XVII Legislatura

X Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Venerdì 12 febbraio 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Epifani Guglielmo , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SU «INDUSTRIA 4.0»: QUALE MODELLO APPLICARE AL TESSUTO INDUSTRIALE ITALIANO. STRUMENTI PER FAVORIRE LA DIGITALIZZAZIONE DELLE FILIERE INDUSTRIALI NAZIONALI

Audizione del Prof. Marco Cantamessa del Politecnico di Torino.
Epifani Guglielmo , Presidente ... 3 
Cantamessa Marco , professore ordinario presso il Politecnico di Torino ... 3 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 8 
Galgano Adriana (SCpI)  ... 8 
Da Villa Marco (M5S)  ... 8 
Benamati Gianluca (PD)  ... 8 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 9 
Cantamessa Marco , professore ordinario presso il Politecnico di Torino ... 9 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 10 

Audizione di Luca Scarani, docente a contratto dell'Università commerciale Luigi Bocconi:
Epifani Guglielmo , Presidente ... 11 
Scarani Luca , docente a contratto dell'Università commerciale Luigi Bocconi ... 11 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 15 
Galgano Adriana (SCpI)  ... 15 
Scarani Luca , docente a contratto dell'Università Commerciale Luigi Bocconi ... 15 
Da Villa Marco (M5S)  ... 16 
Scarani Luca , docente a contratto dell'Università Commerciale Luigi Bocconi ... 16 
Da Villa Marco (M5S)  ... 16 
Scarani Luca , docente a contratto dell'Università Commerciale Luigi Bocconi ... 16 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 16 

Audizione di rappresentanti dell'Osservatorio Smart manufacturing del Politecnico di Milano:
Epifani Guglielmo , Presidente ... 16 
Macchi Marco , direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano ... 17 
Miragliotta Giovanni , direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano ... 17 
Macchi Marco , direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano ... 17 
Miragliotta Giovanni , direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano ... 18 
Macchi Marco , direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano ... 19 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 21 
Galgano Adriana (SCpI)  ... 21 
Miragliotta Giovanni , direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano ... 21 
Scuvera Chiara (PD)  ... 22 
Macchi Marco , direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano ... 22 
Miragliotta Giovanni , direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano ... 22 
Basso Lorenzo (PD)  ... 23 
Miragliotta Giovanni , direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano ... 23 
Macchi Marco , direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano ... 23 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 24 
Miragliotta Giovanni , direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano ... 24 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 24 

Audizione di Luca Beltrametti, professore ordinario presso l'Università degli studi di Genova:
Epifani Guglielmo , Presidente ... 24 
Beltrametti Luca , ordinario dell'Università degli studi di Genova ... 24 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 29 
Benamati Gianluca (PD)  ... 29 
Becattini Lorenzo (PD)  ... 30 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 30 
Beltrametti Luca , professore ordinario dell'Università degli studi di Genova ... 30 
Becattini Lorenzo (PD)  ... 30 
Beltrametti Luca , professore ordinario dell'Università degli studi di Genova ... 30 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 30 
Beltrametti Luca , professore ordinario dell'Università degli studi di Genova ... 30 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 31 

Audizione di rappresentanti dell'Istituto Italiano di Tecnologia (IIT):
Abrignani Ignazio , Presidente ... 31 
Majorana Salvatore , Technology transfer dell'Istituto Italiano di Tecnologia ... 31 
Metta Giorgio , Deputy Director dell'Istituto Italiano di Tecnologia ... 34 
Majorana Salvatore , Technology transfer dell'Istituto Italiano di Tecnologia ... 35 
Abrignani Ignazio , Presidente ... 35 
Basso Lorenzo (PD)  ... 35 
Abrignani Ignazio , Presidente ... 35 
Majorana Salvatore , Technology transfer dell'Istituto Italiano di Tecnologia ... 35 
Becattini Lorenzo (PD)  ... 36 
Majorana Salvatore , Technology transfer dell'Istituto Italiano di Tecnologia ... 36 
Abrignani Ignazio , Presidente ... 36 

Audizione di rappresentanti del Consiglio Nazionale delle ricerche (CNR):
Abrignani Ignazio , Presidente ... 36 
Conti Marco , direttore del Dipartimento ingegneria, ICT e tecnologie per l'energia e i trasporti del Consiglio Nazionale delle Ricerche ... 36 
Fornasiero Rosanna , ricercatrice dell'Istituto di tecnologie industriali e automazione (ITIA) del Consiglio Nazionale delle Ricerche ... 38 
Abrignani Ignazio , Presidente ... 41 
Benamati Gianluca (PD)  ... 41 
Abrignani Ignazio , Presidente ... 41 
Conti Marco , direttore del Dipartimento ingegneria, ICT e tecnologie per l'energia e i trasporti del Consiglio Nazionale delle Ricerche ... 41 
Benamati Gianluca (PD)  ... 42 
Conti Marco , direttore del Dipartimento ingegneria, ICT e tecnologie per l'energia e i trasporti del Consiglio Nazionale delle Ricerche ... 42 
Abrignani Ignazio , Presidente ... 42 

Audizione di Stefano Denicolai, professore associato presso l'Università degli studi di Pavia:
Epifani Guglielmo , Presidente ... 43 
Denicolai Stefano , professore associato dell'Università degli studi di Pavia ... 43 
Auricchio Ferdinando , professore ordinario dell'Università degli studi di Pavia ... 44 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 48 
Galgano Adriana (SCpI)  ... 48 
Basso Lorenzo (PD)  ... 48 
Auricchio Ferdinando , professore ordinario presso l'Università degli studi di Pavia ... 48 
Denicolai Stefano , professore associato dell'Università degli studi di Pavia ... 49 
Epifani Guglielmo , Presidente ... 49 

Allegato 1: Documentazione depositata dal professor Marco Cantamessa del Politecnico di Torino ... 50 

Allegato 2: Documentazione depositata dal professor Luca Scarani dell'Università Luigi Bocconi ... 55 

Allegato 3: Documentazione depositata dai rappresentanti dell'Osservatorio Smart manufacturing del Politecnico di Milano ... 75 

Allegato 4: Documentazione depositata dal professor Luca Beltrametti dell'Università degli Studi di Genova ... 94 

Allegato 5: Documentazione depositata dai rappresentanti dell'Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) ... 108 

Allegato 6: Documentazione depositata dai rappresentanti dell'Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) ... 115 

Allegato 7: Documentazione depositata dai rappresentanti del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) ... 150 

Allegato 8: Documentazione depositata dai rappresentanti del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) ... 156 

Allegato 9: Documentazione depositata dal professor Stefano Denicolai dell'Università degli Studi di Pavia ... 171 

Allegato 10: Documentazione depositata dal professor Stefano Denicolai dell'Università degli Studi di Pavia ... 190

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GUGLIELMO EPIFANI

  La seduta comincia alle 9.30.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del Prof. Marco Cantamessa del Politecnico di Torino.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su «Industria 4.0»: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali, l'audizione del Prof. Marco Cantamessa del Politecnico di Torino.
  Do subito la parola al professore per la relazione introduttiva.

  MARCO CANTAMESSA, professore ordinario presso il Politecnico di Torino. Grazie, signor presidente. Onorevoli membri della Commissione, vi ringrazio innanzitutto dell'invito a questa audizione che va a toccare un tema che è di importanza strategica per il futuro dell'industria del nostro Paese.
  Porto un contributo che nasce da una duplice prospettiva che deriva dal mio essere docente di tecnologie e sistemi di lavorazione presso il Politecnico di Torino, ma anche dal mio impegno nel settore delle start-up e delle spin-off universitarie. In questo ambito, è dal 2008 che presiedo l'Incubatore di imprese innovative del Politecnico di Torino, che è uno dei principali a livello europeo; dal 2014 presiedo anche l'associazione PNICube, l'associazione degli Atenei e degli incubatori universitari che offrono percorsi di accompagnamento all'imprenditorialità.
  PNICube ha 39 soci che contribuiscono, con il supporto dato a spin-off e a start-up, alla nascita di circa il 20 per cento delle start-up innovative italiane, che è una parte numericamente consistente e soprattutto altamente qualificata dal punto di vista degli asset tecnici che vengono effettivamente portati sul mercato.
  Per darvi qualche dato numerico, in Italia nascono circa 200 start-up ogni anno, tra spin-off universitari riconosciuti ai sensi della normativa e altre start-up che sono o spin-off di fatto (il giovane ex allievo che si mette a costituire un'impresa) o, molto interessante, start-up che nascono da imprenditori esterni che però decidono di venire presso l'università per farsi – diciamo in gergo – «incubare».
  Abbiamo fatto una ricognizione informale e negli ultimi anni stimiamo che circa il 40 per cento di questi progetti possano in qualche modo essere ricondotti a Industria 4.0.
  Svilupperò la relazione, però evitando di farvi una lezione su che cos’è Industria 4.0, in quanto le tematiche le potete trovare in tantissimi report. Proporrei, invece, di iniziare con una lettura delle opportunità e delle minacce che per il nostro Paese conseguono a questo cambiamento e Pag. 4poi condividere alcune considerazioni che spero possano essere utili nel delineare azioni di politica industriale.
  Industria 4.0 può essere interpretato come un quadro di tipo pre-paradigmatico, nel senso che elenca gli ingredienti costitutivi di un paradigma industriale che è solamente emergente, non è ancora avvenuto. Quindi, ciò vuol dire che tutta la rivoluzione industriale della quale noi stiamo parlando deve ancora essere plasmata e deve ancora avvenire. Molto probabilmente sarà una rivoluzione industriale paragonabile a quelle passate, di cui da più parti si parla.
  Nel caso di Industria 4.0 mi preme sottolineare che non si tratta di una singola rivoluzionaria tecnologia abilitante che crea cambiamenti, come per esempio può essere stata l'elettrificazione, 120-140 anni fa; piuttosto è un bundle di tecnologie che vengono ad aggregarsi in un modo sistemico, e anche in larga parte imprevedibile, in quelli che poi saranno i nuovi paradigmi produttivi. Questi porteranno poi a conseguenze che potrebbero anche essere di natura molto diversa, anche a seconda del settore. Quindi è, sì, una rivoluzione, ma tengo a sottolineare che è una rivoluzione in divenire.
  È una rivoluzione e, come tutte le rivoluzioni, lascerà sul terreno dei vinti e farà emergere dei vincitori. I vincitori e i vinti saranno, a seconda dell'unità di analisi, le singole imprese, i settori industriali e – qui dobbiamo stare attenti – anche i singoli Paesi.
  Per avere un'idea della rilevanza di questa rivoluzione basta guardare agli investimenti previsti nel prossimo futuro da parte di player industriali. Un report che cito nel documento allegato stima investimenti nella sola Germania pari a 40 miliardi di euro ogni anno di qui al 2020. Penso che questa cifra di investimenti per 40 miliardi di euro ogni anno possa essere vista come un utile benchmark anche per il nostro Paese.
  Altro aspetto interessante è andare a vedere gli investimenti che vengono fatti in questo ambito anche da player di natura diversa, come ad esempio Alphabet (l'ex Google). Se andiamo a guardare gli ultimi risultati che sono stati presentati possiamo stimare in 4 miliardi gli investimenti fatti in scommesse un po’ matte da parte di Google, molte delle quali però sono riconducibili a quel mondo cyber-fisico che poi porta sotto il cappello di Industria 4.0.
  È una rivoluzione, però, come dicevo, in divenire, il che vuol dire che l'Italia è in tempo non solo per prendervi parte, ma anche per contribuire a plasmarla. Quando leggiamo i report degli analisti (Boston Consulting, PricewaterhouseCoopers e via elencando), non stiamo vedendo una realtà che è già avvenuta, bensì una realtà che dobbiamo ancora riuscire a costruire. Quindi, abbiamo la chance di partecipare a questa rivoluzione non solamente come adottatori passivi di tecnologie che qualcun altro ha proposto, ma anche, in parte, come un attore che riesce a proporre innovazioni. Questa deve essere la corretta ambizione per il nostro Paese.
  È un'affermazione che formulo non tanto per un vago orgoglio patriottico, ma perché possiamo tutti quanti osservare che l'Italia è comunque rimasta una grande potenza manifatturiera. Essa ancora, ma non per sempre, dispone di un elevato know-how tecnico che è diffuso nelle diverse filiere produttive, un po’ in tutto il territorio nazionale, che viene continuamente alimentato da atenei che riescono a sfornare laureati in materie tecnico-scientifiche di riconosciuta professionalità, anche se in numero ancora insufficiente.
  Noi tutti sappiamo che l'Italia soffre di un'incidenza molto bassa di laureati nel mercato del lavoro: nell'intervallo 25-34 anni abbiamo il 22,7 per cento contro la media OCSE del 40,5 per cento. Abbiamo osservato (sempre dati OCSE) che il gap si sta chiudendo per quanto riguarda l'incidenza dei laureati in materie tecnico-scientifiche, ma questo solo per i nuovi laureati. Quindi, c’è uno stock di forza lavoro che in qualche modo va recuperato.
  Se opportunamente colta, dunque, Industria 4.0 è una straordinaria opportunità per un Paese come il nostro. Provo a farvi una battuta. Quando i prodotti che definiranno l'industria del futuro diventeranno Pag. 5prodotti di massa, è molto verosimile che i prodotti – la produzione e l'ingegnerizzazione – nonché le macchine che li produrranno possa avvenire con vantaggio competitivo nel nostro Paese. Questo potrebbe avvenire a opera di imprese e imprenditori italiani, ma potrebbe anche avvenire ovviamente attirando imprese straniere nel nostro Paese.
  Limitandosi al caso delle start-up, osserviamo start-up che riescono a passare dalla prototipia alla produzione senza necessità di investimenti, perché usano la fabbrica diffusa che è sul territorio. Nel nostro incubatore abbiamo già quattro start-up nate negli Stati Uniti che hanno deciso di portare in Italia, a Torino, alcune attività, in particolare quelle di sviluppo, riconoscendo questo vantaggio competitivo che deriva dal territorio italiano.
  Se, però, queste attività dovessero localizzarsi in altri territori, ritengo che il fallimento nel cogliere questa opportunità si trasformerebbe in un'ennesima e forse definitiva riconferma del declino del Paese. Quindi, è un'opportunità che va assolutamente colta.
  Per questo motivo ritengo che dobbiamo guardare a Industria 4.0, sì, come a un'opportunità, ma non dobbiamo dimenticare anche di guardare le debolezze che potrebbero, invece, impedire di cogliere l'opportunità e la trasformerebbero in una minaccia. Quindi, provo a fare quattro osservazioni, due di natura più tecnologica e due di natura più economica.
  Dal punto di vista tecnologico, sappiamo tutti che Industria 4.0 si basa sulla road map di sviluppo dell'industria tedesca, che ha dei player sistemisti di livello mondiale. L'Italia non ha nessuna impresa paragonabile di questo calibro. Vi è, quindi, il rischio che l'eventuale affermazione di tecnologie e standard proprietari ci porti a diventare passivi adottatori di tecnologie estere. Questo vale in particolare per le piattaforme di integrazione sulle quali opereranno macchine e dispositivi.
  È significativa, al riguardo, una citazione di Henning Kagermann, uno degli attori principali nel mondo tedesco per l'Industria 4.0, secondo la quale chi avrà in mano le piattaforme governerà tutti i sistemi. Questo vuol dire che dobbiamo fare in modo che gli standard che collegheranno le miriadi di dispositivi e di macchine che faranno capo all'Industria 4.0 non siano proprietari, ma aperti, altrimenti il rischio è molto elevato.
  Questo, però, vuol dire, al contempo, non piegarsi alle road map di sviluppo stilate altrove, ma tentare di individuare anche delle norme nazionali che coniughino i trend a livello mondiale – perché non si può andare controcorrente – con le competenze e le tecnologie che l'Italia ha modo di proporre.
  La seconda riflessione deriva da un'altra considerazione. L'industria 4.0 ha sicuramente al centro la digitalizzazione, ma è importante non confondere l'industria 4.0 con il più ristretto concetto di digitalizzazione dell'industria. Bisogna lavorare sì sull'aspetto digitale, ma anche sulle nuove tecnologie di produzione, che sono complementari.
  Il primo esempio che tutti citano è l’additive manufacturing (in gergo popolare, stampa 3D) che comporta innovazioni nel processo produttivo, ma anche nei materiali impiegabili e nelle geometrie che possono essere progettate. Tuttavia, questa non è l'unica tecnologia emergente e la futura competitività dell'industria si baserà anche sulla capacità di operare altri processi di trasformazione innovativi capaci di intervenire anche su materiali non convenzionali, integrandoli tra di loro e con i processi tradizionali.
  Questo vuol dire definire una politica industriale che coltivi sì gli aspetti digitali, ma anche quelli più propriamente industriali, che, tra l'altro, si integrano strettamente con aspetti legati alla componentistica smart (per esempio i sensori). A questo riguardo l'Italia ha delle competenze importanti da mettere in campo.
  Una terza riflessione – passo alle riflessioni di natura più economica – nasce dalla natura dell'industria italiana, la quale ha significative competenze, ma anche importanti limitazioni.Pag. 6
  Lo studio della Banca d'Italia, che cito nel documento e di cui consiglio sempre la lettura, ci dice che le imprese italiane sono frammentate, sottocapitalizzate, poco aperte ad azionisti esterni, tendono alla gestione operativa familistica scarsamente manageriale, tendono poco ad adottare innovazioni sulle quali non hanno una padronanza e sono anche un po’ restie ad assumere personale laureato.
  Allora, il rischio è che una struttura industriale di questo tipo renda difficile la semplice adozione delle innovazioni relative a Industria 4.0. Mi è capitato di leggere delle note in cui si dice che le tecnologie in Industria 4.0 potrebbero ridurre quelle economie di scala che sfavoriscono le PMI. Questo, però, vuol dire che queste tecnologie devono essere adottate, ma se le imprese italiane sono così piccole e malmesse che non le adotteranno significa che i benefici potenziali non verranno fuori.
  Da ciò nasce l'esigenza che la politica industriale su Industria 4.0 non si limiti all'aspetto puramente tecnologico, ma abbia anche l'obiettivo di irrobustire la struttura delle filiere produttive.
  Provo a essere più chiaro. Nel documento preparatorio che ho avuto modo di leggere si dice che si desidera individuare un modello nazionale di fabbrica digitale che tenga conto di tutti gli aspetti specifici del sistema produttivo italiano, nonché delle dimensioni delle imprese italiane. Dunque, mi chiedo se questo tener conto consideri le dimensioni delle imprese italiane come un dato di partenza problematico oppure come un vincolo da mantenere. Infatti, nel primo caso sarebbe una scelta saggia e realistica, mentre nel secondo potrebbe essere un errore strategico che, tra l'altro, potrebbe anche portare a inibire la crescita di quelle imprese che hanno i numeri per diventare i futuri player a livello mondiale.
  Questo apre all'ultima riflessione che nasce dalla constatazione che le rivoluzioni tecnologiche sono sempre accompagnate, in modo evoluzionistico (questa è la dura realtà dell'economia), da profondi processi di mutamento delle filiere produttive: emergono nuovi player e falliscono imprese incumbent.
  Qui ha un ruolo importantissimo il settore delle start-up sia che siano esse a crescere e a diventare le grandi imprese che sostituiscono quelle che hanno chiuso, sia che fungano da vettori e portatori di innovazione, diventando semplicemente fornitori delle grandi imprese oppure venendo acquisite da queste. Ritengo, quindi, opportuno che una policy su Industria 4.0 operi in modo coordinato con quella politica positiva di supporto alle start-up e alle PMI innovative di cui recentemente si è dotato il nostro Paese.
  Segnalo, però, il permanere di significative difficoltà che le start-up italiane incontrano nella crescita. Si tratta di difficoltà che sono prevalentemente da associarsi alla debolezza della domanda di innovazione. Chi è sul campo come me lo vede tutti i giorni: il problema delle start-up è che è difficilissimo trovare qualcuno che faccia un ordine. Lo dico in modo molto semplice, ma purtroppo realistico.
  A questo riguardo, ritengo che la ben nota scarsità di venture capital che caratterizza il nostro Paese – quei famosi 100 milioni di operazioni di early stage che ci portano almeno a un ordine di grandezza in meno rispetto player europei – non sia la causa della mancata crescita delle start-up quanto il sintomo, che è segno che gli investitori italiani non vedono sufficiente ritorno dagli investimenti in questa asset class.
  Allora, la politica industriale dovrà agire in modo da stimolare la domanda di innovazione sia a livello privato, per quello che è possibile, sia a livello pubblico con importanti iniziative di public technology procurement.
  Al contempo, dovrà anche agevolare – non potrà, ovviamente, forzare – lo spostamento verso l'economia reale di una parte consistente di quella grandissima ricchezza privata italiana che oggi langue in investimenti poco redditizi o alimenta il PIL di altre economie.Pag. 7
  La Banca d'Italia ci ricorda che la ricchezza delle famiglie italiane ammonta a circa 4 mila miliardi di euro. Ecco, non riterrei irragionevole avere l'obiettivo di favorire l'allocazione dell'1 per cento di questa ricchezza nell'arco di 10 anni. Non è un enorme spostamento, ma vuol dire mobilizzare 4 miliardi di investimenti ogni anno.
  Quali sono, quindi, le possibili azioni di policy ? Stante l'ampiezza dei cambiamenti derivanti da questo paradigma industriale emergente, ma anche l'incertezza sulla sua effettiva evoluzione, non si può immaginare una politica industriale troppo dirigista. Bisognerà, piuttosto, favorire l'evoluzione e la diffusione delle tecnologie abilitanti, agevolando i conseguenti cambiamenti.
  Al contempo dobbiamo anche ricordarci di quello che è successo nel 2008 con Industria 2015, con le sue mille problematiche attuative e un impatto che osservo come limitato, anche se non ho ancora trovato nessuno studio in merito.
  Questo dovrebbe suggerirci di non ripetere gli errori del passato, ma semmai di tentare di portare innovazione anche nelle politiche a supporto dell'innovazione, che ogni tanto non vogliono essere innovate esse stesse.
  Mi permetto, pertanto, di suggerire l'organizzazione di azioni di policy in tre fasi: creare le condizioni, agevolare i processi di cambiamento e premiare i risultati.
  Bisogna creare le condizioni proprio per quello che dicevo poc'anzi: le trasformazioni associate a Industria 4.0 potrebbero non decollare a causa di carenze strutturali. Nello studio di PVC che ho citato si notava come i rispondenti dell'industria tedesca mettessero come ostacoli al cambiamento pure in Germania proprio i problemi infrastrutturali. Ecco, per noi questo vale a maggior ragione.
  Questo vuol dire sviluppare una road map tecnologica nazionale sul tema, favorire un aumento ulteriore dei laureati in discipline tecnologiche e scientifiche, assicurare la disponibilità di banda larga nei territori (questo va da sé) e operare in campo internazionale per assicurare standard aperti.
  Il secondo step è quello di agevolare i processi di cambiamento, ovvero processi di adozione delle tecnologie e di cambiamento strutturale nell'industria che vanno resi il più possibile fluidi.
  Questo vuol dire, per esempio, introdurre incentivi fiscali per operazioni di merger e acquisition, cioè fusioni e acquisizioni, in particolare se toccano le start-up; ridurre in modo significativo il cuneo fiscale per middle manager e personale di elevata qualificazione (purtroppo, capita molto sovente che si tenti, in particolare nelle start-up, di attirare personale qualificato dall'estero, che però non viene in Italia perché lo stipendio netto è la metà di quello che prenderebbe fuori; peccato che il costo aziendale sia lo stesso); accelerare i processi di trasferimento tecnologico mediante la creazione di piccoli fondi di proof of concept destinati a start-up e spin-off universitari, per portare i risultati dal laboratorio a un primo risultato iniettabile in una nuova azienda.
  Infine, l'aspetto probabilmente più importante è premiare i risultati. I tradizionali meccanismi, tipo Industria 2015, di call for proposal dove si erogano contributi e finanziamenti a tasso agevolato a chi fa dei progetti potrebbero non funzionare da soli a causa delle difficoltà di cui accennavo. È, quindi, opportuno affiancare a queste misure, che probabilmente ci saranno ancora, altre misure basate sulla domanda che, anziché premiare le tante promesse, diano una significativa ricompensa a quelli che ce la fanno davvero e, ovviamente, anche ai loro finanziatori in modo che possano appropriarsi di quel valore economico che hanno generato.
  Un esempio potrebbe essere studiare e mutuare la disciplina delle PMI en croissance (piccole e medie imprese in crescita), che i francesi hanno attuato da qualche tempo, là dove si dà un premio ex post a chi sta crescendo, evitando di tassare; si tornerà, poi, a tassare quando la crescita si sarà stabilizzata e quindi non si crescerà più.Pag. 8
  Un altro esempio potrebbe essere abbattere le aliquote sulle rendite finanziarie derivanti da investimenti nell'economia reale in crescita, quindi investimenti fatti in capitale di rischio, venture capital o private equity destinato a PMI in crescita (tutto sommato, sono investimenti che servono moltissimo all'economia nazionale, non meno di quelli in titoli di Stato), o ancora attuare un programma nazionale di public procurement of innovation, studiando e adottando il modello americano dello SBIR (Small Business Innovation Research), che vada oltre il concetto di acquisti pre-commerciali, in modo che questo programma possa agire sugli acquisti fatti non solo dalla pubblica amministrazione centrale, ma anche delle pubbliche amministrazioni locali e dalle società compartecipate pubbliche.
  Infine, sarebbe utile introdurre agevolazioni fiscali alle imprese esportatrici, per la semplice ragione che chi esporta è stato riconosciuto dai mercati come competitivo, quindi potrebbe meritare un piccolo premio ex-post.
  Vi ringrazio per l'attenzione e rimango a disposizione per eventuali approfondimenti.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, professore. Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

  ADRIANA GALGANO. Avrei due domande. La prima è relativa al dato che lei ha citato sulle start-up, che sono 200. Ecco, come lo giudica ? È un buon risultato o si può fare di più ? La seconda domanda, invece, è cosa sta facendo la Germania per sviluppare Industria 4.0.

