XVII Legislatura

VII Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Mercoledì 23 aprile 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Capua Ilaria , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE STRATEGIE PER CONTRASTARE LA DISPERSIONE SCOLASTICA

Audizione del dottor Giovanni Vinciguerra, direttore responsabile di Tuttoscuola, e del dottor Mario Giacomo Dutto, esperto del settore.
Capua Ilaria , Presidente ... 3 
Vinciguerra Giovanni , Direttore responsabile di Tuttoscuola ... 3 
Capua Ilaria , Presidente ... 8 
Dutto Mario Giacomo , Esperto del settore ... 8 
Capua Ilaria , Presidente ... 14 
Santerini Milena (PI)  ... 15 
Rocchi Maria Grazia (PD)  ... 16 
Marzana Maria (M5S)  ... 17 
Capua Ilaria , Presidente ... 18 
Vinciguerra Giovanni , Direttore responsabile di Tuttoscuola ... 18 
Dutto Mario Giacomo , Esperto del settore ... 19 
Capua Ilaria , Presidente ... 20 

Allegato 1: Documentazione consegnata dal dottor Giovanni Vinciguerra ... 21 

Allegato 2: Documentazione consegnata dal dottor Mario Giacomo Dutto ... 67

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ILARIA CAPUA

  La seduta comincia alle 11.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del dottor Giovanni Vinciguerra, direttore responsabile di Tuttoscuola, e del dottor Mario Giacomo Dutto, esperto del settore.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica, l'audizione del dottor Giovanni Vinciguerra, direttore responsabile di Tuttoscuola, e del dottor Mario Giacomo Dutto, esperto del settore, già dirigente del MIUR.
  Sono presenti per l'editoriale Tuttoscuola anche i redattori Sergio Govi e Orazio Niceforo, che ringrazio per la loro presenza.
  Do la parola al dottor Vinciguerra per lo svolgimento della relazione.

