XVII Legislatura

X Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 6 di Martedì 22 marzo 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Epifani Guglielmo , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SU «INDUSTRIA 4.0»: QUALE MODELLO APPLICARE AL TESSUTO INDUSTRIALE ITALIANO. STRUMENTI PER FAVORIRE LA DIGITALIZZAZIONE DELLE FILIERE INDUSTRIALI NAZIONALI

Audizione del dottor Luca De Biase, direttore responsabile di Nova – Il Sole 24 Ore.
Epifani Guglielmo , Presidente ... 3 ,
De Biase Luca , direttore responsabile di Nova – Il Sole 24 Ore ... 3 ,
Epifani Guglielmo , Presidente ... 5 ,
Basso Lorenzo (PD)  ... 5 ,
Galgano Adriana (SCpI)  ... 6 ,
Vico Ludovico (PD)  ... 6 ,
Benamati Gianluca (PD)  ... 6 ,
Bombassei Alberto (SCpI)  ... 7 ,
Da Villa Marco (M5S)  ... 9 ,
Bargero Cristina (PD)  ... 10 ,
Peluffo Vinicio Giuseppe Guido (PD)  ... 10 ,
Epifani Guglielmo , Presidente ... 10 ,
De Biase Luca , direttore responsabile di ... 10 ,
Epifani Guglielmo , Presidente ... 13 

Audizione di rappresentanti di Confindustria:
Epifani Guglielmo , Presidente ... 13 ,
Bianchi Andrea , direttore delle politiche industriali di Confindustria ... 13 ,
Epifani Guglielmo , Presidente ... 19 ,
Bargero Cristina (PD)  ... 19 ,
Vico Ludovico (PD)  ... 20 ,
Becattini Lorenzo (PD)  ... 21 ,
Bombassei Alberto (SCpI)  ... 21 ,
Basso Lorenzo (PD)  ... 22 ,
Epifani Guglielmo , Presidente ... 22 ,
Bianchi Andrea , direttore delle politiche industriali di Confindustria ... 23 ,
Epifani Guglielmo , Presidente ... 27

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GUGLIELMO EPIFANI

  La seduta comincia alle 11.50.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del dottor Luca De Biase, direttore responsabile di Nova – Il Sole 24 Ore.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su Industria 4.0: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali, l'audizione del dottor Luca De Biase, direttore responsabile di Nova – Il Sole 24 Ore.
  Voi tutti sapete che il dottor De Biase è particolarmente attento e esperto sui problemi di innovazione tecnologica del sistema industriale.
  Le chiederei un quarto d'ora o venti minuti al massimo da dedicare al suo intervento introduttivo, poi lasceremo lo spazio per le domande dei nostri commissari.
  Do subito la parola al dottor De Biase per la relazione introduttiva.

  LUCA DE BIASE, direttore responsabile di Nova – Il Sole 24 Ore. Vi ringrazio di avermi chiamato. Ho pensato che la cosa migliore sia chiedervi cosa vi serve. D'altra parte, posso fare un'introduzione molto breve.
  Ho visto anche che avete audito le vere fonti di narrazione su Industria 4.0 (Roland Berger, IBM, McKinsey), quindi i dati sono stati raccolti. Noi di Nova – Il Sole 24 Ore abbiamo elaborato un documento che lascio agli atti della Commissione.
  Quello che è appassionante è cercare di vedere se c'è un modo italiano per interpretare questa opportunità. Si tratta di un cambiamento straordinario. Noi vediamo che, fra big data, robotica, digital commerce, connettività e economia verde, le cose stanno convergendo, rappresentano un cambio di paradigma industriale e sfidano il nostro livello di occupazione, il livello di generazione di valore aggiunto e la capacità di esportare del Paese, quindi sono l'argomento strategico. Tuttavia, quello che interessante vedere è se esiste un modo con il quale noi possiamo influenzare l'ecosistema per andare in una direzione che interpreti il nostro modo di essere industriali oppure se siamo costretti ad accettare le forme organizzative pensate altrove. Questo è abbastanza strategico per la generazione del valore aggiunto italiano.
  Per quello che ho visto ci sono due modi di vedere le cose che sono alternativi e cui si dovrebbe aggiungere il nostro. C'è il modo all'americana con forte capitale finanziario, anzi con una fortissima ed enorme finanza che produce progetti di automazione industriale orientati a ridurre l'utilizzo di esseri umani. Poi, c'è l'immagine della grande industria tedesca che costruisce il sistema fra le imprese.
  Da quello che capisco, andando a chiedere alle aziende che fanno automazione industriale dappertutto in Italia, la nostra idea è che i robot e l'automazione industriale siano dei valorizzatori della capacità Pag. 4umana di fare i prodotti, come se, mentre il capitale finanziario cercasse di sostituire il lavoro umano, noi con il nostro capitale umano volessimo aumentare la produttività delle persone. Noi abbiamo il nostro sapere e loro hanno la loro quantità di finanza.
  A Modena, quando ho raccontato queste due visioni il signore che avevo davanti ha detto: «per forza, gli americani fanno Robocop, noi facciamo Robocoop», il che ha una sua sintesi.
  Come facciamo a fare la nostra parte? Lo dico perché la maggior parte delle nostre esportazioni che vanno in Germania sono decisamente guidate dall'organizzazione che loro stanno imponendo alla piattaforma di Industria 4.0. Non c'è niente di male in questo, cioè è fantastico e siamo bravissimi, per cui loro ci riconoscono il fatto di essere bravissimi eccetera, ma man mano che la piattaforma avanza e organizza il sistema è probabile che il nostro apporto di valore aggiunto sia sfidato sempre di più.
  Dobbiamo sempre di più cercare di migliorare la nostra capacità di mantenere il valore aggiunto, altrimenti la piattaforma lo assorbe, il che è ancora peggio, se stiamo nella logica americana che è fondamentalmente basata sull'organizzazione dell'informazione e la «softwarizzazione» del sapere, quindi se il design diventa software viene scaricato come fosse un pezzo di musica dalla piattaforma e viene depauperato di valore aggiunto per poi magari essere applicato a una stampante 3D e produrre il prodotto dove si vuole.
  Secondo me, questo è uno scenario nel quale noi dobbiamo essere super-consapevoli perché potrebbe essere grave. Certo, non è per tutte le produzioni così perché ci sono delle produzioni ad altissimo valore aggiunto che si difendono – insomma guardo Bombassei – per la tecnologia che contengono, ma ci sono anche altri settori italiani che potrebbero essere attaccati nei processi produttivi. Pensiamo per esempio al tessile, all'arredamento eccetera.
  Fondamentalmente si tratta di lavorare sull'immagine che noi abbiamo della piattaforma di Industria 4.0, di cui non sappiamo abbastanza. Io vado in giro dappertutto e vedo che non c'è una chiarezza da questo punto di vista. Sappiamo che tale piattaforma serve per avere qualità «customizzata» nei prodotti, cioè molte più produzioni a piccolo volume e alto valore aggiunto, sappiamo che serve per monitorare la qualità nel processo produttivo interno e sappiamo che serve per tracciare l'andamento dei componenti. Questo è quello che fa e lo fa con i big data, lo fa con l'automazione, lo fa con la connettività, lo fa con il digital commerce e, secondo me, lo fa con un apporto di energia verde localizzata vicino agli impianti. Questo tipo di cosa ci vede forti nell'automazione. Non siamo sprovveduti perché in questi settori rappresentiamo una grossa parte della produzione. Abbiamo esperienza nell'automazione industriale che deriva dall'avere automatizzato le produzioni tradizionali e che man mano si sta robotizzando. Questa cosa è forte per l'Italia e da qui possiamo lavorare.
  Siamo deboli nella concezione big data e siamo deboli nel digital commerce perché le imprese non lo usano abbastanza. Tutti i dati (Eurobarometro, Agenda digitale europea eccetera) ce lo dicono e siamo scarsi senza dubbio e senza se e senza ma sulla connettività perché fino adesso abbiamo passato il tempo a dire «aspettiamo la domanda», quando in realtà è l'offerta che crea la domanda. La domanda c'è sempre, quando tu hai una buona offerta e specialmente adesso che dobbiamo vedere questi impianti industriali che funzionano sempre di più connettendosi con alta banda.
  La grande indicazione che vediamo nascere e sorgere dalle province che stanno facendo l'automazione industriale in questo momento è legata alla valorizzazione del capitale umano, quindi questa progettazione della nostra automazione è come dire «aumentiamo la produttività delle persone che abbiamo che sanno fare le cose» e non «sostituiamo le persone». Non si vede questo, ma si vede quell'«aumentiamo la produttività».
  Siamo indietro sul terreno della produttività e di questo non c'è dubbio. Poi, siamo Pag. 5indietro nella relazione con i mercati internazionali e, se non fosse per i singoli grandi imprenditori che abbiamo, c'è una timidezza nei confronti del mercato internazionale che è più proceduralizzato di come siamo abituati a fare e meno di prossimità.
  Certamente tutta la questione dei big data è sottovalutata. Su questo, io proporrei – è un'azione di sistema che credo sia rilevante porre – che le aziende che dispongono di dati li forniscano alle altre aziende in forma anonima e in forme che non facciano perdere il valore di possederli.
  È chiaro che in un Paese dove le aziende sono tutte piccole e dispongono di un certo numero di dati, nessuna di queste aziende è come Google o Facebook o altre grandi imprese che possano disporre dei dati analizzabili in modi molto vasti, però nell'insieme tutte le altre imprese hanno molti dati che potrebbero valere la comprensione sia per migliorare la produzione sia per migliorare la relazione con il mercato. Questo è un ambito nel quale a mia volta sto suggerendo a Il Sole 24 Ore che si faccia carico di proporre alle imprese di mettere insieme i dati in una modalità che non faccia perdere la proprietà dei dati e mantenga l'anonimato assolutamente dei dati, ma consenta di fare delle analisi statistiche significative sull'insieme dei dati.
  Per quanto riguarda la connettività, è ora di andare avanti senza se, senza ma e senza dubbi. Inoltre, per quanto riguarda la nostra scarsità di capitale finanziario, la prendo come la pioggia e come il clima perché per adesso non c'è modo di risolverla, anche se ci aiuta a pensare che la nostra strada sia la valorizzazione del capitale umano.

  PRESIDENTE. Grazie. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  LORENZO BASSO. Intanto la ringraziamo per essere qui presente. Io colgo subito alcuni degli spunti che lei ha voluto portarci per porre una questione.
  La prima è quella della scelta fra le due vie. Lei ha detto che ci sono la via americana e la via tedesca. Noi abbiamo avuto modo durante le audizioni di ascoltare anche il rappresentante dell'Ambasciata tedesca che auspica un coinvolgimento rispetto alla loro piattaforma e alla loro via per andare verso Industria 4.0. Lei ha evidenziato, però, quelle che possono essere le difficoltà.
  In particolare, mi permetto di sottolineare il tema che due delle grandi qualità di questa produzione automatizzata sono due punti di forza del nostro sistema produttivo, quindi la qualità in piccole dimensioni e la possibilità di sistemi automatizzati che garantiscono anche ad altri Paesi di arrivare a una grande qualità con piccoli volumi. Ovviamente questo è soprattutto per il nostro Paese uno sfidante, se non pericoloso oserei dire.
  Rispetto a questo, lei per esempio parla della possibilità di essere, invece, potenziatore della produttività umana. Quali sono, per quello che è il vostro osservatorio, che è un osservatorio privilegiato nel conoscere anche singole realtà, secondo lei le professioni o meglio le professionalità che il sistema Paese dovrebbe incentivare? Al di là delle competenze tecnico-scientifiche che ovviamente diamo per scontato abbiano bisogno di crescere e che ci sia questo bisogno, quali sono, invece, dal punto di vista della creatività, quindi di quel mondo della creatività che può essere potenziato, le professionalità di cui il nostro Paese può aver bisogno nei prossimi dieci anni per riuscire a intercettare quella rivoluzione industriale nel senso che prima lei ci ricordava?
  La seconda domanda è più veloce. Lei ha fatto una proposta e devo dire che è la prima volta che noi l'ascoltiamo, cioè quella di riuscire a mettere insieme tutti i dati per riuscire a raggiungere quella massa critica e quella che Enrico Moretti definirebbe come densità necessaria per riuscire a raggiungere le competenze e le capacità di analisi, anche dal punto di vista dei dati.
  Noi abbiamo, però, il problema degli standard di interoperabilità perché tutte le aziende, compreso i giornali, operano su standard riversi e, benché sia possibile confrontare Pag. 6 i dati, sappiamo bene che l'omogeneità del dato dipende anche dalla qualità con cui viene raccolto.
  Una raccolta di dati molto diversa, anche confrontata su uno standard tecnologico, non ci garantisce, però, la qualità del dato finale. Rispetto a questo, è pensabile e utile o sarebbe invece un ennesimo fardello burocratico l'idea di pensare degli standard non nazionali perché forse sarebbe troppo poco, ma europei, su cui andare a costruire una raccolta di dati che ci consenta a livello europeo di fare analisi dei dati utili anche per la piccola e media impresa?

