XVII Legislatura

VII Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 13 di Martedì 19 dicembre 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE BUONE PRATICHE DELLA DIFFUSIONE CULTURALE:

Audizione di: Walter Dondi, direttore della Fondazione UNIPOLIS; Maurizio Bettini, ordinario di Filologia classica presso l'Università di Siena; Paola Dubini, associata di Economia aziendale e direttrice del corso di Laurea in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione presso l'Università Bocconi di Milano; Raffaele Pozzi, ordinario di storia della musica e musicologia presso l'Università Roma 3.
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 3 
Dondi Walter , direttore della Fondazione UNIPOLIS ... 3 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 5 
Bettini Maurizio , ordinario di Filologia classica presso l'Università di Siena ... 5 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 8 
Dubini Paola , associata di Economia aziendale nonché direttrice del corso di Laurea in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione presso l'Università Bocconi di Milano ... 9 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 12 
Pozzi Raffaele , ordinario di storia della musica e musicologia presso l'Università Roma 3 ... 12 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 16 
Marzana Maria (M5S)  ... 16 
Carocci Mara (PD)  ... 17 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 18 
Dubini Paola , associata di Economia aziendale nonché direttrice del corso di Laurea in economia per le arti, la cultura e la comunicazione presso l'Università Bocconi di Milano ... 18 
Pozzi Raffaele , ordinario di storia della musica e musicologia presso l'Università Roma 3 ... 18 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 20 

(La seduta termina alle 13.15) ... 20

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Articolo 1 - Movimento Democratico e Progressista: MDP;
Alternativa Popolare-Centristi per l'Europa-NCD: AP-CpE-NCD;
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà-Possibile: SI-SEL-POS;
Scelta Civica-ALA per la Costituente Liberale e Popolare-MAIE: SC-ALA CLP-MAIE;
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia: (FdI);
Misto: Misto;
Misto-Civici e Innovatori - Energie PER l'Italia: Misto-CI-EPI;
Misto-Direzione Italia: Misto-DI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-UDC-IDEA: Misto-UDC-IDEA;
Misto-Alternativa Libera-Tutti Insieme per l'Italia: Misto-AL-TIpI;
Misto-FARE!-PRI-Liberali: Misto-FARE!PRIL;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI) - Indipendenti: Misto-PSI-PLI-I.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
FLAVIA PICCOLI NARDELLI

  La seduta comincia alle 11.35.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna è garantita anche dalla trasmissione in diretta sul canale web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di: Walter Dondi, direttore della Fondazione UNIPOLIS; Maurizio Bettini, ordinario di Filologia classica presso l'Università di Siena; Paola Dubini, associata di Economia aziendale e direttrice del corso di Laurea in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione presso l'Università Bocconi di Milano; Raffaele Pozzi, ordinario di storia della musica e musicologia presso l'Università Roma 3.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle buone pratiche della diffusione culturale, l'audizione del dottor Walter Dondi, direttore della Fondazione Unipolis; del professor Maurizio Bettini, ordinario di filologia classica presso l'Università di Siena; della professoressa Paola Dubini, associata di economia aziendale nonché direttrice del corso di laurea in economia per le arti, la cultura e la comunicazione presso l'Università Bocconi di Milano, e del professor Raffaele Pozzi, ordinario di storia della musica e musicologia presso l'Università Roma 3.
  Le audizioni odierne sono le ultime di questa indagine conoscitiva, che abbiamo svolto con due missioni della Commissione e più di due mesi di audizioni, ascoltando in sede circa 65 persone e raccogliendo una mole considerevole di materiale e di testimonianze. Ricordo che il documento conclusivo sarà predisposto a gennaio e che, quindi, torneremo ad aggiornarci all'anno nuovo, anche se a Camere sciolte. A questo fine, nell'Ufficio di presidenza è già stato acquisito il consenso dei Gruppi parlamentari per poterci riunire e per concludere il nostro lavoro.
