XVII Legislatura

IX Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 8 di Mercoledì 17 settembre 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Meta Michele Pompeo , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SUL SISTEMA DEI SERVIZI DI MEDIA AUDIOVISIVI E RADIOFONICI

Audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali (ANICA).
Meta Michele Pompeo , Presidente ... 3 
Balassone Stefano , Segretario Generale dell'Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali (ANICA) ... 3 
Meta Michele Pompeo , Presidente ... 7 
Bonaccorsi Lorenza (PD)  ... 8 
Bergamini Deborah (FI-PdL)  ... 8 
Coppola Paolo (PD)  ... 9 
Meta Michele Pompeo , Presidente ... 10 
Balassone Stefano , Segretario Generale dell'Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali (ANICA) ... 10 
Meta Michele Pompeo , Presidente ... 11 

ALLEGATO: Documentazione depositata dai rappresentanti dell'Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali (ANICA) ... 12

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MICHELE POMPEO META

  La seduta comincia alle 14.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali (ANICA).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul sistema dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali (ANICA).
  Ringrazio il dottor Balassone, segretario generale dell'Associazione, per aver accolto il nostro invito in Commissione, e la delegazione dell'ANICA che partecipa all'audizione.
  Do subito la parola al dottor Balassone per lo svolgimento del suo intervento introduttivo.