  ADRIANA GALGANO. Vorrei fare alcune osservazioni su quello che lei ha detto rispetto alla produttività. Sul fatto che i robot sostituiscano alcuni lavori, perché sostituiscono solo alcuni lavori e non tutti fortunatamente, vedo della positività. Noi abbiamo visto un robot che sollevava pacchi in un'azienda. Non c'è nulla di poetico nel sollevare pacchi se non la certezza di avere problemi di schiena che poi il nostro sistema sanitario dovrà curare, quindi il fatto che la produttività venga accresciuta eliminando alcuni lavori faticosi è qualcosa che io vedo positivamente.
  Questo incremento di produttività negli Stati Uniti sta facendo rientrare aziende che si erano andate a localizzare esternamente, quindi è un insieme di fenomeni, di cui alcuni contengono dei rischi e altri delle notevoli positività.
  Quello che io vedo, invece, di rischioso per il nostro Paese è il fatto che non abbiamo società che sviluppino piattaforme. Inoltre, la cosa divertente è che, se noi cerchiamo «piattaforme» su Google, viene fuori, in italiano, «piattaforme petrolifere» invece che «piattaforme informatiche». Ecco, io le vorrei chiedere perché da noi, secondo la sua esperienza, non ci sono società che si occupano di questo e che cosa noi possiamo fare invece per favorire la creazione di questo tipo di specializzazione. Il punto è che se noi perdiamo lavori perché vengono sostituiti dai robot, il gioco è sviluppare occupazione dove c'è. Le chiedo se è questo che noi dobbiamo riuscire a fare e cosa dobbiamo fare per riuscirci.

  LUDOVICO VICO. Ho molto apprezzato l'introduzione del dottor De Biase. Lei ha posto un problema che mi interessa molto.
  Nello schema di ciò che accade oltreoceano e del sistema tedesco, lei ha avuto l'ardire di parlare di una via italiana per Industria 4.0 È interessante come l'ha posta perché ha persino un tratto umanistico di pensieri che si confrontano. Tuttavia, fermo restando il mio ottimismo, vorrei sperare che il confronto tra le piattaforme e tra i modelli che si vanno definendo non saranno regolati esclusivamente dal capitale finanziario. In un'aula come quella della nostra Commissione del Parlamento italiano questo interrogativo secondo me rimane intatto, cioè intatto come preoccupazione e non come avversità. Vorrei chiarire questo per non essere frainteso da lei a nessun livello.
  Penso che il problema che si pone sia, per un parlamentare di questa Commissione, quello di capire, così come è necessario stare nei processi e nelle piattaforme sistemiche europee per come si avviano. Tuttavia, nel contempo è anche importante sapere che altri sono gli attori che potrebbero decidere, come è successo per la prima rivoluzione industriale, fino a quello che sarà Industria 4.0. Nessun pessimismo. È interessante – mi complimento con lei che introduce un elemento di pensiero in questa fase – il fatto che sia in campo, a parte la ricerca, che nella via italiana è abbastanza contenuta, e almeno che si riapra il terreno del pensiero che mi sembra smarrito.

  GIANLUCA BENAMATI. Devo dire che questa audizione – mi permetterà di dirlo il dottore – stimola una riflessione diversa forse da quelle che abbiamo fatto fino a oggi appunto per le sue caratteristiche professionali e personali. Lo diceva già il collega Vico: lei unisce una cultura scientifica e una capacità di divulgazione e di esposizione dei temi con una chiarezza che è propria di chi affronta non il ristretto circolo degli iniziati, ma la questione della pubblica opinione.
  Io le vorrei chiedere innanzitutto una cosa che le potrà sembrare banale, però noi tutti in quest'aula in questo momento Pag. 7stiamo concordando sul fatto che, dal punto di vista della digitalizzazione della manifattura e dell'industria, si affronterà nel Paese una sfida dal punto di vista industriale epocale che cambierà il nostro modo non solo di produrre, ma anche successivamente di vivere.
  Lo dico perché chiaramente una rivoluzione di questo tipo che riguarderà anche la qualità e la natura dell'occupazione e che riguarderà anche i modelli sociali sarà una rivoluzione più ampia della semplice rivoluzione di carattere produttivo.
  Da questo punto di vista, le sembra che il dibattito, la consapevolezza e il livello di attenzione che attraversa non le platee di Confindustria o delle associazioni di categoria sia adeguato e, se non è così, qual è il modo magari di coinvolgere di più in una riflessione generale il Paese?
  Lei diceva anche un'altra cosa – anche qui sono intervenuti sia il collega Basso che il collega Vico – che mi ha colpito perché è il tema su cui rifletto da diverso tempo, occupandomi di queste questioni, ogni volta che faccio degli incontri che non sono incontri pubblici, ma con la gente che produce.
  La settimana scorsa ho incontrato per un'ora e mezzo quattro imprenditori del settore tessile ed è difficile spiegare cosa succede con Industria 4.0 e cosa succede non nell'universo dei grandi sistemi, ma a loro che fanno tessuti in Italia, che li tingono in Italia, che fanno i campionari in Italia e che vendono è un problema. Per esempio, lei diceva del tessile che, quando il design è in sofferenza e si ha un mercato di vendita ormai digitalizzato, è qualcosa che già ha sofferto, ma che diventa assolutamente un problema.
  Tra il modello tedesco e il modello americano è chiaro che noi probabilmente propendiamo più per il modello tedesco di filiera che non per la estremizzazione del modello americano in cui io ti do il software e tu con la tua stampante ti fai la cosa, cioè sono due modelli diversi e noi siamo anche antropologicamente più collegati al modello tedesco.
  Tuttavia, più che una Industria 4.0 italiana – qui la mia opinione differisce un po' da quello che è stato già sottolineato nei precedenti interventi – c'è un ruolo che l'Italia deve ritrovare nella digitalizzazione della manifattura perché diceva bene il collega Basso: alcune delle nostre caratteristiche, cioè la flessibilità, la capacità e l'inventività, sono quelle che vengono assolutamente messe in gioco da questo sistema. Su questo, quindi non su Internet 4.0 Italia o Italy, ma su questo ruolo dell'Italia e del suo tessuto in questo cambiamento, quali sono le sue idee, visto che poi ha raccolto anche muovendosi tante opinioni?
  L'ultima cosa che vorrei dire è più che altro una curiosità. Io credo che il tema della disoccupazione o dell'occupazione indotta dall'adozione di un modello di questo tipo sia un problema – non vorrei usare dei termini sbagliati perché stavo per dire un falso problema – da un certo punto di vista non eludibile, nel senso che dovremmo capire quali sono le condizioni che affronteremmo se non percorressimo questa sfida e se non adottassimo questo modello.
  Qui, c'è un tema di cambiamento profondo, non tanto nei numeri, ma anche nella qualità. Una delle sfide importanti, come diceva anche lei prima nel definire come un amplificatore la risorsa umana sulle caratteristiche della produttività e della competitività del lavoro eccetera, è il fatto che c'è un passaggio importante collegato alla formazione professionale e all'innalzamento delle competenze.
  Su questo, lei che sensazione ha? Lo chiedo perché io parlando in alcune università vedo che si coglie questo tema, però mi consenta una piccola osservazione finale: i dati di UCIMA, cioè delle aziende che producono ovviamente macchine utensili, ci dicono che dopo questa crisi sono aumentati per esempio tutti i rinnovi, benché il parco sia molto vecchio, di macchine manuali, a controllo numerico e automatiche, ma sono diminuite quelle che connettono l'automazione e la digitalizzazione, quindi da questo punto di vista anche la nostra capacità intellettuale.