  Gli ospiti di oggi sono per noi particolarmente significativi, per l'esperienza che ci portano. Cominciamo subito con l'audizione di Walter Dondi, direttore della Fondazione Unipolis, che è accompagnato da Roberta Franceschinelli, responsabile dei progetti culturali.
  Do la parola al dottor Dondi per lo svolgimento della sua relazione.

  WALTER DONDI, direttore della Fondazione UNIPOLIS. Ringrazio innanzitutto la presidente Flavia Piccoli Nardelli per l'invito. Ci fa naturalmente molto piacere essere qui. A premessa di alcune slide che faremo vedere, che riassumeranno le caratteristiche e le iniziative nell'ambito del bando del progetto «Culturability. Rigenerare spazi da condividere», vorrei sottolineare un aspetto. Il progetto nasce nell'ambito della Fondazione Unipolis, che è la fondazione d'impresa del gruppo Unipol. Tra le iniziative sulle quali la fondazione sviluppa la propria attività c'è la cultura, insieme a ricerca, sicurezza, legalità e solidarietà. Certamente quella culturale nel corso degli ultimi anni è stata la parte prevalente della nostra attività e quella che ha registrato il maggior impegno di risorse, sia dal punto di vista delle persone che dal punto di vista economico. Evidenzio questo perché quando nel 2009-2010 nacque il progetto Culturability come piattaforma per Pag. 4la promozione della cultura con finalità di inclusione sociale e di sviluppo sostenibile, il payoff alla base di tale progetto era la responsabilità della cultura per una società sostenibile. Questa scelta non fu casuale, anche perché qualche anno fa la Fondazione Unipolis, insieme all'Università Tor Vergata di Roma e in particolare al professore Enrico Giovannini, che è conosciuto come statistico, è stato presidente dell'Istat e Ministro del lavoro, abbiamo dato vita all'Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, partendo dall'Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Questa alleanza – che oggi conta 185 aderenti, tra cui tutte le maggiori organizzazioni economiche, sociali e culturali e le università italiane – è nata con lo scopo di promuovere obiettivi di sviluppo sostenibile. Dentro questo percorso c'è l'idea della promozione della cultura e delle sue finalità di sviluppo, anche di carattere sociale, perché pensiamo che il diritto alla cultura, alla conoscenza e al sapere costituisca uno dei diritti essenziali delle persone, come fattore abilitante per essere cittadini a tutti gli effetti. È in questo contesto che abbiamo sviluppato il progetto Culturability, che dal 2013 si è evoluto in un vero e proprio bando, rivolto in particolare a organizzazioni di carattere sociale e di carattere culturale, a team informali di giovani under 35, allo scopo di promuovere progetti e attività finalizzati alla promozione della cultura e della creatività. L'obiettivo è creare progetti e iniziative sostenibili in grado di generare lavoro, occupazione, sviluppo e coesione sociale nel territorio. Questi sono gli elementi che stanno alla base di questo progetto che vogliamo evidenziare. Saranno gli altri a dire se è stata un'esperienza positiva, ma crediamo che abbia prodotto risultati e che i numeri che mostreremo ce lo dicano, soprattutto perché ha cercato di coniugare idee, progetti e attività di carattere culturale con la loro dimensione sociale, con la messa a disposizione da parte nostra di risorse economiche, ma soprattutto con l'impegno di promuovere competenze e trasferimento di sapere. Infatti, non bastano le buone idee; ci vogliono le risorse economiche e la capacità di strutturare i progetti e le iniziative perché durino nel tempo. Questa è la condizione per renderli utili alle comunità. Su questo ci siamo impegnati, anche proponendo un'esperienza che consideriamo originale e positiva.