  STEFANO BALASSONE, Segretario Generale dell'Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali (ANICA). Ovviamente siamo noi che vi ringraziamo per l'attenzione che vorrete prestare alle questioni che affronteremo, che riguardano direttamente molte migliaia di persone.
  Per darvi una fotografia di chi siamo, preciso che il mondo citato dal presidente Meta, media e industrie collegate, è composto di due grandi parti di cui la parte broadcasting eroga circa 5,5 milioni di ore di lavoro all'anno e le industrie che lavorano per rifornire il broadcasting medesimo erogano 7,5 milioni di ore di lavoro all'anno. Quindi, quello che rappresentiamo è un settore, i cui problemi sono fortemente interconnessi, che ha un rilievo numerico – prescindo dal rilievo culturale, che do per scontato – che si aggira intorno a 13 milioni di ore di lavoro, che sono tante.
  Vorrei far presente che questo settore corrisponde, nel suo complesso, a un'industria: è come se fosse un'industria, una FIAT dei tempi d'oro, con circa 50 mila persone a busta paga. Il nostro campo di attività, per la concretezza del lavoro svolto, ha una sua specificità. Come saprete, ci sono molte persone che lavorano a tempo parziale di diversa entità: si va dal figurante che lavora qualche giornata, all'autore che ha un contratto per la televisione oppure per fare un film, che può essere ad opera o a tempo determinato, ad esempio nove mesi. Insomma, ci sono diverse fattispecie.
  Gli elementi numerici sono verificati, nel nostro caso, da un crivello molto preciso, rappresentato dal fatto che da tempo i versamenti contributivi – quindi la misura esatta di quante persone lavorano e per quanto tempo – sono monitorati specificatamente.
  Una volta c'era addirittura uno specifico ente mutualistico, l'ENPALS, l'ente dei Pag. 4lavoratori dello spettacolo, che ora è una sezione nell'ambito dell'INPS. Le statistiche sono disponibili per chiunque.
  Questo mondo – non da oggi, ma oggi con più urgenza che mai rispetto al passato – si confronta con una constatazione di fondo, che è stata già fatta in quest'aula nelle precedenti audizioni e che io ho ritrovato nelle parole del dottor Gerritsen, il rappresentante di Sky. Mi riferisco a quando ha detto, sintetizzo, che il sistema italiano è sicuramente cresciuto – tutti noi quando imbracciamo un telecomando quasi ci perdiamo in una foresta di canali, canalini, canaletti, per non parlare delle possibilità offerte dall'arrivare a contenuti attraverso altre piattaforme – però senza redditività.
  È evidente che quando si dice che il sistema cresce ma è molto «pallido» c’è qualcosa di sbagliato proprio nella sua natura e struttura. Questo è il dato di evidenza da cui noi (e non solo noi) partiamo. Qual è l'elemento di malattia del sistema ? Qual è l'elemento distorsivo di fondo che fa sì che abbiamo un sistema grande ma arido ? Non parlo soltanto in termini di volgari guadagni delle imprese, qui si parla di redditività del sistema, cioè di valore creato dal sistema.
  Nell'analisi della causa del problema si è avuta una lettura della situazione che è stata naturalmente convergente, sia per quanto riguarda l'analisi che la «terapia», da parte di tutte le associazioni datoriali e professionali del settore delle industrie: mi riferisco al settore dei fornitori di contenuti, prescindendo da quello dei broadcaster e dei gestori di reti.
  C’è anche un'occasione che ci spinge a mettere a fuoco gli elementi che costituiscono il problema e la possibile terapia. Mi riferisco al fatto che a metà 2016 – così sembrava, ma in realtà pare con molto anticipo rispetto a quella data – si dovrà affrontare il tema della Rai, di come è governata, di come si finanzia e del suo ruolo, ossia il senso del servizio pubblico.
  Ci siamo misurati su questo problema specificamente perché quando si parla di Rai, di perimetro economico della Rai, ci si riferisce a qualcosa che dovrebbe durare circa dieci anni – secondo ciò che è probabile che accada, anche in base a dichiarazioni che sono state fatte e che giudico sensate. Quindi il prossimo periodo di committenza del servizio pubblico ad un'azienda, che sarà la Rai o un'altra che ne prenderà il posto, è una cosa che vale 20 miliardi e che coprirà un arco temporale di dieci anni. Decidere strutture e allocazione di questa imponente quantità di risorse significa decidere le sorti dell'intero comparto. Non è un comparto tanto ricco da far pensare che la parte pubblica sia secondaria o minoritaria. Come è caratteristico di tutti i sistemi dell'audiovisivo europei – televisivi in specie – la componente pubblica è essenziale, in termini di risorse prima ancora che di ascolti o altro. In questo settore la componente pubblica è un dato imponente nell'insieme.
  Secondo la nostra analisi, in Italia, per ragioni che all'occorrenza possono essere rivisitate, siamo di fronte a una situazione molto critica, una specie di doppio fallimento. Parliamo innanzitutto della misura del fallimento e poi cercheremo di capire il perché.
  Sintetizzerei la misura in questo dato: a parità di risorse, cioè a parità di ogni altra condizione, in Italia un milione speso dagli italiani per l'audiovisivo, sotto forma di investimento pubblicitario o di sottoscrizione della tariffa pubblica o di comprare biglietti al cinema o di sottoscrivere un abbonamento a una pay-tv, insomma in qualsiasi maniera raccolto, produce meno occupati rispetto al medesimo milione trasferito nel panorama francese e inglese. Ci richiamiamo al panorama francese e inglese perché sono Paesi che hanno grosso modo le nostre dimensioni, hanno i servizi pubblici, insomma sono forse gli unici termini di paragone. La Germania è già troppo grande per poterci sensatamente paragonare alle logiche tedesche, gli USA appartengono a un'altra galassia, quindi ci confrontiamo con questi due Paesi.
  Fino a che punto è sterile il milione di risorsa italiana nel produrre posti di lavoro rispetto a quanto, invece, accade in Francia e Inghilterra ? Le misure sono all'incirca queste: per ogni milione di giro Pag. 5d'affari del sistema, in Italia, a seconda degli anni, possono esserci l'equivalente di 4,5 unità a tempo pieno (tradotto in ore di lavoro significa 15 mila ore di lavoro circa), in Francia sono 5,5, in Inghilterra sono 7,5.
  Il dato fa «scandalo», quindi induce a porsi degli interrogativi. Noi pensiamo che, alla radice del perché, ci sia quello che chiamiamo una sorta di doppio fallimento.
  Gli economisti usano parlare di fallimento del mercato quando il mercato non ce la fa per forza propria a raggiungere un ottimo sociale, un «ottimo paretiano» nell'allocazione delle risorse e nell'ottenimento dei risultati. Però c’è anche un fallimento del pubblico, perché il pubblico in questo caso è completamente compartecipe del problema di cui prima ho dato quello che, a nostro parere, è il principale indicatore, ossia il miserrimo tasso di occupazione.
  Questa condizione è grosso modo riconducibile, a nostro avviso, al fatto che, come alludeva Gerritsen nella sua osservazione da cui sono partito, il nostro sistema dell'audiovisivo – ma la televisione incombe – si è ipersviluppato in quantità perdendo di densità, anzi, proprio perché si è sviluppato essenzialmente per quantità ha perso di densità.
  Premetto che possiamo definire imponente il nostro sistema di reti di broadcasting: la Rai ha tre reti generaliste, la BBC ne ha un paio; anzi, il sistema pubblico inglese ne ha un paio pubbliche, perché propriamente sono generaliste, come noi le intendiamo, e sono la BBC e Channel 4. Inoltre, ci sono i vari «canalini» generalisti; la BBC e Channel 4 arrivano ad averne 3 fra tutte e due, con una forte propensione a traslocarli in tutt'altra forma e linguaggio nell'ambiente del web; la Rai ne ha più o meno 11.
  Lo stesso discorso si può fare simmetricamente e a specchio, oserei dire – ma quelle sono valutazioni che faranno le imprese coinvolte – anche per il comparto privato del sistema. Mentre, però, per il comparto privato ovviamente non entriamo nell'autonomia di valutazioni di ciò che è conveniente o ciò che può essere non conveniente per le imprese che ci operano, nel caso della Rai, proprio per l'importanza strategica che ha l'investimento destinato al servizio pubblico, la cosa ci interessa, ci riguarda come cittadini e come imprese coinvolte nella filiera.
  Come dicevo, vi è stata un'espansione quantitativa che ha prodotto una perdita di densità. Come si manifesta questa perdita di densità ? Si manifesta – non da oggi, bensì da decine di anni – in una distorsione tipicamente distributiva, cioè nella vocazione di distribuire prodotto rastrellato in giro per il mondo. Avendo questa quantità sconfinata di prodotto è chiaro che si diventa una sorta di attrattore ad ogni prezzo di prodotto da tutto il mondo.
  Quindi, automaticamente noi compriamo il lavoro altrui anziché impiegare il lavoro nostro. Facciamo, in questo, esattamente il contrario di ciò che perseguono scientemente, non per caso, i sistemi francesi con una fortissima immissione di denaro pubblico, più alta di quanto non avvenga in Italia, ma specialmente il sistema inglese, non tanto per il denaro pubblico che immette nel sistema quanto per l'architettura su cui ha disegnato il sistema stesso (da quando è nata la BBC, e siamo agli anni Venti), come un meccanismo di valorizzazione dell'industria nazionale.
  Il sistema inglese valorizza l'industria nazionale non perché la «supporta», come con una parola insopportabile si dice, ossia non perché facendo televisione si stanzi una cifra detta di «supporto» al settore del cinema, della fiction o altro, che sarebbe un meccanismo di redistribuzione passiva. È diversa la logica dei sistemi con cui a noi sembra giusto confrontarsi, che hanno una struttura che di per sé sia una struttura di sviluppo del sistema; e perché una struttura sia motore, di per sé, di sviluppo del sistema, chiunque la governi (non è questione di persone), le decisioni che contano riguardano gli assetti fondamentali. Questo è il punto.
  Allora, se il problema del sistema italiano è quello, a parer nostro, di una pluridecennale perdita di densità a favore di una debordante e quindi subalterna quantità, è chiaro che il percorso dovrebbe prevedere Pag. 6in qualche maniera, con l'occasione del rinnovo della concessione Rai, un'inversione di tendenza verso qualcosa che chiamerei «condensazione», di sicuro della Rai, e le componenti private faranno quello ovviamente che riterranno di dover fare.
  La condensazione, parlando di Rai e sempre tenendo presente il benchmarking, il termine di paragone fornito da analoghe situazioni di altri Paesi, consta essenzialmente di due azioni riferite all'assetto del servizio pubblico (se mi capiterà di dire «Rai», intendo riferirmi comunque a quel perimetro).
  La prima azione è quella di creare varietà anziché monodimensionalità. L'assetto attuale delle risorse Rai è quello di togliere di significato, mischiandoli, sia alla componente pubblica di finanziamento, comunque si chiami o comunque si chiamerà, sia alla componente pubblicitaria. Se si mischia, come si usa dire, l'allodola con il cavallo, è difficile che resti il sapore dell'allodola, ma prevarrà quello del cavallo. Da questo punto di vista, il cavallo è la pubblicità: anche se nelle finanze della Rai è più piccola, però è la componente più esigente. Chiunque abbia fatto il mestiere di seguire un pubblico, un palinsesto e così via – qualcuno dei presenti sa di che cosa si parla – sa che la pubblicità è un padrone esigente, con cui si deve continuamente avere un rapporto dialettico. Si perde per strada, in questo modo, qualsiasi finalizzazione dell'investimento pubblico.
  Non per caso, il Paese che ha puntato di più sulla finalizzazione e qualificazione e sulla natura della risorsa per farne scaturire diverse missioni editoriali, che è per l'appunto l'Inghilterra, da sempre tiene accuratamente divise le due fattispecie, non solo tiene divisi i programmi di servizio pubblico dai programmi di intrattenimento, che francamente è un trastullo paraintellettuale con poca sostanza – ma tiene separate le reti rendicontate sulla base di finanziamento pubblico, rispetto a quelle attività sempre della BBC, come ad esempio quelle all'estero, dove ha libertà di fuoco nella raccolta di proventi commerciali, senza avere una sterlina di contributo pubblico.
  Ma non basta, gli inglesi hanno fatto un'altra cosa. La Thatcher – e gliene va reso merito – nel 1981 ha inventato un servizio pubblico finanziato esclusivamente dalla pubblicità che si chiama Channel 4. Non è affatto vero che il finanziamento pubblicitario sia di per sé incompatibile con il perseguimento di una missione di servizio pubblico; l'importante è fissare la missione e creare una struttura con finalità precise e rendicontazioni stabilite. Channel 4, finanziato esclusivamente dalla pubblicità, è indubitabilmente un canale di evidente servizio pubblico, forse addirittura la punta avanzata, per molteplici aspetti (relativi alla programmazione e ad altro).
  Quindi, dividere l'allodola dal cavallo, il finanziamento pubblico dalla pubblicità, è la prima azione di riordino del sistema, che da solo dovrebbe essere in grado, come è stato altrove, di creare quelle condizioni di asimmetria, di non identità delle situazioni aziendali e organizzative che provvedono, con quelle risorse, a fare i programmi, che dovrebbero a priori garantire che non siano tali da ritrovarsi tutti e due a fare le stesse cose, che invece, se volete, è il vizio principale che si trova nel panorama dei palinsesti, basta sfogliare i programmi di questa settimana per rendersene conto. I palinsesti italiani sono fortemente dilatati e appiattiti praticamente su una sola idea di programma nazionalpopolare. È un concetto verso il quale abbiamo tutti un sovrano rispetto, ma non c’è un solo nazionalpopolare; proprio perché il nazionalpopolare è una cosa grossa, si presta alla creatività, ed è una sfida.
  Il tema del superamento dell'appiattimento va accompagnato da una riduzione dell'ipertrofia distributiva che di per sé costituisce un fattore di dequalificazione del sistema. Quando si deve riempire troppo, le strade obbligate sono due e in genere si sommano: la prima è quella di ricorrere agli acquisti, perché è chiaro che, quando si comprano cose che hanno già smaltito il loro costo di produzione in altri Pag. 7mercati, si riesce a prenderle a un costo che non è neppure lontanamente paragonabile a quello che verrebbe a costare produrle; la seconda strada è che i programmi tendono a essere dilatati come se ci si passasse sopra il mattarello.
  Io porto a volte anche la responsabilità di averlo fatto in mestieri passati, quindi so di cosa parlo. Alla fine degli anni Ottanta nacquero i programmi «lunga serata». «Ballarò» di martedì è durato fino alle soglie della mezzanotte, se non vado errato. Voi non troverete in nessun sistema televisivo al mondo nulla del genere. La ragione, però, non è una distorsione mentale degli autori o degli amministratori; è semplicemente un problema di rapporto fra numeratore e denominatore, fra risorse e linee distributive da alimentare. Se il rapporto è squilibrato si deve per forza allungare il brodo e da lì non si scappa.
  Detto questo sul piano degli assetti di sistema, ovviamente a noi pare importante, davvero molto importante, che l'area del servizio pubblico, comunque sia organizzata, conti su risorse certe e una governance che ne garantisca l'indipendenza e l'invulnerabilità rispetto ai cicli della politica. Per l'industria è essenziale avere una controparte non effimera, che ragioni sul medio-lungo periodo, non credo d'aver bisogno di spendere parole per dimostrarlo. Voi potreste dire che in questa maniera noi stiamo valorizzando soltanto la valenza industriale del servizio pubblico. Che ne è, allora, dei «valori», per esempio il pluralismo ?
  Il problema a noi pare questo: il pluralismo, come è stato realizzato alla fine degli anni Settanta, nella situazione storica italiana, è per l'appunto una cosa degli anni Settanta; appena finiti gli anni Ottanta era probabilmente già un «dead man walking», una cosa già fuori dal suo tempo. Ciò è avvenuto un po’ perché sono morti i committenti di quel pluralismo – non trovo le strutture e le identità di partito che quel pluralismo avevano inventato – ma, in secondo luogo, forse è anche cambiato il versante del pubblico, degli spettatori, dei cittadini, del diritto dei cittadini a essere informati in maniera varia ed esaustiva. Ciò perché il sistema dell'informazione – quello sì – effettivamente è ingigantito al di là dell'immaginabile. Noi remiamo, nuotiamo, galleggiamo in mezzo al pluralismo.
  Semmai – mi permetto di chiudere con una nota personale – se l'urgenza politica di articolare il pluralismo in lottizzazioni – diciamolo pure – dentro l'azienda pubblica ha perso mercato, perché c’è ben altro che garantisce il pluralismo, allora questo è esattamente il momento in cui si ripropone, per il comparto pubblico, una sfida che fu accantonata a metà degli anni Settanta, e io c'ero, quella dello sforzo verso l'obiettività, che gli altri servizi pubblici – dopo quest'oggi passerò sicuramente per anglofilo, ma mi sta benissimo – non hanno mai dismesso come elemento centrale.
  Ci fu, negli anni Settanta, un dibattito volto a verificare se ci potessimo permettere di pretendere l'obiettività o se non fosse più serio tenere presente che l'Italia era fatta di diversità che dovevano esprimersi separatamente. Questa fu una lettura alta del pluralismo. Ma oggi, nelle nuove condizioni, mi pare che chiunque sarà investito a occuparsi del dare un senso alla programmazione anche informativa del servizio pubblico sia chiamato alla sfida dello sforzo dell'obiettività. L'obiettività, si sa, è uno sforzo, non è un dato toccabile, però è qualcosa di cui si può essere chiamati a rispondere, mentre in un sistema di lottizzazione pluralistica si è chiamati a rispondere di aver rappresentato una parte. Cambia il commissioning nei confronti del pubblico, ed è un fatto radicale che a mio parere fa un tutt'uno con la risignificazione e la rimotivazione su solide basi industriali, nell'interesse dello sviluppo dell'industria creativa italiana, di tutto questo comparto. Mi potrei fermare qui.