  ALBERTO BOMBASSEI. Bene, se mi permettete, magari, più che fare una domanda, vorrei fare alcune considerazioni Pag. 8che credo siano a integrazione di quello che è stato detto e soprattutto anche di quello che abbiamo potuto ascoltare tutti nelle audizioni che abbiamo fin qui svolto.
  Farei due o tre raccomandazioni perché credo è vero che ci sono alcuni impatti su alcune piattaforme che devono essere considerati europei, io però non continuerei a considerare l'Italia un qualche cosa di diverso da alcune problematiche di altri Paesi a noi vicini. Ricordiamo che siamo comunque il secondo Paese industriale manifatturiero, per cui abbiamo problemi che sono molto simili alla Germania e che magari dimensionalmente sono un po' diversi, ma fondamentalmente la problematica è identica.
  La seconda considerazione credo che sia quella che noi abbiamo in qualche modo condiviso nel pensare che questo cambiamento è non solo radicale, ma rivoluzionario. Ora, se non vogliamo avere un impatto anche da un punto di vista sociale perché questo è emerso in tutte le audizioni che abbiamo fatto e anche noi stessi abbiamo espresso in passato la preoccupazione dell'impatto sociale e sull'occupazione, credo che questo è un qualche cosa che a noi compete di capire e per cui trovare delle eventuali soluzioni per non avere un impatto sociale negativo. Questo ci induce ad affrontare questa situazione non in ritardo rispetto agli altri Paesi, ma quanto meno a farlo con grandissima velocità e a vedere quelli che sono teoricamente più bravi di noi cosa stanno facendo.
  Io sono abbastanza contrario, come abbiamo sentito più volte dall'Ambasciata tedesca e dallo studio fatto dall'industria tedesca e dalla politica tedesca, al fatto che questo impatto avrà un effetto fra dieci o quindici anni. Personalmente – lo dico anche per esperienza diretta e personale – non credo che ci vorrà tanto tempo. Credo che la visita che noi faremo al Fraunhofer Institute e in Porsche dimostrerà che quello che dico è abbastanza vero.
  Questo fenomeno di grande cambiamento epocale è già in atto, quindi non credo che noi avremo dei tempi così lunghi per aspettare che le cose cambino. Inoltre, non dobbiamo cadere nell'errore che è un po' tipico del nostro sistema un po' disorganizzato. Vi dico – magari qualcuno si deve chiudere le orecchie, come il nostro ospite – per esempio che fra noi Commissione e il Ministero non è il massimo degli esempi di collaborazione perché, spesso e volentieri, noi non sappiamo quello che fanno loro e loro non sanno quello che facciamo noi.
  Questo credo che sia un qualche cosa che dobbiamo superare e dircelo veramente fuori dai denti perché non è accettabile che il lavoro egregio che credo noi abbiamo fatto con tutte queste audizioni, quindi noi stessi abbiamo un'idea abbastanza precisa che verrà concretata quando faremo questa visita in Germania, debba ricadere su un qualche cosa di operativo che farà il Ministero, altrimenti rischiamo veramente di aver fatto le cose per niente e sarebbe veramente spiacevole.
  Credo che noi, visto che siamo comunque il secondo Paese manifatturiero europeo, abbiamo il dovere e l'interesse, soprattutto a difesa del nostro Paese e della qualità e della parte economica, capire questi cambiamenti. Credo che anche oggi abbiamo capito un pezzo in più, ma dobbiamo operare velocissimamente e non possiamo perder tempo, altrimenti ci troveremo fra qualche anno, esattamente come abbiamo fatto negli anni passati, a dire «sì, siamo indietro, però stiamo recuperando».
  Mi piacerebbe, invece, essere in prima fila in questa sfida, quindi credo che – l'abbiamo visto già nelle relazioni che abbiamo ricevuto e che voi tutti avete letto sicuramente – la prima cosa è che la politica deve definire un target rigoroso dello stato d'avanzamento e la seconda è quella del mondo del sapere, quindi le ricerche e tutta questa parte qui.
  Oltre la parte industriale, visto che spesso e volentieri in Italia questa situazione viene capita come un cambiamento solo industriale, anche se non è solo un cambiamento industriale perché quello è un effetto in seconda o in terza battuta, credo che la parte di formazione sulla scuola sia la prima preoccupazione perché Pag. 9dovrebbe essere il primo passo affinché la nostra scuola si adegui. Lo dico anche perché quelli che sono a scuola adesso saranno i prossimi e i futuri manager di questo sistema e di questa società.
  Credo che, oggi come oggi, quello che abbiamo raccolto secondo me dovrebbe essere già sufficiente per noi per avere un'idea un po' più precisa, però non dobbiamo cadere in un errore per cui – lo vedo seguendo anche la parte dei giornali eccetera – spesso e volentieri si pensa soltanto alla ricaduta industriale di questo fenomeno. In realtà, questo sarà poi un fenomeno anche sociale che credo noi doverosamente, da un punto di vista politico, dobbiamo capire e per il quale dobbiamo fare qualche cosa, non solo tentando di mettere in atto dei rimedi, ma vedendo come il Paese può avanzare in un'occasione così difficoltosa.
  Vi dico con franchezza e anche con una certa esperienza che non dobbiamo neanche buttarci troppo giù nel pensare che gli altri stiano facendo delle cose. Ho esperienza, per esempio, nel mercato americano e non crediate che gli americani siano enormemente più avanti di noi perché, spesso e volentieri, sono più indietro di noi. Tuttavia, non dobbiamo sederci perché siamo abbastanza avanti.
  Gli unici che oggi ci stanno «bagnando il naso», se si può usare il termine, sono i tedeschi con cui abbiamo avuto in questi periodi anche degli scambi. Inoltre, credo che loro stessi abbiano interesse – lo stanno facendo – di trainarci dietro a questo sistema perché in qualche modo già si vedono e vedono noi come non più cittadini tedeschi e italiani, ma come cittadini europei. Io sono convinto che fra dieci anni o quindici anni la vera competizione sarà fra l'Europa e tutta una serie di altri Paesi, quindi è nell'interesse anche loro.
  Noi, visto che tutto sommato in questo momento ci stanno dando una mano, non perdiamo questa occasione. Io raccomanderei anche ai miei colleghi che questo veramente è un problema che dobbiamo raccogliere, come abbiamo fatto bene fino adesso, perché onestamente abbiamo fatto le cose fatte bene. Ecco, non dobbiamo disperdere del tempo e non pensare che ci siano veramente degli spazi enormi, per cercare di attuare quello che abbiamo fatto e abbiamo indicato in un programma affinché diventi veramente attivo.
  Vorrei dire – e poi mi fermo, Presidente – che uno degli errori più clamorosi e più comuni che stiamo facendo in Italia è pensare che, siccome l'Italia è fatta prevalentemente da piccole e medie imprese, la sfida di Industria 4.0 non sia cosa che ci riguardi. Questo non è assolutamente vero. Vi garantisco che sarebbe l'ennesimo errore che potremmo fare. Innanzitutto, questo sarà il mezzo per cercare di stimolare le piccole imprese a diventare un po' più grandi e, visto che c'è un cambiamento, quale migliore opportunità di cambiare anche la dimensione. Inoltre, noi dobbiamo cercare di essere agganciati al migliore sistema presente. Oggi come oggi, credo che la Germania, anche rispetto alla di Stati Uniti o ad altri Paesi, sia veramente più avanzata.
  Abbiamo la fortuna che ci hanno in parte aperto le porte. Credo che l'incontro del 31 marzo dovrebbe ulteriormente saldare il nostro tipo di rapporto e di scambio di informazioni, per cui approfittiamone per vedere quello che sta succedendo in Germania. Vi garantisco che tantissime aziende lo stanno già facendo e lo stanno già applicando, per cui non abbiamo tantissimo tempo. Non perdiamo questa opportunità.
  Non ho fatto esplicitamente la domanda, ma penso di averlo fatto implicitamente.

  MARCO DA VILLA. Cercherò di essere breve, anche se la mia è una domanda che non pretende certo una risposta esauriente ed esaustiva, ma che raccoglie un po' anche le suggestioni di molti colleghi e cerca di portarle – mi permetta di dire – a un livello quasi filosofico.
  Ora, senza voler scomodare insomma l'articolo 1 della Costituzione, la Repubblica è fondata sul lavoro. Qui, abbiamo affrontato e stiamo affrontando le implicazioni sulle attività produttive e sulle piccole e medie imprese, quindi un aspetto molto pratico e molto concreto che è legato anche Pag. 10alla necessità di inseguire un cambiamento che è velocissimo e che quindi ci impone un adeguamento pratico.
  Vorrei fare una domanda in merito. Questo cambiamento verso cui stiamo andando è uno dei tanti cambiamenti che sono avvenuti nella storia e che, rispetto anche a un certo approccio al mondo negli ultimi due o trecento anni, ci hanno permesso con aggiustamenti successivi di affrontare e di superare le sfide appunto che si presentano oppure è un cambiamento che ci imporrà e pretenderà una riflessione che forse la velocità dei cambiamenti non permette e un cambiamento di paradigma di approccio – ecco il senso del filosofico dell'inizio del mio intervento – per cui un'affermazione, come «la Repubblica è fondata sul lavoro», rischierà di diventare un qualcosa di superato o perderà il significato con cui è stata scritta nel 1946? Questo è il senso della mia domanda. Grazie.

  CRISTINA BARGERO. Innanzitutto la ringrazio per la visione d'insieme che ci ha dato sull'impatto di Industria 4.0. Ritornando a quello che i colleghi Basso e Benamati hanno sottolineato prima sull'importanza della formazione, io andrei un po' oltre, cioè alle politiche attive del lavoro, perché un cambiamento così rapido non necessita solo di un sistema di formazione primaria o universitaria in grado di dare le skill necessarie ai lavoratori, ma probabilmente, per la riconversione dei lavoratori, occorrono politiche attive del lavoro che ci sono in questo momento. Il nostro Paese ha un sistema tale in grado di fare politiche attive del lavoro che possano fornire queste skill?
  Seconda domanda. C'era un articolo interessante sul Corriere della Sera di Massimo Sideri sul potere deflattivo delle nuove tecnologie. Si tratta di un articolo bello, ma anche un po' inquietante. Come riusciamo a coniugare questi aspetti? Io credo nelle potenzialità di Industria 4.0, che aumenta la produttività, però è una riconversione del sistema economico che potrebbe mettere in crisi anche un sistema globale. Quali sono le risposte?
  In terzo luogo, il nostro sistema finanziario è in grado di dare le risposte e il capitale necessario per gli investimenti che il sistema produttivo e l'industria richiederanno?

  VINICIO GIUSEPPE GUIDO PELUFFO. Non voglio aggiungere considerazioni di carattere generale, perché mi sembra che l'abbiano già fatto in maniera approfondita i colleghi che sono intervenuti precedentemente. Io voglio solo approfittare della presenza del dottor De Biase per rivolgergli una domanda che va un po' oltre. Valuterà se ritiene opportuno rispondere.
  Nelle sue considerazioni faceva riferimento alla necessità di investire maggiormente come sistema Paese sui big data e al settore della robotica. Qualche settimana fa in questa Commissione abbiamo audito il dottor Cingolani dell'Istituto italiano di tecnologia in riferimento al progetto Human Technopole. Non voglio riaprire la discussione che abbiamo fatto in quell'occasione, però mi sembra che c'entri molto con le considerazioni in termini di investimento del sistema Paese. Vorrei sollecitare, se lo ritiene, una sua riflessione su questo progetto.

  PRESIDENTE. Do la parola al dottor De Biase per la replica.