  Da due anni, nel 2016 e nel 2017, abbiamo concentrato l'impegno intorno al tema della rigenerazione degli spazi con finalità culturali e creative, non soltanto nelle periferie e nelle grandi città, ma anche nei piccoli centri. Pensiamo che nelle città e nelle periferie spesso degradate l'avvio di progetti, di attività e di iniziative culturali sia particolarmente importante per generare coesione e inclusione sociale, per ridare vitalità a spazi e luoghi che spesso sono degradati e abbandonati. Di questo stiamo parlando.
  L'ultima cosa che voglio dire è che dal 2017 abbiamo avuto la collaborazione, l'impegno e la disponibilità dello stesso Ministero dei beni e delle attività culturali, che ha messo a disposizione un contributo, sia pure modesto, che ha permesso di generare due menzioni speciali, oltre ai progetti che la fondazione Unipolis ha deciso di sostenere direttamente. Mi piace (da ultimo) ricordare che in occasione della presentazione dei progetti di quest'anno, avvenuta una ventina di giorni fa al Ministero, il Ministero stesso si è impegnato ad accrescere questa collaborazione, riconoscendo la validità delle esperienze e delle iniziative. Di conseguenza, nel prossimo bando del 2018 avremo ulteriori risorse e, quindi, selezioneremo un maggior numero di progetti.
  Ho già accennato alle attività, agli ambiti, alle modalità con le quali opera il bando Culturability: il settore culturale e creativo, l'innovazione e l'impatto sociale, non soltanto idee, ma capacità progettuali e sostenibilità. I destinatari privilegiati sono gli under 35. Lavoriamo on line e off line, cioè anche in modo diretto. Diamo ai progetti un contributo economico, ma offriamo anche accompagnamento e mentoring.
  Vi do qualche numero. Sono circa 1,5 milioni i soldi investiti da Unipol direttamente sul bando, senza considerare i costi del lavoro delle persone dello staff che Pag. 5seguono il progetto. Abbiamo incontrato fisicamente nel corso delle presentazioni oltre 5.000 persone; hanno partecipato quasi 2.800 progetti in quattro edizioni: di questi, quasi 1.500 erano team informali, ossia giovani che naturalmente si impegnavano in caso di selezione a costituire un soggetto riconosciuto. Sono 1.318 le organizzazioni capofila e quasi 1.500 le organizzazioni partner, perché ogni progetto che ha un capofila raccoglie intorno a sé altri partner che forniscono supporto o contributi di varia natura e sono essenziali ai fini della progettazione.
  Per quanto concerne la provenienza dei partecipanti, c'è equilibrio, con una prevalenza dal Sud e dalle isole del numero di progetti presentati: segno di un bisogno che viene da quelle realtà, particolarmente significativo, al quale abbiamo cercato di dare risposta.
  I progetti sostenuti sono quelli che vengono preselezionati ed entrano in una sorta di finale. Vi sono quindici-venti progetti per ogni bando, che partecipano a un percorso di formazione, di accompagnamento, di supporto e di mentoring. Dopo questo percorso devono riproporre il loro progetto, riqualificato e rivisto alla luce del percorso formativo, e vengono scelti quelli ai quali la fondazione eroga un contributo economico, oltre a un'ulteriore fase di supporto e di accompagnamento, garantita dai nostri partner specializzati, che sono: Avanzi, Make a Cube e Fondazione Fitzcarraldo, che credo in questo contesto sia pienamente conosciuta.
  Con il primo bando, che era rivolto a cooperative e start-up culturali e creative, venti progetti sono stati formati nel 2014, sei dei quali hanno ricevuto un sostegno: gli ultimi due di questi concernenti i temi della rigenerazione degli spazi. Per il 2017 cinque progetti stanno ricevendo proprio in queste settimane il contributo di 50.000 euro ciascuno, oltre alle due menzioni speciali, con il contributo del Ministero dei beni culturali.
  Questo è in estrema sintesi il progetto. Mi scuso dello schematismo, ma volevo essere rapido. Eventualmente, se ci fossero domande e quesiti, naturalmente sono a disposizione.