  PRESIDENTE. Segnalo, ma non voglio fare pubblicità, anche la comparsa in libreria di un lavoro a quattro mani di Angelo Guglielmi e Stefano Balassone, che è una sorta di materiale integrativo per i Pag. 8nostri lavori. È un piccolo pamphlet di grande importanza.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  LORENZA BONACCORSI. Innanzitutto ringrazio il segretario generale Balassone per il suo ragionamento che ho trovato molto stimolante. Parto dalla conclusione del suo intervento e mi permetto di portare un po’ più in là la riflessione rispetto al tema del pluralismo. Lei ha detto giustamente che la sfida del pluralismo è una sfida che il servizio pubblico deve assumere per riuscire a reinterpretare fondamentalmente il concetto di pluralismo, che è ancora basato su un'idea degli anni Settanta che ancora oggi ci portiamo dietro. Si tratta, però, di un concetto di fatto anacronistico.
  Credo che la sfida sia del servizio pubblico, ma credo che, rispetto a una reinterpretazione del pluralismo, la sfida debba raccoglierla la politica, in prima battuta. È la politica che deve accettare, sostenere e vincere la sfida effettiva del pluralismo e uscire da quei meccanismi degli anni Settanta in cui ancora oggi siamo imbrigliati. Penso che questa sia la prima riflessione su cui dobbiamo soffermarci.
  Richiamo la sua affermazione che il sistema è cresciuto senza redditività. Partendo dall'esempio, che considero sacrosanto e giusto, della necessità di tenere separati il cavallo e l'allodola, mi chiedo però se, dall'alto della sua esperienza e della sua posizione in questo momento, secondo lei effettivamente quella della separazione di ciò che deve essere il servizio pubblico e di ciò che deve essere invece la parte finanziata dalla pubblicità sia la leva utile e necessaria. Le chiedo se secondo lei questa sia di fatto la chiave di volta per riuscire a intervenire nel meccanismo e a far sì che quel meccanismo produca redditività.
  Credo che questo sia il nocciolo della questione su cui noi dobbiamo riflettere da qui ai mesi a venire, cioè nel periodo in cui dobbiamo mettere mano a un ripensamento di quello che deve essere il perimetro del servizio pubblico.
  Infine, circa l'affermazione che il sistema dell'audiovisivo si è sviluppato in quantità e non in densità, mi chiedo se questo concetto di densità possiamo definirlo anche come qualità, quindi provare a fare un ragionamento di questo tipo. Grazie.