  LUCA DE BIASE, direttore responsabile di Nova – Il Sole 24 Ore. Vi prometto che vi scriverò una relazione apposita, per non farvi perdere troppo tempo adesso. Ho preso appunti sui vostri interventi. Sono state più osservazioni che domande. Lasciatevi lisciare il pelo: mi sembra che ne sappiate tanto quanto me. Ragioniamoci insieme.
  Il dato di fatto è che noi abbiamo attraversato una crisi e che dal 2008 al 2016 abbiamo perso un quarto della produzione. Siamo passati dal 20 al 16 per cento di produzione industriale sul PIL. L'Enel è cambiata radicalmente. Non so se abbiate chiamato in audizione l'amministratore delegato, Francesco Starace, ma ritengo debba essere consultato assolutamente. Comunque, la produzione di energia elettrica Pag. 11necessaria si è radicalmente ridotta. Ciò è dovuto al fatto che noi siamo andati indietro nella produzione.
  Oggi su Il Sole 24 ore si parla dell'invecchiamento delle macchine. Nelle fabbriche le macchine che hanno più di undici anni erano il 30 per cento all'inizio della crisi, mentre adesso sono il 60 per cento. Non sono state sostituite in larga parte. Inoltre, siamo indietro sulla connettività.
  Tutto questo può essere valutato dal punto di vista dello sviluppo che possiamo ottenere in fretta se ci diamo una mossa, oppure dal punto di vista del disastro, secondo cui abbiamo perso l'aggancio con lo sviluppo e siamo destinati al declino.
  Io faccio il tifo per il primo punto di vista. Peraltro, è un'ipotesi concretamente reale, perché, come dicevamo, questa è una nazione con degli imprenditori, delle imprese e dei lavoratori fortissimi. Di conseguenza, è possibile che questa fase, in cui abbiamo perso investimento e dinamica, ci consenta di crescere velocemente, se ci diamo obiettivi comuni.
  Non dico che non lo stiamo facendo. Vi assicuro che non sono né governativo né antigovernativo. Io faccio il giornalista, non c'è problema. Delle cose sulla connettività si leggono, non è vero che non succeda niente. Delle iniziative sulla risposta del sistema energetico italiano, che è stato sempre uno degli elementi che ci appesantivano di costi, ci sono e si vedono.
  Certi fenomeni stanno accadendo. È possibile che questa sia l'occasione per darci una strategia che ci porti a essere dinamici come lo siamo stati in fasi più fortunate della nostra storia.
  Osserviamo i vostri argomenti più strategici con i fatti. Perché non abbiamo piattaforme? Perché siamo strutturalmente più deboli sulle cose di sistema e così forti sulle cose a piccolo volume e ad alto valore aggiunto? Noi abbiamo un sistema nel quale facciamo molto valore aggiunto con piccole produzioni, mentre siamo scarsi in tutte le produzioni dove si fa tanto volume e poco valore aggiunto.
  Per esempio, il valore aggiunto di Facebook è di 2 dollari per utente all'anno. C'è un valore aggiunto più basso di questo? Se vi dicessero di creare un business che fa 2 dollari di utile all'anno per utente, lo fareste? Loro hanno una fortissima capacità di costruire un progetto di dominio globale, e nel dominio globale ovviamente un piccolo valore aggiunto provoca un grande potere di mercato. Noi non ce l'abbiamo.
  Noi cosa abbiamo fatto da questo punto di vista? Abbiamo fatto Yoox, che io sappia. L'ha creato Marchetti.
  Perché lui ha funzionato, mentre non funzionano mai progetti simili? Io osservo che in dodici anni la sua quota di controllo della società è passata dal 100 per cento al 5 per cento. Lui ha lasciato che si diluisse il suo controllo sulla società, pur di far crescere la società stessa e la sua capacità di ottenere una quota di mercato significativa, come sapete, nel commercio elettronico di oggetti fashion. Questo è Yoox.
  Tipicamente la nostra famiglia non vuole perdere il controllo. Lui ha accettato di perdere il controllo azionario dell'azienda per farla crescere oltre i limiti che potevano essere consentiti dalla sua capacità di investire sull'azienda come famiglia. A me fa pensare, perché questo è un limite del nostro sistema.
  D'altra parte, Marchetti ha mantenuto la leadership culturale dell'azienda. Pur avendo ormai soltanto il 5 per cento, nessuno discute che è lui il capo. Secondo me, questo è il punto chiave. Noi non abbiamo capito la leadership culturale. Noi crediamo che si tratti di controllo. Noi pensiamo: «Non mi fido degli altri e, quindi, mi tengo tutto io». Questo è il problema.
  Quando parliamo di formazione, quando parliamo di media, quando parliamo di raccontare la visione dell'istituzione, abbiamo tutti un nemico costante, che è la fiducia negli altri. Non ci fidiamo degli altri. In Italia ognuno fa per sé e non si fida del sistema. Questo è il limite pazzesco che abbiamo.
  Il Parlamento a questo punto deve dire: «Io parlo per l'Italia». Mi chiedete cosa sarà della Repubblica fondata sul lavoro. Prima di tutto, siamo la Repubblica, quella cosa che abbiamo insieme. Questo è il compito del Parlamento, al di là di quello che fanno il Ministero dello sviluppo economico Pag. 12 e il Governo. Sono sicuro che adesso Firpo vi racconterà cosa sta facendo. A noi lo racconta, figuriamoci se non lo racconta a voi. Fondamentalmente, il Governo fa la sua parte. Il Parlamento è tutti, è la Repubblica.
  Un'istituzione come il Parlamento lavora per raccontare una visione che valga per tutti nel tempo e che sia una politica con la quale noi ci diciamo che, qualunque sia la maggioranza, gli italiani devono andare in quella direzione. Per me questo è un racconto fantastico che potete fare. Lo potete fare voi, nessun altro.
  Detto questo, ci si pongono delle domande rispetto al lavoro, alle professionalità che serviranno, alla sostituzione dei lavoratori con i robot. Per ciò che concerne l'utilizzo dei robot al posto delle braccia umane, nessuno ha mai fatto questo discorso.
  Il vero dibattito è partito da una ricerca di due economisti di Oxford, che hanno fatto un'indagine un po' aneddotica sulla quantità di lavoro intellettuale che può essere sostituita da robot e intelligenza artificiale e hanno visto che il 47 per cento dei lavori intellettuali nei prossimi dieci anni rischiano di essere sostituiti dall'intelligenza artificiale. Quello era il punto problematico. Se un robot sostituisce uno che solleva dei pesi, non c'è problema.
  Per esempio, Watson di IBM guarda le analisi mediche e fa delle diagnosi con minori errori della media dei medici umani. Watson è un pezzo di intelligenza artificiale, che analizza tutto lo scibile medico esistente e, confrontandolo con le analisi di una persona, trova qual è il suo problema con maggiori probabilità rispetto a un medico.
  La stessa cosa si può dire per la raccolta dei dati che gli avvocati devono fare prima di andare in udienza. Il robot lo fa meglio del procuratore giovane, che deve faticare per trovare questi dati. Chiaramente questo è un tema di discussione, a fronte del quale ci si chiede quali sono le nuove professionalità. Io riporto delle frasi che colgo, che mi sembrano «bucare» verso l'avanti. Ad Harvard da sei mesi non fanno altro che dire: «Dobbiamo assumere umanisti». Abbiamo raccontato per dieci anni che devono aumentare gli ingegneri e i matematici – Epifani è contento – mentre adesso passiamo agli umanisti. Perché gli umanisti? Non parliamo degli umanisti di prima, ma di umanisti consapevoli di questo passaggio che abbiamo vissuto, che portano alla capacità narrativa e operativa del nostro sistema quello che loro hanno di specifico, ovvero la loro abilità di trattare le situazioni nelle quali non c'è soltanto una risposta giusta. L'umanista sarebbe quel tipo di personaggio che sa gestire problemi nei quali non c'è solo una risposta giusta. Ad Harvard dicono che vogliono umanisti, non perché non servano più i programmatori, ma perché di programmatori da loro ne hanno già abbastanza. Adesso bisogna interpretare questa tecnologia e vedere che cosa è capace di fare. Da questo punto di vista, noi non abbiamo abbastanza tecnici, quindi non dovremmo farci prendere dalla gioia immediata, perché comunque di tecnici abbiamo ancora estremamente bisogno. Tuttavia, se possibile, dovremmo cominciare a lavorare subito sulla formazione di umanisti consapevoli della tecnica, empirici, che partono dai fatti e dai big data e che interpretano le opportunità aperte dalle nuove tecnologie.
  Cito una frase del buon Giuseppe Ungaretti del 1953. Il bit è stato inventato nel 1948. Cinque anni dopo Ungaretti commenta il computer e il suo futuro nel primo articolo de La civiltà delle macchine, una rivista fantastica di Finmeccanica dell'epoca. Il primo articolo del primo numero è di Ungaretti, che scrive: «A me le macchine piacciono un sacco, hanno il ritmo – lui era una specie di futurista – però il computer mi fa paura, perché ragiona così velocemente, avrà uno sviluppo così forte e si porterà dietro così tanta della nostra immaginazione che noi finiremo per cercare di essere come lui. Questo sarà un disastro.».
  Questa è una visione che non si è realizzata, ma assomiglia un po' a uno dei timori reali che ha la cultura umanistica italiana rispetto a quella del resto del mondo. Pag. 13
  Quando parliamo di una via italiana, in fondo si tratta di partire dalle forti componenti che abbiamo, che sono straordinarie. Voi andrete a vedere coloro che producono le macchine per l'automazione industriale, che trovano delle soluzioni che ai tedeschi non verrebbero mai in mente, perché non sono ingegneristiche, ma sono basate sul trattamento dell'oggetto macchina, sulla sua connessione con l'operaio e con i suggerimenti che vengono dalla fabbrica. Tutto questo non è pianificabile. È il nostro modo di essere ed è una capacità tecnica tutta nostra, che dobbiamo e possiamo valorizzare.
  Inoltre, occorre interpretare e connettere. Noi abbiamo sempre fatto questa interpretazione a livello autoreferenziale e locale, ci siamo sempre parlati addosso, ci siamo sempre detti come siamo bravi oppure come siamo impreparati. Adesso dobbiamo parlare agli altri, imparando a farlo con il linguaggio che gli altri capiscono.
  L'Industria 4.0 è semplicemente questo: imparare che prima di tutto si lavora con i fatti e poi con l'interpretazione. Questo è il compito che abbiamo davanti.

  PRESIDENTE. Ringraziamo di cuore il dottor De Biase, anche per queste ultime parole. Le auguriamo buon lavoro. Le faremo avere il documento conclusivo che approveremo.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta sospesa alle 12.50, è ripresa alle 13.45.

Audizione di rappresentanti
di Confindustria.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su Industria 4.0: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali, l'audizione di rappresentanti Confindustria.
  È presente il dottor Andrea Bianchi, direttore politiche industriali di Confindustria, accompagnato dalla dottoressa Farina, dal dottor Tentella e dalla dottoressa Dezi, che ringraziamo.
  Do la parola al dottor Andrea Bianchi per lo svolgimento della sua relazione.