  PRESIDENTE. Grazie, direttore. Mi sembrano cifre e dati molto interessanti, quindi credo che poi potremmo chiederle qualche indicazione ulteriore.
  Passiamo a un altro dei nostri ospiti, il professor Maurizio Bettini dell'Università di Siena, ordinario di filologia classica. Molti di noi hanno letto alcune delle sue opere.
  Do la parola al professor Bettini per lo svolgimento della sua relazione.

  MAURIZIO BETTINI, ordinario di Filologia classica presso l'Università di Siena. Il problema che ci viene posto è molto complesso, allora ho pensato di soffermarmi su tre punti specifici relativi al tema della diffusione della cultura. Il primo è «che cosa si intenda» per cultura oggi; il secondo è «come si parla» oggi della cultura e il terzo è quella che io definirei la specificità culturale del nostro Paese.
  Partiamo dal primo punto: che cosa si intende oggi per cultura? Fino a qualche decennio fa, per cultura si intendeva sostanzialmente la conoscenza della filosofia, della letteratura, della musica, possibilmente classica, dell'arte e così via. Di conseguenza, la tipica persona di cultura era il professore di liceo che sapeva le lingue classiche e sapeva di letteratura, oppure tutti coloro che leggevano saggi di storia o di politica.
  Le cose sono molto cambiate. Se ci si guarda intorno, nel discorso comune, quando si parla di incontro di culture, di conflitti di culture, di differenze di culture, non ci si riferisce certo a conflitti, differenze o incontri fra generi poetici e scuole filosofiche. Si parla di tutt'altro, di cose molto più sostanziali che hanno a che fare con la vita, i costumi, le religioni, i modi di vedere il mondo di gruppi o comunità. Questa è cultura.
  Oggi si è imposta l'idea di cultura che 150 anni fa proponevano gli antropologi, soprattutto Tylor, che affermava che la cultura è quell'insieme complesso che include conoscenze, credenze, arte, morale, diritto e costume, ossia tutto. Pag. 6
  In effetti, se ci si guarda intorno, oggi nella cultura sono entrati gli attrezzi agricoli che stanno nei musei della cultura contadina, la musica etnica, la musica pop, le feste popolari, divenute patrimonio immateriale dell'Unesco, l'artigianato. C'è una trasformazione fortissima della nostra idea di cultura. L'assessore alla cultura dei comuni, una tipica figura a cui tutti chiediamo i soldi e poi non ce li dà mai, organizza sempre meno presentazioni di libri, cosa che peraltro ci dispiace, e sempre più festival dei madonnari o esposizioni di graffiti, e fa il suo mestiere, perché questa è oggi l'idea di cultura.
  Contestualmente a questo, vedo una trasformazione anche dei mezzi attraverso cui questa cultura viene veicolata e diffusa. Se il libro e la lettura, cose di cui ho visto che si è parlato molto nelle prime audizioni che ho seguito in streaming, rappresentavano un po’ la facies naturale di letteratura, filosofia e poesia, cioè del vecchio modello di cultura, oggi il libro e la lettura si prestano assai meno bene a veicolare il cibo, la musica etnica e via discorrendo. C'è una discrasia fra questi due modelli di comunicazione, tanto più che i nuovi media, cioè quello digitale e quello visuale, hanno a loro volta creato nuove forme di cultura, anche pervasive. Basterebbe pensare alle serie televisive, che tutti indifferentemente vedono, a qualsiasi livello sociale o culturale appartengano, oppure ai siti multimediali. È cambiato moltissimo da questo punto di vista.
  Secondo me, se noi non ci rendiamo conto che c'è stata questa trasformazione in solidarietà fra i contenuti, ovvero ciò che intendiamo oggi per cultura, e i mezzi attraverso cui questi contenuti sono veicolati, rischiamo di dare un'impressione sbagliata quando difendiamo il libro e la lettura. Sembra che noi, in realtà, difendiamo la cultura intesa come filosofia, letteratura, poesia eccetera. Questo è un rischio che dobbiamo assolutamente evitare.