  GIOVANNI VINCIGUERRA, Direttore responsabile di Tuttoscuola. Buongiorno e grazie per questa opportunità. Da quarant'anni Tuttoscuola osserva il mondo della scuola, ne raccoglie e analizza i dati, li presenta e tenta di darne un'interpretazione e una chiave di lettura.
  Il tema della dispersione scolastica, che giustamente la Commissione ha individuato come uno dei più gravi della scuola e dell'intera società italiana, è stato oggetto di numerose analisi nel tempo, anche da parte nostra. Noi l'abbiamo approfondito con un dossier di cui abbiamo accelerato la preparazione per poterlo consegnare oggi, come modesto contributo all'indagine della Commissione.
  Il dossier presenta un quadro aggiornato della dispersione nella scuola secondaria superiore statale, attraverso il monitoraggio che abbiamo condotto ininterrottamente per vent'anni sul numero totale degli studenti di tutti gli anni di corso, per ogni tipologia di scuola, anche a livello regionale. I dati sono aggiornati all'anno scolastico in corso, 2013-2014.
  Lo studio utilizza come indicatore quello della differenza tra il numero di iscritti all'ultimo anno delle superiori e quello degli iscritti al primo anno di cinque anni prima, nella scuola statale. È un indicatore empirico, di immediata comprensione ed evidenza, che utilizza dati riferiti all'universo completo, non su base campionaria. Si tratta di dati ufficiali, in quanto ricavati dall'organico di fatto del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca.
  Va precisato che si tratta di un indice grezzo, perché non tiene conto dei passaggi alla scuola non statale e ai corsi di istruzione e formazione professionale, ma che noi riteniamo altamente significativo nell'analisi del trend.
  Cosa emerge da questo studio ? Negli ultimi quindici anni quasi 3 milioni di ragazzi italiani iscritti alle scuole superiori statali non hanno completato il corso di studi. La cifra rappresenta il 31,9 per cento dei circa 9 milioni di studenti che Pag. 4hanno iniziato – in questi tre lustri – le superiori nella scuola statale. È come se – per dare un'idea – l'intera popolazione scolastica di Piemonte, Lombardia e Veneto non fosse arrivata a conclusione del corso di studi. Praticamente, uno studente su tre si è disperso.
  «Dispersione», lo sappiamo, fa rima con «disoccupazione». Ritroviamo, infatti, quasi tutti questi ragazzi tra i cosiddetti NEET (Not in Education, Employment or Training), ossia i giovani tra i 15 e i 29 anni – ci sono proprio 15 classi di età, come quelle che abbiamo studiato noi – che non studiano, non lavorano e non fanno formazione e apprendistato. L'ISTAT li valuta in 2,2 milioni, pari al 23,9 per cento di quelle classi di età. Si può dedurre che di quei circa 3 milioni di studenti che dicevo circa 7-800.000, uno su quattro, siano gli studenti che hanno continuato gli studi fuori dalla scuola statale. Gli altri sono andati ad alimentare la categoria dei cosiddetti NEET.
  Sono cifre da guerra mondiale: 3 milioni. È un'emorragia che ogni anno indebolisce il corpo sociale del Paese e che ne riduce la capacità di competere, come sistema nazionale, nella società della conoscenza. Per non parlare dei costi enormi dell'abbandono scolastico, sia in termini di basso ritorno dell'investimento sostenuto per approntare il servizio, di cui parlerò dopo, sia per il disagio sociale che ne consegue, e che scatena effetti collaterali, dal livello di criminalità ai costi del welfare, ai sussidi di disoccupazione e via elencando.
  Bene ha fatto, dunque, il Parlamento ad avviare un'indagine conoscitiva sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica, a partire dal monitoraggio sui costi e sui risultati della miriade di iniziative, progetti e «progettini» contro la dispersione adottati – da anni – sul territorio, a nostro avviso, purtroppo, senza una vera regia, senza un programma strutturato e pianificato, senza un sufficiente controllo dei risultati e, quindi, senza la possibilità di trarne degli indirizzi sulle pratiche più efficaci e sui modelli da implementare. Molto si è fatto e si è anche investito, ma i risultati sono questi e, quindi, non possiamo prescindere da questa evidenza.
  L'emorragia intanto continua, tra progetti e progettini, anche se con un'intensità un po’ inferiore rispetto al passato. Nel 2000, infatti, la dispersione nella scuola secondaria superiore statale, misurata come ho detto, sfiorava il 37 per cento, mentre oggi siamo intorno al 28 per cento. Il corpo sociale del Paese, che avrebbe bisogno di energie fresche e vigorose, quali possono portare le nuove leve, si indebolisce. Per dare un'idea, da un anno di corso all'altro una media di 40.000 studenti abbandonano la scuola statale, quasi sempre a seguito di una bocciatura.
  Quali sono i dati dell'ultimo anno, recentissimi ? Li scorriamo velocemente. Poi li potrete approfondire nel dossier.
  Per la prima volta la dispersione scolastica negli istituti statali, misurata come differenza tra il numero degli iscritti all'ultimo anno nel 2013-2014 rispetto agli iscritti al primo anno cinque anni prima, cioè nel 2009-2010, scende sotto le 170.000 unità di studenti dispersi, pari al 27,9 per cento. L'anno scorso, sempre secondo la comparazione quinquennale, erano stati 10.000 in più, pari al 29,7 per cento.
  Nel tracciare, molto brevemente, una mappatura del fenomeno va detto che, esaminandola per ordine di scuola, la dispersione è concentrata negli istituti professionali, dove raggiunge il 38 per cento, ma, dieci anni fa, arrivava al 50 per cento. C’è stato, quindi, un fortissimo miglioramento, soprattutto nelle regioni del Nord e del Centro, anche se siamo ancora a un livello elevatissimo, del 38 per cento.
  Negli istituti tecnici la percentuale arriva al 28 per cento, ragion per cui, sommando istituti tecnici e professionali, 110.000 di quei 167.000 studenti che si sono dispersi – il 66 per cento, due su tre – rientrano in queste due tipologie di istituti secondari.
  Per quanto riguarda l'aspetto geografico sul territorio, il 46 per cento dei dispersi è collocato al Sud e nelle isole, ma occorre osservare che nel Nord-Ovest c’è Pag. 5una percentuale di abbandoni superiore a quella del Sud, il 29,1 per cento rispetto al 27,5 del Sud. La dispersione minima è nel Nord-Est, con il 24,5 per cento.
  Accenno rapidamente a qualche dato a livello provinciale: a Caltanissetta hanno abbandonato gli studi, rispetto agli iscritti cinque anni fa, al primo anno delle superiori, il 41,7 per cento degli studenti; a Palermo il 40,1; a Catania il 38,6; a Prato il 38,5; mentre la minore dispersione si ha a Benevento, con il 14,3 per cento; a Frosinone con il 15 per cento; nella provincia di Ancona con il 15,5 per cento; a Perugia con il 17 per cento. Su base regionale, la massima dispersione è in Sardegna, con il 36,2 per cento, e la minima è in Umbria, con il 18 per cento, esattamente la metà.
  Questi sono i dati. Noi cerchiamo poi, nel dossier, di fare uno sforzo per proporre anche qualche possibile soluzione e, quindi, per capire cosa fare.
  Come per le altre piaghe del Paese, anche per affrontare quella della dispersione ci vuole coraggio, secondo noi. Oltre a proporre un monitoraggio sistematico di tutte le iniziative finora messe in campo, e a completare al più presto l'Anagrafe degli studenti, prevista, lo ricordiamo, dal decreto legislativo n. 76 del 2005 – siamo nel 2014 e ancora non l'abbiamo – come giustamente auspicato nel programma dell'indagine conoscitiva di questa Commissione, dal nostro osservatorio sosteniamo che c’è bisogno di una terapia d'urto, non di una cura palliativa.
  Nel dossier noi elenchiamo, quindi, alcune possibili misure, senza alcuna pretesa di avere soluzioni definitive, ma nello spirito di offrire alcuni spunti e piste di ricerca, proprio per l'indagine che voi state svolgendo. Riporto le principali.
  In primo luogo, suggeriamo di intraprendere una decisa azione di contrasto contro le bocciature, che sono l'anticamera dell'abbandono scolastico, contrasto da attuare – in particolare – nei primi due anni della scuola secondaria superiore, dove le bocciature sono stimate in circa 185.000, attraverso piani di studio più flessibili e personalizzati, come già proposto da Tuttoscuola in un dossier dal titolo «Sei idee per rilanciare la scuola», che abbiamo presentato all'inizio di quest'anno scolastico.
  Si potrebbero prevenire i rischi di bocciatura, innanzitutto, attraverso corsi di recupero obbligatori pomeridiani ed estivi, che consentano agli studenti un più adeguato recupero delle lacune accumulate e che, al contempo, rendano più facile incontrare e accogliere il disagio, anche umano, che questi ragazzi si trovano spesso a vivere.
  In questo senso è fondamentale coinvolgere i genitori. Questo è un lavoro che potrebbe essere fatto anche con il supporto del privato sociale che abbia dimostrato di saper affrontare il «male di vivere» di questi ragazzi.
  Parimenti, i docenti saranno chiamati a un lavoro attento, per una valutazione che tenga conto dei passi avanti rispetto alla situazione di partenza e alla condizione familiare e sociale di provenienza degli studenti.
  Su questo punto vorrei fare una riflessione, dal punto di vista della valutazione e del lavoro dei docenti. Secondo noi, è giunto il momento di mettere in discussione l'idea che la bocciatura consegua quasi automaticamente al mancato raggiungimento, da parte dello studente, di un livello di prestazioni standard, o comunque considerato come la soglia minima accettabile. Sarebbe utile, a questo proposito – e lo si può fare a normativa invariata – suggerire l'approccio metodologico, utilizzato con successo nelle esperienze di integrazione, di un'esplicita personalizzazione degli obiettivi formativi, valorizzando le attitudini e le potenzialità individuali e registrando a verbale, senza negarle e occultarle, le limitate performance raggiunte dallo studente in una o più discipline. Tutto ciò, anche alla luce del più recente dibattito nei campi della psicologia dell'educazione, delle scienze cognitive e delle neuroscienze, teso a riconoscere e a valorizzare la multiformità delle intelligenze.
  La nostra è una proposta secca di vietare le bocciature sempre, anche Pag. 6quando l'alunno non si impegna per niente ? No. Diciamolo subito: la nostra è una proposta di mostrare agli studenti, soprattutto a quelli che vanno male, un volto – per così dire – amico, in una cornice di rigore e serietà, ma anche di comprensione della persona e del contesto che si ha davanti.
  Una volta fatto tutto il possibile per questi alunni a rischio di bocciatura – corsi di sostegno, compiti e obiettivi personalizzati, attività pomeridiane non solo di studio, ma anche di socializzazione – a quel punto, e solo se si sono fatte tutte queste azioni di accompagnamento, di fronte alla decisione di promuovere o bocciare, noi siamo per promuovere, a parte casi circostanziati.
  La riflessione che facciamo infatti è che, dopo tutto questo, se la scuola avesse fatto tutte quelle azioni che, oggi, compie molto limitatamente e più per buona volontà di alcuni docenti, non in maniera strutturata e sistematica e con un'organizzazione – tema di cui parlerò – e decidesse di bocciare, boccerebbe, in fondo, se stessa.
  D'altra parte, alcuni dei sistemi scolastici che stanno ai vertici delle classifiche internazionali – cito la Corea del Sud, il Giappone e, in Europa, la Finlandia – hanno tassi di ripetenza, tra i quindicenni, vicini allo zero. Sono dati OCSE-PISA. Questo deve far riflettere.
  Questa iniziativa non deve essere necessariamente introdotta in maniera istantanea. Si può anche cominciare ad andare in quella direzione. Citiamo lo studio fatto, a suo tempo, dal Ministro Padoa-Schioppa nel corso dell'esame della legge finanziaria per il 2007, che ipotizzava una riduzione del 10 per cento delle ripetenze, sempre nel quadro che ho esposto di tutte quelle azioni e del contesto che ho descritto. Tra l'altro, la riduzione delle bocciature che conseguirebbe alla messa in campo di queste azioni di prevenzione e di recupero porterebbe anche a una più efficace allocazione delle risorse, perché l'investimento che viene fatto, ogni quinquennio, su questi 170.000 studenti ha un basso ritorno. Non raggiunge, infatti, l'obiettivo per il quale viene effettuato. Questo è il primo punto sul quale ci sentiamo di proporre una riflessione.
  L'altro è quello di non lasciare sola la scuola. Se il problema è la difficoltà di apprendere e gli abbandoni che provoca, bisogna uscire dall'autoreferenzialità e cercare nuove strade. Va valutata, secondo me, molto positivamente la legge n. 128 del 2013, di conversione del decreto-legge n. 104 del 2013, che contiene un elemento di novità assoluta e non lascia da sola la scuola nel compito di affrontare i problemi di cui soffre, ma, con grande realismo, riconosce che la scuola può essere proficuamente aiutata da chi, in modo anche libero e volontario, già opera con efficacia in questo campo. Il decreto-legge n. 104 del 2013, pur attribuendo alle istituzioni scolastiche il compito primario di presentare e gestire i progetti contro la dispersione scolastica, dà loro la possibilità di avvalersi – cito testualmente l'articolo 7, comma 2 – «della collaborazione degli enti locali e delle figure professionali ad essi collegate, delle cooperative di educatori professionali, nonché di associazioni e fondazioni private senza scopo di lucro». Si tratta di partenariati che rappresentano un fattore di grande innovazione, perché, per la prima volta, si riconosce che vi sono iniziative libere con capacità di incidere in campo educativo e si dà alle scuole la possibilità di valorizzare tali iniziative, anche con un finanziamento, forse complessivamente modesto, ma comunque significativo.
  Tali iniziative di partenariato, peraltro, potrebbero trovare un opportuno spazio se le scuole fossero aperte anche nel pomeriggio, in un orario che potrebbe persino diventare obbligatorio per le situazioni di maggiore difficoltà.
  Veniamo così a un'altra proposta avanzata da Tuttoscuola, nel dossier «Sei idee per rilanciare la scuola» che ho citato prima. Partendo dal fatto che il grande patrimonio strutturale e strumentale di edifici e soprattutto di risorse umane, quasi tutte altamente qualificate, che la scuola ha è, oggi, utilizzato – per come è organizzato il servizio – al 50 per cento o Pag. 7poco più del potenziale, la proposta è quella di ampliare l'orario di funzionamento delle scuole – mi riferisco non all'orario scolastico, che è già abbastanza esteso, ma all'orario di funzionamento delle strutture scolastiche – in senso orizzontale, cioè tenendo aperte le scuole quando normalmente sono chiuse, in particolare nel periodo di giugno-luglio, e verticalmente, cioè allungando gli orari di funzionamento degli istituti nei giorni di lezione.
  Gli orari di funzionamento attuali, lo ricordo, sono quelli di sessant'anni fa. Nel frattempo, la società è cambiata profondamente e sono cambiate le esigenze. Secondo me, andrebbe dedicato il periodo che inizia dalla fine delle lezioni, e che va da metà giugno a fine luglio, all'espletamento di rigorosi corsi di recupero per chi non ha superato gli scrutini.
  A fine luglio o a settembre – queste sono varie opzioni –, si dovrebbe effettuare un nuovo scrutinio, per non far perdere l'anno a coloro che non sono stati promossi a giugno, il tutto a costo quasi zero per le casse dello Stato, in quanto si utilizzerebbero le giornate lavorative previste dal contratto dei docenti, che andrebbero in ferie, come tutti, ad agosto.
  Voglio sottolineare che – penso sia un caso unico al mondo – il datore di lavoro Stato, in questo caso il Ministero dell'istruzione, «chiude bottega», per così dire, ossia gli uffici, per un periodo superiore ai giorni di ferie previsti contrattualmente: qualche riflessione anche su questo aspetto si impone.
  Non mi soffermo qui su due imprescindibili politiche per la prevenzione della dispersione scolastica, quali quella di rendere più efficace l'orientamento nella scuola secondaria di primo grado e quella di rafforzare il collegamento tra scuola e mondo del lavoro. Sono questioni fondamentali.
  Le ultime proposte dal punto di vista ordinamentale – e delle regole – comprendono quella di considerare di passare nel primo biennio delle superiori a una valutazione biennale. La riforma Moratti, all'epoca, aveva previsto per il primo ciclo, a determinate condizioni, la valutazione biennale anziché annuale, ai fini dell'ammissione alla classe successiva. Si potrebbe riprendere questa norma per il biennio iniziale della scuola secondaria superiore, prevedendo la bocciatura nel primo anno di corso solo come evento eccezionale. Un progetto del genere dovrebbe essere accompagnato da misure particolari, con nuove strategie di apprendimento per accompagnare il percorso biennale dei ragazzi.
  Un altro spunto di riflessione potrebbe venire dalla sperimentazione della scuola secondaria in quattro anni. A parità di organici, ciò consentirebbe di reimpiegare quote importanti di personale docente nelle azioni soprattutto di counseling individuale e di recupero-rinforzo da svolgere, inizialmente nel biennio e, poi, anche successivamente. Il risultato possibile sarebbe che più ragazzi di oggi arriverebbero al diploma, e tutti un anno prima. Ovviamente, ci sono anche delle controindicazioni da valutare, ma questa è un'idea che, secondo noi, merita di essere approfondita.
  Una variante di questa idea, se vogliamo simile, è quella «dell'anno-ponte» tra scuola secondaria e istruzione post-secondaria. È un'altra modalità con la quale si potrebbe accorciare, di un anno, il percorso complessivo compiuto. Si tratterebbe di utilizzare l'ultimo anno di scuola secondaria superiore come anno-ponte verso gli studi successivi, attraverso la riduzione delle prove dell'esame di maturità a due o tre discipline. La scelta di tali discipline dovrebbe vincolare la scelta degli studi successivi – il corso di laurea o di istruzione tecnica superiore – con i quali esse dovrebbero essere coerenti e potrebbe comportare, d'intesa con l'università e con gli altri soggetti formativi e anche lavorativi, il riconoscimento di crediti.
  I vantaggi di una soluzione di questo genere sarebbero vari: l'abbreviazione della durata degli studi universitari, una minore «mortalità» nel primo anno di università, che, come sappiamo – anche se non la stiamo analizzando qui – è elevatissima, Pag. 8e un impiego più flessibile dei docenti del quinto anno delle superiori.
  In conclusione, secondo noi, occorrono un generalizzato rinnovamento di mentalità e un impegno costruttivo e condiviso per costruire un sistema educativo più inclusivo. Si tratta, in sostanza, di favorire la diffusione della cultura e della cittadinanza attiva, coinvolgendo – in maniera attiva – i giovani e le loro famiglie in iniziative legate alla vita del territorio e promuovendo una vera alleanza educativa. Grazie per l'attenzione.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Vinciguerra. Grazie soprattutto per gli spunti molto interessanti e anche un po’ in controtendenza, rispetto a quello che è il mondo della scuola. Questo mondo si deve aggiornare e deve, inevitabilmente, far fronte alle sfide di oggi.
  Do ora la parola al dottor Dutto.