  ANDREA BIANCHI, direttore delle politiche industriali di Confindustria. Presidente, ringraziamo molto la Commissione di averci invitato a intervenire su un tema che ha una rilevanza strategica per il nostro sistema industriale.
  Proprio in relazione all'importanza che Confindustria attribuisce al tema Industria 4.0, l'organizzazione ha avviato un'ampia consultazione con il nostro sistema, con tutte le nostre associazioni di categoria e associazioni territoriali. Tale consultazione produrrà un documento che faremo avere alla Commissione entro il mese di marzo, di cui oggi anticipo alcuni elementi essenziali che ci interessa portare all'attenzione della Commissione.
  È evidente che il tema Industria 4.0 deve essere collocato all'interno di una rinnovata attenzione da parte della letteratura, ma anche degli operatori politici, sull'importanza dell'industria all'interno dei processi di crescita.
  Nel corso degli ultimi anni la maggior parte dei Paesi industrializzati hanno prodotto documenti di politica industriale di grande rilevanza. Francia, Germania, Olanda, Stati Uniti e Cina hanno elaborato fin dal 2007 documenti su politiche di lungo periodo, con orizzonti che vanno dal 2030 al 2050.
  Sulla stessa linea d'onda si è collocata anche la Commissione europea, la quale, dopo molti anni in cui il termine «politiche industriali» era stato sostanzialmente abolito dalla sua terminologia, a partire dal 2010 è tornata a porre l'attenzione sul tema dell'industria, con una serie di comunicazioni che sono poi confluite all'interno di un documento che come Confindustria italiana, ma anche come Confindustria europea, abbiamo particolarmente apprezzato.
  Mi riferisco al documento del 2014 intitolato «Per un rinascimento industriale europeo», dove viene definito l'obiettivo del 20 per cento del peso della manifattura sul PIL, invertendo la tendenza alla deindustrializzazione Pag. 14 che ha interessato l'Europa in questi anni.
  È evidente che il caso più interessante per quanto riguarda Industria 4.0 è quello tedesco. La Germania già nel 2007, all'interno dell'High-tech strategy, il documento strategico sull'industria tedesca, ha dettato le linee sulle azioni e gli investimenti del Paese in materia d'innovazione. All'interno di questo documento per la prima volta si definisce il tema Industria 4.0.
  Mi interessava citare questo documento perché è evidente che l'Industria 4.0 è un pezzo di una strategia più complessiva di recupero di competitività dell'industria tedesca.
  Rispetto a questa attenzione dei Governi della gran parte dei Paesi industrializzati sulle prospettive di medio e lungo periodo, non possiamo non evidenziare che in Italia non esiste, o quantomeno è difficile rintracciare, un documento paragonabile a quelli che hanno dato luogo alle politiche avviate dai principali competitor europei e anche extra-europei. Faccio riferimento a Stati Uniti e Cina.
  Cos'è Industria 4.0 e quali sono gli elementi d'interesse per il sistema industriale? Industria 4.0 viene definita la quarta rivoluzione industriale. Su questo siamo assolutamente d'accordo. Per la pervasività, la rapidità e la trasversalità del suo impatto, Industria 4.0 può essere considerata veramente la quarta rivoluzione industriale, nel senso che è destinata a cambiare i meccanismi di produzione e di consumo e, quindi, l'intera filiera del sistema industriale.
  All'interno di Industria 4.0 convergono molte tecnologie. In genere siamo abituati ad associare Industria 4.0 con l'internet delle cose o con alcune specifiche tecnologie. In realtà, nelle esperienze più avanzate, si tratta di un cocktail di tecnologie molto diverse tra di loro, usate in maniera sinergica. Le tecnologie riguardano i sensori e gli attuatori, i big data, l'internet delle cose, il cloud manufacturing, l'advanced automation, l'additive manufacturing. Ci sono una serie di tecnologie che concorrono alla definizione di Industria 4.0.
  Le ricadute sul sistema industriale possono essere articolate in almeno quattro punti. La prima ricaduta positiva è sui mercati e sui settori produttivi. Naturalmente lo sviluppo di un mercato di prodotti e servizi legati all'information and communication technology (ICT) apre spazi di mercato particolarmente interessanti nei settori dell'ICT, delle telco e del digitale, che sono quelli più direttamente impattati come opportunità di crescita e di sviluppo di nuovi mercati.
  Tuttavia, come dicevo all'inizio, Industria 4.0 ha un impatto molto orizzontale, perché incide anche sull'innovazione di processo di tutti gli altri settori produttivi, garantendo una maggiore efficienza ed efficacia dei processi industriali. Particolarmente rilevante da questo punto di vista può essere il contributo per le piccole e medie imprese, che naturalmente devono entrare all'interno del processo.
  L'altro elemento che aiuta il sistema produttivo riguarda il consolidamento di supply chain, filiere di imprese o reti di imprese, tre definizioni diverse che in realtà fanno riferimento a questa opportunità di cooperazione e di collaborazione tra le imprese. La facilità nel trasferimento di dati e informazioni può servire a consolidare filiere produttive, in un'ottica di supply chain, non soltanto nazionale, ma anche di dimensione internazionale.
  Ricordo, inoltre, la disponibilità enorme di dati collegata al tema Industria 4.0, che può derivare dallo scambio di informazioni, non soltanto tra macchina e macchina o tra macchina e uomo, ma anche tra prodotto e impresa. La possibilità di monitorare e di mantenere una serie di informazioni che possono derivare dai prodotti che sono immessi nel commercio consente enormi vantaggi dal punto di vista del controllo della domanda.
  Sappiamo benissimo che Industria 4.0 viene definita la quarta rivoluzione industriale anche perché si inserisce in un contesto in cui abbiamo una domanda molto più bassa dell'offerta. Di conseguenza, la competizione sulla conoscenza della domanda è un elemento di assoluta necessità. Pag. 15
  L'ultimo elemento che vorrei sottolineare dal punto di vista dei vantaggi dell'applicazione di modelli di Industria 4.0 riguarda l'impatto sul consumo energetico delle imprese. Come noto, questo è particolarmente rilevante per il sistema produttivo italiano, che sconta un gap competitivo legato alla differenza di costo energetico. Sicuramente l'adozione di modelli di Industria 4.0 può servire anche in relazione agli obiettivi di efficienza energetica e di risparmio della CO2. In questo caso, le due grandi sfide che l'Europa sta affrontando, la sostenibilità e il digitale, convergono in soluzioni tecnologiche che possono essere compatibili con i due grandi obiettivi destinati a trasformare il sistema industriale.
  Ci interessa molto sottolineare che l'adozione di modelli Industria 4.0, anche in relazione alle possibilità di personalizzazione e customizzazione dei prodotti, rendono meno strategiche le variabili di costo dei fattori, nel senso che determinano uno spostamento dell'attività produttiva verso i sedimenti di maggiore qualità e di customizzazione, con ciò alimentando quei fenomeni di reshoring che in Europa stanno diventando particolarmente importanti.
  Noi abbiamo vissuto una fase di off-shore, derivante dalla competizione sui costi, che ha portato le imprese a delocalizzare in aree con costi più contenuti. Ora, invece, stiamo assistendo a fenomeni, dimensionalmente ancora abbastanza ridotti ma comunque significativi, di reshoring, cioè di recupero di attività manifatturiere all'interno del Paese.
  Questi fenomeni sono chiaramente identificabili negli Stati Uniti, che hanno vissuto una fase di reindustrializzazione molto significativa, ma è particolarmente importante che la Gran Bretagna, che è stato il primo Paese che ha deindustrializzato in maniera consapevole, sta sviluppando i temi di Industria 4.0 anche in un'ottica di reshoring. Questi sono i vantaggi che derivano dall'adozione di un modello. Perché il modello possa essere implementato, esistono delle precondizioni. La prima precondizione che noi abbiamo indicato all'interno del nostro documento è la formazione del capitale umano qualificato.
  È evidente che Industria 4.0 ha un impatto molto forte sul livello di qualificazione della forza lavoro. Tale impatto riguarda, da un lato, le nuove professioni.
  Da questo punto di vista, sono particolarmente interessanti le conclusioni dell'ultimo convegno di Davos, a cui credo che la Commissione possa far riferimento nel suo documento finale, nelle quali sono indicate le professioni che diventeranno più importanti e i lavori che invece rischiano di diventare più obsoleti.
  Questo impone una politica di formazione del nuovo capitale umano, ma anche una fortissima politica di riqualificazione dell'attuale capitale umano, perché non si può immaginare che l'Industria 4.0 comporti una sostituzione integrale dell'attuale forza lavoro.
  Quando noi parliamo di Industria 4.0, facciamo riferimento fondamentalmente a un modello costruito sulla base delle caratteristiche dell'industria tedesca. Questo modello è stato inventato dai tedeschi e, quindi, è costruito molto sulle caratteristiche tedesche.
  Naturalmente non mi soffermo sulle differenze tra il sistema industriale italiano e il sistema industriale tedesco, anche se nel nostro documento facciamo una disamina piuttosto attenta su questo. Vorrei concentrarmi su alcune caratteristiche fondamentali del sistema tedesco, che costituiscono la base sulla quale è costruito il modello.
  Il primo elemento è la presenza in Germania di gruppi industriali trainanti, in particolare di gruppi che hanno una forte specificità nella costruzione di sistemi per il mondo produttivo. Penso, ad esempio, alla Siemens e alla Bosch, imprese che hanno una fortissima leadership tecnologica nella costruzione di sistemi.
  Basti pensare che nella terza rivoluzione industriale, quella basata sull'automazione, ha avuto un'importanza strategica il sistema SAP, che notoriamente è stato sviluppato in Germania ed è stato adottato progressivamente da tutte le nostre imprese. Il rischio è che si stiano Pag. 16creando nuovi sistemi SAP più avanzati, che poi diventeranno lo standard sul quale si uniformeranno tutti gli altri Paesi.
  La seconda caratteristica è che anche la Germania ha una presenza importante di piccole e medie imprese. Tuttavia, le piccole e medie imprese tedesche hanno una dimensione media che è circa il doppio di quella delle piccole e medie imprese italiane e, quindi, hanno una strutturazione maggiormente orientata ai temi dell'innovazione e della ricerca, anche perché hanno una struttura finanziaria più solida rispetto alle nostre imprese, che invece sono notoriamente molto legate al credito bancario.
  L'altra differenza tra il sistema italiano e il sistema tedesco che vorrei mettere in evidenza, secondo me, è quella più rilevante: in Germania esiste un sistema strutturato d'innovazione, fondato fondamentalmente su due grandi infrastrutture.
  La prima è il Max Planck, la struttura per la ricerca di base, che ha un investimento molto rilevante e una forte unitarietà di indirizzo. È molto simile al nostro CNR, ma ha una dimensione molto più ampia e, soprattutto, una maggiore unitarietà negli indirizzi di sviluppo.
  La seconda grande infrastruttura che è alla base dello sviluppo di Industria 4.0 è il Fraunhofer, la struttura federale di trasferimento tecnologico, dentro alla quale è nata l'applicazione di Industria 4.0.
  Possiamo dire che nel sistema innovativo tedesco la riflessione in tema di ricerca è nata oltre dieci anni fa dentro al Max Planck, mentre oggi all'interno degli istituti Fraunhofer ci sono i laboratori di Industria 4.0.
  Questa è, a mio parere, la differenza più significativa con il nostro Paese, che invece ha un sistema della ricerca di base molto frammentato e un sistema del trasferimento tecnologico molto articolato, con un conflitto di governance tra regioni e Stato centrale. Infatti, la maggior parte delle attività di trasferimento tecnologico sono in capo alle regioni e, quindi, abbiamo un'estrema frammentazione dei centri di trasferimento tecnologico.
  È evidente che questa differenza rappresenta un vincolo molto forte, di cui dobbiamo tener conto nel momento in cui pensiamo di applicare il modello in Italia.
  Naturalmente non mi soffermo sulle differenze in materia di dotazioni di infrastrutture di telecomunicazione, perché è evidente che Industria 4.0 viaggerà all'interno di reti che devono essere avanzate e standardizzate. Direi che questi sono gli elementi cardine di differenza con il nostro sistema.
  L'altro elemento forte dell'industria tedesca è la creazione di filiere industriali molto compatte intorno ai grandi campioni nazionali. Queste filiere industriali, peraltro, coinvolgono molto spesso imprese italiane. Pensiamo al settore dell'automotive, dove una quota rilevante della nostra componentistica lavora strutturalmente con le grandi imprese tedesche.
  Vado rapidamente alle conclusioni, con alcune raccomandazioni per il sistema produttivo italiano.
  Se le differenze con il sistema tedesco rappresentano dei vincoli alla possibilità di esportare il modello dalla Germania verso l'Italia, è evidente che rimane una fortissima attenzione al fatto che l'Italia debba trovare una propria strada a Industria 4.0, che rifletta le caratteristiche del nostro sistema produttivo. Per poter trovare questa strada, abbiamo indicato una serie di raccomandazioni al Governo e anche alle parti sociali.
  Il primo elemento che noi abbiamo registrato è la conoscenza da parte del nostro sistema di imprese del modello Industria 4.0. Noi rileviamo una scarsissima diffusione della conoscenza sui vantaggi di Industria 4.0 nell'ambito del nostro sistema produttivo. Alcune indagini ci dicono che il modello Industria 4.0 potrebbe essere applicato all'interno di sette su dieci piccole e medie imprese italiane. Tuttavia, altre indagini ci indicano che oltre otto imprese su dieci, anche nelle aree più avanzate (penso alla Lombardia, alla Toscana e alla Liguria), hanno una scarsissima informazione su cos'è Industria 4.0. Dunque, la prima raccomandazione è una fortissima attività di sensibilizzazione. Pag. 17
  Naturalmente questa attività di sensibilizzazione chiama in causa un'organizzazione come la nostra, che dovrebbe essere in prima linea su questo versante. Noi stiamo cercando di organizzarci per fare una sorta di road show che, anche sulla base degli esiti dei lavori di questa Commissione, possa in primo luogo sensibilizzare il nostro sistema produttivo rispetto ai vantaggi di questo nuovo modo di produrre e di consumare.
  Altre raccomandazioni riguardano, invece, quella che più propriamente chiamiamo «politica industriale»: quali attività e quali azioni possono essere svolte dai Governi in materia di politica industriale.
  Da questo punto di vista, il primo capitolo riguarda sicuramente ricerca e innovazione. Come abbiamo sottolineato, alla base di Industria 4.0 c'è un forte investimento su ricerca e innovazione. Pertanto, affinché l'Italia possa beneficiare di questa trasformazione, abbiamo bisogno fin da subito di interventi a sostegno della domanda d'innovazione delle imprese.
  A questo proposito, indichiamo alcuni strumenti che potrebbero essere già esistenti oppure migliorabili, che in qualche modo potrebbero servire allo scopo.
  In primo luogo, ad esempio, potremmo immaginare una riqualificazione della nuova «legge Sabatini». A oggi la Sabatini, che è un meccanismo di sostegno agli investimenti produttivi delle imprese, è un intervento sostanzialmente flat, nel senso che non ha elementi di privilegio o di vantaggio per gli investimenti che incidano direttamente sul digitale. Il primo suggerimento potrebbe essere quello di graduare gli incentivi previsti dalla Sabatini con specifici interventi sull'acquisto di tecnologie digitali.
  Il secondo capitolo riguarda la possibilità di pensare a un credito d'imposta per la digitalizzazione. Attualmente il credito d'imposta per la ricerca e lo sviluppo può considerare alcune attività legate alla digitalizzazione, ma moltissimi degli acquisti e degli investimenti in termini di digitalizzazione sono estranei al credito d'imposta.
  Peraltro, come noto, il credito d'imposta riguarda solo le spese aggiuntive e non il totale delle spese. Una richiesta storica di Confindustria è che il credito d'imposta riguardi il totale delle spese in ricerca e sviluppo.
  Inoltre, come dicevo all'inizio, dobbiamo agire sul funzionamento del sistema della ricerca e dell'innovazione, nel senso che c'è un tema di razionalizzazione dei centri di ricerca.
  Come dicevamo precedentemente, il CNR ha degli istituti che si occupano di Industria 4.0, ma molto spesso le imprese non lo sanno, o quantomeno non c'è un chiaro indirizzo sulle attività dei nostri istituti di ricerca rispetto a delle priorità per il Paese. Se Industria 4.0 è effettivamente una priorità per il Paese – credo che lo condividiamo – è evidente la necessità che su questi temi ci sia un indirizzo forte da parte dei nostri istituti di ricerca.
  Abbiamo bisogno anche di creare delle strutture di trasferimento della conoscenza. Da questo punto di vista, il suggerimento che noi diamo è di collegarsi a quanto già previsto dalla Commissione europea, che parla di digital innovation hub, cioè della creazione all'interno del territorio di un numero limitato di strutture, che abbiano il compito di favorire il trasferimento della conoscenza verso le piccole e medie imprese.
  È un meccanismo già pensato all'interno di Agenda digitale dalla Commissione europea, per cui si tratta di mutuare e di strutturare sul territorio questo tipo di strutture.
  Naturalmente devono essere strutture a partnership pubblico-privata, con un ruolo importante delle imprese, radicate sul territorio, ma in rete tra di loro. Occorre evitare che, come succede oggi, il centro di trasferimento tecnologico che è a Reggio Calabria abbia un livello di informazione e di accesso alle tecnologie molto più basso di quello che è in Lombardia. Il problema è creare una rete di innovation hub che abbiano un livello di interconnessione tra di loro che metta le imprese nelle medesime condizioni.
  In questo contesto, riteniamo che le riflessioni che stiamo svolgendo all'interno di questa Commissione debbano informare Pag. 18e orientare anche la programmazione dei fondi strutturali 2014-2020 che il Governo italiano sta facendo.
  Come noto, il Governo italiano sta costruendo oggi la strategia di specializzazione nazionale intelligente, mentre sono già partite le venti strategie di specializzazione intelligente delle regioni. È evidente che il meccanismo in qualche modo non ha funzionato, perché prima sono state fatte le venti strategie regionali e oggi si sta costruendo una strategia nazionale.
  Penso che su questo punto siamo in estremo ritardo, ma credo che assolutamente nella costruzione, nella strategia nazionale di specializzazione intelligente il tema Industria 4.0 debba avere un ruolo particolarmente importante e orientare l'utilizzo dei fondi strutturali 2014-2020, che, come noto, sono la principale fonte finanziaria di sostegno al sistema produttivo.
  In questo contesto, proprio nella costruzione della strategia di specializzazione intelligente, sarà possibile valorizzare il grande lavoro che stanno facendo i cluster. Come noto, in Italia adesso operano otto cluster tecnologici che riguardano settori produttivi particolarmente interessanti, tutti coinvolti dal tema Industria 4.0. In particolare, il cluster che si chiama «Fabbrica intelligente» ha definito i contenuti della strategia italiana sul tema Industria 4.0. Io credo che il lavoro di quel cluster debba diventare elemento di conoscenza assoluto per la costruzione e l'utilizzo dei nuovi fondi strutturali nei prossimi vent'anni.
  Accanto all'innovazione e alla ricerca c'è sicuramente il tema della formazione del capitale umano. Da questo punto di vista, credo che le vostre audizioni abbiamo avuto grandi, importanti contributi in questa direzione. È chiaro che abbiamo bisogno, in primo luogo, di formazione, di una classe dirigente in condizione di guidare i processi di digitalizzazione dell'economia. Un primo livello di formazione riguarda, quindi, i livelli apicali delle imprese, anche in relazione a quella scarsa informazione a cui facevo riferimento.
  Possiamo ragionare. Esiste un problema di trasformazione di programmi di formazione universitaria e superiori anche a livello universitario. I recenti dati OCSE ci dicono come gli studenti italiani siano particolarmente deboli sul versante della matematica, sulle materie scientifiche, che sono più utili per l'implementazione di modelli di industria Industria 4.0. Abbiamo bisogno di valorizzare il ruolo degli istituti tecnici superiori, che sono un elemento di raccordo tra formazione professionale e impresa. Chiaramente, a livello universitario abbiamo bisogno che ci siano dei dottorati sul tema Industria 4.0.
  Sul fronte occupazionale, è chiaro che uno degli elementi di discussione è se l'Industria 4.0 riduca o aumenti il numero di posti di lavoro. Questo è, come per ogni rivoluzione, assolutamente difficile da quantificare. Non credo che saremo in condizioni di quantificare l'impatto occupazionale.
  Vorrei dire che Industria 4.0 ha una tale rilevanza sulla competitività delle imprese che sicuramente non assumerlo alimenterà disoccupazione. Se riteniamo che l'adozione di modelli di Industria 4.0 aumenti la competitività delle imprese, è evidente che non adottare modelli di Industria 4.0 riduce la competitività delle imprese, e con ciò ridurrà il livello di occupazione. È evidente che l'impatto sull'occupazione sarà diverso, come dicevo all'inizio, cioè di spostamento di figure professionali.
  Il terzo capitolo sul quale concentreremo le nostre raccomandazioni riguarda l'imprenditorialità innovativa. È evidente che proprio il movimento messo in moto da una rivoluzione, come per ogni rivoluzione, crei nuovi spazi. Bisogna immaginare allora forme di agevolazione fiscale per le start up.
  L'ultimo, o il penultimo, tema che vorrei affrontare riguarda le nuove catene del valore e la dimensione dell'impresa. È evidente, come dicevo all'inizio, che il tema della frammentazione del nostro sistema produttivo è un vincolo anche in generale all'innovazione tecnologica e alla ricerca, e quindi in particolare all'adozione di modelli Industria 4.0. È evidente, quindi, la necessità di affiancare politiche specifiche su Industria 4.0 con politiche industriali Pag. 19che puntino alla crescita dimensionale delle imprese, che nella nostra accezione può avvenire su due direzioni.
  Da un lato, c'è la crescita interna, cioè l'impresa che aumenta le dimensioni. Da questo punto di vista, gli sgravi fiscali già operanti sulle fusioni, sulla ricapitalizzazione delle imprese sono assolutamente necessari, perché possono aumentare la dimensione dell'impresa. D'altro canto, dobbiamo anche, per un sistema come il nostro, cercare di sviluppare anche la cooperazione tra imprese piccole. La crescita dimensionale non avviene soltanto per linee interne, ma può avvenire anche per linee esterne, cioè aumentando la cooperazione.
  Da questo punto di vista, storicamente Confindustria dedica un'attenzione molto forte al tema delle reti d'impresa, che rappresentano uno strumento che cerca di rendere compatibile la piccola dimensione e la flessibilità della nostra impresa con la necessità di fare massa critica. Le reti d'impresa, quindi, rappresentano un possibile strumento per favorire l'adozione di modelli di Industria 4.0.
  Non riteniamo che il nostro sistema si presti a una politica per campioni nazionali, o perlomeno abbiamo una pluralità di campioni nazionali. Riteniamo, invece, che sia assolutamente indispensabile favorire la collaborazione dal basso tra medie imprese e piccole e medie imprese. Come fare questo? Attraverso, ad esempio, l'utilizzo di bandi pubblici, privilegiando quelle imprese che presentano progetti in cooperazione o in collaborazione con altri.
  Sono convinto che le filiere produttive si sviluppino intorno a prodotti innovativi, quindi sia difficile prefigurare le filiere vincenti. Avere dei bandi che privilegiano la formazione di prodotti complessi cui partecipano diverse imprese e centri di ricerca è a mio avviso la strada per consolidare un modello di filiera italiana dal basso.
  Il punto 5) riguarda le infrastrutture di rete. Da questo punto di vista, evidenziamo la necessità di avere un sistema di infrastrutture di rete affidabile e veloce, che possano sostenere la diffusione sul territorio delle tecnologie digitali. Diamo un privilegio nei piani di sviluppo della banda larga alla copertura delle aree industriali e dei distretti industriali. Come sappiamo, il fallimento di mercato non riguarda soltanto le aree marginali, ma ci sono intere aree industriali del nord e distretti industriali che attualmente hanno un livello di dotazione infrastrutturale più basso rispetto ai competitori. Abbiamo bisogno, quindi, che il piano di diffusione della banda larga guardi in primo luogo ai distretti industriali e alle aree industriali. Naturalmente, su questo invitiamo il Governo a proseguire sul tema della diffusione della rete.
  L'ultimo tema riguarda la regolazione gli standard: interoperabilità e sicurezza. È evidente che anche questo è un tema amplissimo. Lo pongo all'ordine del giorno, nel senso che è una questione assolutamente determinante, dando una sola indicazione: bisognerebbe cercare di avere degli standard open, attraverso meccanismi di open innovation, cioè evitare meccanismi proprietari.
  Naturalmente, la questione verrà affrontata a Bruxelles. La Germania sta spingendo, avendo gran parte dei leader sistemisti per l'adozione di standard proprietari, mentre la battaglia di Paesi che non hanno queste leadership sarebbe quella dell'adozione degli standard di livelli di interoperabilità più aperti possibile.
  Credo che questa sia l'agenda delle questioni che come Confindustria vorremmo portare all'attenzione del Parlamento e del Governo nella piena consapevolezza, e ribadisco, che questo tema del digitale insieme al tema della sostenibilità sono le due grandi questioni che condizioneranno nei prossimi dieci anni la sopravvivenza del nostro sistema manifatturiero.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il direttore Bianchi.
  Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  CRISTINA BARGERO. Ringrazio il dottor Bianchi, perché la sua relazione è stata molto esaustiva. Ho un paio di questioni di merito da porle. Pag. 20
  Una riguarda la ricerca. Vediamo che il modello tedesco, o anche quello statunitense – gli Stati Uniti sono il Paese più liberista – prevede una partnership pubblico-privato nella ricerca, e credo che questo sia l'unico sistema efficace, ma c'è un grosso investimento pubblico di base prima. Penso ad ARPA, ma anche al Max Planck, finanziato con fondi pubblici. Probabilmente, quindi, occorrono maggiori risorse da parte del Governo italiano nei confronti della ricerca di base.
  In secondo luogo, sempre riguardo alla ricerca privata, il nostro credito d'imposta non è ancora sufficiente per stimolare la ricerca privata o è ancora di dimensioni esigue, ma è più efficace un credito d'imposta legato alla ricerca privata o uno che vada anche verso i fondi che il privato destina ai centri di innovazione e di trasferimento tecnologico all'università? Questo è un dibattito presente nella letteratura.
  Un'altra questione riguarda le politiche industriali. Noi soffriamo anche la mancanza di politiche industriali. Per molti anni nel nostro Paese probabilmente è stata più forte rispetto agli altri Paesi europei. Occorrerebbero delle politiche industriali verticali. Non abbiamo ancora individuato i settori in cui investire in questo Paese. La Mazzucato ci dice che gli Stati Uniti hanno fatto alcune scelte strategiche. La Germania anche nell'high tech strategy ha fatto scelte strategiche su alcuni settori. Il nostro Paese sì ha individuato, ma probabilmente sono troppe, le specializzazioni intelligenti.
  Infine, è meglio seguire un modello tedesco o uno francese per le politiche industriali riguardo i poli di innovazione? Forse il modello che la Francia ha seguìto nella Nouvelle France Industrielle è più simile a come è strutturato oggi il nostro Paese e alle deleghe che hanno le regioni sui fondi strutturali. Io ho un po' di timore riguardo a quello che stanno facendo le regioni e alla mancanza di una regia nazionale, che, come lei ha detto giustamente, doveva essere fatta a priori.