  DEBORAH BERGAMINI. Ringrazio il dottor Balassone per questa sua relazione molto interessante, illuminante e, come l'ha definita prima la collega Bonaccorsi, molto stimolante sul ruolo del servizio pubblico. Noi stiamo facendo un'indagine di portata molto più ampia su tutto il contesto del sistema dei media audiovisivi e non solo. Lei ha scelto di concentrarsi, come segretario generale dell'ANICA, sulla funzione del servizio pubblico, immagino probabilmente perché è uno dei temi di attualità in questo momento, ma non è l'unico.
  Sicuramente è giusta e deve essere benvenuta, nell'ambito della nostra indagine conoscitiva, ogni valutazione sulla funzione del servizio pubblico. Lei ha affrontato il tema del pluralismo, che fra l'altro conosce bene perché è stato vicedirettore di Rai 3 e consigliere di amministrazione della Rai in anni interessanti. Sicuramente il suo punto di vista è molto approfondito. Vorrei provare ad aggiungere qualche quesito, affrontando il tema sotto un'ottica un po’ più ampia rispetto alle sfide che siamo chiamati ad affrontare. È evidente che dal 2008 c’è un grossissimo calo degli investimenti pubblicitari che tocca tutti gli strumenti, e da questo bisogna partire, anche per la Rai.
  Non possiamo continuare a immaginare che ragioniamo di separazione e tutto il resto se non teniamo presente che con il crollo degli investimenti pubblicitari che abbiamo qualunque modello di business alternativo, qualunque idea possiamo mettere in campo, sono fortemente limitati. Abbiamo anche imparato che le aziende, soprattutto quelle che si occupano di segmenti complessi, come quello televisivo o audiovisivo più in generale, fanno molta Pag. 9fatica a reagire e probabilmente – lo aggiungo io – è più facile provvedere in un'ottica immediata ad un taglio dei costi che procedere a cambiamenti di modelli di business.
  Questo è uno degli elementi che probabilmente ha portato al risultato che dice lei, ossia a un impoverimento quali-quantitativo di quello che chiamiamo il contenuto, a fronte di uno sbilanciamento verso la distribuzione. È stata la scelta forse più semplice, meno dolorosa, perché è costoso tagliare posti di lavoro, è costoso fare investimenti che nel momento sono soltanto costi e via elencando. Quindi, ci troviamo di fronte, purtroppo, a una situazione un po’ difficile. Tutto questo avviene nel momento in cui è esplosa la diffusione di contenuti sul web, quindi il mercato si è ulteriormente complicato; si è aperto, ma anche complicato da un punto di vista del business.
  Sul tema del pluralismo sono d'accordo con lei; rispetto alla trasformazione che c’è stata nel mercato è giusto affrontarlo, ma forse – questa è la suggestione che provo a darle – dovremmo fare un salto in avanti e chiederci come oggi il consumo e la fruizione dei contenuti cambino anche la nostra realtà.
  Lasciamo un attimo da parte il discorso dell'intrattenimento. Lei ha fatto un'analisi molto approfondita, giustissima, e servirebbe da parte dello Stato una politica di tutela e di valorizzazione della capacità di fare i contenuti di un Paese. Lei citava il Regno Unito, ma anche l'esperienza francese ha dato i suoi frutti. Sicuramente questa sarebbe una cosa da fare, una cosa che è mancata purtroppo finora.
  Quindi, lasciato da parte il tema dell'intrattenimento, noi abbiamo quello dell'informazione. Oggi la maggior parte delle persone fruiscono dell'informazione attraverso il web e soprattutto attraverso i motori di ricerca. I motori di ricerca contengono al loro interno degli algoritmi che anticipano le esigenze del fruitore e riferiscono non i fatti, ma i fatti come quel fruitore vuole sentirli.
  Negli Stati Uniti è stata fatta una ricerca nell'occasione del primo scoppio della cosiddetta «primavera araba» in Egitto: quando una persona digitava su Google o su Yahoo «News Egypt arab spring», si è visto come, a seconda di chi avanzava quella richiesta, venissero fornite notizie completamente diverse a seconda del profilo del soggetto. Questo ci porta a pensare che non è soltanto la nostra opinione che è diversa da quella degli altri, ma che rischia di diventare diversa la realtà dei fatti, la percezione della realtà, perché si profila la realtà dei fatti secondo l'esigenza di quel fruitore, quindi si rischia di andare – mi perdoni il salto – da una questione legata al pluralismo a una questione legata piuttosto a quello che definirei «tribalismo». Le nostre convinzioni, anziché aprirsi al diverso rischiano, attraverso l'uso del web così com’è oggi, di radicalizzarsi.
  È su questo che io credo che noi dovremmo cominciare a riflettere. Per carità, anch'io vengo dal mondo televisivo e quindi sono molto legata alla percezione della centralità del mezzo televisivo tradizionale, ma purtroppo quello che oggi dobbiamo affrontare sono tematiche che vanno tanto oltre. Mi chiedo, all'interno di tutto questo, per ritornare al tema che lei ha scelto come centrale della sua relazione, che ruolo possa veramente ormai svolgere il cosiddetto «servizio pubblico».