  MARIO GIACOMO DUTTO, Esperto del settore. È per me veramente un onore essere stato invitato e avere l'opportunità di esprimere alcune valutazioni sul tema oggetto di questa indagine conoscitiva.
  Sorprendentemente, ho scoperto che, nel 2000, è giunta a conclusione un'indagine conoscitiva da parte della Commissione cultura della Camera sulla dispersione scolastica. Potrà essere interessante vedere come il problema venga posto, oggi, rispetto a ieri. Proprio da questo punto di vista, il mio intervento integra l'ampio panorama tracciato da chi mi ha preceduto.
  Vorrei incominciare da un piccolo problema. Mi auguro che abbiate sottomano le pagine che ho depositato, perché utilizzerò i grafici ivi presenti per accompagnare le mie riflessioni.
  Il primo problema su cui vorrei portare l'attenzione riguarda proprio la definizione del campo: il termine «dispersione scolastica» è infatti veramente di uso generale.
  Ricordo la problematica che ho affrontato quando lavoravo al Ministero dell'istruzione. Non mi sono ancora presentato, ma non per esibizionismo. Io ho lavorato partendo dalla scuola: ho cominciato a Ostia Nuova. Se qualcuno conosce i quartieri romani, sa che cosa fosse Ostia Nuova negli anni Settanta. Poi ho fatto il dirigente scolastico, l'ispettore e il direttore generale.
  Il primo problema è quello di cercare di capire che cosa intendiamo per dispersione scolastica e quali indicatori scegliere. La proposta fatta da chi mi ha preceduto è estremamente interessante, perché ci aiuta a vedere il funzionamento della singola scuola. Io mi ricordo, qualche anno fa, i dati che avevo: su 100 studenti che entrano in un istituto professionale solo 50 terminano il percorso. Questa è una tragedia, un disastro. Possiamo rivedere la gestione della scuola partendo da qui.
  Bisogna, però, tener conto che il fenomeno è piuttosto ampio. Vorrei, quindi, procedere per gradi, richiamando quello che tradizionalmente veniva considerato – e misurato – in termini di dispersione scolastica.
  Se noi prendiamo i vecchi annuari dell'ISTAT, o anche l'indagine del ministero, troviamo aspetti che riguardano fondamentalmente il funzionamento interno della scuola: i bocciati, i ripetenti, i ritardi, le interruzioni di frequenze e, quindi, la non valutazione a fine anno per assenze e via elencando.
  Da questa impostazione c’è stata una transizione verso un'ottica decisamente più ampia. Prendo uno degli indicatori che vengono utilizzati, che riguarda gli studenti che abbandonano la scuola. Il primo grafico che vi presento – sono dati conosciuti – ci aiuta a capire come la dispersione, quale fenomeno complessivo, possa essere misurata. Non riguarda solo il funzionamento interno, ma ciò che succede, poi, ai giovani tra i 18 e i 24 anni, indicando quanti in quella fascia non abbiano raggiunto un diploma di scuola secondaria superiore o un'altra qualifica.
  Da questo punto di vista, la situazione dell'Italia non è decisamente felice, come anche quella di altri Paesi. Su questa questione c’è un obiettivo della Strategia Europa 2020, che pone al 10 per cento – Pag. 9come tetto massimo – il numero di giovani collocabili tra gli early school leavers. Nel secondo grafico depositato ho messo insieme l'andamento di questo indicatore negli anni e devo dire che qualche cosa si muove nel nostro sistema scolastico. Il problema è che si muove troppo lentamente.
  Peraltro, ci sono anche altri sintomi di contrazione delle forme di dispersione e anche di miglioramento nei risultati dell'indagine PISA. Se voi guardate nel grafico 2 della nota depositata l'andamento per le varie aree nel contesto italiano, vedete che il raggiungimento del 10 per cento è un'impresa decisamente tantalica, soprattutto per alcune aree del Paese. Tuttavia, è abbastanza probabile che nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, con un impegno serrato, si possa arrivare all'anno 2020 per raggiungere quel fatidico 10 per cento. Ritornerò, poi, sulle possibili iniziative che ci consentano di guardare con più serenità in questa direzione.
  C’è un'altra ottica che allarga ancora lo sguardo e considera l'andamento scolastico insieme ai problemi di inserimento sociale e lavorativo-professionale, ed è quella di chi prende, come indicatore negativo, la percentuale di giovani tra i 15 e i 29 anni non occupati e non inseriti in percorsi di istruzione e di formazione.
  Da questo punto di vista, io vi presento alcuni dati, che peraltro sono conosciuti, che mostrano che l'Italia è effettivamente in una situazione molto difficile, perché entrano in gioco altre variabili, che riguardano l'andamento dell'occupazione, le opportunità di lavoro, le opportunità professionali.
  Come vedete, l'ottica con cui si guarda la dispersione può essere concentrata sul funzionamento interno della scuola e può essere ampliata. Non mi interessa quale sia il percorso dello studente, ma, poi, tra i 18 e i 24 anni quanti siano gli studenti che hanno raggiunto un diploma e, più ancora, quanti siano gli studenti che hanno svolto un percorso di studio e di formazione e che hanno anche un'occupazione.
  Ovviamente, lo sguardo – alla fine – deve essere focalizzato, altrimenti le misure non possono raggiungere alcun risultato, se allarghiamo troppo il campo. Vorrei richiamare, però, alcuni orizzonti che, anche oggi, diventano importanti, trattando di dispersione scolastica.
  C’è chi, per esempio, incomincia a mettere in evidenza i livelli di preparazione degli studenti. Abbiamo i dati delle rilevazioni internazionali, ragion per cui questo è un tema che può essere considerato. I dati PISA indicano il risultato, che non riguarda solo se lo studente si trovi a scuola in classe, ma anche quali risultati ottenga. Questo è un deciso passo in avanti.
  Eurostat incomincia a considerare – come indicatore – anche quanti studenti studino due lingue nella scuola. Siamo al 20 per cento, abbastanza distanti da altri Paesi. L'ottica si sta spostando dal regolare funzionamento del sistema scolastico ai risultati che raggiungono gli studenti.
  Un'altra ottica, ancora, che si sta mettendo in campo e che la dispersione richiama è la distanza che – secondo qualcuno – si crea tra il mondo della scuola, che rimane fondamentalmente statico e sempre uguale, e le competenze di alto profilo che sembrano essere attese per il secolo presente. Non entro in questa discussione, ma questa è un'altra ottica.
  Noi possiamo avere un sistema scolastico che funziona secondo alcuni parametri di frequenza e di regolarità interna, ma bisogna vedere se è di questo che la società ha bisogno.
  In quest'ottica, ancora, altri si chiedono se la nostra scuola stia preparando gli innovatori di domani, cioè coloro a cui saranno affidate le sorti del Paese. Da questo punto di vista, voi capite che il tema non è solo la regolarità funzionale, il diploma, il livello di laurea, ma anche la capacità della scuola di aggredire i problemi del futuro. Questo per dire come, trattando di dispersione, bisogna fare una scelta. Bisogna avere il panorama ampio e, poi, eventualmente concentrarsi su alcuni aspetti, scegliendo alcuni indicatori.Pag. 10
  Venendo alle misure su cui si potrebbe ragionare, io penso che potrebbe essere opportuno distinguere tra tre tipi di interventi. Un primo intervento riguarda misure di sistema complessivo, misure preventive rispetto a fenomeni e processi di dispersione. Una seconda area riguarda interventi diretti, ossia quando si può intervenire direttamente sui processi. Una terza area concerne gli interventi – direi – di postvention, ossia quando il ragazzo è uscito, ha abbandonato la scuola oppure sta per abbandonarla e che cosa possiamo fare in merito.
  Andando per ordine, tra le misure di prevenzione, che sono quelle di lungo periodo e che, quindi, non hanno un impatto immediato, ma diventano rilevanti, io mi sono permesso di inserire anche gli interventi di educazione e di cura nella primissima infanzia.
  Noi abbiamo, come Paese, sicuramente dei primati per quanto riguarda la fascia 3-6 anni, e riusciamo a mantenere una percentuale elevata. Abbiamo raggiunto – da questo punto di vista – gli obiettivi europei. Ovviamente, si tratta di mantenere in buona salute il sistema. Non è automatico che, una volta che abbiamo esteso la scuola dell'infanzia, poi le cose vadano bene. Il risultato va mantenuto, ma dobbiamo stare attenti alla fascia precedente, 0-3 anni.
  Da dieci anni l'OCSE ha sviluppato una serie di studi e di analisi per l'intera fascia 0-6 anni. Nonostante le eccellenze – possiamo riferirci a Maria Montessori, ma anche a Reggio Children e a tante altre iniziative positive nelle città – è come se ci mancasse un tassello. Ci concentriamo sulla fascia 3-6 anni ma, prima, abbiamo situazioni piuttosto difficili, che stanno migliorando (ci sono stati vari tentativi), sulle quali si potrebbe sviluppare un'azione più energica.
  Se guardiamo l'andamento dei bambini iscritti al nido, vediamo che c’è una leggera crescita, peraltro molto differenziata per aree territoriali. Questo potrebbe essere un segnale per il futuro. Come abbiamo fatto nel passato passi avanti decisivi, nella scuola dell'infanzia, anticipando altri Paesi, perché oggi non ci impegniamo su questo fronte ? Questa è una prima linea di lavoro.
  Una seconda linea di lavoro, sempre come misure di carattere preventivo, riguarda il settore dei tecnici e soprattutto dei professionali, cui si è già accennato. Il grosso problema dell'essere spinti fuori dalle scuole riguarda – soprattutto – gli istituti professionali e gli istituti tecnici. Perché non concentrare gli sforzi di innovazione metodologica in quest'area ?
  Peraltro, questa è un'area in cui abbiamo una quota di insegnanti decisamente impegnati. Forse, in un liceo si può ancora vivere un po’ tranquilli, ma in un istituto professionale no, e forse nemmeno in un istituto tecnico. Perché non introdurre, come priorità, un ciclo di interventi di 3-4 anni ?
  Ci sono problemi metodologici da risolvere estremamente importanti. Si accennava, prima, al discorso della bocciatura.
  Noi non abbiamo ancora risolto – nel secondo ciclo – il tema di come conciliare il fatto di volere tutti in classe con una votazione, con una valutazione del rendimento, dell'apprendimento. Poiché non abbiamo mai chiarito bene questo, ci siamo inventati varie soluzioni per far fronte al problema – debiti e crediti prima, sospensione del giudizio – ma, alla fine, non riusciamo veramente ad aggredire il problema e questo colpisce soprattutto i settori professionali e tecnici.
  Da questo punto di vista, se mi permettete un cenno personale – spero di non uscire fuori dal seminato – serve anche un cambiamento di ottica. Se noi non crediamo nei professionali e nei tecnici, ovviamente, non possiamo pensare che siano gli insegnanti o gli studenti a crederci. La gerarchia sociale nella scelta, dopo la terza media, è tale per cui noi continueremo ancora, per parecchio tempo, ad avere gli studenti più in difficoltà che scelgono il professionale, ma qualche sforzo in senso contrario bisogna pure metterlo in campo.
  Come richiamavo prima, io ho avuto l'esperienza, o forse la disavventura, del Pag. 11bonus maturità. Nelle intenzioni originali era un modo per riconoscere allo studente anche dell'istituto tecnico e del professionale che, se è bravo in quel contesto, probabilmente ha più merito del liceale. In fondo, il liceale che nasce in una famiglia di elevata cultura, vive in un contesto di alte aspettative e frequenta una buona scuola, dove tutti sono bravi, e probabilmente sarà bravo anche lui. Se uno studente entra in un istituto professionale con un background familiare non altrettanto ricco e riesce a eccellere, questo è un merito che gli dovrebbe essere riconosciuto. È più affidabile anche per una carriera importante.
  Mi fanno sorridere le polemiche che ci sono state, perché si pensava che gli studenti del liceo classico sarebbero stati penalizzati da un bonus maturità. Il 95 per cento degli studenti che accedono alle facoltà di medicina arrivano dai licei. Se uno vuol fare il medico, deve decidere a 14 anni, perché, se imbocca la strada del tecnico e del professionale, praticamente non ha più possibilità di proseguire.
  Questo per dire che ci vuole un'evoluzione culturale, ma anche un investimento in questo campo. Forse alcune scelte potrebbero essere prioritariamente rivolte a questi settori. La tecnologia attrae i giovani: perché non investire di più in tecnologia nei professionali e nei tecnici che non in altri settori ?
  Come terza linea di azione, sempre tra le misure di prevenzione, l'Annuario statistico ISTAT 2013, nel capitolo 7 concernente l'istruzione, mette in evidenza il fatto che, se noi sommiamo gli studenti iscritti nella scuola secondaria superiore, con gli studenti iscritti ai percorsi triennali di formazione professionale – questi ultimi sono complessivamente 241.000 in tutta Italia quest'anno – arriviamo ad un tasso di partecipazione al sistema di istruzione e formazione, dei 14-18 anni, pari a quasi il 100 per cento.
  Piaccia o non piaccia, il settore della formazione professionale è quello che ci consente di riportare in un percorso formativo gli studenti. Si tratterà, poi, di fare in modo che questo percorso non sia la deriva, non sia la parte debole, non sia concluso in sé, ma porti a un diploma quadriennale e alla formazione tecnica superiore o, eventualmente, all'esame di Stato.
  Vi richiamo ora al successivo grafico 5 della nota depositata. Se noi mettiamo insieme gli studenti delle scuole secondarie superiori e i percorsi triennali, arriviamo praticamente al 100 per cento degli studenti. Non sarà quello che volevamo quando si pensava di avere un biennio d'obbligo per tutti, ma – di fatto – così ci riusciamo.
  Non è un caso che in aree come il Trentino-Alto Adige, la Lombardia o il Veneto, dove si arriva a percentuali anche elevate di studenti nella formazione professionale, i risultati PISA siano eccellenti e riguardino anche gli studenti della formazione professionale. Non si tratta di un punto di debolezza.
  Io credo che un impegno deciso per puntare sull'asse della formazione e dell'istruzione professionale possa essere una delle strade per portare a contenere il numero di studenti che non terminano un percorso secondario, anche se la qualifica o il diploma quadriennale non sono la stessa cosa dell'esame di Stato, ovviamente.
  Sempre come misure di prevenzione, chi lavora nella scuola potrebbe elencare mille cose che si potrebbero fare per rendere più facile il percorso e per contenere i processi di dispersione. Ve ne accenno una.
  L'assegnazione dei dirigenti scolastici alle singole scuole viene fatta dal direttore scolastico regionale. Questo è contro natura, quasi controcorrente, contro l'uso abituale. Noi dovremmo prendere i migliori dirigenti e metterli nelle scuole più difficili, nelle scuole che hanno più difficoltà, e sicuramente otterremmo grandi risultati.
  Noi abbiamo dirigenti che hanno cozzato contro mille eventi critici, contro mille difficoltà e che hanno trasformato la loro scuola. Se fossimo in grado – ed è possibile farlo anche secondo norme esistenti – di dirottare questi dirigenti nelle Pag. 12scuole più in difficoltà, forse cambieremmo anche la mentalità per cui il punto d'arrivo di una carriera non è il liceo di città, il liceo di pregio, il liceo che ha una positiva immagine, ma una buona scuola, una scuola in cui io possa dimostrare di aver cambiato la realtà. In fondo, se vado a dirigere un liceo, è abbastanza probabile che le cose vadano bene. Se prendo in carico un istituto tecnico o professionale, con difficoltà, posso mettere in evidenza le mia capacità.
  Questo è solo un esempio. Ci sono tanti altri piccoli aspetti di gestione che potrebbero essere meglio focalizzati rispetto agli obiettivi. Queste sono, quindi, le misure di prevenzione.
  Passando alle misure di intervento diretto, molto semplicemente, noi abbiamo grandi interventi per l'inclusione di alunni svantaggiati, alunni in difficoltà d'apprendimento, alunni con handicap e via elencando. Dobbiamo fare un passo in avanti. Il segreto, per esempio, di sistemi come quello della Finlandia, è quello di riuscire a catturare immediatamente problemi e difficoltà di apprendimento e di non trascinarli nel tempo.