  LUDOVICO VICO. Benvenuto ai rappresentanti di Confindustria, al dottor Bianchi, che mi fa piacere rivedere in questa circostanza.
  Ovviamente, porrò le mie domande come sempre. La prima questione è: quante sono le aziende iscritte in Confindustria che praticano Industria 4.0? Perché parte da lì? Perché noi siamo il Paese della rappresentanza concreta, non delle vocazioni, e non mi riferisco a Confindustria. Parlo in generale. Questo è un punto che mi collega alla seconda questione che intendo porre, quella concreta della rappresentanza così come richiesta ai sindacati dei lavoratori: la formazione.
  Io sono giunto temporaneamente a una conclusione di quest'ordine, che Industria 4.0 non è l'evoluzione di un'Industria 3.0 né una rivoluzione. Siamo dentro un contesto che si muove. I genitori, come si diceva nella precedente audizione, persino di Industria 4.0, padre e madre, in fondo sono la macchina utensile, le macchine a controllo numerico, che sono state la prima evoluzione di quell'industria classica che conoscevamo.
  Quando siamo arrivati a Industria 3.0, abbiamo incontrato ad un tratto il Boeing 787, il Dreamliner con il carbonio, o anche la protesi dentaria, fino al 3D. Ora siamo arrivati a Industria 4.0, stiamo parlando di una cosa, come lei, dottor Bianchi, ci ha detto, e anche chi l'ha preceduta – c'è un'uniformità di lettura – che a un certo punto guarda al capitale umano, oltre all'impresa, che do per scontata.
  Nel momento in cui guardiamo al capitale umano e alla sua formazione, non c'è una formazione come fu nell'epoca fordista che preventiviamo: ci servono i saldatori, ci servono i carpentieri, in legno o in ferro. Non è così. È un po' già con l'Industria 3.0. Da questo punto di vista, c'è un'evoluzione. Forse la sto prendendo un po' alla lontana, ma cercherò di essere breve, perché sto seguendo un filo.
  Abbiamo bisogno di osservare sul campo che cosa accade. Il suo luogo più straordinario di formazione è il campo, la filiera. Se è così, ed escludo che non sia così, ma lo metto in dubbio – cogito ergo sum, per fare una citazione – il carattere della formazione porterà con sé anche un Pag. 21altro tipo di evoluzione: un nuovo tipo di contratto per la definizione del rapporto di lavoro. Quale nuova contrattualizzazione? Il punto che si riproporrà negli esperimenti che la sua associazione sicuramente farà – in una prossima audizione magari potrà portare qualche esperimento diretto – dovrà farci comprendere il tempo di lavoro, il tempo supplementare, come si intersecano tra loro, fino alla declaratoria. Quello che sto dicendo, però, è il passato, non sarà anche il futuro, ma è solo un'opinione che metto in campo.