  Lo dico io, che ho passato la mia vita a leggere libri e che devo quel poco che so ai libri. Ho passato la mia vita a scriverne, persino troppi, quindi non credo di poter essere sospettato di essere uno di quegli sciocchi apologeti dello smartphone o del digitale. Non è sicuramente questa la mia figura, però credo di volermi rendere conto del fatto che, siccome tutto attorno a noi sta cambiando, dobbiamo cambiare anche noi.
  Essendo io un classicista, però, mi viene in mente un parallelo, che vorrei brevemente illustrarvi, con qualcosa che l'antichità classica ha già conosciuto e che somiglia terribilmente a quello che sta avvenendo intorno a noi oggi: il momento in cui la cultura orale diventò cultura scritta. Ci fu un passaggio dall'oralità alla scrittura.
  Platone scrisse, con argomenti meravigliosi, una difesa dell'oralità e una condanna della scrittura. La scrittura vinse e lui stesso ha scritto; altrimenti, se non avesse scritto, non sapremmo che lui era ostile alla scrittura!
  Dopodiché, però, greci e romani, una volta entrati in questa fase della cultura scritta, non hanno continuato a negare, a rifiutare e a denigrare la scrittura: al contrario si sono impegnati per farne il mezzo più raffinato, intelligente, complesso e colto che sia mai esistito, che è quello che permette a tutti di essere qui oggi. Hanno reagito con i retori, con i filosofi, con i poeti eccetera, per fare di questo nuovo medium uno strumento straordinario.
  Credo che, se prendiamo esempio da quanto è avvenuto circa 2.500 anni fa, dobbiamo fare la stessa cosa con i nuovi media: ci dobbiamo impegnare a strappare il visuale e il digitale dalle mani di ciarlatani, trafficanti, contafrottole, speculatori, per farne lo strumento che meritano di diventare.
  Questo ovviamente, però, si fa nelle scuole, dal momento in cui ai ragazzi non si insegna più a usare Word ed Excel o a fare filmati col telefonino, poiché lo sanno fare molto meglio di noi, ma si insegna a gestire criticamente tutto ciò e a sfruttare tutte le meravigliose potenzialità che può offrire. È esattamente quello che hanno fatto i nostri antenati con la scrittura. Non posso farlo io, perché io non sono più in grado di farlo, ma altri sì.
  Il problema è: chi sono questi altri? Quando io parlo di queste cose, stupendo Pag. 7un po’ i miei colleghi, perché non si aspettano che un filologo classico faccia questi discorsi, mi dicono: «Noi non siamo in grado, non possiamo insegnare queste cose ai ragazzi nelle scuole».
  Questo è un problema serissimo, che si connette a un altro, tragicamente serio nel nostro Paese: la formazione degli insegnanti. Non possiamo instaurare queste buone pratiche nella scuola perché non abbiamo i docenti che sono in grado di farlo e perché questo Paese non si è mai preoccupato della formazione degli insegnanti.
  Tutto ciò che è avvenuto dalla fondazione delle SSIS (scuola di specializzazione all'insegnamento secondario) in poi ha costituito solo una modesta parodia di ciò che sarebbe stato necessario fare per la formazione degli insegnanti e di ciò che altri Paesi, come la Francia, fanno da decenni.
  Questo, secondo me, è un nodo assolutamente da sciogliere. Non so se questa sia la sede giusta, ma spererei di sì. Serve una vera formazione degli insegnanti, non ciò che è stato fatto negli ultimi anni, addirittura facendo pagare cifre alte a povere persone giovani che venivano ad ascoltare cose inutili per ricevere un foglio che gli garantiva qualcosa in più nella scuola. È stato veramente doloroso.