  PAOLO COPPOLA. Signor presidente, in effetti la collega Bergamini ha dato ulteriori spunti alla nostra discussione. Devo dire che la sua presentazione mi ha colpito perché quasi del tutto incentrata su un modello che, a mio parere, è quasi totalmente sparito. Nella vostra proposta parlate di dieci anni di concessione di servizio pubblico, ma tra dieci anni ci troveremo in un mondo completamente trasformato, in tantissimi settori e soprattutto in questo, quindi continuare a ragionare su modelli che sono quelli degli ultimi dieci anni credo che ci porti molto lontano.
  Se è vero come è vero che il mercato della pubblicità ha avuto un tracollo, è perché esistono evidentemente ed esisteranno sempre di più altri modi per svolgere Pag. 10la stessa funzione di quella che era la pubblicità nella televisione. È lo stesso motivo per cui è nato il servizio pubblico che dovrebbe essere ripensato completamente nell'ottica non tanto delle tecnologie che ci sono adesso ma degli sviluppi che molto probabilmente ci saranno nei prossimi dieci anni.
  È molto probabile che noi, nei prossimi dieci anni, vedremo un aumento esponenziale delle telecomunicazioni con modalità di utilizzo e di fruizione completamente diverse rispetto a quelle che ci sono adesso. Da questo punto di vista, sicuramente quello che diceva la collega Bergamini è molto importante. Adesso avremmo la possibilità di pensare a servizi pubblici e a una distribuzione dei contenuti personalizzati, profilati, con feedback continui; oltrepassare, per esempio, il meccanismo estremamente obsoleto dell'Auditel; avere rating di qualità della produzione dei contenuti, non solo cercare di inserire la qualità sulla base di alcune rilevazioni statistiche quantitative. Insomma, si può andare in un modello completamente diverso.
  Questo, secondo me, è mancato nella relazione. Mi sarei aspettato qualcosa di più «visionario». Le chiederei, quindi, se può darci qualche intuizione in più su come, in quest'ottica di fortissimo cambiamento, di rivoluzione completa, potremmo interpretare al meglio il nuovo servizio pubblico.