  MARCO DA VILLA. Ringrazio il professore per la presenza. Avrei una domanda rispetto al programma interministeriale Italia Startup Visa, in cui è coinvolto il vostro incubatore. Vorrei, quindi, avere qualche informazione sui progressi e su cosa si può fare per rafforzare le università in questo programma e per far rientrare gli italiani, a cui anche lei ha accennato, che sono all'estero a svolgere queste attività innovative, cercando di riattivarli nel nostro Paese.

  GIANLUCA BENAMATI. La ringrazio, professore, in maniera non formale. Purtroppo, sono arrivato tardi, ma l'ampiezza delle riflessioni dava l'idea delle questioni da lei affrontate. Non ho domande molto puntuali e specifiche, ma piuttosto di sistema.
  Lei ha parlato di un tema che spesso non trattiamo. Mi riferisco alla questione di calare Industria 4.0 nel contesto dimensionale o strutturale del sistema produttivo italiano. Giustamente, lei rifletteva sul fatto che la similitudine con la Germania è programmatica, ma non considera il fatto che il substrato su cui si dovrebbe operare la similitudine è profondamente differente.
  Allora, rispetto ad alcune questioni che lei toccava – per esempio in riferimento a uno dei modelli, quello delle piattaforme – diceva sarebbe opportuno che anche in Italia vi fossero delle attività di sviluppo concreto su questo, a parte l'aspetto proprietario o meno. Ecco, vorrei capire meglio come questo potrebbe essere effettivamente articolato nella realtà.
  La seconda questione è sulla riflessione che ha fatto in merito alla dimensione delle aziende, che non è tipica di Industria 4.0, ma è strategica del sistema italiano perché dal credito sino al passaggio proprietario vi sono aziende che, in genere, sono a conduzione familiare o del fondatore, quindi quando c’è il salto generazionale muore una certa aliquota.
  Insomma, in Italia, in questo momento, un tema importante riguarda la crescita dimensionale. Ecco, lei ritiene che politiche che hanno a che fare con la possibilità di rinvestire utili all'interno dell'azienda o di facilitazioni per sistemi di acquisizione o di fusione e quant'altro, possano essere direttamente positivi – la domanda è un po’ retorica perché immagino la risposta, ma non è scontato sentirlo dire – anche per Industria 4.0 ?
  L'ultima questione è più di filosofia generale ed è quella che ha mosso anche Pag. 9questa indagine conoscitiva. Mi riferisco all'ultima chiamata, nel senso che il sistema manifatturiero italiano, che ha perso molto in questi anni, è – come diceva lei – di fronte a un bivio perché questo sistema, sia nell'uso della rete e dei sistemi, sia nelle nuove forme di produzione, sarà il domani.
  Lei diceva che l'Italia può vincere e perdere questa scommessa e che non c’è niente di sicuro. Ora, oltre alla descrizione del problema, qual è il suo sentiment su questo ? Quali sono le possibilità che ha effettivamente il Paese di riuscire a trasformare il sistema attuale in uno più articolato di Industria 4.0 ?

  PRESIDENTE. Do la parola al professore per una breve replica.

  MARCO CANTAMESSA, professore ordinario presso il Politecnico di Torino. Sarà difficile in pochi minuti, ma se mi consentite parto dall'ultima domanda che mi aiuta a rispondere anche alle altre.
  Si parlava di piattaforme. Non potremmo fare, però, la piattaforma italiana. Bisognerà far sì che le piattaforme che emergeranno siano aperte e non siano «brandizzate» con il logo di un singolo player che si prende tutti i dati dell'industria dei prodotti italiani, dopodiché li macina e ci fa ricchezza sopra. Come sappiamo, Facebook riesce a lavorare sui dati dei privati cittadini, quindi domani un signor X potrebbe lucrare sui dati dei dispositivi dei cittadini. Questa è, peraltro, una questione di normazione e di standardizzazione a livello internazionale.
  Sul discorso del collegamento tra piccole imprese e Industria 4.0 torno a ribadire di sì, anche perché Industria 4.0 è un insieme di investimenti non particolarmente leggeri. In sostanza, dotarsi di strumenti Industria 4.0 non è fare il sito web aziendale; è molto di più, dal punto di vista sia economico-finanziario sia delle competenze che servono per riuscire a capire che cosa fare di questa grandissima innovazione.
  Questo è il motivo per cui un'impresa che è un po’ indietro dal punto di vista finanziario e dimensionale (quindi non ha economie di scala), ma soprattutto è un po’ arretrata sul piano culturale non adotterebbe quelle tecnologie che domani potrebbero favorirla.
  Allora, le due cose vanno messe in coevoluzione. Quindi, ritengo che bisogna lavorare perché la struttura industriale di questo Paese diventi fatta più di media e grande impresa che possa adottare queste tecnologie, le quali, al contempo, favoriranno questo processo. Questo è il mio sentire.
  Dal punto di vista dell'ultima chiamata, continuo a dire che l'innovazione non è l'innesto di cose nuove sul nulla. Se permettete, cito la parabola evangelica che dice che la saggezza è quella dello scriba che prende dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove. Ecco, è esattamente lo stesso concetto: innestare delle cose nuove su un substrato di cose vecchie. Ora, le cose vecchie sono le competenze e il know-how manifatturiero che è diffuso nella nostra industria in forma soprattutto tacita.
  Siccome si tratta di know-how tacito, ovvero che è nella mentalità delle persone che ci hanno lavorato per anni, e siccome queste persone demograficamente invecchiano e tendono ad andare in pensione, c’è una finestra di opportunità se riusciamo a innestare tecnologie e idee nuove sulle competenze che ci sono nelle nostre fabbriche e nei nostri uffici tecnici. Tuttavia, dobbiamo farlo nei prossimi anni perché se aspettiamo 15 anni quelle persone e quelle aziende non ci saranno più, quindi non ci sarà nessuna eredità lasciata. Ecco, questo è molto importante.
  Passo all'altra domanda. Si parlava di Italia Startup Visa. Ecco, secondo me sta funzionando bene dal punto di vista operativo, anche perché è molto snello. I numeri, però, sono ancora insufficienti. È interessante, però, che sta attirando una certa quantità di persone soprattutto dall'Est Europa, ma anche un po’ dagli Stati Uniti. Questi, peraltro, sono processi che funzioneranno quando ci sarà il passaparola, cioè quando gli imprenditori si saranno Pag. 10insediati, si saranno trovati bene e diranno ai loro amici di venire in Italia perché qui si lavora bene.
  C’è, invece, ancora molto da fare su Italia Startup Hub, cioè la conversione dei visti per studenti extracomunitari in visti start-up senza dover tornare nel Paese d'origine. Su questo c’è un problema di scarsità di comunicazione che è abbastanza grave, quindi andrà risolto.
  Su come favorire il rientro degli italiani direi che ci son due livelli. Il primo è minimalista, cioè chiedere a questi imprenditori di farsi un giro qui e vedere quanto poco possa costare e quale eccellenza tecnica possa comportare assumere sviluppatori italiani o farsi fare dei pezzi da fornitori italiani.
  Questa, però, è una battaglia che reputo poco ambiziosa per una politica nazionale perché vorrebbe dire che diventiamo la fabbrica o l'ufficio tecnico di qualcuno che poi fa i profitti altrove. Questo può essere un primo passo, ma se ci limitiamo a questo non va molto bene.
  Il vero passo sarebbe quello di far capire che le condizioni in Italia sono cambiate davvero, quindi può essere conveniente rientrare perché, appunto, le condizioni a contorno sono più favorevoli rispetto ad altri luoghi. Si tratta di una politica di piccoli passi, in cui il primo non deve essere l'ultimo, altrimenti serve a poco.
  Secondo me, 200 start-up che nascono nel contesto universitario, su un migliaio di start up complessive che nascono in base alle legge n. 221 del 2012, sono un buon risultato perché è normalissimo che le start-up nascano fuori dal contesto universitario. Il fatto che ne nascano 200 nell'alveo dell'università, che abbiano o meno il bollino di spin-off, è tanto.
  Questo vuol dire che, forse, le università stanno facendo un bel lavoro da questo punto di vista. Tutto sommato, le nostre bistrattate università, con tantissimo volontariato, stanno mettendo in campo delle attività interessanti. Il problema è che diverse start-up molto importanti dal punto di vista dei contenuti innovativi sono proprio quelle che fanno più fatica a scaricare questa valenza innovativa a terra sul mercato. Questo, ovviamente, comporta anche una responsabilità da parte nostra.
  Riguardo alla Germania, sta facendo tantissime cose. Tutto il sistema tedesco si è mobilitato dietro a questo obiettivo. Stiamo parlando delle grandi imprese, ma anche delle famose Mittelunternehmen, cioè le PMI tedesche, che, però, sono circa dieci volte più grandi rispetto alle nostre. Infatti, PMI vuol dire tante cose diverse in Europa e in Italia.
  Soprattutto, si stanno mobilitando le università e i centri di ricerca applicata, che sono un'istituzione tedesca molto importante (Fraunhofer e altre entità del genere, che noi, ovviamente, non possiamo costruire nel giro di poco tempo). C’è uno sforzo molto corale perché si rendono conto che Industria 4.0 è per loro l'opportunità per irrobustire le industrie tedesche, ma anche per diventare fornitori in tutto il mondo. Insomma, è chiaro che a loro conviene investire in questo ambito.

  PRESIDENTE. Abbiamo visto che i tedeschi hanno questa capacità di far sistema su ogni cosa. Lo abbiamo visto anche sul problema dei rifugiati, con tutto il Paese che si è mobilitato. Lo stesso vale sulla ricerca e su Industria 4.0, con tutti i soggetti interessati nel Paese messi a sistema. Questa è la loro grande forza, ma anche uno dei problemi che abbiamo noi come sistema Paese.
  Ringrazio il professor Cantamessa del prezioso contributo, riservandoci di risentirlo man mano che il nostro lavoro procede.
  Autorizzo la pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata (vedi allegato 1).
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta, sospesa alle 10, è ripresa alle 10.05.

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Audizione del prof. Luca Scarani dell'Università commerciale Luigi Bocconi.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su «Industria 4.0»: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali, l'audizione del professor Luca Scarani, dell'Università commerciale Luigi Bocconi.
  Il professor Scarani lavora presso l'Università commerciale Luigi Bocconi, ma ha anche altre attività. Ci ha consegnato un paper, che credo ognuno di voi abbia a disposizione, che renderà più agevole la presentazione.
  Do la parola al professor Scarani per lo svolgimento della sua relazione.

  LUCA SCARANI, docente a contratto dell'Università commerciale Luigi Bocconi. Grazie, presidente. Come ha introdotto il presidente, io faccio tante cose, oltre a fare il docente a contratto in università. Principalmente faccio il commercialista e lavoro presso il CBA, che è uno studio che in passato ha fatto e tuttora fa diverse operazioni con fondi d'investimento e, quindi, si occupa molto spesso di quello che secondo me sarà il tema principale della mia trattazione odierna.
  Salto le prime slide, che sono introduttive dei lavori di questa Commissione. In buona sostanza, mi è sembrato di intuire che il ruolo sia, nella prima parte, capire lo stato dell'arte, la mappatura delle aziende orientate all'innovazione e gli investimenti pubblici e privati che sono stati messi in campo e, nella seconda parte, cercare di capire quali possono essere le priorità e gli ostacoli da rimuovere.
  Io ho deciso di cominciare con una metafora un po’ particolare. Se funziona, va tutto bene, perché magari rimane impressa. Immaginiamo di tornare all'epoca dei dinosauri: in tutto il mondo ci sono i dinosauri; un bel giorno, nel 2012, il creatore, che sarebbe il legislatore nella mia metafora, in una zona riparata da tutto il resto del mondo dove ci sono i dinosauri, crea un ecosistema nuovo. Questo ecosistema nuovo sarebbero le start-up innovative.
  È un ecosistema che ha generato delle condizioni tali per cui è venuto a crescere l'essere umano, una razza evoluta rispetto a quella di tutto l'ambiente circostante, che sicuramente ha dimostrato, all'interno di questo piccolo ecosistema protetto da tutto il mondo esterno da un passaggio molto stretto, di saper generare sviluppo e interesse dei giovani, dei soggetti investitori, del legislatore stesso e degli organi governativi, con Invitalia e con i vari programmi attuati.
  Il problema qual è ? A tutt'oggi l'ecosistema esiste; le condizioni per fare impresa limitatamente alla creazione dell'impresa, ai rapporti tra i soci, agli aspetti fiscali e agli aspetti giuslavoristi ci sono. Il problema è che, se l'omino passa il varco, dall'altra parte si trova il T-Rex e lui è lì con la clava, ovvero chi fa impresa innovativa non ha gli strumenti per crescere e per affrontare il mondo esterno.
  Mi occupo di start-up e più recentemente di PMI innovative, che non hanno ancora avuto una grande diffusione per motivi legati ad aspetti di revisione legale e ad altre questioni, ma sicuramente quest'anno ce ne saranno di più.
  La normativa in sé è molto positiva: ci sono degli sgravi sotto il profilo fiscale (le detrazioni), che non fanno mai male; ci sono gli aspetti di diritto del lavoro; ci sono una serie di facoltà che vengono concesse, per esempio la remunerazione con gli strumenti finanziari partecipativi, che è un pezzo di carta che dice: «Se le cose vanno bene, un domani una parte degli utili sono tuoi».
  Ci sono una serie di elementi positivi, anche alcune criticità, aldilà dell'ambito applicativo ristretto, nel senso che ci sono certe condizioni per start-up e PMI innovative che si può pensare di incrementare, e aldilà del fatto che l'imprenditore si trova a dover ragionare sempre nei confronti di diversi enti a compartimenti stagni. Infatti, l'Agenzia delle entrate fa le sue guide e ragiona a modo suo, però non si interfaccia con l'INPS, che non si interfaccia Pag. 12con la camera di commercio; quindi, quando un soggetto fa impresa, deve andare un po’ dappertutto per cercare di capirci qualcosa.
  I problemi che io personalmente vedo come prioritari sono: lo scarso supporto da parte del ceto bancario, la totale assenza di uno scalino intermedio tra il business angel e il venture capital, su cui torno tra poco, i tempi lunghi nella monetizzazione dei crediti, in particolare dei crediti IVA, e un rapporto carente tra università e imprese, unitamente a tematiche più complesse, che sono quelle della base erosion and profit shifting, di cui il Governo si sta occupando. Non entro nel merito delle tematiche di fiscalità troppo approfondite e internazionali.
  Quelli che vedete sottolineati, cioè il problema dell'assenza dello scalino e il problema del rapporto carente fra università e imprese, sono due punti che non ho sono sognato una notte. Nella relazione che è stata fatta dal Ministero dello sviluppo economico nel settembre del 2015 al Parlamento, a pagina 3, ci sono scritti esattamente questi due punti. Ciò che voglio dire è che alcuni degli spunti che posso lasciare a questa Commissione prendono le mosse da qualcosa che effettivamente viene avvertito anche dallo stesso legislatore come un problema.
  Credo che sul rapporto carente tra università e imprese non ci sia molto da spiegare. È chiaro che nel mondo universitario i ragazzi fanno fatica a essere collegati al mondo dell'industria e dell'impresa.
  Vengo al tema dell'assenza dello scalino tra business angel e venture capital. Di che cosa stiamo parlando ? Sappiamo tutti che un'impresa, se vuole crescere, ha bisogno di finanziamenti. Devo dire che, parlando con il mondo imprenditoriale, con i ragazzi e non solo che si lanciano nel mondo delle start-up e delle PMI innovative, tutti mi chiedono: «Come faccio a chiedere fondi per finanziare la mia attività ?»
  Sappiamo tutti che nel mondo bancario è difficile ottenere finanziamenti. Per fortuna, il legislatore ha introdotto il Fondo di garanzia per le PMI: fatto cento un prestito, 80 viene coperto dal Fondo di garanzia. Naturalmente le banche, per il 20 per cento residuo, chiedono comunque la garanzia personale, però, se non altro, il rischio viene ripartito, quindi l'intervento del legislatore è positivo.
  Oggi, se uno ha bisogno di 50 mila-100 mila euro, girando un po’ e facendo la questua, come si dice nel gergo informale, cioè andando a chiedere a tutti «ti piace la mia idea, mi dai i soldi ?», prima o poi trova un finanziatore che finanzia il cosiddetto «primo round», ovvero il primo aumento di capitale, e che dice: «mi piace, ci metto dei soldi».
  Il problema arriva dopo, in quello che io qui ho definito in gergo tecnico «il secondo round di finanziamenti», cioè quando si arriva a dire: «Io ho fatto il primo passettino, inizio ad avere delle mete e sto iniziando a vendere». Chiaramente un imprenditore deve farsi pubblicità e sostiene dei costi per sperimentazioni, che magari vanno in parte persi, soprattutto in un ambito innovativo. Ci si trova a dire: «Va bene, adesso mi servono altri soldi».
  Chi gli dà questi soldi ? Non glieli dà più il singolo business angel, la persona che può permettersi di investire; è difficile trovare in team business angel che investono, perché magari hanno già investito nel primo round e, quindi, non hanno più soldi da investire. Oltretutto, un investimento di 200 mila, 300 mila o 500 mila euro, se non si tratta di una famiglia particolarmente facoltosa o di una persona che ha redditi consistenti, è un problema.
  Da chi vado ? Vado dal fondo di venture capital ? No, il fondo di venture capital sotto a una certa soglia non investe. Lo stesso vale per Invitalia Venture, che è il fondo di Invitalia che ho menzionato qui. È un'ottima idea quella di fare un fondo che investa in questo settore, però il taglio minimo d'investimento di Invitalia è di 500 mila euro in coinvestimento fino al 70 per cento. Ciò vuol dire che ci deve essere un aumento di capitale di almeno 800 mila euro. Stiamo parlando di numeri che iniziano a essere un po’ elevati.Pag. 13
  Il problema è che c’è la fase zero, quella del cosiddetto seed, cioè quando qualcuno dice «vieni da me, ti do una scrivania e inizi a sviluppare l'idea», c’è la fase uno, non c’è la fase due, c’è la fase tre.
  Dal mio punto di vista – questo è il messaggio che voglio lasciarvi, tutto il resto sono dettagli – il legislatore deve pensare a uno strumento per far crescere gli investimenti in questa fase. Equity crowdfunding ? No, ma non perché lo strumento dell’equity crowdfunding sia sbagliato. Credo che tutti sappiate che con l’equity crowdfunding si pubblica un progetto su un sito; dopodiché, le persone che vogliono fare l'investimento e a cui piace quell'idea danno un tot di soldi.
  Qual è il problema ? Ne hanno parlato anche la stampa specializzata – ricordo una puntata di Report al riguardo – e ancora una volta la relazione fatta al Parlamento a pagina 101. I limiti oggi sono tali per cui la signora Maria, che si innamora dell'idea, che non è un investitore professionale schedato che ha un patrimonio depositato, se vuole mettere più di 500 euro deve fare la profilatura del cliente e la schedatura, ai sensi della disciplina MIFID (Markets in financial instruments directive).
  Che in Italia ci sia qualche problema relativo a investimenti più rischiosi sottoscritti da obbligazionisti purtroppo è un dato di fatto, però, dall'altra parte, mettere in moto un motore con un investimento massimo di 500 euro, altrimenti devi fare un pacco di carte alto così per tirarti fuori dagli impicci, è difficile.
  I punti che secondo me dirimono questo tema sono due e possono essere alternativi. In primo luogo, come peraltro suggerito nella relazione dal Ministero, si potrebbe rivedere pesantemente la disciplina del crowdfunding per renderlo uno strumento effettivamente adatto a iniziative di secondo round. Infatti, oggi serve a quello che vuol cominciare per fare la colletta. Questo, dal mio punto di vista, non va bene.
  Alternativamente – questa è una tematica molto complessa, però ritengo giusto portarla all'attenzione del legislatore – si può pensare alla soluzione per cui si vanno a rivedere, insieme agli organismi di vigilanza – mi rendo conto che questo è un tema molto delicato – le soglie per la regolamentazione della materia degli investimenti ai sensi del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (TUF) n. 58 del 1998.
  Cosa voglio dire ? Oggi i fondi d'investimento che vogliono fare investimenti hanno dei limiti. Le SGR hanno dei requisiti minimi di capitale di un milione di euro; bisogna fare una raccolta d'informazioni e di dati che costa molto. È chiaro che, se uno vuole fare un investimento del genere, ha un profitto solo se lo fa in grandi aziende, perché deve coprire tutti i costi fissi. Invece, se uno vuol fare degli investimenti piccoli, non gli conviene fare una SGR da un milione di euro per fare investimenti da 200 mila euro.
  Probabilmente un'attenzione a questi aspetti della disciplina del risparmio e del vigilato, ai sensi del TUF n. 58 del 1998, potrebbe essere una strada perché le aziende, quindi l'ecosistema di cui parlavamo dell'essere umano, possano avere gli strumenti giusti per interfacciarsi con il resto del mercato, cioè crescere.
  Procedo velocemente con alcuni spunti ulteriori. Questo era il concetto che mi premeva condividere con la Commissione.
  Secondo una ricerca dell'Associazione italiana del private equity e venture capital (AIFI) nel primo semestre del 2015 i cosiddetti «fondi di early stage», quelli che investono in queste operazioni di secondo e terzo round, hanno effettuato 53 operazioni e hanno investito 20 milioni, con una media di 400 mila euro. Il dato vi dice che le operazioni fatte sono un po’ pochine. È curioso che poi, al crescere del taglio del controvalore, ci siano comunque numeri consistenti di operazioni. Ci si aspetterebbe un maggior numero di investimenti nel settore dell’early stage.
  Gli investimenti in early stage sono fatti dagli operatori di early stage, cioè fondi specializzati in questo settore, solo per il 36 per cento. Ciò vuol dire che ci sono un sacco di operatori regionali pubblici (23 Pag. 14per cento) che fanno investimenti nell’early stage. Il pubblico sa che c’è un problema in questo settore e addirittura supplisce in parte con investimenti nel settore stesso.
  Sono veramente pochi quelli che fanno questo tipo di investimenti in Italia, e questo non va bene, perché, se vogliamo arrivare al terzo scalino, non possiamo avere un primo scalino alto 30 centimetri e un terzo scalino alto 1,5 metri senza niente in mezzo; dobbiamo mettere il secondo scalino, per far sì che ci sia una gradualità nell'effettuazione degli investimenti. Come ? Lo ripeto: crowdfunding oppure fondi con una disciplina un po’ più allentata rispetto a quelli che fanno operazioni molto grandi.
  Le altre leve che mi permetto di portare all'attenzione di questa Commissione sono varie e spaziano. Ce ne sono alcune a costo zero. Se la richiesta di questa Commissione era quella di proporre delle leve che eliminassero i vincoli normativi, ne ho portate alcune.
  Per quanto riguarda l'ampliamento della disciplina start-up e PMI innovative, cioè l'ecosistema, possiamo pensare di individuare nuovi codici ATECO da includere nella disciplina start-up e PMI innovative, stabilendo che anche chi fa determinate attività, pur non avendo i requisiti della disciplina, può beneficiarne, oppure possiamo pensare a nuove previsioni in senso più estensivo per rientrare all'interno della disciplina start-up e PMI innovative.
  La seconda leva è veramente molto banale. Il Ministero ha fatto delle belle guide per spiegare che cosa sono le start-up e le PMI innovative, però sui siti dell'Agenzia delle entrate, della camera di commercio e dell'INPS non ci sono informazioni precise e dettagliate per fare le proprie valutazioni su cosa si deve fare per cominciare. Si potrebbe pensare a un programma personalizzato, con mezz'ora di spiegazione su come investire in Italia, per gli stranieri che fanno il Visa start-up. Anche delle guide sarebbero sufficienti. Questo è un intervento molto piccolo, ma lo cito per dire che si può spaziare su un'infinità di temi.
  Passiamo ora agli adempimenti che rallentano, iniziando dal tema dello spesometro. Anche per poche operazioni bisogna comunque presentare la comunicazione. Con il direttore dell'Agenzia delle entrate – naturalmente non è compito solo di questa Commissione – si può pensare di esonerare alcuni soggetti dalla presentazione dello spesometro. Le comunicazioni semestrali alla camera di commercio non servono a niente; se uno ha i requisiti rimane iscritto, se non li ha più si cancella, senza stare lì ogni sei mesi a fare la comunicazione.
  Vengo ora al tema del 770 e della certificazione unica. Ieri, dopo che ho inviato le slide, apro il giornale e leggo che Rossella Orlandi dichiara: «Semplifichiamo il 770, perché così dà gli stessi dati della certificazione unica». Se vogliamo fare una semplificazione, visto che il 770 in larga parte riproduce i dati della certificazione unica, si può pensare di trovare una soluzione per evitare l'adempimento.
  La slide successiva concerne il supporto del ceto bancario, di cui abbiamo parlato, proprio perché si erogano pochi finanziamenti. Si può pensare a una modifica nel calcolo del solvency ratio, cioè il patrimonio di vigilanza, facendo pesare di meno i crediti ai piccoli, oppure a un meccanismo dual income tax, non nel senso di quello che fu introdotto dal legislatore in passato, ma nel senso di tassare con un'aliquota inferiore gli interessi attivi che provengono da finanziamenti erogati a iniziative innovative. Anziché applicare un'aliquota unica del 27,5 per cento (24 fra un po’ di tempo), in deroga, per gli interessi attivi rivenienti da finanziamenti a quel determinato settore si può pensare a un'aliquota d'imposta più bassa. Questo dovrebbe incentivare naturalmente il credito.
  Ho già sviscerato il secondo tema, quindi lo salto. Ho citato il fatto che oggi gli strumenti partecipativi possono essere utilizzati solo dalle S.p.A. e dalle start-up innovative. Tuttavia ormai lo strumento finanziario partecipativo può essere utilizzato Pag. 15da chiunque, perché è un tema molto semplice da capire; quindi, probabilmente si potrebbe estenderne la disciplina anche alle S.r.l.
  Ripeto che si tratta di un pezzo di carta; io te lo do in mano e dico: «Io ti sto pagando con questo; se un giorno faccio utili, li prendi anche tu». Chiaramente è un meccanismo d'incentivo anche per il dipendente.
  Bisogna darsi da fare di più sul tema della monetizzazione dei crediti IVA, perché ancora oggi i tempi per l'incasso dei crediti IVA, soprattutto in fase di start-up, sono troppo lunghi.
  C’è poi la tematica delle ritenute d'acconto. Oggi chi esegue una prestazione lavorativa, per esempio uno studente universitario che svolge un lavoretto, deve fare una ricevuta come prestazione di lavoro occasionale, ha la ritenuta del 20 per cento, che non si recupera, perché chiaramente fa un lavoretto e, quindi, non ha abbastanza base imponibile per utilizzare quell'importo, e oltretutto deve fare la dichiarazione dei redditi e uscire dallo stato di famiglia se supera i 2.800 euro. Obiettivamente mi sembra una soglia un po’ desueta, visto che è ancora basata sul calcolo in lire.
  Infine, rispetto al mondo dell'università, occorre provare a interloquire col Ministero dell'istruzione, per cercare di capire come dare degli incentivi alle università perché intervengano in collegamento con il mondo delle imprese, che magari commissiona delle ricerche per farle svolgere ai ragazzi.
  Vi ringrazio dell'attenzione.