  Tocco il secondo punto: come si parla oggi della cultura. Noto che intorno a noi nel discorso pubblico il tema della cultura è stato invaso da una schiera di metafore economiche. Siamo partiti dal patrimonio culturale, che è nella Costituzione e va benissimo, per passare ai beni culturali o addirittura a volte ai giacimenti culturali, che dà l'idea che la cultura del nostro Paese, i musei, le biblioteche e monumenti siano cose da sfruttare, fino alla terribile espressione «la cultura petrolio d'Italia», che è una delle peggiori che il peggior giornalismo abbia mai creato.
  Non è solo questo. Vivendo nell'università, vedo che non si danno più voti ma si assegnano crediti. Io non faccio più corsi all'università, ma «erogo» corsi, come se fossero mutui che confluiscono nell'offerta formativa dell'università. Quando presento i miei lavori alla valutazione universitaria, mi si dice di presentare dei prodotti, come se fossero biscotti o automobili. Quando si riflette sul livello di conoscenza e di formazione raggiunto dai nostri studenti, non ci si chiede più se hanno avuto una formazione intellettuale adeguata, se conoscono, se sanno, se hanno approfondito; ma qual è la spendibilità dei loro saperi, come se fossero dei gruzzoli.
  Tutto ciò va nella direzione di una frase terribile, che è quella che sta dominando tutti i discorsi sulla cultura: a che cosa serve? Quando ci si chiede a che cosa serve, allora scattano i crediti, i debiti, la spendibilità, i giacimenti eccetera.
  Nella mia esperienza – essendo classicista vedo spesso le cose da lontano – non si è mai chiesto alla cultura immediatamente a che cosa servisse. Se si fosse chiesto ai giuristi romani «a che serve il tuo diritto?», oggi non si potrebbero fare delle buone leggi, perché non sarebbe mai nata la giurisprudenza. La cultura è una questione di pazienza; se non si ha pazienza, se si chiede continuamente a che cosa serve, non si va da nessuna parte.
  Ecco perché tra le buone pratiche, insisterei per una buona pratica linguistica. Soprattutto chi è responsabile della cultura e della politica di questo Paese dovrebbe smettere di parlare della cultura in questi termini, perché purtroppo si finisce per accettare insieme alle metafore anche la sostanza. Le metafore sono uno strumento potentissimo, non sono affatto un ornamento retorico, anzi sono il modo in cui la realtà viene rappresentata e comunicata. Dopo qualche anno di rappresentazione economica della cultura, si accetta l'idea che la cultura deve produrre danaro e deve servire a qualcosa e non il contrario. Questa, secondo me, sarebbe una perdita terribile, anche intellettualmente parlando.
  Tocco un terzo punto, che è quello del carattere specifico che ha la cultura nel nostro Paese, secondo me, ma non solo. Spesso viene ripetuto che l'Italia, tra i 12 Paesi più ricchi di cultura censiti dall'Unesco, possiede il maggior numero di siti culturali: quindi, siamo anche quantitativamente quello più in alto. Pag. 8
  Ciò non meraviglia perché l'Italia è un Paese in cui la cultura, intesa come monumenti e beni culturali posseduti, parte almeno con la civiltà romana, se non ben prima con la Magna Grecia, come testimoniano Selinunte, Agrigento eccetera. Ha avuto uno straordinario Medioevo e un Rinascimento che è quello che ha fatto il Rinascimento di tutti gli altri. È ovvio che sia così: noi abbiamo una straordinaria quantità di monumenti e di ricchezze culturali.
  Come dicevamo prima un po’ scherzando, sarebbe bene che l'Italia si rassegnasse a questa condizione: siamo così, è una contingenza culturale che altri non hanno avuto. Se si va negli Stati Uniti, si vede che in qualche caso si sono comprati un pezzo di monumento, tipo i Cloisters di New York. Anche a Toledo c'è un altro chiostro francese comprato e rimontato. Si sono fatti dei musei. Hanno fatto quello che noi abbiamo avuto spontaneamente per secoli.
