidio si affianchi una dimensione attiva ed efficace. Spesso il vincolo è che le somme spese a carico del Fondo sociale europeo devono essere dedicate alle misure attive.
  Quindi, attrezzarsi per gestire decentemente figure attive, anche con i centri per l'impiego e con società o istituti accreditati e valutati, è essenziale, altrimenti rischiamo di ritrovarci in una situazione in cui non siamo rispondenti ai requisiti che l'Europa chiede per finanziare politiche per il lavoro.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il professor Boeri e il professor Trivellato.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 10.15.

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