  Nella scuola primaria, che ha un'ottima tradizione di lavoro in questo campo, se questa diventasse una priorità, sarebbe una buona cosa. Ovviamente, se la risposta immediata è che servono più docenti, probabilmente non andiamo molto in avanti, ma teniamo conto che nella scuola primaria noi investiamo – come spesa pro capite – una quota leggermente superiore alla media dell'OCSE. La numerosità delle classi, nonostante le polemiche sulle cosiddette classi pollaio, da indagini comparative è ancora al di sotto dei valori medi dell'OCSE.
  Abbiamo, quindi, una buona tradizione. Questa dovrebbe diventare una priorità. Se noi non affrontiamo le difficoltà d'apprendimento in modo precoce, ce le ritroviamo, poi, nella scuola secondaria di primo grado e dopo ancora, e nessuno è più in grado di intervenire, se non mettendo qualche rattoppo. Questa dovrebbe diventare una vera priorità. Naturalmente, servono varie misure, ma indicare questa come una priorità, secondo me, è importante.
  Passando alla seconda misura di intervento diretto, noi abbiamo dei dati molto accurati sul livello degli studenti non adeguatamente preparati. L'indagine PISA prevede sei livelli. Al di sotto del secondo livello, generalmente, il risultato individua un'area debole, di studenti non adeguatamente preparati. Vi ho messo a disposizione, nel grafico 6, i dati su quali siano i livelli percentuali di studenti non preparati, secondo questa misura, nelle varie regioni.
  Questo deve diventare un punto di attacco, una misura. Su questo bisogna lavorare, anche perché ci sono esempi, dalla Puglia ad altri, in cui si è dimostrato che è possibile contenere questa fascia.
  Non si tratta solo dei bisogni educativi speciali. Qualcuno stima che la fascia di studenti che ha qualche difficoltà, cioè che nel funzionamento normale di una classe non riesce bene, può raggiungere forse il 15-20 per cento. C’è bisogno di un'intensificazione, di un'attenzione particolare, il che non vuol dire un insegnante di sostegno od ore aggiuntive, ma una modulazione dell'attività in classe particolarmente finalizzata.
  Come terzo aspetto, decisamente il più grave, che concerne il grafico 7 della nota depositata, si osserva che non c'erano molti studi sull'assenteismo degli studenti – c'era qualcosa qua e là – ma l'esperienza dei dirigenti e dei docenti avrebbero potuto insegnarci molto. C’è voluta un'indagine PISA, i cui dati nessuno ha contestato, in cui è stato chiesto agli studenti se nelle due settimane precedenti al test fossero stati sempre a scuola o avessero fatto un'assenza, due o tre.
  Io – in quel grafico – ho indicato le percentuali degli studenti che non sono stati assenti nelle due settimane prima del test. Per l'Italia siamo al 51 per cento. Come si può constatare, ci batte solo l'Argentina. C'erano anche altri Paesi, ma ho scremato i dati.
  Questo è un fatto drammatico, perché nella partecipazione alla scuola lo studente Pag. 13italiano non è diverso dallo studente tedesco, francese o inglese. Tutti condividono molta parte della cultura e degli atteggiamenti, la musica, lo spettacolo, il cinema e via elencando.
  Questo è un tema che possiamo assolutamente migliorare. Non è un fatto meteorologico su cui non abbiamo un controllo. Certo, bisogna partire dalla singola scuola e cambiare il modo di considerare le assenze. Non è solo questione di controllo e di registro elettronico, ma del modo in cui tolleriamo queste assenze. Se il 51 per cento degli studenti, negli ultimi quindici giorni prima del test, è stato sempre presente, ciò significa che il 49 per cento ha fatto almeno un giorno di assenza.
  Nell'indagine PISA si mette, poi, a raffronto come l'andamento di queste assenze impatti sui livelli di preparazione. Questa è esperienza comune ed è un punto su cui nulla impedisce di migliorare, anzi su cui possiamo e dobbiamo migliorare, perché riguarda il funzionamento regolare della scuola. Non servono soldi, non servono investimenti finanziari, solo che la scuola funzioni meglio. Questo riguarda sempre misure di intervento diretto.
  Ci sono, poi, le misure compensative, che concernono che cosa facciamo quando un ragazzo o una ragazza abbandona la scuola. Questo è un campo in cui, sicuramente, le iniziative nel nostro Paese sono numerose. Nell'indagine conoscitiva del 2000 della Commissione cultura si sono andate a vedere, sul territorio, le mille iniziative che erano presenti. Anche oggi, noi abbiamo varie forme di partnership tra la scuola, le associazioni di volontariato e gruppi vari che lavorano in questo campo e che possono avere un ruolo estremamente importante.
  In merito direi due cose. Nel momento in cui si affronta una questione, da questo punto di vista, su questi obiettivi, bisogna tener conto di che cosa sappiamo sulle soluzioni che funzionano. Non necessariamente stanziare 15 milioni di euro per la dispersione scolastica vuol dire migliorare la situazione, così come fare una partnership. Dobbiamo cercare di approfondire la questione.
  Quali sono le ipotesi ? Se io allungo la giornata scolastica, se faccio più ore di lezione, sono sicuro che miglioro la situazione ? Andiamo un po’ a vedere cosa succede, perché il tempo scolastico è una variabile che influisce nella misura in cui si traduce, poi, in un tempo di apprendimento, di concentrazione e di studio, ma tra il calendario scolastico, l'orario delle lezioni settimanali, l'orario di lezione in classe e l'attenzione dello studente, vi è una fisarmonica. Concentrare l'attenzione su quelle variabili su cui c’è buona probabilità di influire è importante.
  Allo stesso modo, si deve essere sufficientemente onesti da riconoscere che, se un ragazzo ha avuto problemi in quella scuola, con quell'insegnante e in quel contesto, non è poi del tutto automatico che gli stessi insegnanti siano in grado di superare i problemi che loro stessi hanno contribuito a creare.
  Lo dico con grande rispetto per gli insegnanti. Probabilmente, servono anche altre soluzioni. Per questo azioni di altri soggetti possono integrare il lavoro della scuola, non in competizione, ma proprio rendendoci conto che il fatto educativo è talmente complesso che non è riconducibile a una ricetta semplice: servono risorse complessive e capacità strategiche piuttosto elaborate.
  Ancora sotto questo punto di vista è stato già richiamato che, come per l'Anagrafe edilizia, sono vent'anni – dice qualcuno che conosce come me queste vicende – che si parla di Anagrafe delle scuole. Oggi, noi non abbiamo ancora un'Anagrafe degli studenti che ci consenta di dire per quella classe di età dove siano gli studenti. Abbiamo tutti dei pezzi, ma non dialogano tra di loro, nonostante il registro elettronico e i contratti di funzionamento del sistema informatico. Questa è un'urgenza, peraltro già indicata nel programma della presente indagine conoscitiva della Commissione cultura.
  Per concludere, io farei due tipi di osservazioni. In primo luogo, non vorrei Pag. 14essere provocatorio, ma noi abbiamo una Costituzione che, all'articolo 34, fa riferimento ai capaci e ai meritevoli, che hanno diritto a vedere rimossi gli ostacoli rispetto al futuro.
  Questa disposizione è stata scritta molti anni fa. Oggi, il problema della scuola è che ha a che fare con i non capaci e i non meritevoli. Noi non abbiamo più solo il problema di facilitare chi è bravo, ma anche quello di portare tutti a un percorso di formazione. Tra questi tutti ci sono anche quelli che sono diversamente motivati. Non necessariamente li definiremo capaci, eppure scommettiamo su di loro, nel senso che li vogliamo motivare.
  Voi capite che per affrontare questo problema molto si gioca sulla personalità e sulle capacità degli insegnanti. Non sarebbe, forse, il caso che il nostro Paese riprendesse in mano la questione di come assicurare uno sviluppo professionale degli insegnanti e di come fare in modo che l'insegnante sia messo di fronte alle sue responsabilità ?
  Probabilmente è passata – spero che lo sia – la stagione in cui si promettevano stipendi europei, non perché non si debbano introdurre, ma perché queste promesse non si realizzano. Forse, però, se noi garantissimo agli insegnanti un contesto professionale più ricco e opportunità di formazione, o spendessimo per la formazione continua degli insegnanti almeno le stesse cifre che spendiamo per la valutazione, le cose migliorerebbero.
  Se noi valutiamo gli studenti, poi dobbiamo essere in grado di affrontare le situazioni che andiamo a diagnosticare. Perché non riprendere in mano la creazione di opportunità per i docenti ? Perlomeno, sarebbe un modo per dire che non si è in grado di capovolgere lo status giuridico, economico e contrattuale degli insegnanti, ma li si considera dei professionisti.
  Da questo punto di vista qualche risparmio, forse, la stessa amministrazione dell'istruzione potrebbe anche farlo. Nessuno si chiede mai se tutti quei 100 e più milioni di euro per le Commissioni d'esame di Stato siano proprio indispensabili, visto che l'esame di Stato è quello che è. Anche se nessuno è pronto a toccare i tabù nazionali, sono tante le risorse che vanno in una direzione e che, poi, non hanno il risultato che noi vorremmo.
  Come seconda considerazione finale, io penso che noi siamo in una situazione in cui dobbiamo essere più ambiziosi. Abbiamo molti dati negativi sulla dispersione scolastica, ma abbiamo anche un Paese che fa leggeri miglioramenti. Non solo, ma abbiamo nel nostro sistema scolastico la soluzione ai problemi. Ci sono aree del Paese e scuole del Paese in cui gli studenti eccellono e hanno performance, anche in base a indagini comparative, di eccellenza: è passato quasi sotto silenzio, ma i dati relativi alla parte dell'indagine PISA sulla soluzione dei problemi, sul problem solving, vedono i nostri ragazzi del Nord-Ovest e del Nord-Est primi in Europa.
  Questo ci deve far pensare. C’è qualcosa che funziona bene nel nostro sistema. Perché non prendere – per così dire – la palla al balzo e riconsiderare le cose ? Perché non vedere più la dispersione solo come una sorta di tempesta che ci avvolge, di fronte alla quale siamo paralizzati nelle capacità di risolvere il problema ? Occorre vedere tutte le dinamiche che sono in atto e spingere nella direzione che vi ho indicato.
  Io ho cercato di portarvi alcune riflessioni. Se, poi, nel dibattito ci sono altre richieste di chiarimento, sarò ben felice di fornirvele.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Dutto, per aver sottolineato tanti aspetti di una problematica tanto complessa.
  Io mi permetto di soffermarmi su una questione che è stata toccata, ma non approfondita e che, secondo me, rappresenta uno dei problemi principali. Mi riferisco all'assenteismo prima del test da parte degli studenti.
  Questo è un problema, secondo me, culturale, perché in Italia è accettabile non andare a scuola. È accettabile da parte dei genitori e delle famiglie. In altri Paesi non è accettabile. Bisogna lavorare molto su tutti gli aspetti di cui avete parlato. Tuttavia, Pag. 15fino a quando per la famiglia è accettabile che il bambino o il ragazzino non vada a scuola, perché ad esempio deve andare in trasferta a vedere la partita di pallone, è ovvio che, poi, questi sono i risultati.
  Questa è solo una mia considerazione, avendo io un marito straniero che non tollera assenze da scuola di nostra figlia.
  Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MILENA SANTERINI. Svolgo un brevissimo intervento, soprattutto per ringraziare, perché davvero ci avete introdotto a una tematica urgente, che ci interroga, ci preoccupa e – scusate se uso una parola forse non politica – ci angoscia. Avete fatto ciò incoraggiandoci ad avere coraggio.
  Io credo che noi, in questi anni, abbiamo disperso gli interventi sulla dispersione. Siamo intervenuti, abbiamo svolto una serie di aspetti, ma con delle falle, con delle mancanze macroscopiche, derivanti dalla sfiducia che si possa davvero intervenire sul sistema. Abbiamo svolto interventi su tantissimi campi, senza davvero aggredire le tematiche che ci interessano. In questo momento, io vorrei soltanto dire che credo – e spero – sia arrivato il tempo in cui il Parlamento si impegni in modo concreto in questo senso.
  Occorrono strategie di attacco mirate. Non è impossibile attuarle. Abbiamo dati che ci permettono di aggredire il problema a livello regionale o a livello di scuole. Sappiamo quali sono le situazioni a livello di ordine di scuola e le differenze tra infanzia, primo ciclo scolastico e via proseguendo. Abbiamo un'idea – vaga, ma ce l'abbiamo – di dove non hanno funzionato le cose. Dobbiamo sviluppare questo tipo di mentalità, ossia elaborare strategie di attacco mirato.
  È stato fatto ? Non a sufficienza. Vi faccio un esempio che mi ha molto preoccupata. Noi stessi abbiamo approvato qui una legge, la n. 128 del 2013, di conversione del decreto-legge n. 104 del 2013, il cui articolo 7 prevede fondi per il contrasto alla dispersione scolastica. Quando ho visto il decreto attuativo, mi è venuto un momento di scoraggiamento.
  Nel decreto attuativo c'erano due tipi di intervento che le scuole potevano attuare con i fondi messi a disposizione per la dispersione. Uno mirava al recupero personalizzato dei ragazzi, di cui abbiamo parlato. L'altro consisteva in interventi nelle scuole di tipo ricreativo, culturale e sportivo, senza alcun tipo di specifica. In pratica, noi abbiamo lasciato libere le scuole di usare i fondi per la dispersione per qualsiasi tipo di intervento.
  O noi aggrediamo i problemi e, seguendo il ragionamento che voi avete fatto, su cui io convengo – devo dirvi, e ne sono stupita, che io convengo su quasi tutte le iniziative che voi avete proposto – e mettiamo in atto un ragionamento di prevenzione e recupero, attivando macrostrategie di livello generale, ma anche tutto ciò che rimuova gli ostacoli al livello di singoli ordini di scuola e di regioni, per permettere il recupero di questi ragazzi, e valutiamo quello che è successo e che ha funzionato e andiamo ad aggredire i problemi, oppure proseguirà la dispersione scolastica.
  Io chiederò che siano auditi i responsabili della dispersione della regione Campania. Mi hanno spiegato che attraverso i PON (Programmi operativi nazionali) la Campania ha avuto 50 milioni di euro. I progressi che abbiamo fatto, che pur ci sono, non sono sufficienti, non sono proporzionati all'investimento che abbiamo compiuto. Chi ha sbagliato ? Nessuno, probabilmente. Forse abbiamo semplicemente non mirato le strategie.
  Noi continueremo queste audizioni, ascolteremo altri soggetti; ci sarà da scegliere. Come vedete, molte delle cose che sono state dette sono di livello gestionale e organizzativo, e non richiederebbero necessariamente risorse aggiuntive. Dobbiamo, però, mirare e, quindi, invertire completamente l'attenzione dal personale docente ai ragazzi. Dobbiamo scegliere un punto di vista e fare di questo punto di vista, cioè dei ragazzi che perdiamo, la leva per il cambiamento della scuola.Pag. 16
  Io credo che questo sia possibile e auspico che, alla fine di queste audizioni, concordemente noi potremo arrivare a indicare al Governo, al MIUR, un piano di strategia nazionale che comprenda interventi fattibili, che possano svilupparsi sulla base di alcuni criteri chiave.
  Scusate se apro una piccola parentesi sulla valutazione. Forse, nessuno sa che noi non abbiamo la valutazione di come siano state spese le risorse dei PON, perché il Comitato di valutazione dei fondi spesi per i PON è composto da funzionari del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca che, avendo molto da fare, non riescono a riunirsi.
  Noi non abbiamo, dunque, questo tipo di valutazione. Se anche lo avessimo, però, dobbiamo sviluppare questo tipo di meccanismo, ossia valutazione, strategie d'attacco mirate, distinzione tra interventi di prevenzione e interventi di recupero, messa a sistema degli interventi e chiamata in aiuto di tutte le alleanze di tutta la società.
  Non è un piano così enorme e impossibile da realizzare. Nel dopoguerra, abbiamo sviluppato delle strategie d'attacco alla povertà e siamo riusciti ad avere successo, con molti meno mezzi. L'Italia è cresciuta e può crescere ancora.
  Vi ringrazio moltissimo, perché ci avete permesso di vedere un problema globale, enorme e immenso come affrontabile, attaccabile e aggredibile. Io credo che possa partire anche da questa Commissione questo tipo di Piano e di speranza.