  PRESIDENTE. Do la parola al dottor Balassone per una breve replica.

  STEFANO BALASSONE, Segretario Generale dell'Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali (ANICA). Sarò molto breve e partirò dal fondo. È evidente che siamo di fronte a un'incalcolabile potenzialità di espansione delle relazioni a mezzo reti e device portatili o non portatili. Bene, quanto più esponenziale è la facilità relazionale, al punto che i tramiti della comunicazione diventano delle commodity fungibili, allora tanto più gli americani, che la sanno lunga, dicono che «content is the king». In altre parole, il valore dove si sposta ? Il valore si sposta esattamente sull'industria della narrazione, dei format, degli eventi, del reperimento dell'informazione, a dirla con una parola sola sull'industria dei contenuti.
  I contenuti non sono un frutto della mente, sono un frutto dell'industria, per riallacciarmi alla domanda sull'esistenza o meno di un nesso tra gli assetti del sistema e il tema della densità e della qualità. Come è stato detto poc'anzi dall'onorevole Bergamini, ci si rassegna a una qualità minore quando si è inseguiti da urgenze di mercato o di strettoie di bilancio che portano ad accontentarsi. Quindi, perseguire la qualità, quindi un contenuto capace di galleggiare e di imporsi nell'oceano dei mezzi di interconnessione e di distribuzione del prodotto, richiede esattamente di assumere una disposizione di sistema capace di convogliare sulla singola unità di prodotto realizzata una quantità di valore che significa – faccio il caso di una narrazione – passare da produzioni per il pubblico di casa dal costo orario di qualche centinaio di migliaia di euro, perché devono ripagarsi nelle strettezze del bilancio del sistema casalingo, a produzioni di livello internazionale, in cui cambia l'ordine di grandezza e da un paio di centinaia di migliaia di euro si passa a 3 milioni di euro, perché si tratta di produzioni che richiedono un forte investimento in sceneggiatori e scrittori di livello internazionale.
  Questa è la condizione per guadagnare, perché il mondo compra ciò che ha un valore espressivo, che nell'industria significa investimento. Se quindi il sistema nazionale è dispersivo, quel valore non si riesce a condensare nei prodotti. Tenete presente che il sistema dell'industria italiana è in grado di fare prodotti del genere.
  Un prodotto come «Gomorra» non è diverso dagli altri solo perché c’è un eroe cattivo, quindi improvvisamente qualcuno si innamora e qualcun altro si scandalizza; quella è la chiacchiera attorno a «Gomorra». L'industria intrinseca al prodotto «Gomorra» è quella che costa esattamente qualcosa come 3 milioni di euro all'ora, perché nasce direttamente per il mercato Pag. 11internazionale, ma nasce per il mercato internazionale perché un attore – si tratta dell'eccezione che conferma la regola della dispersione – e in questo caso una piattaforma a pagamento ha messo un chip abbastanza forte e il produttore si è mosso fin dall'inizio per cercare il conforto del mercato internazionale.
  Cosa ha fatto questo produttore in questo caso, ma cosa stanno tentando di fare anche altri ? Ha semplicemente ottenuto dal mercato internazionale, per ogni ora trasmessa, 2 milioni 200 mila euro in più, che si sono trasformati in altrettanto lavoro dentro i confini dell'industria nazionale.
  Un Paese che non disponga della leva economica del mercato globale è un Paese destinato a svanire. Per questo noi stressiamo il concetto che la leva è quella della condensazione, la condensazione finalizzata alla quantità e alla qualità dell'investimento, che permette di utilizzare il lavoro creativo, il lavoro di ogni soggetto della filiera, dalla progettazione alla realizzazione, in maniera tale da raggiungere un livello del prodotto di qualità.
  L'esempio più completo di qualità è quello dato dalla fantastica industria americana, che ha i diversi segmenti della qualità: la qualità più popolare, la qualità più intellettuale e via elencando. La separazione, nell'area del servizio pubblico, del servizio pubblico fatto col canone rispetto al servizio pubblico fatto con la pubblicità è effettivamente una leva essenziale. Un sistema nazionale, per essere competitivo e per offrire al mercato internazionale anche i prodotti che il mercato internazionale richiede, non può suonare una sola musica, bensì deve operare su una discreta massa di prodotti offerti al mondo ma anche sulla varietà di quei prodotti. Ottenere la richiesta di varietà dagli editori è certamente una questione di mission che la politica può assegnare agli editori medesimi, ma deve utilizzare la diversità delle risorse come uno stimolo a perseguire la qualità con grammatiche diverse e anche con tempi diversi. Nella tv pubblica ma alimentata dalla pubblicità si è interrotti dagli spot, nell'altra no. Darsi varietà è la condizione.
  Quanto al rapporto con i nuovi media, non avrei risposta diversa per quell'altra importantissima questione che è stata richiamata. È vero, i motori di ricerca per loro natura e struttura sono bravi perché ci sezionano, mettendo i simili con i simili, tribalizzano chi li frequenta e, come tali, li offrono alla pubblicità e così via. Quindi, è possibile – non posso affatto escluderlo – che nella logica del mondo «rete» in cui sono così centrali i motori di ricerca ci sia un lisciare la società dal verso del pelo della tribalizzazione, della reciproca separazione. Ma è per l'appunto qui che in un Paese europeo viene fuori, a nostro avviso, la ragione forse più strategica per l'orientamento editoriale dell'area del servizio pubblico che, sapendo che quel problema c’è nella realtà, è chiaro che deve esattamente operare per ricomporre quel che altre forze, per loro natura e non per malvagità, tendono a separare. Quindi deve leggere la comunità in chiave di racconto e di informazione che ne ricostruiscano la coesione e i motivi di reciproco riconoscimento fra le varie parti. Naturalmente si tratta di sfide di una difficoltà terribile, però basta definirle per capire che sono anche sfide che non possono non essere affrontate. Quale sarebbe l'alternativa ?