  L'articolo 9 della Costituzione è un caso unico nelle costituzioni europee e mondiali, anche perché è un caso unico l'Italia, quindi per forza qui ci deve essere un articolo della Costituzione che dice che noi tuteliamo il patrimonio storico-artistico della Nazione. C'è, però, un problema relativamente a tutti questi monumenti che noi intendiamo tutelare. Mi rifaccio sempre alla mia esperienza di classicista.
  Monumento deriva dalla parola latina «monumentum», che significa «ciò che mi fa ricordare» (id quod monet). Mi fa ricordare di che cosa? Questo è il punto. Il monumentum è se stesso se riesce a farmi ricordare di qualcosa, cioè di quella cultura che lo ha prodotto e che attraverso di lui si è tramandata. Questo è un monumentum. Se tutto ciò che noi abbiamo non trasmette più, non monet più, non fa più ricordare nulla, finisce la natura stessa di questi monumenti.
  In altre parole, credo che ci sia un'assoluta necessità di mantenere viva quella che io chiamerei «la memoria culturale» che sta attorno a tutta questa ricchezza materiale e immateriale che il nostro Paese possiede.
  Dico anche «immateriale», perché il fatto che in Italia si sia continuato a studiare così tanto nei secoli ha fatto sì che gli italiani abbiano anche dentro dei beni culturali straordinari, non solo fuori. Non li hanno solo sul territorio, li hanno anche nel loro interno, nel modo in cui ragionano, in cui vedono la vita, in cui argomentano. Il fatto che l'Italia abbia questa fama di eleganza e di bellezza non è casuale, ma è dovuto al fatto che abbiamo alle spalle una straordinaria tradizione culturale. Non siamo bravi nel design perché abbiamo il talento, ma perché abbiamo alle spalle millenni di arte.
  La memoria culturale è il punto su cui io vorrei insistere con particolare enfasi, intendendo per memoria culturale non solo la memoria storica o la conoscenza storica, ma tutto quell'insieme di racconti, di immagini, di figure, di modi di dire e di pensare che ruotano attorno a tutto ciò che sta nel nostro Paese.
  Naturalmente perché questo avvenga occorre intervenire sulla scuola e che la scuola accetti – mi riferisco agli studi di carattere umanistico – questo ruolo di trasmissione della memoria culturale che è assolutamente fondamentale perché tutto ciò che sta sul nostro territorio abbia un senso. Altrimenti, si rischia di trasformarli in una quantità di oggetti che i cittadini italiani, lungi da poter usufruirne, sapranno solo fotografare, come avviene sempre di più in queste tournée turistiche.
  Occorre un impegno nella scuola e sulle migliaia di giovani, che io conosco per averne formati tanti, che, a dispetto di esclusione sociale, esclusione economica e persino derisione in qualche caso, si ostinano a restare attaccati alla memoria culturale del nostro Paese. Se questo non finisce, se non c'è un investimento di risorse su queste giovani generazioni che ancora, nonostante gli venga sempre chiesto a che serve quello che fanno, si ostinano a fare della cultura la loro ragione di vita, credo che la memoria culturale di questo Paese si spegnerà per sempre.

  PRESIDENTE. Professore, grazie a nome di tutti per questa riflessione straordinaria. Le cose che ha detto sono particolarmente Pag. 9importanti in questa Commissione, perché essa si occupa da un lato di beni culturali e dall'altro di scuola, università e ricerca. Per tutti noi tenere insieme questi due punti di riferimento è stato un impegno durante tutta questa legislatura.
  Proseguiamo con Paola Dubini dell'Università Bocconi di Milano, che è già stata in questa Commissione altre volte per aiutarci su problemi specifici. Mi pare che la professoressa Dubini ci parlerà delle fondazioni lirico-sinfoniche, che è un altro dei temi dolenti di cui questa Commissione si è occupata più volte.