  MARIA GRAZIA ROCCHI. Anch'io voglio ringraziare il dottor Dutto e il dottor Vinciguerra per i loro importanti contributi, che saranno oggetto – per noi – di studio attento, per poter fare sintesi sia dei vari aspetti tecnici e statistici, sia delle indicazioni metodologiche fornite.
  Vorrei fare, insieme a voi, una piccola riflessione. Capita, molto spesso, di dover esaminare il problema della dispersione – anche voi l'avete segnalato – nella fascia di età che va dai 14 ai 16 anni. È in quella fase che il ragazzo manifesta – prima di tutto – la sua disaffezione a continuare il percorso scolastico ed evidenzia i maggiori problemi.
  In molti casi ci siamo accorti, quando questo fenomeno è stato affrontato, che è stato affrontato a volte in maniera piuttosto efficace – fra le tante miriadi di percorsi sperimentati nel tempo – soprattutto tramite i programmi di riorientamento, in base ai quali, quando questi ragazzi venivano presi uno a uno e si valutava insieme a loro se fosse il caso di proseguire nei percorsi di istruzione, di riorientarli verso la formazione o di fare dei percorsi integrati, i problemi risalivano indietro nel tempo.
  Io mi ricordo, all'origine, i famosi percorsi IF (istruzione e formazione), IP (istruzione professionalizzante), PF (percorso formativo), con i quali si intrapresero queste prime ricerche. Grazie anche alle risorse messe a disposizione furono create delle sorte di alleanze, proprio fra una componente tipicamente docente, che analizzava le situazioni, e una componente non docente. Parlo di counselor e di orientatori. In quei casi, i ragazzi furono intervistati e furono fatte delle piccole ricerche di tipo qualitativo, non più quantitativo, andando a indagare dove fosse emersa la loro disaffezione.
  Ebbene, ci siamo resi conto che, alle superiori, in particolare nella fascia fra i 14 e i 16 anni, si manifestava la conseguenza della disaffezione. A quel punto si vedevano gli effetti, ma le cause si manifestavano prima. Le esperienze pre-scuola superiore – nella fase precedente – vissute dai ragazzi venivano descritte come una catena di fallimenti, sui quali non si interveniva abbastanza.
  Certo, sappiamo bene che quello della dispersione è un fenomeno multidimensionale, ragion per cui il fallimento scolastico, che veniva evidenziato in una data fascia di età, non veniva poi sufficientemente compensato da interventi familiari e della scuola. Si diceva: è un fallimento, punto.
  A me piacerebbe che questa nostra indagine conoscitiva potesse concludersi con un approfondimento non solo di tipo quantitativo, di dati statistici, ma anche di Pag. 17tipo qualitativo, andando ad approfondire su un campione di studenti soggetti a dispersione dove nasca la disaffezione e la sensazione «io tanto non ce la faccio, per cui rinuncio anche alla competizione, quella che io vivo come tale». Se questo fosse possibile, probabilmente, metteremmo alla luce anche un altro fenomeno, che aiuterebbe le scuole ad aggredire la dispersione con strumenti opportuni.