  PRESIDENTE. È stato inappuntabile. Grazie, professore.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ADRIANA GALGANO. La ringrazio per tutti gli spunti che ci ha dato. Lei ha affermato che è difficile spiegare gli adempimenti agli stranieri e ci ha dato anche delle indicazioni su come semplificarne alcuni. Ci può fare un paragone tra gli adempimenti medi che hanno gli stranieri e quelli che invece ci sono da noi ?

  LUCA SCARANI, docente a contratto dell'Università Commerciale Luigi Bocconi. Questa è una domanda complessa, perché effettivamente non ho competenze specifiche in materia di adempimenti che devono affrontare all'estero gli stranieri che vengono a operare in Italia.
  Quel che è certo è che sotto il profilo della costituzione delle società – cito il primo esempio che mi viene in mente – all'estero è tutto piuttosto semplice in rapporto alle complessità che bisogna affrontare nel nostro Paese.
  Io non sono uno di quelli favorevoli all'ipotesi di dire che il notaio non deve lavorare. Trovo che l'idea, che sta portando avanti il Ministero dello sviluppo economico, d'introdurre uno statuto standard da far firmare digitalmente sia una buona idea, anche se presenterà delle complessità.
  In Italia, se devo costituire una società, devo portare una mole di informazioni dal notaio, soprattutto se sono una start-up innovativa. Devo iniziare a descrivere le spese di ricerca e sviluppo, il curriculum dei soci e una serie di informazioni. Rispetto al notaio, allo statuto e agli accordi all'estero è tutto molto più semplice e molto più immediato.
  Oggi i ragazzi, forse a torto, rispetto all'ecosistema delle start-up innovative continuano a credere che andando all'estero ci possa essere molta più semplicità nell'affrontare gli adempimenti che bisogna effettuare.
  Io credo che sia in parte così, nel senso che, per esempio, se io nel corso dell'anno ho una fattura da 500 euro con una ritenuta di 100 euro e per questa ritenuta di 100 euro devo fare due comunicazioni fiscali e, quindi, devo pagare chi le fa, mi chiedo: «Caspita, per una cosa così piccola, è necessario sostenere tutte queste spese ?»
  Pur senza conoscere gli esatti meccanismi con cui all'estero effettuano tutte le dichiarazioni e comunicazioni fiscali, mi sento di dire, ragionando sul mio Paese, Pag. 16che, se si trovasse una soluzione per ridurre tutti questi adempimenti quando sono di importo modesto o di numero irrilevante, questo potrebbe sicuramente agevolare e far capire che non tutte le cose devono essere burocraticamente pesanti.
  L'unico esempio che posso farle è proprio quello del notaio e della costituzione di una società.

  MARCO DA VILLA. Ringrazio il professor Scarani per l'esauriente illustrazione. Faccio solo un paio di osservazioni. Lei fa riferimento all'individuazione dei codici ATECO. Io mi permetto di sollevare qualche perplessità: i codici ATECO hanno una funzione statistica e, quindi, non c’è un controllo sull'attribuzione di questi codici, che vengono attribuiti in base alle dichiarazioni dell'attività svolta dalle imprese.

  LUCA SCARANI, docente a contratto dell'Università Commerciale Luigi Bocconi. Posso iniziare a risponderle su questo punto ? Sono perfettamente d'accordo con lei. Tuttavia, il legislatore nel decreto ministeriale del 2014 che ha concesso le agevolazioni fiscali, per prevedere quali settori abbiano diritto alla detrazione incrementata del 27 per cento piuttosto che del 19 per cento, ha indicato dei codici ATECO.
  Io mi attengo a quello che fa il legislatore. Pur essendo completamente d'accordo con lei sul fatto che sia meglio pensare nei fatti a individuare per esempio all'interno del bilancio alcuni elementi che mi dicono che, se aggiungo un altro indice, allora posso beneficiare, tuttavia è innegabile che il legislatore abbia utilizzato i codici ATECO ai fini dell'individuazione delle detrazioni e, quindi, mi è sembrato comunque opportuno menzionarlo. Detto ciò, ribadisco che trovo l'osservazione assolutamente pertinente e sono d'accordo.

  MARCO DA VILLA. Una seconda osservazione riguarda il coordinamento tra gli enti pubblici. Mi chiedo se non sia il caso di riflettere sulla possibilità di individuare degli enti o un ente pivot tra i vari che abbia le funzioni di quello che in un ente pubblico è l'ufficio relazioni col pubblico (URP), ovvero un ente di prima istanza che si interfacci con i vari soggetti pubblici.

  LUCA SCARANI, docente a contratto dell'Università Commerciale Luigi Bocconi. Mi fa piacere di essere riuscito a veicolare il mio messaggio, seppur brevemente. Questa sarebbe assolutamente la migliore delle soluzioni che io ho in mente. Nella slide 14 io faccio riferimento a guide o servizi di consulenza base. Chiaramente la slide è sintetica, però sono d'accordo sull'idea di avere un soggetto che dia almeno le linee generali e principali sull'avvio delle attività di impresa.
  Io trovo che oggi questo ruolo, che credo un tempo competesse alla camera di commercio, che si chiama così non a caso, sia venuto un po’ meno, in quanto ormai le camere di commercio sono diventate più che altro gestori di procedure on line. Da un lato questo è un bene, perché non bisogna andare fisicamente lì, però dall'altro manca un po’ questo ruolo, che potrebbe essere rivestito dalle camere di commercio, all'interno delle quali si potrebbero individuare degli altri enti che facciano un minimo di consulenza. Sono assolutamente d'accordo con questa idea.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Scarani.
  Autorizzo la pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal professor Scarani (vedi allegato 2).
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta, sospesa alle 10.25, è ripresa alle 10.30.

Audizione di rappresentanti dell'Osservatorio Smart Manufacturing del Politecnico di Milano.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su Pag. 17«Industria 4.0»: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali, l'audizione di rappresentanti dell'Osservatorio Smart manufacturing del Politecnico di Milano.
  Ringrazio il professor Marco Macchi e il professor Giovanni Miragliotta, direttori dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano.
  Do la parola al dottor Marco Macchi.

  MARCO MACCHI, direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano. Io sono Marco Macchi, docente di Industrial technologies e Manufacturing System Planning alla laurea magistrale di engineering management.
  Lascio la parola al collega per presentarsi.

  GIOVANNI MIRAGLIOTTA, direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano. Sono Giovanni Miragliotta, docente di advanced planning al Politecnico di Milano.

  MARCO MACCHI, direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano. Noi oggi portiamo una testimonianza che riporta le esperienze che stiamo facendo all'interno dell'Osservatorio smart manufacturing. È un'esperienza che stiamo facendo da un paio d'anni, nel senso che siamo al secondo anno della ricerca.
  In realtà, vorrei dare prima un elemento di contestualizzazione sulle attività nel manufacturing che facciamo come Politecnico di Milano. In tal senso, vi mostrerò rapidamente i primi lucidi che sono orientati a questo, almeno per darvi un'idea.
  Il Politecnico di Milano è classificato come scuola di ingegneria e tecnologie ad alto valore a livello mondiale. All'interno di questo, siamo organizzati in dipartimenti. I dipartimenti che si occupano di manufacturing sono indicati nel materiale che vi abbiamo dato. Noi siamo il Dipartimento di ingegneria gestionale, all'interno del quale abbiamo una anima di ingegneria industriale forte. Quest'anima è tanto forte che, come vedete dai lucidi successivi, abbiamo una presenza nel manufacturing in di circa 50 persone. Tale presenza è stimata per anno ed è fatta di strutturati, professori ordinari associati, ricercatori e una serie di collaboratori a vari livelli. Questo ci porta ad avere una capacità di sviluppo, nella ricerca, su canali diversi.
  Direi che il più importante, visti i numeri che trovate nella stampa, è quello europeo (Horizon 2020). Di dimensioni diverse sono quelli altrettanto importanti a livello nazionale o regionale, soprattutto in relazione ai finanziamenti di aziende private perché crediamo molto in questo rapporto tra azienda e impresa.
  Crederci vuol dire anche collaborare in vari momenti associativi. Credo che, tra le associazioni riportate nei lucidi che avete, sia da citare quella dell'EFFRA (European Factories of the Future Research Association). Si tratta di un'associazione, a livello europeo, che di fatto implementa la logica della partnership di pubblico e privato e del cui board siamo membri. L'EFFRA stabilisce le road map delle factories of the future a livello multiannuale e strategico. In tal senso, mi sembra il momento associativo da citare più importante.
  Lascio la parola al collega Miragliotta che vi farà un excursus, partendo dall’executive summary, per poi approfondire la tematica.
  Il mio collega passerà di nuovo, in conclusione, la parola a me che vi descriverò quello che vediamo, in termini di sintesi, come opportunità e eventuali ostacoli nonché le azioni che ci sentiamo di suggerire sulla base della nostra esperienza.
  Naturalmente, vi riportiamo i risultati di Smart manufacturing, accennando anche alle attività che facciamo in altri ambiti.

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  GIOVANNI MIRAGLIOTTA, direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano. Nell’executive summary, abbiamo provato a sintetizzare quelle che pensavamo fossero le richieste della vostra audizione. In particolar modo, secondo il nostro punto di partenza l'Italia è per caratteristiche un Paese industriale, a fronte del fatto che nello scenario corrente l'industria sta cambiando potentemente. Uno dei cambiamenti più forti e che avrà più impatto nell'immediato è quello della digitalizzazione dell'industria.
  La nostra industria ha perso competitività negli ultimi anni in maniera maggiore rispetto alle posizioni legate ai grandi Paesi con cui ci confrontiamo. Pertanto, cogliere bene la trasformazione digitale dell'industria che ruota attorno alle espressioni di Smart manufacturing, di «Industria 4.0» eccetera, a nostro avviso, rappresenta una necessità strategica per il nostro Paese.
  In merito, possiamo dire che la trasformazione digitale si basa su due importanti livelli. Il primo che noi chiamiamo «livello di base» e che è la spina dorsale su cui le imprese devono costruire la loro trasformazione è ancora purtroppo non particolarmente diffuso nelle imprese italiane, soprattutto nelle imprese medio-piccole. Sopra questa soluzione di base si innestano delle nuove tecnologie che hanno una capacità potentemente acceleratrice rispetto a quella che è fondamentalmente la fusione tra mondo digitale e mondo fisico e quindi l'abilitazione di nuovi modi di lavorare e di produrre.
  Il quadro delle tecnologie e del loro impatto sui processi è sufficientemente chiaro, almeno nel breve termine. Pertanto, quello che c’è da fare e quello che potrebbe accadere, dal punto di vista della comprensione dello scenario, è – lasciatemelo dire – un tema sufficientemente ben inquadrato.
  La prima evidenza delle nostre ricerche ci dice che l'Italia sta sperimentando una sorta di nuovo digital divide – questa volta, però, di tipo industriale e manifatturiero – in larga parte dovuto al fatto che il tessuto imprenditoriale italiano non ha risorse, cultura e competenze per cogliere intelligentemente queste opportunità, come sta accadendo all'estero. Molti altri Paesi, sia con una finalità di marketing sia con una finalità fattuale, hanno sviluppato, come sapete, programmi ben disegnati.
  A nostro avviso lo scenario non è favorevole e c’è bisogno di agire con decisione lungo tre direzioni che abbiamo qui sintetizzato.
  La prima è quella che chiamiamo «digital agenda for digital industry», cioè rileggere le necessità del comparto industriale nei programmi di digitalizzazione del Paese in modo nettissimo.
  La seconda è quella che chiamiamo «awareness of digital industry». Si tratta di promuovere azioni di sensibilizzazione e trasferimento tecnologico e soprattutto di coordinamento con quello che l'Europa sta già facendo perché non possiamo in qualche modo assumere delle posizioni divergenti rispetto al piano, per esempio, dell'EFFRA.
  Infine, dobbiamo dare una serie di supporti tangibili al piano di implementazione con le azioni qui elencate che troverete meglio giustificate nei documenti e che Marco riprenderà.
  A nostro avviso, più che non sul «cosa fare» e sul «perché farlo» che sono temi ben compiuti, l'enfasi deve essere posta sul «come farlo», il che significa: incisività, rapidità e adattamento al contesto italiano.
  Voglio citare solo uno dei punti. In tutti i programmi che potreste leggere all'estero, notereste che è impressionante la presenza dei grandi campioni software vendor nazionali perché tutte le grandi manifatture (americana, francese e tedesca), neanche a dirlo, hanno dei software vendor importanti nazionali.
  Oggi, come sappiamo, viviamo nel mondo del software. L'Italia non ha un attore di questo tipo, quindi, quando dico «intendiamo saper rileggere alla luce delle caratteristiche il nostro ecosistema», voglio dire che quello che l'Italia deve fare è, Pag. 19per esempio, tener conto che noi partiamo da questa posizione, ma non per questo non dobbiamo saper competere.
  Nel resto del materiale, troverete elencato tutto quello che c’è da sapere in termini di indicatori chiari della trasformazione. Abbiamo messo, in maniera iconografica, alcuni aspetti relativi all'evoluzione del manufacturing e la nostra definizione di smart manufacturing poiché lì si concentra l'attenzione dal punto di vista della trasformazione digitale.
  Purtroppo, le slide non sono numerate, per cui vi preciso che sto facendo riferimento a quella slide che si chiama «definizione».
  Tra le più importanti e che in qualche modo vi voglio lasciare, c’è quella in cui è rappresentato un iceberg al centro per far comprendere che, appunto, la rivoluzione digitale della manifattura non si fa dalla cima, ma dalla base, cioè da una serie di soluzioni di digitalizzazione che le imprese devono aver già acquisito e che, invece, la nostra ricerca mostra come siano – ahimè ! – drammaticamente assenti, soprattutto se si parla del comparto della piccola e media impresa.
  C’è una mappa a forma di matrice in cui, come vi dicevo, tecnologia per tecnologia ci fa capire come, tutto sommato, nella letteratura, nella pratica, nei casi internazionali, nelle misure e negli studi di impatto a livello europeo, sia sufficientemente chiaro che queste tecnologie renderanno più competitive le aziende nell'eseguire, nel pianificare, nel competere e nello sviluppare il prodotto e nel fare il grande salto che è quello che ci interessa, cioè mettere le nostre imprese manifatturiere e industriali nella condizione di non limitarsi a vendere il prodotto, ma di capire che la frattura fra prodotto e processo deve essere completamente superata.
  Cedo la parola al collega Marco Macchi.