  PRESIDENTE. Ringrazio i rappresentanti di ANICA, in particolare il dottor Balassone, per la relazione e per il documento depositato, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato alla seduta odierna (vedi allegato), e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.

Pag. 12

ALLEGATO

Perché un nuovo Servizio Pubblico.

Documento delle Associazioni Professionali e Datoriali

 Gli autori, i produttori e i lavoratori nell'industria creativa (del cinema, della televisione e del web) considerano come una occasione preziosa la Consultazione annunciata dal Governo per il rinnovo della concessione in esclusiva del servizio pubblico radio-tv, annunciata per il prossimo settembre.
   Perché le risorse e fiscali finora assegnate alla Rai (oltre 1.700 milioni l'anno, tra tv e radio) rappresentano il principale intervento pubblico nei settori della cultura, della informazione e dell'intrattenimento.
   Perché né la sola iniziativa privata, né la vecchia Convenzione si sono dimostrati adeguati per difendere il ruolo dell'industria nazionale in una fase decisiva di ristrutturazione dell'industria audiovisiva mondiale. E dunque strutturalmente espongono il Paese al rischio della marginalità nel campo della comunicazione mondiale.

  Siamo cioè di fronte a un classico «fallimento del mercato», ma anche e simultaneamente al fallimento della sussidiarietà attesa dall'intervento pubblico. Da qui l'urgenza di una radicale modifica delle funzioni e del funzionamento del Servizio Pubblico senza la quale il Paese di fatto si priverebbe del pilastro massmediatico essenziale per esprimere la «identità della Nazione», all'Italia stessa e al mondo che ne cerca la cultura e i prodotti.

  Perché gli stati europei destinano rilevanti risorse fiscali a un'azienda incaricata del Servizio pubblico ? Quali sono le missioni che la collettività indica e delega ?

Ieri, nel mondo analogico

  Nel mondo analogico la scarsità delle reti aveva giustificato e consentito due missioni che oggi perdono di importanza e di efficacia.
   1. La prima missione centrale in Italia nel ventennio del monopolio mono canale – è stata in senso lato pedagogica, con la divulgazione di tutti i generi nati fuori della televisione: il film il lunedì, la commedia il venerdì, la partita la domenica, il telegiornale, il festival canoro, la lezione frontale del maestro di scuola.
   2. Con la caduta del monopolio, il «pluralismo» diventa da noi più che altrove la nuova missione che assorbe gran parte dell'interesse politico e delle risorse pubbliche. Pluralismo esterno (il Duopolio) e interno (le reti Rai lottizzate) a garanzia del sistema dei partiti, che a sua volta garantisce il Duopolio.

  «Pluralismo» e «pedagogismo» estesi persino agli eroi della fiction e ai conduttori dei talk, e cioè della serialità in forma di racconti, talkshow, quiz che hanno dilagato in numero ed estensione a scapito dei generi esterni di più complessa struttura produttiva e autoriale.

Oggi, nel mondo digitale

  La digitalizzazione della tv e il web hanno fatto esplodere il collo di bottiglia della distribuzione.Pag. 13
  La sovrabbondante offerta di informazione, di cinema, persino di lezioni universitarie spesso gratuite e di alto livello su tutte le piattaforme, rendono meno necessari e meno visibili i canali pubblici nazionali e lineari. e pongono su basi totalmente diverse sia la questione del pluralismo, per il quale non mancano di certo né gli spazi né gli attori, sia la efficacia di qualsivoglia progetto «pedagogico». E dunque le citatissime missioni del Servizio Pubblico e cioè educare, intrattenere, creare coesione sociale, informare correttamente non possono più essere fondate sulla forza di essere l'unica o una delle poche offerte in onda, ma sulla vitalità del sistema industriale che le produce.

Content is King

  In poche parole, quando vengono meno le barriere nazionali o la scarsità di canali, più che mai Content is King.
  E dunque, tanto più oggi, la capacità di un Paese di parlare al mondo, consiste soprattutto nel produrre e vendere sia flussi di informazione sia prodotti video sceneggiati (film, serie tv, e web, documentari, cartoni), è oggi un fattore determinante nella nuova divisione internazionale del lavoro, a maggior ragione per un paese quale l'Italia che fonda sulla immagine gran parte della attrattività di tutti i suoi prodotti.
  Ne consegue che, la Rai, se finora è stata giudicata per quello che metteva in onda; d'ora in poi sarà guardata per quello che mette in moto. E di questo l'indice di misura principale non sarà né l'Auditel, né un fantomatico Qualitel; E l'efficacia nell'uso delle risorse pubbliche non sarà misurata nel perimetro angusto dell'azienda, ma in quello del sistema delle industrie collegate con due indicatori principali 1) di posti di lavoro generati 2) le esportazioni.

  In questo campo e da questo punto di vista l'Italia vive in bilico fra la caduta all'indietro e il salto in avanti.

Il caso Italia

Occupazione

  Gli addetti all'audiovisivo equivalgono, monitorando i contributi previdenziali versati a poco più di 40.000 unità-a-tempo-pieno su base annua (le persone effettivamente coinvolte sono il doppio poiché moltissimi impegni riguardano frazioni d'anno, a volte minuscole). Un terzo meno dei francesi e la metà degli inglesi.
  Perché il sistema è più piccolo (circa 10 mld rispetto a 13 e 18), ma anche perché spende peggio, tant’è che per ogni milione di fatturato, abbiamo solo poco più di 4 addetti/anno contro i quasi 6 della Francia e gli oltre 7 dell'Inghilterra.
  Rispetto alle medie europee siamo sotto di circa 25.000 unità-annue (e dunque di un numero doppio di persone impiegate più o meno continuativamente) in un campo «labour intensive», dove il lavoro è di alta gamma e, anche per questo, non delocalizzabile.