  MARIA MARZANA. Ringrazio gli intervenuti per i loro suggerimenti, oltre che per averci fornito dei dati, ed entro proprio nel merito delle varie proposte che voi avete esposto.
  Io mi trovo assolutamente d'accordo nel considerare la personalizzazione dell'apprendimento come uno degli aspetti su cui fare leva, per poter arginare il fenomeno della dispersione scolastica. Tuttavia, con il crescente aumento del numero degli alunni per classe, non credo che si stia andando verso questa direzione, ma che, al contrario, si stia prospettando per gli insegnanti una sfida davvero impossibile, quella di attuare concretamente questa proposta. C’è, naturalmente, uno sforzo, perché dal punto di vista pedagogico tutto ciò è importantissimo, ma evidentemente i risultati non possono essere buoni, perché è molto difficile realizzarli.
  Si parlava, per esempio, delle attività pomeridiane extrascolastiche. La direzione verso cui si va è totalmente opposta, visto che nel corso degli ultimi anni, in particolare il MOF, il Fondo per il miglioramento dell'offerta formativa, è stato decurtato. Addirittura, si è passati a un terzo delle risorse rispetto ad alcuni anni fa. Come si fa così a mantenere aperta la scuola durante il pomeriggio e a proporre delle attività che possano impegnare gli studenti, stimolarli e far sì che questi siano attratti dal sistema scolastico ?
  Mi piace molto la proposta di prolungare il funzionamento delle scuole anche durante il periodo estivo. Per esempio, a livello di scuola dell'infanzia comunale, ci sono comuni che si organizzano in tal senso. Io credo che sia una questione organizzativa, ma che si possa fare. Soprattutto nelle aree disagiate o per gli studenti che provengono da famiglie che non hanno la possibilità di fornire molti stimoli culturali, questa sarebbe assolutamente un'alternativa validissima.
  Non mi trovo d'accordo, invece, quando si propone di valutare al secondo anno i risultati degli studenti, perché la valutazione dovrebbe essere intesa come uno strumento che serve per la programmazione. Più io allontano nel tempo questo momento, più tardi mi posso rendere conto di ciò che è necessario fare per correggere il tiro a livello di progettualità. Questo non è proprio fattibile.
  Per quanto riguarda la riduzione a quattro anni della durata del liceo, è un'altra proposta che non condivido, in qualità di rappresentante del mio Gruppo. È stato detto che verrebbe mantenuto l'organico, ma che parte di tale organico verrebbe utilizzata per attività differenti, come orientamento e counseling. Tuttavia, un'insegnante ha determinate competenze. Fargli svolgere un'attività che fa parte della sua funzione, ma totalmente diversa, non credo sia condivisibile.
  Per quanto riguarda l'altro intervento, si diceva che per prevenire bisognerebbe aumentare le iscrizioni al nido. Anche in questo caso vengono diminuiti i fondi che sono stanziati per gli enti locali, ragion per cui solamente chi ha le possibilità economiche manda i propri bimbi presso le strutture private. Al contrario, altri genitori non hanno la possibilità di assicurare questo momento educativo e di crescita insieme agli altri bambini, perché le strutture pubbliche sono assai poche per l'età che va da 0 a 3 anni.
  Si diceva, per esempio, anche di investire sugli istituti tecnici e su quelli professionali. Abbiamo visto che, in seguito ai tagli di risorse, questi istituti sono praticamente stati tra i più penalizzati, perché i tagli lineari hanno smantellato le materie caratterizzanti: tutte le attività pratiche di laboratorio sono state fortemente decurtate.
  In ogni caso, gli studenti che escono da questi istituti non hanno delle ottime opportunità di lavoro, perché la loro formazione, Pag. 18dal punto di vista pratico è carente. Ci sono numerose testimonianze in merito. Ve lo posso assicurare, perché arrivano questi feedback. Bisognerebbe quindi qualificare di più questo tipo di attività. Di conseguenza, anche gli studenti sarebbero più coinvolti e motivati.
  Accenno a un'ultima questione. È stato detto che non servono soldi per il funzionamento della scuola. Secondo me, questa è un'altra considerazione assolutamente non corretta. È chiaro, invece, che occorre avere degli strumenti strutturali e non puntare su singoli progetti. Nello specifico, occorrono investimenti che servirebbero alle scuole per attrezzarsi di tutti quegli strumenti che fanno parte della vita quotidiana degli studenti – mi riferisco in particolare agli strumenti tecnologici – per farli entrare proprio nell'attività didattica, non semplicemente come strumentazione.
  Per questo motivo è fondamentale investire anche in formazione. Mi fa piacere che ciò sia stato detto, perché nel nostro Paese si punta continuamente sulla valutazione e non sulla formazione.
  Suggerirei, poi, di guardare ad altri sistemi di istruzione, come quello di Singapore, dove si punta molto sul coinvolgimento degli studenti attraverso i nuovi media e i nuovi strumenti. Parlo dei social network, che non devono essere intesi semplicemente come strumenti di distrazione, ma che possono entrare benissimo nel processo di apprendimento e di insegnamento e, quindi, di comunicazione, facilitando l'apprendimento e motivando – molto di più – gli studenti, coinvolgendoli veramente nel processo di formazione.