  LORENZO BECATTINI. Ringrazio il dottor Bianchi, perché ci ha presentato un quadro molto razionale, con interventi specifici ben descritti su come il nostro Paese potrebbe affrontare questo tema, e anche per il fatto che queste indicazioni provengono da una importante associazione di categoria, che immaginiamo abbia il polso della situazione diretto nel rapporto con le imprese associate. Naturalmente, sappiamo che il quadro di oggi dà una penalizzazione rispetto al passato, quando le associazioni rappresentavano la larga parte di imprese. Oggi, lo scenario è diverso, tuttavia essere a contatto con gli associati è già un segnale importante.
  Pongo una sola domanda, che faccio precedere da due considerazioni. Lei ha tracciato il quadro realistico di una necessità, di una politica nazionale che riassuma tutte le indicazioni che ha formulato dal punto di vista del credito d'imposta, del sostegno con la nuova «legge Sabatini» e così via. Tutto ciò rafforzerebbe l'idea di una politica nazionale anche per evitare questo schema sul trasferimento tecnologico che vede posizioni di una regione diversa rispetto alle altre. È una prima scelta di natura «politica», di politica industriale, che credo sia giusta.
  La seconda considerazione è che c'è un tema anche europeo. Ha accennato al tema degli standard, alla posizione della Germania o di altri. Naturalmente, quando parliamo di Industria 4.0, molto spesso il ragionamento si ferma al rapporto tra Italia e Germania evidenziando le differenze, ma il tema non è esaurito da questa relazione. Essendo, infatti, Industria 4.0 una cosa importante, bisognerebbe inquadrarlo in una dimensione veramente europea.
  L'osservazione che, però, vorrei fare è questa. Posto che è meritorio il fatto che vi sia una prima opera di alfabetizzazione, che può essere compiuta anche dalle associazioni dal punto di vista del rapporto con le imprese, mi domando questo: a fronte di una caratteristica italiana, per cui ritroviamo la nostra eccellenza in prodotti che hanno un'alta qualità, come l'automazione, non sarebbe il caso che tutte quelle politiche in ambito nazionale che sono state descritte venissero concentrate non su tutto lo scibile umano dell'industria o del sistema produttivo, ma su quei settori che sono forti, dove meno di altri temiamo la concorrenza, e anzi nei quali possiamo essere capaci di essere ancora leader? Mi riferisco a una selezione dei settori sui quali operare.
  Mi sembrava che anche la collega Bargero avesse centrato bene questa considerazione, in modo da costruire una politica industriale su base nazionale, iscriverla in un quadro europeo, ma possibilmente concentrarla in settori in cui siamo forti e possiamo mantenere la nostra leadership.

  ALBERTO BOMBASSEI. Ringrazio i rappresentanti di Confindustria, perché direi che l'esposizione è stata molto chiara ed esaustiva. Credo che cominciamo veramente a capire esattamente tutti che cos'è quest'Industria 4.0.
  Francamente, però, forse è una mia deformazione professionale, proverei a scendere sul concreto. Mi piacerebbe capire, conoscere l'esperienza parallela vissuta da Confindustria – credo che alcuni settori siano più avanti, che in altri non ci sia una particolare organizzazione di coordinamento – e le raccomandazioni sulle prime dieci azioni che vorreste suggerire alla parte politica perché possa attuarsi Industria 4.0 in concorrenza con gli altri Paesi non solo europei, ma che comunque non ci faccia perdere ulteriore spazio e tempo rispetto agli altri Paesi.
  Mi piacerebbe che ci fosse una proposta concreta, che chiaramente potremmo esaminare, ma vorrei sapere quali sono le proposte che avete captato, visto che siete Pag. 22in contatto con tutto il mondo industriale. Sarebbe importante sapere esattamente che cosa pensano, al di là del primo passaggio dell'alfabetizzazione, che condivido perché anche noi continuiamo a fare una fatica enorme a cercare di far capire che questo è un problema serio.

  LORENZO BASSO. Vorrei rivolgere cinque domande abbastanza dirette. È stata molto esaustiva la relazione, e anch'io ringrazio, per cui sono più interessato ad alcuni approfondimenti.
  Lei ha toccato in maniera molto approfondita il tema della ricerca. Non nascondiamo che c'è un dibattito in corso in questo momento anche rispetto a progetti lanciati sullo schema di una ricerca diffusa sul territorio che fa più riferimento alle università rispetto a una ricerca che si concentra in alcuni grandi centri. Quello del Fraunhofer, che avremo anche occasione di approfondire, è un modello più concentrato, in cui si mettono risorse in maniera forte su alcuni canali tematici, e su quei settori, su quei canali si vanno a inserire maggiori risorse. Qual è, anche dal punto di vista delle aziende, quindi dall'osservatorio parziale rispetto al sistema Paese ma importante, la maggiore necessità?
  La seconda domanda riguarda gli standard. Lei ha accennato, appunto, a quest'esigenza di standard aperti. Per quanto riguarda il digitale, stiamo affrontando come X Commissione la comunicazione europea e due proposte direttive per quanto riguarda il digital single market, in cui l'Italia sta portando questa posizione di standard aperti. Nello stesso tempo, esiste il problema che lo standard limita in parte l'innovazione. Tutte le innovazioni si basano sul superamento dello standard passato e sull'inserimento di un nuovo modello che diventa standard nel momento in cui produce una maggior valore al prodotto.
  Essendo il sistema italiano anche basato sulla capacità di innovazione creativa, soprattutto in termini manifatturieri, più che per quanto riguarda il settore digitale, questo può essere un problema: qual è la vostra posizione al riguardo?
  In terzo luogo, lei ha fatto un lungo elenco dei vantaggi del sistema tedesco nell'intraprendere il passaggio al modello di Industria 4.0. Ci sono, e spero che la risposta sia positiva, dei vantaggi, e può farcene un elenco, del sistema italiano? Quali punti rafforzare già esistenti nel sistema italiano che possono essere un fattore di competitività rispetto a quello tedesco?
  In quarto luogo, il costo dell'energia è sempre stato uno dei problemi di competitività del sistema Italia rispetto ai Paesi europei prima ancora che mondiali. Molte delle tecnologie abilitanti di questa nuova rivoluzione industriale consentono una drastica riduzione del consumo dell'energia e la produzione localizzata, che può essere un sistema di vantaggio. È possibile anche dal punto di vista della grande manifattura e dell'impresa energivora utilizzare e ottimizzare i processi di queste nuove tecnologie?
  Infine, nella sua audizione il rappresentante della Repubblica federale tedesca, responsabile dei programmi per l'Industria 4.0, ci ha descritto come uno dei fattori abilitanti per il sistema tedesco il sistema di governance tra imprese, forze sociali, realtà istituzionali e sistema della ricerca: è possibile pensare in Italia, nonostante le note difficoltà a fare rete e sistema, un tavolo nazionale che metta insieme questi quattro attori per definire una via italiana all'Industria 4.0?

  PRESIDENTE. Prima di passare la parola ad Andrea Bianchi, vorrei fare alcune considerazioni.
  Dalle cose che ha detto qualche indicazione può essere utile e ci ragioneremo. Penso, in modo particolare, al problema delle agevolazioni fiscali degli investimenti rispetto agli strumenti che abbiamo. Questa è una questione secondo me essenziale. Tra tutti i dati sul nostro andamento dell'economia, compresa l'economia industriale e i settori manifatturieri, il punto vero su cui ancora non ci siamo sono i livelli degli investimenti.
  Continuiamo a discutere in un modo o nell'altro sull'occupazione, il PIL. Il punto cruciale è quello. Basti pensare che gli investimenti son calati del 25-26 per cento Pag. 23nel giro di otto anni, cioè abbiamo avuto un quarto di investimenti in meno, e nel 2015 gli investimenti fissi lordi – lo ricordava, peraltro, un articolo di Il Sole 24 Ore – sono aumentati dello 0,8. Gli investimenti non possono aumentare al ritmo del PIL essendo calati tre volte il PIL negli ultimi otto anni. Se vogliamo rimetterci in equilibrio, bisogna che gli investimenti crescano almeno tre volte la crescita del PIL nei prossimi tre anni.
  Se questo non avviene, o Industria 4.0 o costruzioni o quello che volete, il futuro si assottiglia, c'è poco da fare. È questo il cuore del problema del nostro sistema produttivo. Siccome abbiamo, come dicevo prima del settore turistico, una qualche pigrizia anche imprenditoriale – naturalmente, non parlo di quelli che investono, innovano e non a caso poi conquistano mercati internazionali, ma il grosso del nostro sistema investe poco – è evidente che qui si gioca il potenziale anche attorno ai temi dell'economia. Per questo dicevo che è un ragionamento sul quale dobbiamo per forza ritornare.
  Do la parola al dottor Bianchi per la replica.