  MARCO MACCHI, direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano. Vorrei riprendere le tematiche di debolezza che vediamo nella ricerca dell'Osservatorio, anzi di diversi osservatori (Smart manufacturing, Gestione collaborativa dello sviluppo prodotto e Tecnologie e servizi per la manutenzione) che rappresentiamo e che coprono i vari aspetti della produzione in senso ampio.
  Ci sono evidenze – non le commenterò tutte perché si possono leggere – sulle mancanze, anche delle soluzioni tradizionali.
  Meno di un'azienda su due è digitalizzata nello sviluppo nuovo prodotto, il che vuol dire che ci sono ovviamente delle inefficienze, da un lato, ma anche delle incapacità di cogliere le opportunità di sviluppo nuovo prodotto che possono nascere dai mercati.
  Vi cito a titolo di campione un altro esempio che, anche se è specialistico, diventa importante ed è quello della manutenzione su condizione che usa le misure e l’intelligence delle macchine stesse. Questo è vuol dire essere smart.
  Naturalmente essere smart richiede una costruzione di macchine che si dotino di opportuni dispositivi, ma anche la capacità degli operatori di portarle sul campo.
  In quest'ambito, siamo molto deboli. Ci sono delle debolezze sulle soluzioni di base che poi ovviamente, pensando al modello dell’iceberg, si riverberano nella possibilità di sviluppare la digitalizzazione del manufacturing.
  Passerei agli ultimi due lucidi che commenterò in vari punti, soprattutto quelli delle opportunità, cercando di focalizzare, per questioni di tempo, anche altri punti riguardanti gli ostacoli.
  Noi pensiamo, in base alla rilettura dei vari dati, che ci siano degli elementi che ci consentano di guadagnare un valore dalla digitalizzazione, se guidati opportunamente.
  In primo luogo, lo dico perché magari ci sono dei settori cui dare più importanza per la competitività del nostro sistema-Paese oltre che per potenziare l'applicativo delle nuove tecnologie. Nei documenti, questi settori sono citati.
  Peraltro, manca ancora – lo citava già il mio collega – la trasformazione da Pag. 20industria processo-centrica che produce un prodotto verso un'industria prodotto-centrica che offra un prodotto con una sua intelligence che sia digitalizzato.
  Questo passaggio è piuttosto importante perché offre nuove opportunità soprattutto di cogliere nuovi modelli di business, cioè essere capaci di imprenditorialità attraverso le nuove tecnologie, quindi è un cambiamento piuttosto epocale.
  Si possono citare anche i vantaggi di produttività o di consumo di risorse e i costi energetici, combinando il digital con la visione di sostenibilità della fabbrica. Questo è un tema importante che, come dimostrano alcuni studi che abbiamo raccolto, può avere potenziali anche rilevanti.
  Inoltre, in termini di produttività la gestione dello stabilimento può giovare di tutto quello sviluppo che non si basa solo sulla fisicità del macchinario e dell'impianto, ma anche sulla sua rappresentazione cyber. Si tratta di un mondo più modellistico che sicuramente, visto lo sviluppo attuale, porterà, anche grazie alla digitalizzazione, a un connubio importante per la produttività.
  In merito al tema del far crescere le aziende, abbia inserito alcuni dati provenienti dalle nostre fonti.
  Abbiamo stimato la presenza di 1.000 aziende italiane, con più di 50 dipendenti, fornitrici di soluzioni per la digitalizzazione dell'industria, quindi 50.000 unità, come comparto di impiegati.
  Questo comparto può soffrire della lentezza o degli ostacoli che affronta chi ha bisogno di soluzioni di digitalizzazione, quindi il voler aiutare il comparto a crescere nasce anche dal traino della domanda di queste soluzioni.
  Ancora più negativa è la nostra stima in termini di start-up di soluzioni di digital manufacturing che raccolgono un finanziamento sostanzialmente ridotto.
  Procedendo con le criticità che possono ostacolare lo sviluppo, direi che una è stata già citata dal collega ed è il rischio crescente di divario tra piccole e grandi imprese. Il digital divide, se vogliamo mitigare il rischio, forse richiede delle azioni, a nostro parere, opportune appunto per ridurlo al minimo. Inoltre, citerei l'importanza delle infrastrutture di comunicazione a banda ultralarga non adeguate. L'agenda digitale può essere un'opportunità interpretata rispetto alle esigenze degli insediamenti produttivi ed è un elemento fondante che, altrimenti, ostacolerebbe lo sviluppo del digital manufacturing. Lo dico perché il digital si fonda su interconnessioni e quant'altro.
  Passerei direttamente a una considerazione sul confronto con altri Paesi che più che altro è un'anagrafica delle varie iniziative che ci sono – alcune, come «Industria 4.0», molto più note di altre al pubblico – e che, di fatto, è anche un'azione di marketing.
  Ci sono alcune soluzioni che dobbiamo cercare di riportare, a nostro parere, nel nostro Paese, d'accordo con quanto già diceva il collega, cioè tenuto conto del nostro tessuto industriale.
  Vorrei riprendere le tre direzioni di lavoro, già commentate dal collega, per focalizzare l'attenzione su alcuni punti.
  Per noi, i primi due punti rappresentano un fattore abilitante per superare degli ostacoli. La «digital agenda for digital industry» che porta reti a banda larga, security eccetera aiuta a superare gli ostacoli che ho citato prima, quindi ci permette di evitare di non poter investire in nuove opportunità.
  Lo stesso potrei dire riguardo la sensibilizzazione. In merito, si richiede un forte impegno sia di attività di sensibilizzazione che di formazione delle diverse aziende che possano essere lente nell'acquisire nuove risorse solo per diffidenza o per la mancanza di chiarezza delle potenzialità. A noi le potenzialità sono chiare. Come dicevamo prima, cosa fare e perché farlo è chiaro. Per quanto riguarda il «come fare», un modo può essere quello di sensibilizzare le aziende.
  Vorrei citare, facendo un paragone con la Germania, un esempio piuttosto interessante, anche se è fatto nel tessuto tedesco.
  Si tratta di una fabbrica dimostratore, cioè una smart factory, già installata, che Pag. 21è stata costruita attraverso un'unione di sforzi tra grandi vendor (Siemens, Porsche eccetera) e alcune università. Questa iniziativa ci porta tangibilmente un'evidenza di una smart factory, cioè di un dimostratore che rappresenta un modo per fare trasferimento tecnologico. Certo, i modi possono essere tanti, ma questo è un esempio.
  Sull'implementazione, vorrei dire che sono necessari investimenti che favoriscano l'inserimento di nuove soluzioni. Si tratta di meccanismi noti che, però, vanno applicati all'Agenda digitale del manufacturing.
  Io ho concluso e sono a disposizione per le domande.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ADRIANA GALGANO. Grazie per la relazione. Io ho due domande da porre.
  Avete segnalato che, con queste nuove tecnologie, ci può essere una riduzione dei costi dell'energia pari al 40 per cento. In merito, vorrei sapere se avete delle previsioni su ciò che accade all'occupazione di un'azienda che addotta queste nuove tecnologie.
  La seconda domanda è: quali sono i settori più a rischio in Italia rispetto alla mancata adozione di queste tecnologie e dove sarebbe necessario assolutamente adottarle rispetto a quello che sta succedendo negli altri Paesi ?

  GIOVANNI MIRAGLIOTTA, direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano. Rispondo alla domanda della variabile dell'impatto sul lavoro perché me ne sono occupato, anche facendo ricerca.
  In merito, non c’è nessuna evidenza tangibile, anche se esiste una storia che ci dice che ogni rivoluzione industriale tendenzialmente migliora in media o trova nuovi equilibri nel comparto lavoro, creazione di ricchezza e ridistribuzione. Certo, si può trattare anche di un processo lungo e doloroso, ma questo è quello che ci dice la storia.
  Inoltre, esistono diverse evidenze empiriche, già strutturate su specifici Paesi, che mostrano come il saldo occupazionale nel medio termine potrebbe essere complessivamente o positivo o tendenzialmente nullo. Esistono, infatti, molte altre aree della natura del lavoro umano dove fondamentalmente recuperare produttività del lavoro genererebbe semplicemente capacità di servire nuovi bisogni.
  Certo, tutto ciò è valido nel medio termine, ma questo non significa che nell'immediato, anche per via di alcuni meccanismi che ora magari proverò ad accennare, non ci siano soluzioni di più forte sofferenza.
  In particolar modo, i meccanismi sono legati al fatto che le imprese hanno una struttura di incentivi molto forte, volta in qualche modo a liberarsi – lasciatemelo dire – delle risorse meno produttive, mentre non è altrettanto forte, veloce e incisivo tutto quello che un sistema industriale o un sistema pubblico può mettere a disposizione per riconvertire queste competenze.
  Il gap di competenze che si crea è bruschissimo e velocissimo. Noi abbiamo fatto diversi calcoli, individuando dei segmenti di porzione.
  Per esempio, coloro che in un'azienda si occupano di logistica interna, verranno, in circa dieci anni, ragionevolmente, quantomeno, fortemente assistiti dalla nuova automazione. Inoltre, il tipo di competenze con cui queste persone dovrebbero ripresentarsi sul mercato del lavoro è molto più elevato rispetto alle competenze che hanno adesso, come il saper guidare un muletto. Spero che questo esempio sia chiaro.
  C’è la necessità di individuare le figure in qualche modo più a rischio rispetto alle capability delle nuove tecnologie e di immaginare, su quelle, un percorso di formazione e di recupero che sia mirato, graduale e intelligente. Questo è il lato oscuro della forza.
  Io stesso, se mi permette una parentesi personale, ho portato mio figlio, chiedendo il permesso a un'azienda con cui ho lavorato, a vedere una fabbrica dove si Pag. 22svolgono dei lavori che non sono scontento che, tutto sommato, mio figlio non possa neanche aspirare a fare, quindi questo è il resto dell'aspetto, cioè il lato oscuro della forza, che, però, i Paesi dovranno gestire.
  In merito, c’è uno studio di BCG sulla Germania che dice che il saldo sarà positivo. È chiaro che la Germania si è mossa da tempo e bene in questo percorso, per cui, se una nazione non si muove, il salto ragionevolmente sarà negativo.

  CHIARA SCUVERA. A me è noto il fenomeno della desertificazione industriale che ha riguardato il sud, quindi il divario tra nord e sud anche sulla manifattura. Mi sembra che il tema sia quello di governare «Industria 4.0», per cui vi chiedo se ritenete che il buon governo del processo, quindi una strategia italiana, possa contribuire a ridurre questo divario tra nord e sud. Inoltre, vorrei sapere se, da vostro punto di vista, «Manifattura digitale» e «Industria 4.0» stanno riguardando solo il nord, quindi se il trasferimento tecnologico sta riguardando solo il nord, oppure si stanno diffondendo anche al sud.

  MARCO MACCHI, direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano. Per quanto riguarda la governance, tra quelle suggerite abbiamo definito le azioni che sostanzialmente possono essere di beneficio, indipendentemente dalla regione, perché sono governate a livello centrale, come la digital agenda.
  Inoltre, promuovere la sensibilizzazione alla formazione è un elemento chiave per diffondere la conoscenza delle nuove tecnologie e favorirne anche l'impiego in diverse regioni italiane.
  Per quanto riguarda il fatto che le nostre evidenze ci permettano di concludere che c’è un divario o meno, le rispondo e poi magari lascio il completamento della risposta al collega Miragliotta.
  Direi che la nostra ricerca si è focalizzata su dei casi di studio orientati a un obiettivo: capire cosa si può fare e qual è impatto. Noi non avevamo un obiettivo di natura di distribuzione sul territorio, per cui probabilmente abbiamo una statistica che è ancora limitata, in quanto guidata da un altro obiettivo di studio. Io sinceramente non mi sento di rispondere sulla seconda parte per via della base statistica che abbiamo.

  GIOVANNI MIRAGLIOTTA, direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano. Io faccio solo un commento.
  Ogni rivoluzione può potenzialmente mettere fuori mercato i vecchi leader e crearne di nuovi. Basta vedere cosa sta succedendo nel mondo dell'automobile, dove è arrivata la necessità della mobilità elettrica. Naturalmente, progettare un'auto elettrica è drammaticamente più facile che non progettare un'auto con motore termico. In questo nuovo mercato, un'azienda che finora ha fatto pagamenti elettronici sta diventando il miglior player.
  Pertanto, il sud Italia ha una serie di opportunità che, col vecchio modo di rimanere nell'industria, potranno essere colte. Questa è la buona notizia. La cattiva notizia è che il sud non le potrà cogliere per policy, ma perché si apre uno spazio competitivo nuovo, quindi grazie a infrastrutture, a competenze di base, a condizioni favorevoli e alla buona fortuna.
  Nel nord Italia, la nostra ricerca ha, giocoforza, analizzato di più, dovendo creare un campione di 3 mila aziende. Basta vedere i CAP in cui sono queste aziende; girando per esempio la Lombardia, ne trovo 700. Io ho molti tirocinanti che vengono dalla Puglia o dalla Sicilia eccetera che, se riescono a trovarne due o tre nel loro CAP, hanno già fatto hanno bingo. Come dicevo, è giocoforza il fatto che il tessuto industriale oggi sia principalmente nel nord, ma questo non significa che non si possa creare un ecosistema industriale altrove, anche perché chi fa il prodotto fa un piccolo pezzo della nuova catena del valore industriale. Il grosso pezzo è legato, invece, ai servizi che metto sopra e che posso mettere dovunque con il cloud, con delle intelligence e con delle buone competenze.

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  LORENZO BASSO. Sarò breve, visto che non c’è più tempo, anche se mi farebbe piacere approfondire il tema sul saldo occupazionale. Anche gli storici ci dicono che c’è stato un dibattito non breve su questo tema. Sicuramente gli Stati con l'introduzione degli orari di lavoro o con l'introduzione del welfare state hanno mitigato e hanno reso possibile anche questo saldo positivo che, altrimenti, non sarebbe stato tale. In effetti, c’è probabilmente un discorso che sarebbe bello approfondire, ma non ne abbiamo il tempo.
  Mi ha molto stimolato l'infografica che ci avete fornito con i vari programmi internazionali. Un vostro collega, nella prima audizione, accennava al fatto che, più che pensare a una via italiana per un programma che riguardi le piccole e medie imprese italiane con le loro specificità di dimensionamento molto basso, si debba andare verso politiche per una crescita del dimensionamento, in modo da dare una prospettiva anche di implementazione della manifattura intelligente rispetto a queste imprese.
  A riguardo, vorrei sapere se condividete il fatto che ci sia una precondizione di crescita dimensionale, prima di poter avviare un aumento dell'introduzione dello smart manufacturing.
  In secondo luogo, vorrei sapere quali programmi esteri che voi avete studiato si possano non tanto adattare, perché ogni Paese fa storia a sé, quanto essere più vicini e meritare anche da parte di questa Commissione un approfondimento.
  In particolare, visto che l'avete inserito, vorrei chiedervi se avete maggiori informazioni sul programma che riguarda il Giappone che ha tante diversità ma pure tante similitudini dal punto di vista della nervatura industriale. Inoltre, vi chiedo se poteste anche fornire per via informale alla Commissione maggiori dettagli, anche in un secondo tempo, su programmi internazionali che ritenete possano essere utili. Lo dico perché quello tedesco e quello americano sono molto più conosciuti, ma gli altri che vedo qui citati magari hanno anche una minor rilevanza mediatica e quindi sono stati meno oggetto di studio e di approfondimento. Grazie.

  GIOVANNI MIRAGLIOTTA, direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano. Per quanto riguarda la seconda domanda, vi manderemo qualche approfondimento e i testi che sono pubblici.
  In merito alla sua prima domanda, anzi alla prima parte di quella domanda, le rispondo di sì perché la crescita è una precondizione. Tanto è vero che abbiamo scritto che è quella di favorire, nelle azioni di implementazione, quanto può servire a far crescere in media la dimensione dell'impresa italiana. Questo è evidente. D'altronde, ogni statistica, come qualsiasi database, mostra che la produttività è correlata alla dimensione media del soggetto, per cui ne dobbiamo parlare.
  Per rispondere alla seconda parte della domanda, le dico che dipende da quanto tempo impieghiamo a far crescere la dimensione media delle imprese, cioè, conoscendo la cultura dell'imprenditore italiano, in quanto tempo riusciamo a far sì che un fornitore e un altro smettano anche di litigare e capiscano che l'unione fa la forza.
  Potrei darle la risposta, guardando quanto tempo abbiamo impiegato nel nostro dipartimento per creare dei gruppi ampi. C’è stato bisogno di un trasloco, durante il quale, approfittando della costituzione di un nuovo dipartimento, non ci siamo disposti per piani; da lì in poi, le collaborazioni si sono moltiplicate. La risposta alla seconda parte la domanda, cioè se abbiamo tempo, è «ni» o addirittura «no». Certo, qualcosa va fatto adesso, con questo tessuto, e non possiamo aspettare che fra cinque, sei o sette anni ci siano i processi di consolidamento, perché, nel frattempo, le imprese non vendono, non hanno i prezzi per essere competitive e non sono su internet.

  MARCO MACCHI, direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano. Magari faccio solo un commento. Tra gli Pag. 24ostacoli, c’è sicuramente la diffidenza rispetto a temi nuovi, come il cloud, la security e la privacy, che aprono a un mondo che può essere osservato dall'esterno. Sicuramente è una cosa che sentiamo fortemente in Italia e non è la stessa cosa magari in altri contesti produttivi; da qui l'importanza della sensibilizzazione.

  PRESIDENTE. Questo è anche un dato culturale.

  GIOVANNI MIRAGLIOTTA, direttore dell'Osservatorio Smart Manufacturing della School of management del Politecnico di Milano. Siamo molto d'accordo sulla crescita dimensionale media. Noi siamo dei gruppi, come ricercatori, diventati rilevanti a livello internazionale, quando abbiamo smesso di essere due o tre. Lo dico perché, quando si arriva a 50, 60 o 70, hai la scala per fare ricerca bene e in modo produttivo e per raccogliere finanziamenti, quindi bisogna lasciare la porta aperta. Se occorrono dieci anni, nel frattempo che facciamo ? Con queste imprese, con la loro cultura e loro maturità, bisogna mettere in piedi gli incentivi con i nostri fornitori di tecnologia, ovvero con tanti piccoli invece che con uno colossale (Dassault in Francia, SAP in Germania, Oracle IBM negli Stati uniti).
  Ecco, con i nostri cosa facciamo ? Queste sono le risposte.

  PRESIDENTE. Consideriamo chiusa l'audizione, che è stata davvero molto interessante. Ringraziamo i professori, con i quali resteremo in contatto nel prosieguo del nostro lavoro.
  Autorizzo la pubblicazione della documentazione consegnata in calce al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato 3).
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta, sospesa alle 11.05, è ripresa alle 11.10.

Audizione del prof. Luca Beltrametti dell'Università degli studi di Genova.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su «Industria 4.0»: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali, l'audizione del Prof. Luca Beltrametti dell'Università degli studi di Genova.
  Do subito la parola al professore Beltrametti.