  PRESIDENTE. Do ora la parola ai nostri ospiti per la replica.

  GIOVANNI VINCIGUERRA, Direttore responsabile di Tuttoscuola. Inizio a rispondere io, in maniera molto sintetica. Intanto vorrei ringraziare per tutte le osservazioni svolte. Mi aggancio, in particolare, alle ultime dell'onorevole Marzana, che ne ha presentate diverse, e ne commento brevemente due.
  La proposta di riduzione di un anno del percorso di istruzione secondaria superiore – noi abbiamo presentato nel dossier due opzioni alternative – si inquadra nel contesto generale della durata del percorso formativo, che in Italia è mediamente di un anno più lungo rispetto alla maggior parte dei Paesi, sia a livello europeo, sia a livello internazionale.
  Ovviamente, questa è una soluzione complessa, qualsiasi strada si scelga. Dal momento che è in corso una sperimentazione su questo tema, però, io penso che sia molto interessante seguirla e valutarne sotto tutti gli aspetti gli effetti, perché il problema si pone. L'ingresso nel mondo del lavoro con un anno di ritardo rischia infatti di penalizzare molto gli studenti italiani.
  L'altro punto sul quale vorrei rispondere è quello dell'ampliamento dell'orario di funzionamento, sia nel periodo estivo, sia nel pomeriggio. Lei faceva riferimento a un problema di risorse.
  Noi abbiamo approfondito questo tema nel citato dossier «Sei idee per rilanciare la scuola». Le risorse potrebbero venire proprio dai maggiori servizi offerti alle famiglie. Sarebbero le famiglie stesse, che oggi investono notevoli risorse per assicurare ai figli attività integrative pomeridiane e che, peraltro, portano i figli, il pomeriggio, magari da una parte all'altra della città – se queste attività fossero proposte e offerte dalla scuola – a indirizzare parte delle risorse, che già oggi spendono, verso le scuole. Si ricaverebbero, quindi, per gli istituti scolastici, le risorse sia per organizzare il servizio, sia per retribuire maggiormente i docenti che si impegnassero per svolgere queste attività aggiuntive.
  Come accennava lei, è un punto effettivamente centrale quello dell'integrazione tra l'istruzione formale, centrata sugli obiettivi di apprendimento previsti dai piani di studio, l'educazione non formale – pensiamo ai corsi di apprendimento delle lingue e dell'informatica – e l'educazione informale, alla quale faceva riferimento lei, con i social network o qualsiasi esperienza legata al gioco e allo sport che sia formativa. La scuola si potrebbe candidare a integrare queste tre dimensioni, Pag. 19offrendo un servizio a tutto tondo alle famiglie. Questa è una prospettiva, secondo noi, interessante.
  Con l'occasione, vorrei concludere ringraziando voi e anche i qui presenti Sergio Govi e Orazio Niceforo, che hanno redatto il dossier depositato, peraltro facendo uno sforzo per poterlo presentare oggi qui in Commissione.