  ANDREA BIANCHI, direttore delle politiche industriali di Confindustria. Vi ringrazio molto per la ricchezza delle domande, perché testimonia l'interesse all'interazione. Vado in ordine.
  Onorevole Bargero, dico senza remore che la ricerca di base è prevalentemente pubblica, ha delle caratteristiche di incertezza dei risultati e di vantaggi differiti in un tempo molto ampio che sono il campo di elezione dei fallimenti di mercato. In tutti i Paesi avanzati, di stampo sia liberale sia dirigistico, relativamente al tema della ricerca di base, c'è una fortissima prevalenza dell'investimento pubblico.
  È evidente che poi l'investimento pubblico può essere realizzato sia in forma diretta, cioè attraverso istituti pubblici che operano nel settore della ricerca di base, sia in forma indiretta, cioè col finanziamento della ricerca di base che svolgono anche le imprese stesse. Le imprese, infatti, non sviluppano solo il prodotto. Molte imprese investono anche a monte sul tema della ricerca di base. Abbiamo bisogno di una strutturazione di una ricerca di base attraverso la partnership pubblico-privata.
  Quali sono le esperienze più interessanti che abbiamo analizzato? Sicuramente gli Stati Uniti stanno facendo degli investimenti sulla ricerca di base particolarmente importanti, ad esempio legati a grandi traiettorie di crescita. Immagino gli investimenti programmati dall'amministrazione Obama nel settore delle rinnovabili o dello sviluppo delle energie alternative. Lì una massa critica di investimento pubblico molto forte sta generando investimenti privati.
  Sono d'accordo sulla sua interpretazione del libro della Mazzucato, che fondamentalmente ci dice che, rispetto alle teorie classiche dell'economia, in cui in cui c'è un effetto spiazzamento tra investimento pubblico e privato, l'elemento di novità portato dai nuovi economisti (ma come immagino anche Chang o altri) è che un investimento pubblico di innovazione e ricerca ha un effetto complementare rispetto agli investimenti privati, cioè crea le condizioni per fare investimenti privati.
  È evidente, quindi, che sul tema della ricerca pubblica c'è una forte attenzione sul livello nazionale. L'Italia ha un livello di ricerca pubblica comunque più basso rispetto agli altri Paesi. Abbiamo circa lo 0,5 per cento del PIL di ricerca pubblica rispetto a target più alti di altri Paesi. Scontiamo un problema di deficit di bilancio, al quale difficilmente riusciremo a far fronte, ma abbiamo un problema di razionalizzazione dell'intervento.
  Nella proposta che stiamo mettendo a punto come Confindustria sulla politica industriale, stiamo cercando di ragionare su come concentrare l'intervento pubblico nelle fasi a monte della ricerca, e su come usare per le fasi a valle strumenti di mercato. Immagino il tema delle garanzie, delle banche di sviluppo, del reshoring, che possono intervenire sulla fase di sviluppo del prodotto. Mentre noi attualmente abbiamo un sistema di incentivazione alle imprese flat, per cui finanziamo sia ricerca di base sia sviluppo precompetitivo, abbiamo invece bisogno di razionalizzare quest'intervento Pag. 24 privilegiando interventi pubblici diretti sulla fase a monte e di mettere a punto una serie di meccanismi anche di finanza pubblico-privata per le fasi a valle.
  Da questo punto di vista, il ruolo che possono svolgere, come in altri Paesi, le grandi banche di sviluppo è determinante. In tutti i piani che abbiamo analizzato c'è un ruolo molto importante delle nuove banche di sviluppo. Penso alla KfW tedesca e al ruolo che ha avuto nel finanziamento per l'innovazione in Germania, alla Caisse des Dépots in Francia. Eventualmente, noi abbiamo la Cassa Depositi e prestiti, che sta diventando soggetto importante della politica industriale. È evidente, però, che abbiamo bisogno di accompagnare quest'evoluzione della Cassa depositi e prestiti in un quadro un po' più definito.
  Quanto alle politiche industriali verticali settoriali, onestamente credo che la letteratura stia un po' superando i termini settore e fattore. Sempre di più ci si sta orientando a individuare grandi traiettorie di sviluppo. La sostenibilità, l'efficienza energetica, l'Industria 4.0 sono scelte assolutamente selettive, nel senso che orientano gli investimenti su alcune grandi traiettorie, ma non discriminano per settori. Credo che questo debba essere l'approccio che dobbiamo seguire.
  Tra modello tedesco e modello francese, prenderei alcune cose dell'uno e dell'altro, e non per fare il democristiano. Sicuramente, i poli d'innovazione francesi rappresentano un'esperienza interessante. La Francia si è articolata su una serie di poli d'innovazione articolati sul territorio e risponde magari di più, rispetto al modello del Fraunhofer, alle esigenze italiane. Quello che prenderei dalla Germania è il Max Planck, una strutturazione della ricerca di base tedesca, solida.
  Onorevole Vico, non ho un dato sulle aziende iscritte e lo dicevo all'inizio che sono poche le aziende iscritte a Confindustria che praticano normalmente Industria 4.0. Ho il dato complessivo che vi dicevo all'inizio, che guardo con grande preoccupazione. Su un'indagine, fatta tra l'altro in Lombardia, Toscana. La nostra piccola impresa ha fatto una rilevazione su alcune regioni del nord, da cui emerge che sette imprese su dieci non conoscono Industria 4.0: sette piccole e medie imprese su dieci hanno fatto ancora poco per formare, attrezzarsi e capire come declinare la propria realtà aziendale col concetto di fabbrica intelligente. C'è, quindi, un arretramento.
  D'altronde, non butterei la croce soltanto sulle imprese. Pensiamo che il Max Planck della Germania nel 2007 ha parlato di Industria 4.0, e noi cominciamo a parlarne come istituzioni, anche come centri di ricerca, nel 2016. È un ritardo complessivo del Paese che rischia di essere molto penalizzante. Assumiamo una responsabilità, e infatti nel nostro action plan, che vi presenteremo entro la fine del mese, ci sarà un'azione diretta di Confindustria nell'attività di sensibilizzazione.
  Quelli del lavoro sono temi che in qualche modo esulano dalla mia diretta competenza, quindi non mi soffermo molto. Sicuramente, però, emerge che il tema dei contratti diventa uno degli strumenti per attuare Industria 4.0. La flessibilità nell'utilizzo della forza lavoro, il tema del finanziamento della formazione all'interno dei contratti saranno tra le questioni che dovranno essere poste all'attenzione della contrattazione. Un'evoluzione della contrattazione in questi termini è assolutamente necessaria. Non entro maggiormente nel dettaglio proprio perché è una materia per la quale c'è una responsabilità politica molto forte di cui non ho diretta conoscenza.
  Onorevole Becattini, sugli standard torno a dire quello che ho detto in premessa. Sicuramente, quella degli standard aperti è una questione su cui dobbiamo insistere. Non aggiungo altro.
  Quanto all'alfabetizzazione e ai settori forti su cui puntare – e risponderò anche alla domanda sull'elenco dei punti di forza della Germania, ce ne sono anche dell'Italia – sicuramente possiamo contare sul fatto di essere stati tra i protagonisti, cui anche l'onorevole Vico faceva riferimento, della terza rivoluzione industriale. Il tema dell'automazione e della presenza dell'industria italiana nel settore dell'automazione Pag. 25 è stato uno dei protagonisti della terza rivoluzione industriale. È evidente che questo ci dà un vantaggio competitivo del transitare verso modelli di automazione in fabbrica a modelli di automazione inter-fabbrica. Il passaggio che stiamo vivendo, infatti, è un po' questo.
  L'automazione non è un processo di questi anni. Credo che la forzata automazione – parlo davanti a Bombassei – sia un processo di cui si parla dagli anni Settanta. Su questo tema siamo stati assolutamente dei protagonisti industriali del settore. Oggi, stiamo parlando di un'automazione allargata fuori dai cancelli della fabbrica, quindi di un'intelligenza che viene applicata alle macchine in fabbrica, ma anche al prodotto e alla relazione di filiera. Questo è l'elemento che dobbiamo maggiormente sviluppare, partendo comunque da una base di conoscenza e industriale particolarmente forte nel settore della meccanica. Questa è la risposta.
  L'altro elemento che dobbiamo valorizzare è la nostra dimensione di cooperazione industriale. Non dobbiamo dimenticare che la nostra competitività negli anni Settanta e Ottanta si è basata molto sui distretti industriali, che erano un modello di cooperazione sul territorio. Lo sviluppo di nuove tecnologie ci consente di aprire il territorio a cooperazioni più ampie, ma quel modello di cooperazione tra imprese, cooperazione tra piccoli, ben si adatta a Industria 4.0.
  Pertanto, questo è il secondo elemento su cui far forza. Il primo è una forte presenza della meccanica, in particolare del settore dell'automazione; il secondo è una predisposizione naturale delle nostre piccole imprese non tanto a crescere verticalmente, ma a cooperare, prima sul territorio, ora sulla rete. È chiaro che questo comporta anche un cambiamento culturale.
  Quanto ai settori del made in, leggevo ieri sera un contributo importante della nostra associazione Federalimentare, che ci parlava delle potenzialità per esempio nel settore dell'agro-food che derivano da Industria 4.0. Quel modello funziona anche nei settori di maggiore specializzazione sul made in.
  Quanto alle prime dieci azioni, onorevole Bombassei, credo che ci sia nel documento un'indicazione di alcune azioni, fermo restando che non credo in una serie di provvedimenti chiave. C'è un problema di cambiamento di sistema, che è anche più di medio-lungo periodo. Quando parliamo di creazione di un sistema per l'innovazione e la ricerca, questo è fatto è vero di credito d'imposta, digitalizzazione, defiscalizzazione, ma anche di riorganizzazione del nostro sistema della ricerca.
  Credo che nel nostro documento avremo alcune azioni da poter mettere in campo immediatamente – facevo riferimento alla nuova Sabatini, al tema dell'innovation hub, a quello del credito d'imposta – ma credo che non si possa prescindere da un'azione di sistema, di questo sono particolarmente convinto. Anche per questo i numerosi interventi di questi di crisi, i vari decreti competitività, il «decreto-legge sviluppo», hanno avuto un impatto relativo sul sistema perché erano interventi spot in assenza di un quadro di sistema. Credo che dobbiamo lavorare su due versanti.
  Vengo alle cinque domande, a cominciare da quella sulla ricerca diffusa sul territorio e sui grandi centri. Avrei risposto quando parlavo di modello francese e modello tedesco. Credo che dobbiamo dare un'amplissima libertà ai territori di organizzarsi. C'è una vitalità territoriale che va valorizzata.
  Quello che dobbiamo definire sono, a livello centrale, degli standard su centri di innovazione e trasferimento tecnologico. Stiamo lavorando per definire a livello centrale uno standard di performance dei centri diffusi sul territorio: chi raggiunge quegli standard e quelle performance accede a una rete nazionale di trasferimento tecnologico, quindi non un'azione che dall'alto definisce sul territorio l'assetto del territorio stesso, ma un'azione che dal basso fa pervenire delle richieste verso l'alto, e il Governo centrale dovrebbe avere un sistema di valutazione e standardizzazione delle performance di questi centri perché Pag. 26possono chiamarsi centri di trasferimento tecnologico.
  D'altronde, abbiamo un problema di selezione. Abbiamo avuto un modello di sviluppo che negli anni Settanta e Ottanta è cresciuto per proliferazione di soggetti. È cresciuto il numero delle imprese, delle università, dei centri di trasferimento tecnologico, delle camere di commercio, degli enti di ricerca. Probabilmente, negli anni Ottanta questo modello funzionava, perché tutto questo è quello che ci ha consentito di crescere.
  Oggi, abbiamo un problema di selettività della crescita. Dobbiamo metterci nell'ottica di selezionare. La selezione deve avvenire sulla base di criteri trasparenti. L'università sta cominciando a darsi, attraverso l'ANVUR, modelli di valutazione della ricerca di base. Manca in Italia un sistema di valutazione della ricerca industriale e dello sviluppo competitivo. Credo che il modello su cui dovremo andare sia quello di creare al centro intelligenze, conoscenze che valutino i centri sul territorio al fine di creare una rete territoriale partendo da quello che già abbiamo.
  Sugli standard aperti ho già risposto.
  Dicevo già dei vantaggi del sistema tedesco e di quelli del sistema italiano.
  Quello del costo dell'energia è un tema su cui siamo molto sensibili. Partirei da un dato: il sistema industriale italiano è quello che negli ultimi trent'anni ha fatto più efficienza energetica di tutta Europa. Abbiamo l'intensità energetica dei prodotti più bassa d'Europa, proprio perché tutto il sistema produttivo italiano in relazione all'alto costo dell'energia ha investito molto sull'efficienza energetica. Questo riguarda i settori del made in Italy, ma prevalentemente quelli energivori.
  I settori energivori attualmente sono efficienti dal punto di vista appunto dell'efficienza energetica. Il problema è che abbiamo bisogno di investimenti nel settore dell'energia, che oggi riguardano fondamentalmente il tema delle reti. Siamo passati in pochi anni da un sistema di produzione energetica concentrata su pochi grandi produttori di energia e reti di alimentazione a uno di produzione di energia molto diffusa sul territorio.
  Questo comporta la necessità di un investimento sulle reti, in questo smart grid e reti intelligenti. Credo che il tema degli investimenti sulle smart grid sia un pezzo rilevante di Industria 4.0 italiana, con le reti intelligenti collegate a un sistema di produzione dell'energia estremamente diffuso sul territorio e con livelli di alternanza di produzione estremamente elevati. Passavamo dalle grandi centrali a gas, che avevano una produzione costante sul territorio, a piccole centrali a fonti alternative, che sono molto distribuite sul territorio e con un'energia estremamente variabile. L'investimento sulle reti e sulle smart grid è assolutamente essenziale.
  Quanto alla governance, è il primo punto che dobbiamo affrontare per avere una politica industriale italiana e una governance delle politiche. Su questo continuo a insistere. A mio parere, nel corso degli ultimi anni il livello di governo più sacrificato è stato quello centrale, mentre le politiche sono state fatte in Europa e nelle regioni, tanto che dialogano Europa e regioni, mentre manca o è molto debole il livello nazionale. Dobbiamo ricostruire uno spazio per il livello nazionale coerente con l'assetto del Titolo V e anche il nuovo assetto costituzionale che si creerà.
  Concludo sul tema degli investimenti. Nell'analisi di Confindustria negli ultimi anni il problema degli investimenti è stato posto. Abbiamo un problema di investimenti pubblici e investimenti privati. Il livello degli investimenti pubblici è pari al 2,2 per cento, molto lontano dal 3 per cento che avevamo fissato come Confindustria come target degli investimenti pubblici. Abbiamo un grosso problema di investimenti privati.
  Sugli investimenti privati dobbiamo agire in termini di incentivi fiscali e mettere in campo una finanza che finanzi gli investimenti. Il solo ricorso al credito bancario, nonostante i fondi di garanzia, rischia di essere insufficiente per mettere in moto una nuova stagione di investimenti. Credo che da parte delle imprese ci sia in questo momento la volontà di tornare a Pag. 27investire. Stiamo attendendo. In questa direzione un ruolo importante potrebbe avere il Piano Juncker. Anche come Confindustria stiamo cercando di capire come il piano Juncker possa servire a finanziare una nuova stagione di investimenti in Italia.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il dottor Andrea Bianchi e Confindustria. Restiamo d'accordo che ci invierete, non appena sarà pronta, la vostra relazione scritta.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14.50.