  LUCA BELTRAMETTI, ordinario dell'Università degli studi di Genova. Non sono un ingegnere, ma un economista. Non ho competenze tecnologiche, quindi vi porto un punto di vista leggermente diverso.
  Attualmente sono direttore del Dipartimento di economia dell'Università di Genova, membro di una task force su Industria 4.0 di Federmeccanica e da qualche giorno di un advisory board di Assolombarda sempre su questo tema.
  Vi ho portato un piccolo capitolo che ho scritto per «Scenari industriali», un documento che il Centro studi Confindustria pubblica periodicamente.
  Non vi farei la storia delle quattro rivoluzioni industriali, che forse avete già sentito in abbondanza, quindi andrei dritto sul punto, sintetizzandovi le idee che mi sono fatto.
  Come sappiamo, questa rivoluzione – se di rivoluzione si tratta – è scatenata dal fatto che, a differenza della prima la rivoluzione digitale, a guidare la rivoluzione non è il prezzo dei chip o la potenza dei computer, ma un qualcosa di più orizzontale che ha a che fare con la disponibilità di sensori sempre più piccoli, che consumano sempre meno energia e sempre meno costosi, i quali grazie a un internet più o meno ubiqua possono, appunto, determinare delle rivoluzioni.
  Vi anticipo che la mia opinione è che è ancora troppo presto per capire se è Pag. 25veramente una rivoluzione di portata epocale. Al di là della retorica, la mia sensazione è che sia troppo presto. Tuttavia, sono altrettanto convinto che si tratti di un fenomeno estremamente interessante.
  A mio avviso ci sono tre aspetti interessanti in questa rivoluzione.
  Il primo è che è possibile prendere decisioni migliori. Con questo intendo che la disponibilità di masse enormi di dati in tempo reale fa sì che negli ambiti più diversi della vita economica e anche sociale si possono prendere – se uno vuole essere ottimista, ma credo che sia molto ragionevole esserlo – decisioni migliori.
  Faccio degli esempi banali (se ho un pregio è che, non essendo ingegnere, ho una comprensione ridotta della tecnologia, per cui mi sono sforzato di avere un'intuizione più economica).
  Se ho un terreno agricolo ho la possibilità di avere dei sensori che mi dicono, nei vari punti, qual è il livello di umidità o di concentrazione di certi nutrienti, quindi posso irrigare selettivamente, ovvero usare la risorsa acqua, che è scarsa, in modo più efficiente. In pratica, posso ottenere lo stesso risultato sprecando meno.
  Lo posso fare, però, in maniera ancora più sofisticata perché posso avere una centralina che va su internet e in automatico controlla la probabilità che domani o nei prossimi giorni piova su questo terreno, quindi prende la decisione di irrigare, ed eventualmente anche quale porzione di terreno, in base ai dati che arrivano dal terreno stesso e dalla rete. Ecco, questo è un esempio banale, ma ci aiuta a cogliere il senso.
  Faccio un altro esempio molto semplice. Se collego un distributore di bibite o merendine alla rete, da remoto posso sapere di ogni distributore che sto gestendo se pieno, se è vuoto, cosa manca e quant'altro, quindi posso riorganizzare la logistica dei miei uomini che vanno a rifornirlo con i furgoncini.
  Voi mi direte che non è una rivoluzione epocale, se la guardiamo solo da questo versante. Tuttavia, questo è un esempio che ci dice che possiamo usare le risorse economiche (come il tempo degli operatori sul territorio) in modo più efficace.
  Un altro esempio è la raccolta dei rifiuti. Anche qui, posso sapere in tempo reale quali contenitori dei rifiuti sono pieni e quali no e ottimizzare l'uso delle risorse.
  Tutti avete sentito parlare dell'automobile elettrica Tesla. Nei circoli più attenti è stato molto pubblicizzato il fatto che Tesla non produce solo automobili, ma ha venduto una grande batteria delle dimensioni di un calorifero che si mette in casa.
  La vicenda tra gli addetti ai lavori ha ricevuto molta attenzione perché è l'anello mancante di un modello di produzione di energia diffuso sul territorio, per cui possiamo immaginare di avere i pannelli solari sul tetto e decidere in tempo reale cosa fare dell'energia che si sta producendo. Possiamo destinarla ad alimentare i consumi correnti, utilizzarla per caricare la batteria e poi usarla di notte per fare una doccia oppure venderla sul mercato. Ecco, è una decisione che può essere presa in modo decentrato e anche automatico da una centralina mentre stiamo facendo tutt'altro.
  Pertanto, possiamo immaginare un algoritmo di intelligenza artificiale che operi sulla base del prezzo dall'energia elettrica o delle previsioni meteo che dicono con quale probabilità ci sarà il sole nei giorni successivi, quindi si potrà produrre energia.
  Addirittura, c’è chi si spinge a dire, sulla base di algoritmi che cercano di capire gli stili di vita (sanno se il giovedì una persona stira il bucato o meno, quindi se consuma energia; ovviamente qui ci sono anche aspetti di intrusione nella privacy), possiamo utilizzare la risorsa energia in modo più efficiente, quindi sprecarne meno per farle percorrere chilometri e chilometri lungo i cavi.
  Di nuovo, questi esempi ci dicono che sono tecnologie per certi aspetti anche molto amiche dell'ambiente, almeno potenzialmente, nella misura in cui permettono Pag. 26non solo di aumentare le l'efficienza economica, ma anche di ridurre l'impatto ambientale.
  Se passiamo al tema della manifattura, c’è la questione delle manutenzioni, che banalmente si possono fare in tre modi. In primo luogo, quando un pezzo si rompe si può aggiustare, ma a quel punto si ha un danno organizzativo e logistico, senza contare che ci possono anche essere scappati dei morti, se è un aeroplano; in secondo luogo, si può fare una manutenzione programmata, ovvero dopo un certo numero di ore di uso il pezzo si cambia, a prescindere da altre considerazioni; infine, si può fare una manutenzione predittiva, cioè avere un algoritmo che, sulla base di dati, decide se un certo pezzo è da cambiare o meno.
  Si può, quindi, avere un motore pieno di sensori, che comunicano in tempo reale delle informazioni (temperatura, vibrazioni e così via) e un algoritmo che da remoto ci dice che quando la temperatura di un certo componente supera una certa soglia o quando una certa vibrazione supera un certo livello quel pezzo va cambiato entro quattro ore o entro due giorni.
  In sostanza, può cambiare completamente il modo di fare le manutenzioni, che possono, appunto, diventare predittive.
  Inoltre, è possibile fare anche delle manutenzioni senza mandare una persona specializzata sul posto perché da remoto è possibile addestrare just in time del personale locale che magari non è superspecializzato per quella funzione, ma che guidato da remoto la può fare.
  Poi c’è il tema ancora più fantascientifico (ma neanche tanto) di uno stabilimento produttivo in cui il prodotto dialoga con la macchina che lo produce.
  Sul suo sito c’è un video molto interessante di Bosch (che, peraltro, produce questi microfoni) in cui c’è un impianto che deve riempire delle bottiglie e c’è una bottiglia che nasce con un chip che le dice che cosa deve diventare. La bottiglia, quindi, dialoga con la macchina e le dice che deve essere riempita di Fanta; poi dialoga con la macchina più avanti e le dice che va sul mercato turco, quindi le deve mettere un'etichetta in turco; poi ancora con un'altra macchina a cui dice che va nella grande distribuzione turca, quindi deve essere impacchettata in confezioni da 12.
  Questo è un esempio semplice, ma dà l'idea di come viene meno la verticalità, che è tipica della prima fase dalla rivoluzione digitale, là dove c’è una persona e un computer che ordina a una macchina a controllo numerico di fare qualcosa. Banalmente, nel caso della stampante, io scrivo un testo e poi dal computer ordino alla stampante di fare qualcosa. C’è, quindi, una verticalità.
  Invece, a me sembra che uno degli aspetti di questa rivoluzione è che questa verticalità venga meno. È un fenomeno molto più orizzontale, con decisioni molto più decentrate e anche prese in automatico.
  In pratica, negli esempi che abbiamo visto le cose si parlano tra di loro. Quando si sente parlare di internet e delle cose, si intende questo. Grazie a internet non solo le persone entrano in collegamento tra di loro, ma lo fanno anche le cose per scambiarsi grandi quantità di dati che, ovviamente, vanno poi interpretati.
  A questo proposito, c’è il grande tema dei big data e della data analytics, ovvero estrarre delle informazioni che abbiano un significato da una montagna di dati che di per sé non serve a niente.
  Secondo me c’è molta retorica su questo. Per esempio, quando si sente dire che l'artigiano 2.0 è una meraviglia o che le economie di scala non contano più niente, per cui piccolo è bello, suggerirei una maggiore calma.
  Ho visitato lo stabilimento dalla Bosch in Baviera, dove producono alla velocità della grande produzione tayloristica 12 mila varianti di impianti ABS per automobili. Pertanto, sulla stessa linea, con la velocità mostruosa di un impianto tradizionale hanno l'agilità di fare 12 mila varianti senza cambiare un pezzo meccanico.
  La mia sensazione è che, stante l'attuale, non si può dire se prevalga l'aspetto di minaccia per la piccola e media impresa Pag. 27italiana o di promessa. Sicuramente è anche una grande promessa, ma potenzialmente è anche una grande minaccia.
  Se un colosso come Siemens o come Bosch acquisisce l'agilità, la flessibilità e la rapidità che è tipica delle nostre piccole e medie imprese, è chiaro che ci sono delle nicchie che sono messe in pericolo. Per questo, la vedo come una minaccia, ma – ripeto – anche come una grande potenzialità. Francamente, credo che sia presto per dire quale delle due cose prevalga.
  Sicuramente ci saranno degli impatti sull'organizzazione del lavoro, con degli aspetti sicuramente positivi sulla produttività del lavoro, quindi potenzialmente sui salari.
  Penso che ci saranno degli aspetti sicuramente positivi anche sulla sicurezza del lavoro perché tanti infortuni si possono prevenire, sapendo che ci può essere un dialogo tra lavoratore e macchina. Il lavoratore può avere un badge, per cui quando si avvicina alla macchina questa fissa con chi sta dialogando, quindi può parlare in turco o in italiano o può abilitare certe funzioni e non altre.
  Il tema della sicurezza è sicuramente gestibile molto meglio. È chiaro, però, che ci sono anche dei problemi di privacy e di diritti dei lavoratori, nel senso che sono tecnologie molto invasive, per cui si può sapere chi sta facendo cosa in ogni istante dentro la fabbrica. Questo pone – ripeto – dei problemi sicuramente non banali.
  Il secondo grande aspetto è che questa è una rivoluzione che non solo aumenta la quantità di informazione a disposizione, ma in molti casi riduce le asimmetrie con cui questa informazione è distribuita fra i soggetti. Si dice spesso che il «modello Xerox» diventerà pervasivo.
  Da vent'anni nessuno compra più fotocopiatrici in ufficio, ma le affittano. Si paga un canone di leasing più una somma per ogni fotocopia che si fa. L'idea è che questo modello diventerà più diffuso.
  Già oggi Rolls Royce non vende più i propri motori di aereo, ma li affitta ai produttori e alle compagnie aeree perché può sapere in ogni istante cosa stanno facendo i propri motori, essendo tutti pieni di sensori che vanno su internet e dialogano in tempo reale con la casa madre. Rolls Royce può sapere quanti decolli, quante ore di volo e in quali condizioni ha fatto il motore, dunque può programmarne la manutenzione. Non ha bisogno di rivelare ai suoi clienti i suoi segreti perché può gestirsi i suoi motori. Affitta o vende un'ora di volo, quindi la questione cambia radicalmente.
  Procedo per esempi perché mi ha aiutato, quindi spero possa aiutare anche voi.
  Qualcuno mi ha detto di collegare a internet una macchina da caffè. La prima reazione che ho avuto è stata che è una solenne stupidaggine. Invece, non lo è. Se collego a internet la mia macchina da caffè da bar, posso proporre a un mio cliente cinese un contratto, con cui gli do in comodato gratuito la macchina, il mio brand italiano, i mobili, la formazione del personale e lui in cambio compra la mia miscela. Se ho la macchina collegata a internet, so in tempo reale quanti caffè sta facendo in Cina, quindi so se sta rispettando i patti, ovvero se sta comprando la miscela da un mio concorrente a quattro soldi.
  Si riducono, pertanto, le asimmetrie informative, quindi si abilitano nuovi modelli di business. Analogamente al modello di business della Rolls Royce, può cambiare anche il business delle macchine da caffè.
  Anche questo è un esempio abbastanza banale, ma credo che dia l'idea di dove andiamo a parare. Si sente dire spesso, infatti, che ci saranno beni meno proprietari e più spesso affittati.
  Questo potrebbe avere un impatto positivo sull'ambiente. Se il produttore pianifica di vendere il frigorifero o la lavatrice ai suoi clienti, ne prevede anche la morte perché non vuole che viva cinquant'anni, volendone vendere altri fra dieci anni. Tuttavia, se la lavatrice è affittata al cliente e questo paga un canone fisso per ogni bucato, è interesse del produttore che la lavatrice duri il più possibile e non si rompa.
  È possibile – come dicono gli ottimisti incurabili – che i produttori siano meno Pag. 28interessati a un consumismo per cui gli oggetti sono programmati per morire dopo un tot di anni, ma ci sia più attenzione a creare degli oggetti che durano tanto, quindi di nuovo con un impatto positivo sull'ambiente, sempre se vogliamo essere ottimisti.
  Ricapitolando, il primo aspetto è più informazioni, quindi decisioni migliori; il secondo aspetto è relativo a nuovi modelli di business; il terzo riguarda le nuove tipologie di beni.
  È evidente che la Google car che si guida da sola è impensabile senza sensori, senza la connessione a internet e quant'altro. Si tratta di beni completamente nuovi. Per esempio, c’è una start-up italiana che, sull'onda di quelle tragedie dei genitori che si sono dimenticati il bimbo in macchina, che poi è morto, si è inventata un seggiolino connesso a internet con un sensore che rileva la presenza del bambino, quindi se la macchina è spenta, i finestrini chiusi, la temperatura sta salendo e così via, manda immediatamente un sms ai genitori e se entro tot minuti non rispondono contatta la polizia, dando la localizzazione geografica precisa di dove si trova la macchina.
  È l'internet delle cose: una cosa parla con un'altra cosa.
  Inoltre, il seggiolino può ordinare alla centralina elettronica della macchina di aprire tanto così i finestrini. Questo esempio, secondo me, è interessante perché ci porta al tema degli standard. Credo che questa sala lo troverà rilevante. Se io produco un seggiolino che non è in grado di dialogare con l'automobile Volkswagen, perché Volkswagen è proprietaria della sua centralina e non abilita nessun seggiolino che non sia Volkswagen a dialogare con essa, c’è un problema di standard. Chi fissa gli standard ? Chi fissa il linguaggio con cui le cose si possono parlare tra di loro ? Credo che questo sia un tema rilevante.
  C’è una nuova tipologia di beni. Alcuni viaggiano con degli orologi che rilevano il battito del cuore. Questa è fantascienza, c’è chi si appassiona di più e chi di meno (io non tanto, onestamente).
  Concludo con una cosa che non sta scritta nella relazione e di cui io mi sono convinto nelle ultime settimane. L'altro giorno mi sono divertito a guardare il documento da noi presentato a Davos, al World Economic Forum sull'industria 4.0. Ho cercato le parole disruptive e disruption e ho visto che compaiono 90 volte nelle prime 70 pagine. Devo dire che mi è sembrato veramente troppo.
  Secondo me, è sbagliato rappresentare ai nostri imprenditori e ai nostri decision maker in generale l'idea che siamo di fronte a un cambiamento radicale e che il nostro imprenditore deve prendere i suoi macchinari, buttarli via e fare il grande passo verso il futuro, entrando in un mondo di fantascienza fatto di sensori.
  C’è un approccio graduale: io posso cominciare a estrarre dati anche da macchinari vecchi. Non è detto che io devo buttare via i miei macchinari; io posso inserire dei sensori e cominciare a estrarre dati anche da macchinari tradizionali, che sono quelli tipici della piccola e media impresa, che magari sono personalizzati e specializzati per fare un tipo particolare di rigatoni. Non è detto che io devo buttare via i miei macchinari che sono lì da 50 anni; posso semplicemente fare una transizione graduale, posso cominciare a estrarre dati da macchinari e posso cominciare a usare questi dati. Spesso le imprese sono piene di dati che oggi non sanno maneggiare e dai quali non sanno estrarre niente di utile.
  Come universitario, credo di dover dire che ovviamente ci sono dei grandi pericoli, che sono quelli della sicurezza e della privacy, e che ci possono essere degli effetti importanti sulla produttività del lavoro. Credo che queste tecnologie abbiano tendenzialmente un impatto macroeconomico deflattivo, perché, usando meglio le risorse, ci sarà, per esempio, sempre meno spreco di materie prime.
  Ritengo che una persona intellettualmente onesta non possa dire oggi quale sarà l'impatto sull'occupazione: potrà essere fortemente negativo oppure no. Io credo che, se una persona si muove al netto dell'ideologia in senso lato, non Pag. 29possa dire che avremo milioni disoccupati per colpa di questa cosa, ma non potrà neanche affermare il contrario.
  Sulla produttività le cose che io vi ho raccontato sono attraenti – spero – però evidenze empirico-scientifiche che misurino l'impatto sulla produttività di queste tecnologie, a mio avviso, ancora non ci sono. Ci sono molte dichiarazioni entusiaste di persone che ci credono, sicuramente in buona fede, e io sono tra questi, però dal punto di vista scientifico tutto questo impatto sulla produttività ancora non si vede.
  Pertanto, paragonare questa rivoluzione all'invenzione dell'energia elettrica o all'invenzione della ferrovia a me sembra un po’ prematuro.

  PRESIDENTE. Professore, la sua relazione è stata davvero molto interessante, la ringraziamo. Prima di passare la parola al collega Benamati vorrei fare un'osservazione.
  Dal quadro che emerge e anche dalle conclusioni che adesso lei ci riassumeva, è evidente quali sono problemi, rischi e vantaggi. Taluni di questi vantaggi di cambiamento sono intuibili. Per esempio, andiamo verso un mondo in cui si sarà più amici dell'ambiente. Questo è abbastanza intuibile e lei ce ne ha portato degli esempi empirici molto semplici.
  Inoltre, si parla molto del fatto di andare verso un'economia più circolare, con meno top down rispetto ai modelli tradizionali. Anche questo è un tema di cui si è discusso molto.
  Allo stesso modo si è discusso e si sta discutendo della sharing economy, intendendola come un trasferimento progressivo dalla proprietà all'affitto, cosa che noi vediamo già da alcuni esempi.
  Devo dirvi che di queste tre questioni l'ultima mi pare quella più interessante. Si tratterà di capire che cosa porterà nelle scelte delle imprese. Lei ha citato degli esempi, come quello di puntare su macchine o sistemi in grado di durare un po’ di più rispetto alla sostituzione.
  Io mi domando che cosa ciò determinerà sul lato del consumatore. Non sto parlando soltanto in termini di condizione (essere proprietari o essere affittuari), ma mi chiedo cosa ciò determinerà culturalmente. Che tipo di rapporto ci sarà in un'economia dove avremo meno proprietari e più affittuari ? Ci sarà meno l'idea di possesso e più l'idea di uso.
  Volevo sottolineare questo aspetto, perché vedo che è un tema che può determinare anche culturalmente dei salti, rispetto al mondo così come noi lo viviamo, di straordinaria importanza.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIANLUCA BENAMATI. Avendo un economista, oggi ci possiamo scatenare, perché stando sempre tra ingegneri restiamo sui temi del bullone.
  Ieri sera ho avuto modo di cenare con il collega Basso – è stata una cena molto ricca – e facevamo un'osservazione proprio sul passaggio della ricchezza tra la proprietà e l'accesso ai servizi.
  Il fatto che ci sia un economista mi permette di chiedere qualche altra riflessione sul punto. Lei ha trattato molto bene la questione del prodotto e dell'interazione fra questo e la macchina, con gli esempi relativi all’internet of things. Secondo me, in un modello che vede il processo come centrale e come piattaforma di gestione, ci si deve porre la questione di come razionalizzare, non solo il processo produttivo nella singola unità produttiva che lei citava, ma anche le catene produttive.
  Dico questo perché il mondo delle piccole e medie aziende italiane, che fa spesso parte di un processo produttivo più vasto, può trovare nel sistema dell'industria 4.0 un'operatività diversa: la connessione non è solo all'interno dello stesso stabilimento, come lei citava per averlo visto in Germania, ma anche su spazi più ampi all'interno delle catene del valore.
  Le piccole e medie aziende oggi offrono quella flessibilità che domani può essere creata in altre situazioni. Lei ritiene che le piccole e medie aziende italiane possano anche partecipare a un processo di questo tipo, mettendo a Pag. 30frutto questo schema di lavoro ? Questa è la prima questione.
  Rispetto all'osservazione degli effetti occupazionali, io sono d'accordo sul fatto che è difficile fare previsioni. Tuttavia, io faccio sempre una previsione per l'Italia e vorrei sapere se lei condivide. Sicuramente non possiamo dire quanto aumenterà o quanto diminuirà l'occupazione se applichiamo questo sistema; possiamo dire però che se non lo applichiamo avremo un declino e, quindi, sicuramente si porrà il tema di una riduzione massiccia degli occupati. Questo è il tema che volevo porre.

  LORENZO BECATTINI. A me è piaciuto molto l'approccio del professore. Essendo un economista, come diceva il collega Benamati, mi viene di porre questa domanda. Noi, finora, per quello che conosciamo e anche per le audizioni fatte stamani, ci rendiamo conto che abbiamo alcune diseconomie che non sono proprie dell'industria 4.0, ma che sono problemi un po’ vecchi del nostro sistema Paese.
  Se parliamo della banda larga, forse questo è un tema nuovo che deve affrontare l'autorità nazionale. Se parliamo della semplificazione, come è stato riferito precedentemente, parliamo di un tema vecchio, che ci auguriamo possa essere affrontato. Tuttavia, ci sono due problemi culturali tipici della nostra impresa, che sono la permanenza di tante piccole imprese che hanno una resistenza culturale a crescere e una scarsa cultura sui temi della digitalizzazione.
  Abbiamo capito l'analisi. Non mi riferisco al suo intervento, ma vorrei avere una sua risposta. Abbiamo chiaro tutto questo; ora dobbiamo fare l'ultimo miglio e capire, in un quadro di evoluzione di questo sistema, come riusciamo ad abbattere questa barriera in un tempo ragionevole, perché se lo facciamo in dieci anni non risolviamo niente. In un arco di tempo di tre-quattro anni, come possiamo far sì che le nostre imprese facciano una massa diversa rispetto a quelle che sono ? Infatti, il 97-98 per cento delle imprese sono piccole. Come possiamo introdurre una cultura che sia una sorta di background per poter importare queste nuove cose a cui anche lei ha fatto riferimento ?

  PRESIDENTE. Do la parola al professore per la replica.

  LUCA BELTRAMETTI, professore ordinario dell'Università degli studi di Genova. A proposito delle catene produttive e delle catene del valore, l'altro giorno mi è venuto da ridere perché ho sentito uno degli uomini di Siemens-Bosch che diceva: «La rivoluzione non si può fare in un solo Paese». Mi è venuto in mente un dibattito della prima metà del 1900. Questa battuta voleva dire che loro non possono correre da soli, se tutta la catena dei loro fornitori non gli sta dietro. Lei ha perfettamente ragione: loro hanno bisogno che la catena dei loro fornitori si allinei su questo modo produttivo e su questa idea che il dialogo è continuo e in tempo reale anche tra il fornitore dei componenti e la grande impresa che deve assemblare.
  La sensazione è che i tedeschi stanno spingendo tanto, anche perché si rendono conto che questa rivoluzione fatta solo in un Paese non sta in piedi, nel senso che diventa un qualcosa di totalmente...

  LORENZO BECATTINI. Sono internazionalisti.

  LUCA BELTRAMETTI, professore ordinario dell'Università degli studi di Genova. Internazionalisti, forse trotskisti, non lo so.

  PRESIDENTE. A parte Marx, che era tedesco.

  LUCA BELTRAMETTI, professore ordinario dell'Università degli studi di Genova. Sul tema dello stare fuori lei ha perfettamente ragione. È vero che abbiamo un dubbio su quanto questa cosa a livello planetario distrugga posti di lavoro. Sicuramente distrugge posti di lavoro di qualità modesta (lavori ripetitivi e lavori potenzialmente esposti a rischi per la salute), quindi una distruzione di posti di lavoro ci Pag. 31sarà senz'altro. La grande domanda è: i nuovi posti saranno sufficienti a compensare ?
  Ci sarà, ahimè, una transizione molto dolorosa dal punto di vista sociale, che andrebbe accompagnata. Purtroppo, mi sembra che i tempi per la finanza pubblica non siano esattamente i migliori, nel senso che è difficile che l'operaio cinquantenne che perde il posto di lavoro possa essere messo a fare data analytics sui big data. È vero che magari si distrugge un posto di lavoro qui e se ne crea un altro da un'altra parte, però è molto difficile pensare che la stessa persona possa andare a occuparlo (in alcuni casi forse sì, ma, ahimè, in altri no).
  Sicuramente dal punto di vista sociale sarà una transizione dolorosa, però l'opzione di stare fuori sarebbe folle, poiché a quel punto, non solo avremmo tutta la distruzione di posti di lavoro, ma non ci giocheremmo neanche la chance di costruirne di nuovi. Dunque, sono molto d'accordo con lei.
  Sul tema delle piccole imprese, lei pone le questioni al centro di tutto. Io onestamente, ahimè, non ho una ricetta. Quale cultura possiamo provare a dare ? A me viene da citare sicuramente la cultura digitale. Scherzando con un collega, si diceva che ci vorrebbero le applicazioni tecniche 2.0, cioè qualcosa che fin dall'età della scuola dia delle basi.
  Tuttavia, questo è anche un mondo in cui l'aspetto creativo è importante. Immaginare le cose diverse da come oggi sono è fondamentale. La stampante 3D è importante, non perché ci permette di fare gli occhiali con una tecnologia diversa, ma perché occorre ripensare e ottimizzare la forma di molti oggetti per sfruttare appieno queste potenzialità.
  Di conseguenza, non mi sento di dire che ci vuole solo una cultura digitale. Secondo me, ci vuole anche una cultura creativa e duttile. Credo che la nostra scuola non dovrebbe solo puntare a insegnare la programmazione digitale, ma dovrebbe aiutare i ragazzi a pensare anche in termini creativi.

  PRESIDENTE. Ringrazio il nostro ospite e dichiaro conclusa l'audizione.
  Autorizzo la pubblicazione della documentazione consegnata in calce al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato 4).
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta, sospesa alle 11.45, è ripresa alle 11.50.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE IGNAZIO ABRIGNANI

Audizione di rappresentanti dell'Istituto Italiano di Tecnologia (IIT).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su «Industria 4.0»: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali, l'audizione di rappresentanti dell'Istituto Italiano di Tecnologia (IIT).
  Sono presenti il dottor Stefano Desiderio, il dottor Stefano Amoroso, il dottor Salvatore Majorana e il dottor Giorgio Metta.
  Come al solito, farete una breve esposizione di 10-15 minuti, in modo da poter dare successivamente ai commissari la possibilità di formulare quesiti ed osservazioni.
  Do la parola a Salvatore Majorana per lo svolgimento della sua relazione.