  La sottoccupazione discende dalla sottoproduzione causata a sua volta dalla dispersione delle risorse economiche su un eccessivo numero di reti generaliste o tematiche che si riempiono di programmi:
   comprati, che costano meno di quelli prodotti;
   dilatati (i talk e i varietà che durano intere mattinate, pomeriggi e serate);
   a basso costo e ad esclusivo uso interno (le fiction «povere»).

Esportazioni

  In termini di esportazioni la situazione italiana è ancora peggiore, e qui del resto va cercata la radice strutturale della sottoccupazione.
  La ragione risiede nelle logiche del mercato globale in cui:
   il Nord America, ha stratificato tre modelli industriali egemonici: dapprima il Pag. 14distretto produttivo di Hollywood, poi il finanziamento della TV con l'advertising, oggi la distribuzione globale in streaming gestita dagli operatori Over The Top.
    Ciascun paese europeo cerca di reagire allo squilibrio competitivo con un mix di misure protettive, di incentivi e di interventi pubblici, il più rilevante dei quali sono le risorse e gli obiettivi assegnati alle aziende incaricate Servizio pubblico. La Gran Bretagna da decenni ha assegnato alle sue due aziende pubbliche, e con grandi risultati, il ruolo di volano dell'industria nazionale; e anche Francia e Germania, operano nella medesima direzione.

  In questo quadro la Rai non ha mai avuto, a differenza dei casi ricordati, l'effettivo mandato di agire come leva per la crescita del sistema industriale nazionale. E i risultati sono quelli misurati dalle statistiche del lavoro e del commercio con l'estero.

  Dall'insieme delle dichiarazioni degli esponenti di Governo coinvolti nella materia, emergono idee e approcci, che di seguito sintetizziamo e commentiamo, che interessano gli autori, i produttori e i lavoratori nell'industria italiana del cinema, della TV e del web per l'impatto che ne deriverebbe sulle problematiche pluridecennali che abbiamo sintetizzato dall'angolatura dell'industria dei contenuti.
   Un numero di «canali», anche generalisti, più ristretto.
  Condizione in effetti essenziale perché aumenti il budget orario di produzione fino ai livelli correnti nel mercato internazionale della narrazione, dei format, della informazione.
   La separazione societaria delle attività sovvenzionate con risorse fiscali da quelle sovvenzionate con pubblicità.
  Condizione essenziale per sfruttare a pieno la leva dell'investimento pubblico senza rinunciare a quella della competitività commerciale. Il modello britannico dimostra che anche una società pubblica senza risorse fiscali, con un adeguato contratto di servizio, può svolgere un ruolo decisivo di volano della produzione indipendente nazionale, con contenuti non schiacciati sulle esigenze più immediate dell'investimento pubblicitario.
   La riallocazione delle risorse, dei marchi, dei dipendenti.
  Riallocazione e non riduzione. Infatti i circa undicimila dipendenti Rai (escluso il nucleo Rai Way che altrove non esiste e che sarebbe dunque improprio comprendere nel confronto) sono pari a quelli francesi e metà di quelli inglesi (BBC e Channel Four). Non confrontabili con gli organici (di poche migliaia di persone) dei broadcaster privati che vivono prevalentemente di acquisti e appalti. Lo «spreco» imputato ai lavoratori della Rai sta dunque in ciò che fanno, non in quanti lo fanno. Ovvero, la RAI deve cambiare forma, più che dimensione.
   La durata decennale della Concessione.
  In effetti, per cambiare radicalmente la forma della Rai, farle svolgere il ruolo di volano del sistema e misurare i risultati, occorre un orizzonte di medio periodo con risorse adeguate e certe.
   La governance duale, con un consiglio di indirizzo e sorveglianza che rappresenti gli obiettivi definiti in Convenzione e che nomini il vertice della azienda.
  Essenziale per il mondo che lavora nell'audiovisivo è che la Rai, o qualsiasi sistema di entità che ne prenderà il posto, sia sottratta alle congiunture della politica e possa così svolgere in maniera stabile e lungimirante la essenziale funzione di editore di riferimento. Per questo appare essenziale che i membri del Consiglio siano nominati singolarmente e per lunghi periodi, oltre che selezionati fra i più esperti del settore.

Pag. 15

  Con questi interventi strutturali il Servizio Pubblico potrebbe dotarsi di una fisionomia radicalmente diversa rispetto alla attuale Rai e diventerebbe il punto di riferimento di un rapporto rifondato con produttori e autori, basato su Statement of programme Policy che rendano pubblici la pluralità delle linee editoriali e su Nuovi Codes of Practice in materia di sfruttamento dei contenuti fra broadcaster, produttori e autori.
  In ogni caso il cambiamento nell'area della tv pubblica avrebbe un impatto rilevante sugli altri attori del sistema, non fosse altro che per la gestione dei diritti, sinora allineata a quella di Mediaset e Sky, e per lo stimolo competitivo costituito dalla separazione societaria e dalla conseguente costituzione di un'azienda pubblica che competa con gli stessi affollamenti pubblicitari dei privati. Perché l'interesse generale è che il Servizio Pubblico, finanziato dal canone o dalla pubblicità, non abbia meno risorse e sia anzi libero di mostrarsi capace di incrementarle.

  Al fine di strutturare e rendere incisiva la interlocuzione con la iniziativa del governo, organizzeremo al più presto seminari aperti circa:
   la valorizzazione dei «diritti» nell'era della loro moltiplicazione;
   il commissioning delle aziende pubbliche e la produzione indipendente;
   la distribuzione on line della produzione nazionale;
   100 autori: Associazione sceneggiatori e registi;
   AGPCI: Associazione giovani produttori;
   ANAC: associazione autori cinematografici;
   ANICA: Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche e Affini;
   APT: Associazione Produttori Televisivi;
   ART: Associazione Registi Televisivi;
   DOC/IT: Associazione Produttori Documentari;
   PMI Cinema e Audiovisivo: piccole e medie imprese audiovisive.