  MARIO GIACOMO DUTTO, Esperto del settore. Svolgo solo un commento, come gesto di ringraziamento e di apprezzamento rispetto alle osservazioni fatte.
  Dobbiamo essere più ambiziosi: secondo me, una strategia più mirata è possibile. Faccio un esempio improprio, ma solo per dare un'idea. Anni fa, l'amministrazione, la cosiddetta burocrazia scolastica, di fronte a una decisione politica molto netta, assertiva e determinata, ha ridotto di 140.000 posti l'intero organico delle scuole italiane, un'operazione non semplice. Come si è fatto ? Si è imposto un obiettivo molto chiaramente, con responsabilità dei capi dipartimento e dei direttori generali del ministero.
  In quel caso, forse, l'obiettivo non era quello da me condiviso, ma si è visto che, ponendo alla burocrazia scolastica obiettivi molto precisi e puntuali e chiamando i capi dipartimento alla responsabilità, l'amministrazione è riuscita a realizzare anche compiti difficili, come poteva essere quello di ridurre di 140.000 posti l'organico dell'intero sistema scolastico.
  Per raggiungere l'obiettivo di arrivare al 10 per cento di early school leavers, da qui al 2020, bisogna lavorare subito, perché i 18-20enni del 2020 sono i 12-14enni di oggi, ma è un'impresa, secondo me, fattibile. Bisogna crederci. Bisogna che la decisione politica sia chiara e impositiva rispetto all'amministrazione. La burocrazia serve a questo.
  Come seconda osservazione, io sono interamente d'accordo con la considerazione sull'importanza della fascia dei 14-16 anni, che è quella cruciale. Sono, forse, un punto debole del nostro sistema scolastico gli anni terminali della ex scuola media e quelli del biennio delle superiori. Forse un investimento sui docenti potrebbe essere risolutivo, recuperando quelle belle esperienze di orientamento e riorientamento che appartengono alla nostra buona tradizione scolastica.
  Quanto agli alunni per classe, è vero, noi abbiamo una tradizione di piccole classi, comparativamente. Tuttavia, se facciamo i confronti con altri Paesi, notiamo che il valore medio, che – ovviamente – poi compensa situazioni molto diverse, è ancora inferiore a quello delle numerosità medie delle scuole nei Paesi dell'area OCSE.
  È un problema forse anche culturale. Noi non siamo più stati abituati a lavorare con classi più disomogenee e più grandi. Con questo non intendo auspicare che si vada in quella direzione, ma invitare a tenere conto del fatto che abbiamo una condizione ancora favorevole, da questo punto di vista.
  Sul tempo scolastico, io non so quanto possiamo ancora andare avanti. Dai 7 ai 14 anni noi abbiamo 7.000 ore di insegnamento. Credo che siamo al top tra i vari Paesi. Forse ci batte Israele.
  Possiamo continuare a dire che serve più tempo scolastico ? Forse potremmo incominciare a utilizzare bene il tempo che abbiamo, che comunque è tanto, ed è superiore ai valori medi di altri Paesi. Tuttavia, non avendo mai definito chiaramente quale sia il tempo adeguato, perché non è semplice farlo, continuiamo a richiederne di più. Io penso che i tempi che abbiamo siano sufficienti e che l'obiettivo sia quello di utilizzarli meglio.
  L'onorevole Marzana ha citato Singapore. Singapore dal 2008 ha un programma chiamato Teach Less, Learn More. Si tratta di ridurre la quantità e di approfondire, proprio perché l'aumento eccessivo di contenuti o di impegno scolastico, alla fine, può ridurre lo spazio per l'apprendimento.
  È una lezione che potremmo anche imparare, anche se poi qualcuno si chiede se Singapore potrà mai permettersi uno come Steve Jobs. Il sistema è perfetto, con risultati eccellenti, ma forse non facilita la creatività delle persone. Noi abbiamo una Pag. 20buona tradizione, da questo punto di vista. Perché non mettiamo insieme buoni risultati scolastici e prove strutturate con una tradizione di creatività, di inventività e di autonomia personale ?
  Con riferimento al percorso di quattro anni, è straordinario che noi abbiamo già, da sempre, un'opportunità per gli studenti bravi di concludere in quattro anni gli studi superiori. Questa opportunità, però, non è mai stata utilizzata, perché richiede un'organizzazione particolare a livello di scuola, un impegno ulteriore. Prima di cercare nuove architetture istituzionali, perché non sfruttiamo questa opportunità per gli studenti particolarmente bravi ?
  È vero che la questione dei nidi mette in campo la questione delle risorse disponibili e, quindi, delle possibilità operative degli enti locali e di altri soggetti. Io facevo un confronto. A fine anni Sessanta, inizio anni Settanta, è partita la spinta per le scuole dell'infanzia. Anche allora si diceva che sarebbero serviti soldi e che non c'erano. Perché, oggi, questa non può diventare una priorità attorno cui, poi, creare le adeguate condizioni ? Certo, in situazioni di austerità e di contenimento di risorse le cose sono più difficili.
  Sugli istituti tecnici e professionali, è vero, c’è stato un contenimento con qualche elemento penalizzante, ma è anche vero che, prima, quando le cose sembravano andare bene, non avevamo ottimi risultati. Adesso dovremo aspettare qualche anno per vedere i nuovi risultati.
  Alcuni esempi, come gli istituti alberghieri o istituti di altri settori, sembrano essere la dimostrazione che le cose si possono fare, anche perché il contenimento dell'orario – qualcuno presente in quest'aula potrebbe spiegarcelo meglio – in fondo era un po’ una soluzione ragionieristica. Con il calcolo dai cinquanta ai sessanta minuti, in realtà, si è fatta una riduzione che manteneva sostanzialmente il tempo vero di insegnamento, che era quello di prima, anche se figurava un numero ridotto di ore.
  La questione delle risorse è un problema di carattere politico, di quante risorse questo Paese vuole dedicare alla propria scuola. Ovviamente, non è una questione soltanto tecnica, ma presenta un aspetto tecnico: non avendo noi fatto mai uno sforzo per definire quali siano le risorse adeguate per il sistema scolastico, le risorse o non bastano mai, o si può utilizzare la scuola per sottrarre risorse.
  Forse, ci vorrebbe uno sforzo. Visto che abbiamo tanti economisti che si occupano di valutazione dei risultati, potrebbero anche occuparsi di questo tema e cercare di identificare quale sia il livello di risorse adeguato per un Paese come il nostro. Se lasciamo la questione indefinita da una parte, avremo sempre insoddisfazione dall'altra e il sistema scolastico, per l'ampiezza delle risorse che assorbe, rimarrà un possibile bancomat – come dice qualcuno – da cui si possono sottrarre fondi.

  PRESIDENTE. Ringrazio veramente i nostri ospiti – a nome di tutta la Commissione – per lo sforzo che hanno fatto nel mettere insieme tutte queste informazioni, nonché per l'analisi svolta e per aver prodotto dei dati e degli spunti che, sicuramente, saranno oggetto di discussione e di approfondimento da parte di questa Commissione. Grazie ancora per il tempo che avete dedicato a quest'audizione. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal dottor Giovanni Vinciguerra (vedi allegato 1) e dal dottor Mario Giacomo Dutto (vedi allegato 2).
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 12.35.

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ALLEGATO 1

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ALLEGATO 2

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