  SALVATORE MAJORANA, Technology transfer dell'Istituto Italiano di Tecnologia. Grazie, presidente, e buongiorno. Abbiamo preparato una rapida esposizione delle attività della Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia e una traduzione delle nostre attività di ricerche nell'ambito dell'industria 4.0.
  L'istituto è un centro di ricerca dedicato alla ricerca scientifica e al trasferimento delle tecnologie al mercato e all'industria. Ha una sede principale a Genova, dieci sedi in Italia e due outstation nell'area Pag. 32di Boston, al MIT e ad Harvard. Siamo circa 1.400 persone, con provenienza da 54 diverse nazionalità, un profilo molto eterogeneo e un'età media molto giovane.
  Le attività caratteristiche si snodano intorno a tre pilastri: le robotiche, le scienze della vita (le neuroscienze) e le scienze dei materiali. L'istituto lavora nell'ottica di indirizzare le esigenze che questo pianeta affronterà in termini di Paesi industrializzati, con una crescita dell'età media della nostra popolazione, l'insorgere della necessità di avere macchine che ci aiutino a vivere meglio la nostra vita, farmaci e metodi per affrontare le tipiche malattie della terza età e, quindi, materiali che collaborino e che facilitino il raggiungimento di questo scopo.
  In relazione al sistema delle imprese, la ricerca che svolgiamo si pone un obiettivo tipico di un modello technology push. Abbiamo un piano scientifico che indirizza la nostra ricerca. Da qui vengono fuori invenzioni, brevetti e applicazioni dimostrative. È qua che cominciamo a cercare il rapporto con le imprese, che si sostanzia nell'incontrare imprenditori e associazioni di categoria per promuovere le attività che facciamo; nel trovare l'incrocio con i loro fabbisogni, necessità o desideri applicativi; nello sviluppare insieme dei prototipi e nell'accompagnare le imprese verso la scalabilità industriale di tali applicazioni, fintanto che non passiamo la mano e lasciamo che le imprese portino sul mercato le tecnologie.
  In sintesi, il nostro coinvolgimento è massimo nella prima fase di questa filiera, mentre tipicamente le imprese sono molto assenti nella fase di ricerca. Assolviamo al compito di trasferire le nostre tecnologie, lavorando a braccetto con le imprese nel portare i risultati della ricerca su applicazioni pratiche.
  Questa è una brevissima introduzione su come funziona l'Istituto Italiano di Tecnologia.
  Nel contesto dell'industria 4.0 – non devo sicuramente raccontarlo in questa sede – siamo di fronte alla frontiera dell’information network, ovvero la capacità di collegare e di gestire grandi quantità di dati.
  A questo proposito, riporto uno schema tratto da una pubblicazione molto efficace di Roland Berger del 2014, in cui si mettono assieme i componenti che sostanziano l'industria 4.0. Mi serve per introdurre la declinazione delle nostre ricerche in quest'ambito.
  I componenti che caratterizzano l'industria 4.0 sono sostanzialmente elementi collegati a: nuovi sensori, che acquisiscono informazioni dal sistema produttivo e riescono a scambiarle efficacemente e in maniera automatica con altre stazioni di lavoro; nuovi materiali, che consentono, non solo nuove prestazioni sui sistemi industriali, ma anche la predisposizione di sistemi produttivi basati sul metodo della manifattura additiva, cioè la stampante 3D, la produzione in remoto e la delocalizzazione del sistema produttivo. Questo si accompagna con una maggiore automazione.
  Sostanzialmente, nel contesto di fabbriche 4.0, assistiamo al proliferare di sistemi che generano nuove informazioni, producono nuove funzionalità e vanno gestiti in un modo coordinato.
  Cosa vuol dire fare ricerca in questo contesto ? Fare ricerca in questo contesto vuol dire affrontare il problema di sviluppare un banco di prova dentro cui far convergere sistemi di sensoristica, sistemi di visione e sistemi di interpretazione dei dati, in maniera tale da consentire alle nostre macchine di interagire in modo naturale con l'ambiente circostante.
  La ricerca nel campo della robotica umanoide – passerò la parola a Giorgio Metta, che farà un approfondimento su questo tema – ci consente di esplorare nuovi materiali, nuovi sistemi di sensori, ma soprattutto nuovi sistemi per organizzare le informazioni che derivano da macchine evolute.
  Si tratta di progetti che oggi hanno un respiro internazionale. ICub è una piattaforma adottata da oltre 30 istituti di ricerca in giro per il mondo; è considerato Pag. 33il robot umanoide più evoluto ed è il paradigma della palestra per l'intelligenza artificiale.
  Ovviamente noi trattiamo sistemi di manipolazione. Sospenderei qui la parte su iCub, perché vorrei che Giorgio ci desse degli approfondimenti mirati. Mi fa piacere dirvi che, se studiamo robot per imparare a interagire con l'uomo, spesso succede che il robot ci restituisce il favore, vale a dire che impariamo a sviluppare, ad esempio, delle macchine che consentono di trattare casi di fisioterapia voluta, in maniera da oggettivizzare, standardizzare, uniformare e protocollare trattamenti che fino a ieri erano manuali, abbattendo il costo per il sistema sanitario e allargando la platea di servizi.
  La robotica riabilitativa sviluppata nel contesto del progetto INAIL ci consente di studiare tre filoni fondamentali. Il primo è costituito dalle macchine per la riabilitazione. Il secondo è quello delle protesi poliarticolate. Fino a ieri la protesi era un oggetto dummy (non funzionale); oggi – vi mostrerò un video su questo – le protesi consentono di sviluppare funzionalità nuove.
  Le funzionalità nuove sono ereditate dall'esperienza fatta sui robot, ma consentono, ad esempio, a un soggetto amputato che mantiene l'uso dei muscoli dell'avambraccio di controllare una protesi esterna che funge da mano. Questo è un esperimento vero, fatto da un signore che da trent'anni non aveva la mano, al quale è stata installata una mano robotica, che ritorna a funzionare.
  Poter sviluppare robotica che consenta di migliorare la qualità della vita è una delle missioni essenziali del nostro progetto.
  In tal modo, vengono fuori idee tipo miscelare sistemi informativi derivati dalle telecamere classiche con sistemi di acquisizione audio, in maniera tale da tracciare, ad esempio, eventi in un contesto indefinito. Con queste video-audiocamere è possibile sviluppare sistemi tracciamento di droni, anche quando il drone non è visibile; è possibile individuare eventi critici all'interno di folle; è possibile controllare il passaggio all'interno di un aeroporto.
  Passo alla scienza dei materiali, perché ci apre un altro capitolo. Un materiale convenzionale come una spugna, che tipicamente dovrebbe assorbire l'acqua, viene trattato in maniera tale da respingere l'acqua, però al contempo viene trattato in modo che assorba l'olio. Con un semplice strumento, un trattamento del tutto economico, si riesce a generare un prodotto che fa da filtro tra olio e acqua. Immaginate delle spugne che possano galleggiare su un mare inquinato. Questo è un contributo che da un punto di vista d'impatto ambientale possiamo dare con le nuove tecnologie.
  Ci sono poi sistemi per il trattamento della carta, sistemi per fare l’uptake e il rilascio controllato di farmaci all'interno dell'organismo, metodi per trattare le superfici che tipicamente possono essere, per esempio, un vetro classico in cui l'acqua che scivola rimane e lascia la traccia. Diversamente, un sistema trattato consente all'acqua di scorrere. Aumentare lo scorrimento tra le superfici ci consente di generare vernici che rendano più efficiente l'avanzare delle navi in mare, per esempio, oppure sistemi per trattare catene di produzione che incidentalmente avranno degli accumuli – per esempio, del sistema alimentare – di materiali residui più bassi. Pertanto, si riducono i tempi di fermo macchina per il lavaggio delle filiere e delle catene alimentari.
  I materiali consentono anche di guardare un integrale complessivo del ciclo produttivo. Il sistema alimentare genera degli scarti. La lavorazione di bucce od altro produce dei residui. Con i residui siamo riusciti a ottenere la trasformazione in un sistema plastico, che può essere magari reimpiegato per il packaging.
  Immagino sempre di avere degli spinaci che arrivano dal campo e che vengono ripuliti. Con le foglie che dovrei scartare riesco a creare un foglio plastico con cui incarto gli spinaci e servo gli spinaci in foglio di spinaci al supermercato. Ho cambiato il ciclo produttivo e sono entrato in un meccanismo in cui la tecnologia ha Pag. 34modificato non solo il sistema del packaging, ma anche il sistema di servizio e di fornitura.
  Scorro rapidamente sui sistemi che consentono di generare energia. Stiamo parlando di sistemi abilitanti all'alimentare e sensori distribuiti. Di nuovo torniamo nel merito dei grandi dati generati da grandi quantità di apparecchi che autoconsumano energia, come sensori vestibili e wearable electronics, o sistemi che producono energia al soffio del vento, magari distribuibili sui guard-rail delle autostrade, in maniera tale da consentire il recupero di un'energia disponibile buttata, come il flusso d'aria generato dal passaggio di un'auto.
  Chiudo guardando i materiali nuovi, come il grafene, vincitore del Premio Nobel, che ha delle straordinarie caratteristiche. Ebbene, abbiamo imparato a isolarlo, a produrlo e a inserirlo in sistemi produttivi che consentano ai manufatti di acquisire nuove funzionalità. Di nuovo, all'interno di Fabbrica 4.0 l'introduzione di nuovi metodi e di nuovi trattamenti consentirà di sviluppare un ciclo più economico nel trattamento, e non solo, ma anche di introdurre sui sistemi, sui consumer goods, elementi che genereranno nuovi dati.
  Passo rapidamente a un quadro di insieme. L'IIT si impegna nel proporre al mercato queste soluzioni e molto spesso genera delle nuove aziende. È uno dei tratti fondamentali ed essenziali della nostra missione. Sono 11 le start-up finora nate e 4 quelle in fase di nascita. Abbiamo 25 progetti in pipeline e forse un sistema al contorno che dovrebbe essere stimolato per prestare attenzione a questo tipo di innovazione.
  Mi farebbe piacere, a questo punto, farvi fare un viaggio nell'intelligenza artificiale, che è un po’ il cuore del sistema della gestione del dato, passando la parola a Giorgio Metta, che ci racconta di questa dimensione.

  GIORGIO METTA, Deputy Director dell'Istituto Italiano di Tecnologia. Grazie. Buongiorno a tutti. Nel video che andiamo a vedere c’è un esempio di integrazione di diverse tecnologie. Dicevamo prima che la robotica umanoide è un po’ la palestra nella quale si possono cimentare diverse discipline per realizzare soluzioni intelligenti. In questo video di fatto si vede un'integrazione tra alcune cose che facciamo noi e altre che sono poi disponibili, lo smartphone su tutte.
  Quello che abbiamo fatto è stato collegare l'interfaccia dello smartphone. In questo caso, il robot riconosce la persona e la chiama per nome. La persona può parlare. I dati vengono mandati fino a Mountain View perché c’è un sistema che è parte di Google e che ci interpreta il linguaggio. Poi noi lo mandiamo al nostro server, che elabora quello che è arrivato indietro da Google. Il nostro server, incidentalmente, sta a Boston, nel nostro laboratorio condiviso. I dati tornano poi indietro fino a Genova. In questo esperimento abbiamo connesso diversi posti nel mondo per realizzare questa funzionalità.
  Si possono fare delle domande al robot. In questo caso lui fa una ricerca su Google per dare la risposta. Quando, però, si ha la frase, essa viene elaborata, invece, da uno dei nostri server per capire che cosa sia stato chiesto in effetti al robot. In questo caso si fanno domande generiche. Tra un momento vediamo, invece, sempre nella stessa dimostrazione, un'altra applicazione, in cui il robot utilizza il suo sistema visivo per elaborare quello che vede in locale.
  Anche in questo caso c’è una connessione con l'argomento dei big data, perché l'allenamento dei sistemi visivi per queste macchine viene fatto partendo da grosse ruoli di dati. C’è un milione di immagini che sono state preelaborate e che consentono al robot di filtrare quello che vede e di riconoscere, per esempio, diversi oggetti. Qui gli viene chiesto dov’è un particolare oggetto. Lui guarda, lo individua e poi indica l'oggetto corretto.
  Tutto questo vi dà un'idea di quello che potremo vedere in un prossimo futuro, ossia l'integrazione tra sistemi distribuiti in cloud, l'analisi dei big data, la robotica e, quindi, la capacità di generare delle Pag. 35azioni e dei movimenti e l'interfaccia con l'utente, che è un'interfaccia piuttosto naturale, dal momento che avviene attraverso il parlato, in questo caso.
  Negli occhi ha le telecamere ed elabora le immagini che vede in tempo reale. Per l'apprendimento le immagini sono state immagazzinate in precedenza. Quello che vede in quel momento è proprio l'immagine che arriva dalla telecamera, che viene elaborata in tempo reale in circa 30 millisecondi. Poi lui produce la risposta.

  SALVATORE MAJORANA, Technology transfer dell'Istituto Italiano di Tecnologia. Se posso chiudere su questo, avete notato come l'insieme delle attività che facciamo sia propedeutico a mettere assieme tanti pezzi di una catena che troviamo in un sistema produttivo classico. Macchine che si devono parlare dovranno in qualche modo scambiarsi dati, prendere delle decisioni e scegliere. Nell'accezione di Fabbrica 4.0 l'IIT si pone come un fornitore di soluzioni tecnologiche a cui si può attingere.

  PRESIDENTE. Grazie. È sicuramente piuttosto impressionante, come prospettiva, ma, come dite voi, questo è il futuro e ci dobbiamo abituare tutti. Certe immagini sono davvero, incredibili. Si vedevano solo in quei film di guerra del futuro dove, a un certo punto, ti applicavano queste apparecchiature e tornavi normale.
  Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  LORENZO BASSO. Ho una domanda che, in realtà, riguarda più quelle che sono state le vostre occasioni di interfacciarvi con il mondo industriale. Mi riferisco a ciò che lei prima richiamava sul trasferimento tecnologico. Qual è stato l'interesse da parte delle aziende italiane ?
  Nel corso delle audizioni fatte questa mattina abbiamo visto il problema del dimensionamento come uno dei problemi per poter poi implementare nuove tecnologie che hanno la necessità, prima di tutto, di una cultura aperta da parte dell'imprenditore e poi anche delle competenze da parte di chi guida le aziende nel cercare di implementare queste nuove tecnologie.
  Poiché – conosciamo alcuni dei vostri studi e ricerche che riguardano anche, per esempio, tutta la parte del packaging alimentare, ossia qualcosa che può interfacciarsi con alcuni dei settori in cui l'Italia ha ancora una leadership, volevamo sapere se c’è un interesse da parte dell'imprenditoria italiana rispetto alle vostre ricerche e ai vostri studi o se siano più le aziende straniere e internazionali a richiedere i vostri brevetti rispetto a quelle del tessuto economico italiano.

  PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per la replica.

  SALVATORE MAJORANA, Technology transfer dell'Istituto Italiano di Tecnologia. Grazie, onorevole. Devo dire che abbiamo fatto negli anni un grande lavoro di comunicazione, che ci è servito a farci conoscere. Questo è stato un primo zoccolo da superare.
  Ogni volta che, però, entriamo in contatto con aziende che hanno un profilo tecnologico o un'esigenza da risolvere, l'interesse è veramente alto, con – se mi permettete – un po’ di stupore da parte di alcune aziende nel trovare un istituto che fa ricerca e che è pronto e, anzi, interessato a vedere le proprie ricerche applicate al mercato.
  Il segnale che vi do è che l'Italia è un Paese pronto a capire e a comprendere la tecnologia. Quello che, invece, è mancato spesso – lo riconosco; nel suo intervento c'era un cenno a questo – è la capacità di destinare risorse e tempo a tradurre le tecnologie in prodotti.
  Noi facciamo circa un centinaio di progetti con imprese all'anno. Almeno la metà sono aziende italiane e di dimensione media o medio-grande. Le altre sono aziende internazionali di dimensioni grandi, in genere. Il salto tra la dimensione italiana e quella internazionale si percepisce. Si percepisce nel metodo con cui una ricerca che durerà da un anno e Pag. 36mezzo a tre anni, dai 18 ai 36 mesi, viene considerata normale, mentre è un mal di testa per l'imprenditore italiano, che in sei mesi vuole essere sul mercato e non può destinare risorse per 300-400-500.000 euro per fare ricerca.
  Pertanto, si tratta di un sistema che ha, da un lato, delle capacità straordinarie, un'attenzione all'innovazione sviluppata e un desiderio di trovare una ricerca pronta a trasferire la tecnologia. Facciamo un po’ di mea culpa: il sistema della ricerca non ha abituato bene le imprese molto spesso. Noi cerchiamo di cambiare passo. Dall'altro lato, c’è un sistema al contorno di finanziamenti o dimensione aziendale che non facilita questo percorso.
  La creazione di consorzi potrebbe essere un'idea, così come le reti di imprese, ma il tema vero è che la tecnologia è un elemento strategico per qualsiasi azienda. Pertanto, la condivisione di questo know-how con gente che si occupa più o meno dello stesso settore è vista come non particolarmente desiderabile.

  LORENZO BECATTINI. Il lavoro sulle microturbine l'avete fatto con un'azienda italiana, genovese ?

  SALVATORE MAJORANA, Technology transfer dell'Istituto Italiano di Tecnologia. Il lavoro sulla microturbina l'abbiamo sviluppato internamente. Dopodiché, la start-up che è nata ha ottenuto finanziamenti da un gruppo di privati, è andata a certificare la turbina perché potesse lavorare in ambiente esplosivo con i gas e oggi vede un test sul campo presso una centrale del gas che tipicamente non utilizza reti elettriche per prevenire possibilità di esplosioni.
  L'esperienza fatta ci dice che è un percorso da disegnare, perché, quando andiamo a relazionarci con il sistema normativo che deve approvare la microturbina in un ambiente esplosivo, ci viene opposta la tabella dei dati classici delle turbine dell'Ansaldo. Evidentemente una tolleranza di qualche millimetro su un oggetto grosso quanto una moneta non è ammissibile. Allora abbiamo dovuto in qualche modo riscrivere anche le tabelle di certificazione. Si tratta, quindi, di un lavoro che parte dalla ricerca, ma che si estende sul sistema normativo, sul sistema impiantistico e via elencando. Ha una propagazione e una percolazione su tutto il sistema.

  PRESIDENTE. Vi ringraziamo moltissimo perché siete stati molto istruttivi e continuiamo ad augurarvi buon lavoro, perché riguarda il futuro di tutti. Grazie molte.
  Autorizzo la pubblicazione della documentazione consegnata in calce al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegati 5 e 6).
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta, sospesa alle 12.10, è ripresa alle 12.15.

Audizione di rappresentanti del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su «Industria 4.0»: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali, l'audizione di rappresentanti del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).
  Sono presenti il direttore del Dipartimento ingegneria e ICT, dottor Marco Conti, e la dottoressa Rosanna Fornasiero, ricercatrice.
  Do la parola al dottor Conti la relazione introduttiva.

  MARCO CONTI, direttore del Dipartimento ingegneria, ICT e tecnologie per l'energia e i trasporti del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Buongiorno a tutti. Anche a nome del presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche vi ringrazio per l'invito al CNR a partecipare a quest'audizione su un tema che vede il CNR molto coinvolto, in particolare col dipartimento Pag. 37che mi trovo a dirigere, il Dipartimento di ingegneria, ICT e tecnologie per l'energia e i trasporti.
  Si tratta di un dipartimento che ha una caratteristica un po’ unica a livello nazionale. È, infatti, un dipartimento di tipo multidisciplinare, in cui abbiamo competenze fortissime nel settore ICT – andiamo a coprire tutte le tecnologie abilitanti del mondo digitale per quanto riguarda Industria 4.0 – ma, allo stesso tempo, abbiamo una forte competenza e anche una presenza nazionale di leadership nel settore della Fabbrica del futuro, delle tecnologie della robotica industriale e di tutte le altre tecnologie in qualche modo correlate con Industria 4.0, che vanno dai materiali alle tecnologie energetiche sostenibili, alle biotecnologie e via elencando.
  Tutte le tecnologie citate nel vostro documento introduttivo sono in qualche modo coperte dal nostro dipartimento e tutto questo trova anche una motivazione molto forte ed emergente nel settore dell'innovazione. Quello che sta emergendo a livello di innovazione nel settore dell'ingegneria è l'emergenza della confluenza tra quelli che sono chiamati Cyber-Physical System e l'internet delle cose.
  Che cosa vuol dire questo ? Vuol dire che nell'ingegneria in tutti i settori dell'ingegneria tradizionale (meccanica, automotive, costruzioni) sono attesi grossi impatti, grossi cambiamenti e grossa evoluzione, dovuti proprio all'introduzione delle tecnologie ICT. Esse agiscono creando un secondo livello sopra il livello fisico, un livello virtuale, che costruisce una sorta di cervello intelligente della realtà fisica. Viene creata, quindi, una mappatura virtuale della realtà fisica, partendo appunto dalla sensoristica e dall'Internet delle cose, fino ad arrivare al cloud, dove tecniche quali big data analytics, machine learning e intelligenza artificiale permettono di ragionare sulla rappresentazione virtuale della realtà fisica in modo da ottimizzare i sistemi fisici. Può trattarsi della fabbrica, ma anche dell'automobile che si guida da sola o del sistema di trasporti.
  Questo è un concetto che è più generale del concetto di Industria 4.0, anche se si basa esattamente sugli stessi princìpi. Infatti, quello che volevamo sottolineare è che questa dimensione di innovazione, che è chiaramente riportata nel documento «Industria 4.0», si trova molto marcata in molti altri settori.
  Inoltre, la presenza di questo livello virtuale di rappresentazione del mondo fisico permette facilmente un'interconnessione tra tutte le infrastrutture fisiche, che possono essere fabbriche smart connesse tra di loro, ma non solo: posso costruire la catena del valore che comprenda dalla fabbrica, al servizio logistico, alla smart grid stessa, in modo da rendere la fabbrica adattiva alla disponibilità eventualmente di risorse energetiche rinnovabili, in modo da renderla più sostenibile. È possibile creare un ecosistema unito integrato end-to-end dalle tecnologie digitali.
  In questo modello entra in gioco anche una nuova modalità di prodotto, in cui il prodotto stesso diventa intelligente. Anche il prodotto ha una sua dimensione virtuale e porta con sé dati e informazioni su come è stato prodotto e su come è stato utilizzato. Provoca, quindi, anche un feedback sulla fabbrica stessa e sulla produzione, perché si sa come è stato utilizzato dai cittadini e come è stato prodotto e, quindi, si può andare ad aggiornare il sistema stesso in maniera dinamica. Si crea anche un ciclo continuo nel sistema di produzione. Questo è lo scenario.
  L'ultima cosa che volevo dire relativamente a questo scenario è che si basa fortemente su un technology push, ossia sull'introduzione di tecnologie innovative che i recenti report del McKinsey hanno definito come disruptive technologies, ossia tecnologie che hanno un potenziale economico di trilioni di dollari (mille miliardi di dollari) come ordine del mercato. Si tratta di tecnologie che andranno a cambiare completamente la realtà e che sono anche tecnologie di tipo esponenziale. A una fase iniziale, adesso, di penetrazione lineare del mercato seguirà a breve una crescita esponenziale del loro utilizzo. Andranno, quindi, veramente a cambiare il mercato.Pag. 38
  Fra queste tecnologie la prima colonna è fondamentalmente composta da tutte le tecnologie digitali che entrano dentro il modello di Industria 4.0, dall'Internet delle cose, alle reti, all'intelligenza artificiale, al cloud, alla robotics. Anche nella seconda colonna molte delle tipologie previste sono comunque correlate con Industria 4.0, in particolare l’additive manufacturing, il 3D printing o le tecnologie energetiche innovative.
  Sicuramente c’è una dimensione importantissima che sta emergendo, su cui il Paese deve comunque andare a investire, ma c’è un «però»: non è detto che questo modello, che è stato sviluppato per quanto riguarda Industria 4.0 fondamentalmente dalla Germania, pensando a un modello industriale con grosse corporation, si possa replicare, as it is, in Italia nel settore del manifatturiero.
  Il messaggio è che, da una parte, sicuramente queste tecnologie devono essere introdotte nel Paese e portate avanti, ma con qualche livello di cautela per quanto riguarda il manifatturiero. Qui entra in gioco il CNR, il quale agisce come punto di contatto proprio nei settori dominanti Industria 4.0, sia l'ICT, sia tutto quello che avviene a livello di sistemi avanzati di produzione, sia a livello nazionale, sia a livello internazionale.
  In particolare, siamo molto presenti a livello europeo. Partecipiamo a tutte le iniziative Horizon e abbiamo un link molto forte con il Fraunhofer Institute, che è il nostro corrispondente in Germania. Sono loro il corporate research center per l'industria tedesca e noi vorremmo aspirare a esserlo per l'industria italiana. Partecipiamo a tutti i tavoli europei in cui viene fatto il roadmapping e vengono elaborati i Piani di sviluppo del manifatturiero europeo, ma poi portiamo questo a livello italiano e collaboriamo fondamentalmente con tutta la filiera industriale, sia con le associazioni confindustriali, nel settore ICT, sia con Federmeccanica, nel settore più meccanico. Cerchiamo anche di favorire un congiungimento fra questi due mondi, che tipicamente sono abbastanza separati.
  Il punto importante, con cui concludo la mia parte per lasciare poi la parola alla dottoressa Fornasiero, è che, proprio come CNR, abbiamo coordinato due iniziative molto importanti. Il primo è il progetto bandiera Fabbrica del futuro. Attualmente abbiamo anche la leadership tecnico-scientifica del cluster tecnologico nazionale Fabbrica intelligente, che ha fatto un roadmapping italiano sulla rivoluzione del manifatturiero italiano partendo dagli scenari internazionali e i modelli di sviluppo internazionale, ma calandoli sui punti di forza e sui punti di debolezza dell'Italia.
  Questo per evitare che, calando il modello Industria 4.0 direttamente com’è in Italia, si vada a favorire l'apertura sul mercato ai nostri competitor e, in realtà, a ridurre i nostri punti di forza, quali, per esempio, l'area della meccatronica e della produzione di macchine utensili, in cui abbiamo punti di forza, che potrebbero, però, essere un po’ spazzati via se si adotta un indirizzo molto spinto verso Industria 4.0.
  Lascio, a questo punto, la parola alla dottoressa Fornasiero, la persona che ha coordinato il gruppo di lavoro che ha fatto la road map italiana della Fabbrica intelligente. Prego.

  ROSANNA FORNASIERO, ricercatrice dell'Istituto di tecnologie industriali e automazione (ITIA) del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Buongiorno a tutti. Grazie per l'opportunità di essere qui. Come ha accennato adesso Marco Conti, il CNR è un attore principale in questa iniziativa, oltre a essere attore principale in iniziative come EFFRA, la piattaforma europea per il manifatturiero, o in altre iniziative europee come, per esempio, la partnership pubblico-privata FoF. Il CNR, in particolare con l'ITIA, l'Istituto di tecnologie industriali e automazione, è particolarmente coinvolto in questo cluster nazionale che è stato avviato tre anni fa dal MIUR insieme ad altri cluster nazionali.
  L'attività che è stata fatta in quest'ultimo periodo è un'attività che ha visto coinvolti i 300 soci del cluster. I soci sono per il 60 per cento aziende PMI e per il 20 Pag. 39per cento grandi imprese. Attraverso un lavoro durato un anno abbiamo definito questa road map per la ricerca e l'innovazione, che dovrebbe supportare le aziende del manifatturiero per affrontare le sfide della società.
  Come dicevo, il cluster rappresenta in effetti questa realtà. Qui vediamo la distribuzione di tutte le aziende che partecipano al cluster. Questo è il documento che abbiamo prodotto e che stiamo utilizzando per interfacciarci sia col MIUR, sia con il MISE per spiegare quali sono le necessità delle aziende manifatturiere.
  Il modello del cluster al suo interno valorizza sia le tecnologie di Industry 4.0, sia altre tecnologie. Le considera come parte di tutte le tecnologie necessarie per il sistema-Paese, che sono tra di loro complementari. Qui abbiamo una lista delle varie tecnologie che abbiamo mappato utilizzando anche le road map a livello europeo. Siamo partiti dalle road map europee di Fabbrica del futuro, SPIRE, Robotics e di tutte le piattaforme più importanti e abbiamo cercato di capire quali potessero essere le più importanti per il manifatturiero.
  Le prime che possiamo considerare sono proprio le tecnologie di produzione e, quindi, i sistemi di produzione. Quello che chiedono le aziende è di poter sviluppare e innovare i sistemi di produzione e di rendere i sistemi di produzione modulari, di puntare su tecnologie laser, su micro e nanotecnologie e anche sulla stampa in 3D e su diversi tipi di tecnologie di produzione.
  Abbiamo poi i sistemi meccatronici, con tutta la parte di sensoristica per il monitoraggio e il controllo delle macchine, le macchine e i robot intelligenti.
  Abbiamo poi sistemi per la modellazione e la simulazione integrata di prodotti, processi e sistemi per la previsione delle performance, per simulare, capire e prevedere come i sistemi complessi si comporteranno nel futuro.
  Ci sono tecnologie che permettono di valorizzare le persone nelle fabbriche e, quindi, sistemi per facilitare l'interazione uomo-macchina e sistemi di realtà virtuale, nonché tecnologie per la sostenibilità industriale, che permettono, per esempio, di migliorare la capacità del sistema Italia di recuperare e riciclare i materiali e i componenti a fine vita.
  Ci sono anche tecnologie legate allo sviluppo di materiali innovativi, come materiali bio-based o ecocompatibili. Tutto questo è collegato anche allo sviluppo di strategie e strumenti a supporto delle strategie per gestire questi nuovi processi produttivi.
  Come vediamo, Industry 4.0 è all'interno di un sistema di tecnologie abilitanti che deve essere considerato nel suo complesso. Se queste tecnologie vengono integrate in modo efficace, possono produrre un impatto significativo per l'Italia e consentire anche alle aziende di raggiungere degli obiettivi strategici legati alla caratterizzazione del sistema Italia. Mettendo insieme le diverse tecnologie, comprese le tecnologie per la digitalizzazione, è possibile quindi raggiungere lo scopo della produzione personalizzata o della sostenibilità industriale.
  La produzione personalizzata può essere facilitata, per esempio, dalle tecnologie digitali, ma deve essere supportata anche da altre tecnologie di produzione che devono essere, a loro volta, innovate. Quello che pensiamo noi è di poter supportare le aziende nell'applicare un approccio al mercato che sia, in un certo senso, bidirezionale: da una parte abbiamo l'approccio del technology push, che garantisce il pieno sfruttamento degli avanzamenti tecnologici, dall'altra abbiamo un approccio market pull, che deve partire dalle esigenze specifiche del mercato e degli utilizzatori per tirare l'innovazione di prodotto e anche di processo.
  Alcune azioni di questo tipo sono già state messe in atto anche attraverso progetti europei. Gli stessi progetti europei recenti chiedono di partire dalle sfide sociali, dalle sfide dal mercato, per sviluppare tecnologie adatte a risolvere problemi che la società pone alle aziende.
  Un altro aspetto importante da considerare è la caratterizzazione del tessuto industriale italiano. La struttura delle Pag. 40aziende è mediamente più piccola rispetto a quella di altri Paesi e, quindi, richiede che venga implementato un modello di sviluppo partecipativo e aperto, in modo che tutti, anche i piccoli, possano trarre beneficio da queste trasformazioni in atto. Le tecnologie digitali possono avere un ruolo per supportare la creazione di reti di impresa attraverso delle piattaforme che potrebbero rendere ancora più forte il sistema industriale.
  Queste piattaforme devono permettere di integrare verticalmente tra di loro le aziende per gestire la progettazione, le forniture e la logistica, ma devono anche integrare orizzontalmente le aziende per poter gestire dei rapporti di collaborazione e riuscire a fare massa critica tra aziende che da sole non potrebbero riuscire a entrare in determinati mercati. Queste piattaforme ICT, in questo caso, data la dimensione delle aziende, devono riuscire a essere basate su standard aperti, che permettano facilmente alle aziende di collegarsi e, quindi, di attivare i servizi necessari, che possono essere configurati ad hoc per ogni singola azienda.
  Un altro punto importante da considerare nell'implementazione delle tecnologie digitali è la questione della circular economy. Industry 4.0 è nata come sfruttamento di tecnologie in sistemi produttivi che fino adesso sono stati sistemi produttivi lineari. Il paradigma che sta emergendo nella circular economy richiede di tener conto del fatto che devo monitorare e devo conoscere che cosa succede al mio prodotto e al mio processo lungo tutto il suo ciclo di vita, non solo nel momento in cui lo produco, ma anche nel momento stesso in cui lo uso e a fine vita. Questo vale sia per il prodotto che va all'utente finale, sia per i sistemi produttivi, per i macchinari e per le macchine utensili, che devono essere abilitati da queste tecnologie a condividere informazioni che possono servire sia alla manutenzione, sia alla gestione della fase di recupero e di dismissione, nonché alla gestione e alla creazione della nuova generazione di prodotti. Grazie a tutte le informazioni che ho raccolto durante la vita del prodotto devo poter creare la nuova generazione di prodotti abilitata dalle informazioni che ho raccolto dai processi a valle.
  Un altro aspetto importante da considerare nell'implementazione delle tecnologie di digitalizzazione è legato alla questione della produzione personalizzata. È necessario lavorare su tecnologie che non irrigidiscano sistemi produttivi, ma che li rendano più trasparenti, in modo da essere facilmente riconfigurabili e adattabili alle esigenze del mercato, che è in continua mutazione. Se queste metodologie e strumenti comportassero un irrigidimento a livello di sviluppo di nuovi prodotti, porterebbero a una difficoltà per le aziende, soprattutto per le PMI, e farebbero loro perdere la flessibilità che le caratterizza e che le rende capaci di essere competitive.
  Un altro aspetto importante da non dimenticare è la centralità del fattore umano. In un contesto nazionale e anche europeo in cui una delle maggiori sfide sociali è rappresentata dall'elevato livello di disoccupazione è estremamente importante fare una valutazione attenta delle conseguenze sulle risorse umane legate all'investimento su nuove tecnologie di digitalizzazione.
  A questo riguardo, quindi, è necessario privilegiare delle soluzioni che mettano l'uomo al centro della produzione e consentano di valorizzare le sue competenze. Questo significa riconoscere all'uomo la capacità, per esempio, di orchestrare e gestire più funzioni attraverso l'asservimento delle macchine, in modo che sia favorita l'interazione con queste macchine. Sono le macchine che lavorano per l'uomo e non viceversa.
  Solo integrando l'approccio Industry 4.0 con le altre tecnologie di produzione si possono riuscire a valorizzare le competenze e la risorsa umana. Per esempio, possono essere sviluppate macchine in grado di dialogare con gli operatori in un linguaggio naturale oppure tramite gesti, oppure macchine e robot che condividono lo spazio di lavoro, ossia robot non più Pag. 41isolati in celle dedicate, ma che possono lavorare nello stesso modo e nello stesso ambiente in condizione di sicurezza.
  Una visione accorta nello sviluppo di queste tecnologie permette di migliorare la cooperazione uomo-macchina e di supportare l'esecuzione di compiti assegnati all'uomo attraverso tecnologie dedicate. Questo vale soprattutto per le piccole e medie imprese, in cui il fattore umano, le competenze e le conoscenze sono particolarmente importanti.

  PRESIDENTE. Grazie. La relazione è stata piuttosto esaustiva da parte di entrambi i nostri oratori sull'argomento, che sta sempre di più prendendo la nostra attenzione.
  Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIANLUCA BENAMATI. Grazie, presidente. Ho un paio di quesiti da formulare. Grazie agli auditi per l'ampia visione fornita.
  Sul tema della produzione personalizzata vorrei se possibile avere un approfondimento. Nel sistema Industria 4.0, sia dal punto di vista dell'Internet delle cose, sia dal punto di vista delle piattaforme di gestione, questo si va a sovrapporre, naturalmente, in termini di capacità di produzione e di risposta sul prodotto, occupandosi questo del processo, alla flessibilità e alla possibilità di risposta delle piccole e medie aziende italiane, che nella catena del valore erano importanti proprio perché introducevano un grado non solo nella qualità del prodotto, ma anche nel sistema di risposta.
  Poiché uno dei temi che stiamo trattando è quello, per taluni aspetti, dell'inadeguatezza della taglia dimensionale del sistema produttivo italiano a partecipare in maniera vincente a questa situazione, occorre cercare di capire quale può essere il ruolo e il valore aggiunto di questa nostra struttura dimensionale in questa sfida.
  Questa questione della produzione personalizzata come la vedete dal punto di vista della piccola e media impresa italiana ? Vorrei capire bene qual è il ruolo che pensate possa svolgere la piccola e media impresa italiana, nella struttura attuale, all'interno di questo procedimento. In altre parole, vorrei sapere se viene travolta o se può ricavarsi ancora un ruolo. Questa è la prima domanda.
  La seconda questione che vorrei porre è molto breve. Qual è il ruolo che immaginate del CNR, ma, più in generale, di un ente di ricerca pubblico nell'accompagnamento di questa transizione del nostro sistema-Paese, ancor prima che del sistema industriale, da oggi a una struttura del manifatturiero che sia più collegata al paradigma di Industria 4.0 ?

  PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per la replica.

  MARCO CONTI, direttore del Dipartimento ingegneria, ICT e tecnologie per l'energia e i trasporti del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Per quanto riguarda come evitare che le nostre piccole-medie aziende vengano spazzate via, in parte ha introdotto l'argomento la dottoressa con il concetto di piattaforma. Ebbene, uno degli elementi che stanno emergendo anche a livello europeo nell'ambito del discorso sul digital single market e che il Commissario Oettinger sta portando avanti consiste nell'introdurre piattaforme dati che permettano la collaborazione tra le entità produttive o le entità che forniscono servizi.
  In questo senso, possiamo abilitare e favorire la nascita di queste piattaforme orizzontali, che permettono di passare da una produzione centralizzata a una produzione quasi completamente distribuita, per cui non c’è più bisogno di avere la grossa fabbrica che fa tutto il ciclo produttivo, ma si possono integrare piccole e medie aziende, ciascuna specializzata in una singola parte. Eventualmente il problema è che esista questa cinghia di trasmissione, ossia questo modo di poter far comunicare e cooperare le aziende.
  È l'idea su cui si basa anche quello che sta emergendo a livello europeo. La Germania ha lanciato un'iniziativa che si Pag. 42chiama Industrial Data Space. Si tratta di creare uno spazio dati che permetta alle aziende di cooperare tra di loro nel processo produttivo. Sarebbe utile avere a disposizione questo tipo di piattaforma, aperta però. Deve essere chiaramente aperta. Qui lo Stato ha da fare molto. Si tratta di favorire la nascita di queste piattaforme aperte, non di proprietari di alcuni grossi complessi industriali, ossia grossi player, ma di una piattaforma completamente aperta...

  GIANLUCA BENAMATI. Un complesso industriale potrebbe avere la sua piattaforma e gestire tutta la sua catena.

  MARCO CONTI, direttore del Dipartimento ingegneria, ICT e tecnologie per l'energia e i trasporti del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Esattamente. Questo è il timore, da una parte, perché questo metterebbe chiaramente fuori gioco le piccole e medie imprese, le quali non avrebbero facilità a entrare nel mercato e potrebbero entrarci solo alle condizioni imposte dai grossi player.
  Invece, una piattaforma aperta permette l'integrazione di piccoli produttori, ciascuno specializzato in una singola parte del processo produttivo, per farli entrare come partner complessivi di un processo, però, end-to-end, non più come fornitori di un altro player, ma come fornitori di un servizio che viene venduto sul mercato. Si tratta, quindi, di passare dal concetto di produzione centralizzata a quello di produzione completamente distribuita.
  In questo senso, si potrebbero avere a disposizione delle piattaforme come queste di cui si sta iniziando a parlare adesso. La prossima settimana sarò a Bruxelles proprio a un workshop lanciato dal Commissario Oettinger in cui si parla di industrial data platform. Queste industrial data platform possono essere esattamente lo strumento che, sponsorizzato dal pubblico, viene creato per far sì che le aziende possono collaborare.
  La collaborazione nasce, però, chiaramente, dall'avere introdotto almeno quel metalivello digitale, perché è a quel livello che posso coordinare le aziende in maniera estremamente dinamica e flessibile. Ho bisogno di questo livello di coordinamento, che però deve essere fondamentalmente di tipo aperto e disponibile a tutti e, quindi, accessibile a tutti.
  Passando all'altra domanda, quella sul CNR, che cosa può fare un ente di ricerca ? In parte lo stiamo dimostrando in questo settore specifico, perché operiamo già come trait d'union rispetto alla ricerca molto avanzata che avviene sul programma Horizon 2020. Trasferiamo poi questa conoscenza dentro il roadmapping e, quindi, dentro le strategie di evoluzione del manifatturiero, tenendo conto non solo dell'evoluzione tecnologica, ma anche delle esigenze del mercato e delle tipologie di aziende con cui abbiamo a che vedere.
  Uno dei messaggi che il CNR sta cercando di far passare in questi ultimi anni è quello di porsi come una sorta di corporate research center del Paese. Le aziende piccole e le medie imprese non possono fare ricerca da sole. Noi siamo molto disponibili e stiamo lavorando per affiancarle e fornire loro quel supporto di conoscenze, soprattutto di conoscenze molto avanzate, di cui hanno bisogno. Facciamo una ricerca che ha un orizzonte sia di breve, sia di medio, sia di lungo termine. Il breve vuol dire il momento del trasferimento tecnologico verso le aziende, ma facciamo anche ricerca più a lungo termine. Padroneggiamo, per esempio, le disruptive technologies che abbiamo introdotto.
  In questo senso ci proponiamo, e l'abbiamo fatto, per esempio, con il roadmapping. Abbiamo preso la leadership. Il Cluster tecnologico nazionale Fabbrica intelligente è a leadership totalmente CNR. È il CNR che si è fatto promotore di questo tipo di iniziative, che coinvolgono tutto il tessuto industriale italiano.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il CNR per la cortesia e per averci spiegato alcune interessanti questioni. Autorizzo la pubblicazione della documentazione consegnata in calce al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegati 7 e 8).Pag. 43
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta, sospesa alle 12.45, è ripresa alle 12.50.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GUGLIELMO EPIFANI

Audizione del prof. Stefano Denicolai dell'Università degli studi di Pavia.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su «Industria 4.0»: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali, l'audizione del Prof. Stefano Denicolai dell'Università degli studi di Pavia. È presente anche il professor Auricchio, sempre dell'Università degli studi di Pavia.
  Per la gioia del collega Benamati, abbiamo un ingegnere e un economista, il mix multidisciplinare perfetto.
  Do subito la parola al professore Stefano Denicolai.

  STEFANO DENICOLAI, professore associato dell'Università degli studi di Pavia. Grazie per l'attenzione che ci dedicate e per l'invito.
  Come precedete accennato, sono Stefano Nicolai, professore associato dell'Università degli studi di Pavia per il Dipartimento di economia e management. Oggi, sono qui con il professor Ferdinando Auricchio del Dipartimento di ingegneria civile.
  Vorrei, molto rapidamente, fare un quadro sui temi che cerchiamo di affrontare.
  Una piccola nota: chiediamo scusa se c’è qualche differenza nella presentazione che vi mostriamo perché, all'ultimo, abbiamo apportato alcune piccole modifiche. D'altronde, se fossimo venuti domani, probabilmente ne avremmo apportate delle altre perché succede sempre così.
  Faremo una piccola introduzione sul legame fra Industry 4.0 e la stampa 3D perché il nostro intervento sarà un focus sulla stampa a tre dimensioni, quindi cercheremo di ragionare brevemente sul perché noi riteniamo che questo legame sia davvero importante. Inoltre, avremo piacere di presentarvi il piano strategico sulla stampa 3D. L'Università degli studi di Pavia è stata la prima a realizzare un piano strategico ad hoc sul tema, quindi vorremmo raccontarvi della nostra esperienza.
  Vorremmo anche entrare più nel vivo della nostra visione sull'impatto socio-economico di queste tecnologie perché, a nostro avviso, è davvero importante e significativo. Stavolta, non si tratta di slogan perché crediamo ci attendano cambiamenti davvero rilevanti.
  Vorremmo presentarvi qualche prima evidenza e qualche primo risultato degli studi che stiamo facendo. Certo, siamo abbastanza agli inizi, quindi chiediamo scusa per l'incompletezza dei dati, per cui, se avete piacere, vi possiamo mantenere aggiornati sui i dati, man mano che li rilasceremo.
  Passando al primo argomento, vorrei spiegarvi perché ho parlato di legame con il 3D printing. Non vi faccio perdere molto tempo spiegandovi Industry 4.0 che conoscete bene, anche perché penso che stamattina siete già stati inondati definizioni, quindi procederò velocemente. Tuttavia, permettetemi un rapido flash per inquadrare l'argomento.
  Industry 4.0 è un legame di macchine, di sensori e di qualsiasi cosa sia collegabile a internet, quindi, attraverso il crowdsourcing e il crowdcomputing, c’è un numero davvero grande di macchine e sensori collegati fra loro. Cosa facciamo di tutti questi dati e del big data che ci aiuta ad analizzarli ? Non ci accontentiamo di collegare qualsiasi soggetto pensabile, Industry 4.0 può essere collegato anche con le infrastrutture che ci circondano. Non solo, c’è anche un nuovo paradigma produttivo hard, per cui non parliamo soltanto di dati o di virtuale perché anche la manifattura cambia e lo fa con qualcosa di davvero Pag. 44interessante, cioè la stampa 3D o manifattura additiva, che è il tema principale del nostro intervento.
  In modo molto semplice, la stampa 3D è un ribaltare completamente l'approccio manifatturiero tradizionale: anziché partire per sottrazione, cioè prendendo un cubo di marmo e lavorandolo finché non ho la mia statua o quant'altro, è il contrario perché parto dal nulla e man mano aggiungo e creo elementi (stato solido, liquido e così via), finché non si crea il prodotto.
  Per esempio, in questo video, anche se è accelerato, si nota come letteralmente il prodotto nasca dal nulla, per cui, quando dico «il contrario», lo intendo in senso letterale perché è il processo esattamente inverso. Inoltre, questo vuol dire tanto perché è una tecnologia che anzitutto nasce di per sé digitale.
  Sappiamo che avvicinarsi a internet a 30, 40, 50 o 60 anni si può, ma i nativi digitali hanno dei margini di vantaggio. Anche qui, non è poi così diverso perché questa tecnologia, che nasce digitale, ha per definizione un passo in più rispetto a quella tradizionale. Tale tecnologia nasce apposta per Industry 4.0, cioè è nativa digitale.
  Inoltre, è molto importante per Industry 4.0 questo legame che noi enfatizziamo perché, banalmente, è la concretizzazione di modelli virtuali: faccio un modello a tre dimensioni sul mio PC, schiaccio un pulsante – sto banalizzando un po’, per cui vi chiedo scusa – ed è creato il modello.
  Questo è micidiale perché salto dei passaggi, infatti con la tecnologia tradizionale magari avevo il disegno in 3D, ma dovevo comunque realizzare degli stampi, creare una catena produttiva e, con calma, avviare la produzione standardizzata. Con la stampa in 3D, c’è un salto molto rilevante perché schiaccio un pulsante e ho saltato, appunto, questi passaggi che ho raccontato.
  Si avvicina, quindi, la ricerca e lo sviluppo all'attività produttiva perché molte di queste attività si intrecciano che, grazie anche un rimpallarsi di dati e di informazioni, diventano molto più strette. Questo è un impatto molto grosso sul quale dovrò ritornare fra poco.
  C’è finalmente una cogenerazione di valore fra molti attori coinvolti, fino all'utente finale. C’è già chi fa stampare on line oggetti direttamente al consumatore e poi gli vengono consegnati.
  In tal senso, la catena del valore, come dicevo prima, si accorcia e diventa più integrata, quindi è davvero la tecnologia ideale, quando si parla di paradigma Industry 4.0.
  Permettetemi anche quest'ultimo esempio. Siamo stati un po’ abituati a usare l'immaginazione per pensare al progresso tecnologico. Nei film o anche nella realtà, magari vediamo il chirurgo che mette una maschera per la realtà virtuale e fa l'operazione chirurgica o si prepara all'operazione chirurgica con immagini virtuali. In effetti, la realtà ha superato la fantasia perché con la stampa 3D non facciamo vedere i modelli in una stanza virtuale, ma li facciamo toccare.
  Questo è solo un accenno di quello che il professor Auricchio vi spiegherà meglio. Certo è che parliamo di modelli reali, non più di virtuale, quindi davvero la realtà ha superato la fantasia.
  Passo la parola al mio collega per la seconda parte della relazione, dove vi racconteremo del piano strategico e del centro che abbiamo a Pavia. Grazie.

  FERDINANDO AURICCHIO, professore ordinario dell'Università degli studi di Pavia. Circa un anno e mezzo fa, il rettore ha avuto l'idea di chiedere di avviare un processo bottom-up, chiedendo a tutta l'Università di evidenziare delle possibili linee strategiche. Con tutti i colleghi abbiamo creato delle idee. C’è stato anche un lungo processo di selezione anche con una commissione internazionale. Alla fine, sono state selezionate cinque linee strategiche per l'intera Università, il che non vuol dire che i ricercatori non fossero liberi di concentrarsi anche su altre cose, ma che l'Università di Pavia avesse scelto cinque argomenti nei quali crede e sui quali concentrare le attività. Uno di cinque Pag. 45temi strategici è quello sulla stampa 3D. Il titolo del progetto è un po’ articolato perché si parla di «modellazione virtuale e manifattura additiva in particolare con l'attenzione ai materiali avanzati». Il progetto è multidisciplinare e fa capire anche la ricchezza della tecnologia perché per esempio su diciotto dipartimenti che fanno parte dell'Università degli studi di Pavia, ben sedici partecipano al progetto.
  Questo ci fa capire che è una tecnologia manifatturiera, ma anche che è una tecnologia che coinvolge molteplici interessi e ha implicazioni in tantissimi settori, quindi non è solo una tecnologia e basta. Inoltre, abbiamo creato già dei laboratori e ci sono tantissimi ricercatori coinvolti.
  Posso dirvi che, da quando abbiamo lanciato questo progetto, la mia vita è completamente cambiata perché prima ero un professore universitario che faceva ricerche e insegnava, mentre attualmente, con questi argomenti, ho anche un contatto con le imprese che è vivacissimo.
  In effetti, uno gli obiettivi che il rettore aveva proposto era quello di dare visibilità all'Università degli studi di Pavia sul territorio regionale, nazionale e internazionale, il che è stato molto facile perché abbiamo tantissimi contatti, trattandosi di un argomento caldo. Inoltre, questo ci fa capire che non siamo solo noi ad essere innamorati dell'argomento, ma sono tantissime le aziende che stanno a guardare o che stanno iniziando a fare i primi investimenti.
  Abbiamo organizzato questo progetto molto multidisciplinare, come vedete sulla destra della diapositiva, in cinque pilastri che sono secondo me interessanti perché fanno capire la complessità e anche la ricchezza di questa nuova tecnologia.
  Abbiamo un primo pilastro di attività che riguarda la modellazione e la simulazione, quindi la creazione di modelli virtuali e l'ottimizzazione degli oggetti. Un secondo pilastro, nel quale l'Italia può giocare moltissimo, è relativo ai nuovi materiali perché questa tecnologia si presta molto all'utilizzo di tanti materiali diversi. Il terzo pilastro è il manifatturiero classico, quindi occorre reinventare il manifatturiero. Il quarto pilastro riguarda tutto l'impatto socio-economico perché si tratta di una tecnologia che cambia completamente, non solo nei paradigmi di produzione ma anche di distribuzione.
  In merito, mi sembra che gli Stati Uniti abbiano investito in un progetto 112 milioni di euro per stampare un oggetto sulla stazione orbitale, quindi cambiano completamente i paradigmi.
  Inoltre, quasi come un vezzo, abbiamo inserito tutte le applicazioni in un unico grande pilastro, anche se i campi di applicazione possono essere tantissimi.
  Per esempio, a Pavia ci siamo focalizzati su alcune attività. In particolare, una delle attività che ci sta dando grande successo e anche grande visibilità mediatica è la stampa 3D a supporto della chirurgia complessa.
  Pavia è nota a livello nazionale e internazionale per la cardiochirurgia, per la chirurgia generale e per l'ortopedia. Quello che facciamo è fornire degli oggetti. Tutto ciò può risultare strano perché si passa dal paziente che è reale a un oggetto virtuale, come le immagini radiologiche, la TAC o la risonanza magnetica, e poi a un oggetto fisico che noi ricreiamo e che diamo in mano al chirurgo per pianificare l'intervento. Il chirurgo in maniera molto semplice capisce perché, come dico sempre, sa essere anche un ottimo ingegnere, qual è l'aorta fisiologia e quale quella patologia, cioè con l'oggetto in mano riesce a capire la patologia molto meglio e sulla situazione patologica riesce a pianificare l'intervento.
  Si tratta di oggetti che oggigiorno ci vengono chiesti dalla chirurgia a Pavia e che forniamo. Su tali oggetti, i chirurghi pianificano l'intervento, per esempio, come in questo caso, in ambito vascolare.
  C’è un'altra situazione molto interessante. Si tratta di una mandibola dove c’è stata un'asportazione dovuta alla presenza di un tumore. Noi diamo questo oggetto e anche la pianificazione chirurgica, cioè il chirurgo riesce a vedere prima che cosa deve fare in sala chirurgica. Gli elementi arancioni, come vedete, sono delle piastrine Pag. 46metalliche che il chirurgo deve modellare sulla chirurgia, cosa che può fare prima.
  In effetti, noi siamo molto lanciati su tutte le applicazioni di questa tecnologia in ambito medico.
  Certo, quelli che vi ho mostrato sono organi chiaramente in plastica, per cui non funzionanti e non funzionali, però c’è ricerca anche in quel settore e su questo ci stiamo muovendo, come ci sono tantissime attività di ricerca.
  Un altro aspetto che è molto interessante riguarda l'ottimizzazione, cioè, cambiando il paradigma di produzione, cambia anche il paradigma di progettazione, quindi si possono ottenere strutture molto ottimizzate. In merito, non entro nel dettaglio.
  Un'altra applicazione molto interessante perché si cambia completamente scala e l'oggetto che vedete in basso a destra è una trave in cemento armato di tre metri stampata in 3D. In collaborazione con l'Università Federico II di Napoli, abbiamo una grande stampante con cui stampiamo un concio in calcestruzzo che poi viene post-armato.
  Cambia il paradigma di progettazione, quindi cambia il paradigma di distribuzione. C’è un mondo nuovo che si apre e che è ricchissimo di opportunità. Almeno, noi, come Università, ci stiamo lanciando in questa nuova realtà.
  Certo, cambia paradigma tecnologico, ma cambia anche quello strategico organizzativo. In merito, il più grosso errore che si potrebbe fare è credere che queste tecnologie servano per fare un meglio quello stato fatto fino a oggi. Questo può essere vero, ma è anche vero che queste tecnologie servono soprattutto per fare cose nuove che prima non si facevano. Questo è un salto non banale.
  Sull'impatto socio-economico, noi abbiamo individuato sei ambiti prevalenti su cui stiamo lavorando, su cui stiamo ragionando e su cui stiamo raccogliendo diversi dati e testimonianze. Cambiano i modelli di business perché cambia il modello con cui le imprese comprano o affittano le tecnologie. Inoltre, cambia il modello di ricavo perché, nel momento in cui non ti do più un prodotto standardizzato ma uno che puoi personalizzare, creo anche un modello di pagamento e individuo che queste variabili cambino significativamente.
  Un tema che io reputo particolarmente interessante per le implicazioni a livello di politiche industriali particolarmente significativo è quello della riorganizzazione delle catene del valori virtuali.
  Certo, abbiamo imparato che il paradigma dominante – semplifico e me ne scuso – è: faccio la ricerca e lo sviluppo in Italia, ma la manifattura in Cina o dove c’è un costo del lavoro basso. In merito, qualcosa sta cambiando perché il tema è ancora aperto e ci sono ancora confini da definire perché riorganizzare la produzione con la stampa 3D ha implicazioni a livello di prototipizzazione rapida, cioè faccio il prototipo rapidamente a costo basso. Inoltre, c’è molto di più: ci sono cambiamenti nella logistica perché molti prodotti vengono fatti direttamente, quando servono e soprattutto se il pezzo non è molto complesso o c’è bisogno di poche quantità, per cui è meglio stamparli.
  A riguardo, il caso Boeing è interessantissimo. Si sono riorganizzati radicalmente e hanno dato il benservito a diverse migliaia di aziende asiatiche perché, avendo bisogno di pochi pezzi saltuariamente, ormai se li stampano.
  Per quanto riguarda la logistica, Amazon sta facendo degli investimenti enormi in 3D printing perché, anziché trasferire un prodotto che magari non vale da un punto all'altro, lo si realizza direttamente. Addirittura, hanno rilasciato un brevetto per liberalizzare molti prodotti sul camion. Il camion riceve l'ordine, stampa il pezzo e lo consegna direttamente.
  Stiamo vedendo che questo ha un impatto molto rilevante sull'organizzazione dell'attività produttive su scala globale, quindi i confini sono ancora da capire. Inoltre, farei il venditore di fumo, se dicessi che sappiamo già perfettamente come funziona. Certo, il tema è interessante e va capito meglio, anche perché Pag. 47diventa un'ulteriore grande chance per riportare la manifattura nei Paesi avanzati.
  Inoltre, se leggete le interviste recenti, il CEO di General Electric dice che i loro investimenti saranno riportare la produzione, grazie alla tecnologia additiva, negli Stati Uniti. Motorola insieme a Google ha fatto il nuovo smartphone completamente negli Stati Uniti, cioè il Moto X è completamente fatto negli Stati uniti e in larga parte con pezzi stampati in 3D.
  Riguardo la proprietà intellettuale, andrò veloce, anche se ci sono molti impatti. Ve ne indico uno simpatico, ma ce ne sono ancora altri interessanti. Amazon sta lavorando sul vendere, anziché il prodotto, il file. In effetti, se le stampanti 3D diventeranno diffuse in casa, perché ti devo mandare a casa, per esempio, una tazza, quando basta darti il file con cui puoi stamparla. Sto forse un po’ esagerando, ma la direzione è questa.
  Tuttavia, mi chiedo, nel momento in cui ho adottato il file che può essere condiviso, quante stampe io posso fare oppure, avendo la possibilità di personalizzare il prodotto, quanto posso personalizzarlo o quanto mi posso ispirare, per esempio, nel fare una montatura di occhiali, cosa che già avviene e che, se volete, possiamo fare oggi stesso, nel copiare lo stile di Luxottica o altri. In merito, ci sono delle implicazioni interessanti e ancora studiare.
  Riguardo l'impresa circolare, posso dirvi che costruire un prodotto di questo tipo, significa anzitutto non avere scarti perché, se, anziché partire dal pezzo e togliere quello che non mi serve, parto da zero, non ho scarti.
  L'enorme studio sui materiali – per questa tecnologia lo studio sui materiali è fondamentale – porta a migliorare anche l'impatto ambientale.
  Su privacy ed etica, vorrei riportarvi un elemento curioso per un argomento che magari è ancora più importante. Forse avrete visto anche voi che negli Stati Uniti c’è chi ha stampato la pistola 3D in casa. Mi chiedo come ciò sia possibile.
  Concludo con un flash di pochi secondi per dirvi con chi stiamo collaborando. Collaboriamo con tantissimi, ma con due su tutti: con la University of Sussex abbiamo un progetto direttamente su questi argomenti e collaboriamo anche con diversi ricercatori di Harvard Business School. Riteniamo, quindi, di avere una rete piuttosto forte.
  Certo, siamo un po’ in ritardo, ma, rapidamente, vorrei aggiungere che dai primi studi e dai primi dati che stanno emergendo si evidenzia che c’è molto ottimismo, anche se siamo anche molto indietro dove c’è da lavorare.
  Punto primo: le imprese italiane vedono uno spettro di applicazioni relativamente ristretto, concentrandosi su due o tre applicazioni, magari non necessariamente le migliori, per cui c’è bisogno di fare cultura per fargli capire che con Industry 4.0 e il 3D printing si possono fare tante cose.
  Vi ripeto che sono costretto a essere rapido perché i tempi sono ristretti. Tuttavia, vorrei dirvi anche che manca la cultura e le competenze che sono da valorizzare, che i processi di comunicazione son disorganici e che le aziende fanno anche fatica a capire quali siano le opportunità perché tutti raccontano la propria e, forse, anche noi diamo un contributo a creare confusione, quindi chiediamo scusa.
  C’è bisogno di fare coordinamento e far capire alle aziende cosa davvero si può fare e dare messaggi più concreti. Abbiamo bisogno di un modello nostro di Industry 4.0, per cui stiamo attenti a non «scimmiottare» gli Stati Uniti o la Germania perché potrebbe essere molto pericoloso. A nostro avviso, abbiamo tutte le carte in regola per puntare innanzitutto sulla creatività perché la stampa additiva che è il nostro secondo pilastro fondamentale rappresenta l'emblema e la concretizzazione delle capacità creative, quindi chi, se non l'Italia, può valorizzare al massimo questo enorme potenziale ?

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  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ADRIANA GALGANO. Grazie per l'interessante relazione. Io ho una curiosità, in merito a quello che avete detto, cioè sul fatto che le merci potranno rientrare in produzione dall'estero, o che potremo stampare, per esempio, una tazza in casa. In questo ambito, sono state fatte delle valutazioni di impatto sulla logistica ? Quale sarà il ruolo della logistica in tutto questo, cioè nell'integrazione delle aziende eccetera ? Quale sarà il saldo netto ?

  LORENZO BASSO. Vorrei, velocemente, fare alcune domande, di cui una è sulle tecnologie. Ho sentito per la prima volta parlare di manifattura additiva oltre che di stampa 3D. La stampa 3D – ne discutevamo anche col collega – non è fatta soltanto con plastica, ma, oramai, anche con metalli e con nuove leghe fatte dalla sovrapposizione di strati atomici, quindi con «materiali» mai provati finora. In merito, il tema è: quanto questi possano essere utilizzati all'interno degli attuali processi produttivi e degli attuali macchinari, visto che possiamo creare dei pezzi che prima non erano possibili con le normali lavorazioni, e quanto questo potrebbe essere utilizzato all'interno della nervatura industriale del nostro settore manifatturiero di medium tech italiano, se ce ne fosse la possibilità.
  L'altra domanda, invece, è più socio-economica. Può essere un'opportunità il fatto di poter stampare ovunque, soprattutto per un Paese come l'Italia dove abbiamo una piccola e media impresa ovvero una micro-impresa in cui contava molto anche il saper fare e la parte manuale, quindi, se non artigianale, la nostra è una via di mezzo tra la produzione industriale e una produzione industriale di pezzi quasi unici e artigianali. Il mettere a sistema e la possibilità di produrre con una produzione creativa che può essere fatta dovunque e una stampa che a quel punto non ha più bisogno una competenza e di una trasmissione per generazioni di capacità nel saper fare non potrebbe essere un fattore di fortissima penalizzazione rispetto alla nostra struttura delle piccole e medie imprese ?

  FERDINANDO AURICCHIO, professore ordinario presso l'Università degli studi di Pavia. Certo, di tecnologie ce ne sono tantissime: plastica, metalli, nuovi materiali eccetera. Tuttavia, io non penso che questo sia uno svantaggio perché si tratta di una tecnologia – questo è il termine che uso sempre – «abilitante», cioè che permette di fare delle cose. Noi diciamo di essere creativi, quindi, se abbiamo la possibilità di farle, le faremmo.
  Naturalmente, ci vuole inventiva e ci vuole creatività perché cambiano i paradigmi e cambiano alcuni schemi. Bisogna reinventare. In tal senso, noi stiamo facendo già alcune attività con delle aziende. Un esempio per tutti: in un'azienda leader al mondo di pompe e valvole di Milano, con questa tecnologia, bisogna inventare la nuova progettazione. Tuttavia, questo è anche un sistema per superare dei gap. In Italia, ci sono stati dei grandi investimenti, forse non così grandi come in altri Paesi. Questa azienda mi ha detto: «con questa tecnologia che abbiamo portato in casa, riusciamo in tempi rapidissimi affare prototipi funzionanti, quindi a vincere le gare nel mondo». In questo, io non vedo una limitazione per il mondo italiano, anzi è uno stimolo a inventare nuove cose. Certo, capisco la paura per l'artigianato.
  Vi riporto un'esperienza personale. La stampante 3D, fino a circa un mese fa, si comprava dal giornalaio, ma vi garantisco che, comprandola, non avreste stampato nulla perché, come accade in tutti i processi produttivi, anche questo va ben tarato per funzionare.
  Certo, c’è l'idea della stampante che fa tutto, ma va detto che è una macchina che va ben tarata sul processo e sull'oggetto, quindi c’è moltissimo spazio per la capacità dell'artigiano, così come per esempio soprattutto sulle plastiche dove noi abbiamo una grandissima tradizione perché Pag. 49c’è plastica e plastica e c’è oggetto e oggetto. Si tratta di un mondo che si apre veramente incredibile.

  STEFANO DENICOLAI, professore associato dell'Università degli studi di Pavia. Vorrei rispondere rapidamente a due domande molto interessanti.
  Riguardo la logistica, alcuni degli esempi che ho citato erano emblematici, anche se io per primo non credo tantissimo che la stampa a casa della tazza sarà una rivoluzione.
  Fra gli ambiti dove, invece, la rivoluzione è molto vicina e sta diventando molto concreta, c’è quello della logistica. Stiamo facendo alcuni studi per darvi anche dei numeri sull'impatto in percentuale, sui costi relativi e sulle condizioni dove questo è possibile. Purtroppo, a oggi non li abbiamo, però posso dirvi che è uno degli ambiti dove si è più avanti.
  Certo, a seconda delle parti o dei pezzi e della loro complessità e della numerosità di cui ho bisogno, ci si può riorganizzare, facendo in modo che la stampa 3D diventi più conveniente. Stiamo studiando i break even point, dove queste due variabili principali fanno sì che sia più opportuno un modo più di un altro. Tuttavia, veramente l'impatto, se per le altre cose era più di colore, qui è veramente radicale.
  Boeing e General Electric hanno fatto investimenti enormi. La stessa General Electric, nell'ambito dell’aviation dove la stampa 3D è più diffusa, ha fatto l'impianto produttivo additive manufacturing più grande del mondo in Italia, vicino a Novara. Questo è interessante.
  Sulla logistica non vi so ancora dare dei numeri perché siamo agli inizi, ma posso dirvi che sono numeri importanti e che, in quell'ambito, la rivoluzione avanza.
  Vorrei rapidamente rispondere a un'altra domanda molto interessante che si collega a quanto vi ho detto in apertura: se consideriamo questi aspetti per rifare quello che facciamo già oggi, prenderemo delle batoste.
  Abbiamo bisogno di sviluppare la cultura e soprattutto le competenze. Certo, si tratta di una sfida, quindi ha ragione lei a dire che è pericoloso. Voglio dire che, se mi chiedete se è una tecnologia pronta, cioè ready to use, che ci farà cambiare il tessuto produttivo italiano in meglio, vi rispondo di no perché è una sfida.
  Le aziende vanno accompagnate e bisogna offrirgli le competenze e le culture. Stiamo intervistano le aziende che vendono le stampanti 3D e la frase più comune che stiamo raccogliendo è: «io la vendo, ma poi gli acquirenti si rendono conto che non sanno utilizzarla o non sanno utilizzarla come vorrebbero». Da un lato, c’è un'enorme opportunità, dall'altro è vero che è un pericolo. Sta appunto a tutti noi, ognuno con la sua parte, accompagnare questo processo perché è vero quello che dice lei sul tema degli artigiani, ma è anche vero, se lo vede dall'altra parte, che noi forse abbiamo delle carte in più per fare questo passaggio sul fronte creativo. Questa è la mia opinione.

  PRESIDENTE. Vi ringraziamo e vi chiediamo di tenerci aggiornati sulle vostre ricerche.
  Autorizzo la pubblicazione della documentazione consegnata in calce al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegati 9 e 10).
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 13.25.

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