  PAOLA DUBINI, associata di Economia aziendale nonché direttrice del corso di Laurea in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione presso l'Università Bocconi di Milano. Grazie, presidente. Buongiorno a tutti. In realtà, nell'incontro di oggi vorrei parlare di dati, perché sono fra coloro che pensano che questa legislatura abbia fatto davvero cose estremamente interessanti e importanti per il mondo della cultura nel nostro Paese, i cui effetti cominciano a vedersi.
  Tuttavia, proprio perché si tratta in alcuni casi di leggi importanti di impatto di medio e lungo periodo, credo che sia importante accompagnare e comprendere mentre le cose succedono quello che sta avvenendo e per fare questo io credo che i dati servano. Non solo le parole sono importanti, ma anche i numeri.
  Quello che voglio dire è che, se avessimo una quantità maggiore di dati pubblici accessibili e aperti in ambito culturale, potremmo davvero vedere una crescita esponenziale dei benefici effetti della cultura, non solo e non tanto per valutare quantitativamente quello che c'è, ma anche per apprezzare, per esempio, la dimensione immateriale della cultura.
  Peraltro, siccome sappiamo bene che molti degli interventi che sono stati fatti e le caratteristiche specifiche degli ambiti di cui parliamo hanno effetti multidimensionali e multi-stakeholder, abbiamo bisogno di avere degli strumenti di comunicazione e di coinvolgimento di più attori contemporaneamente. Dunque, la mia idea sull'importanza del dato non è tanto in una logica ragionieristica e di rendicontazione, ma si riferisce piuttosto alla possibilità di usare anche i numeri per uno sforzo collettivo di costruzione di senso. Naturalmente alcuni di questi dati sono riservati, ma ce ne sono tanti che sono prodotti dalla pubblica amministrazione e che o non sono accessibili oppure, quando sono accessibili, lo sono in modo molto faticoso. Vi darò qualche esempio. Dall'altra parte, ci sono alcuni dati che si dichiarano aperti, ma che in realtà non lo sono, come ad esempio i dati di «Open bilanci», e altri che lo sono davvero, come ad esempio i dati di Wikipedia. Ho cominciato a occuparmi di dati perché, all'interno del lavoro che è stato menzionato prima da Walter Dondi e dell'Alleanza dello sviluppo sostenibile coordinata dal professor Giovannini, il centro di ricerca di cui faccio parte si sta ponendo il problema di «operazionalizzare», come diremmo noi, gli obiettivi di sviluppo sostenibile 2030 per tutto quello che ha a che fare con il sistema della cultura e il sistema del turismo sostenibile.
  Per fare questo, abbiamo cominciato a raccogliere in modo sistematico dalle fonti più varie una serie di dati che potessero essere riconducibili ai sistemi di indicatori su cui, nel frattempo, diverse Commissioni stanno lavorando mantenendo il taglio della sostenibilità.
  Quello che vorrei farvi vedere sono alcuni esempi di utilizzo di dati diversi in primo luogo per confrontare territori diversi, come nel primo esempio che vi porterò, in secondo luogo per valutare l'efficacia di specifiche iniziative culturali e, in terzo luogo, per riflettere su specifiche politiche culturali.
  Vengo al primo esempio. Stiamo cercando di raccogliere dati per creare un grosso database che riguardi tutti i comuni italiani e stiamo classificando le diverse informazioni riguardo alle specificità dei territori, alla disponibilità di offerta culturale, alla presenza di certificazioni di varia natura, alla vitalità culturale e al grado di investimento in ambito culturale e legato alle infrastrutture.
  Non sempre possiamo utilizzare i dati prodotti dall'Istat o dai diversi Ministeri, Pag. 10per cui stiamo contemporaneamente cercando di valutare la solidità dal punto di vista statistico degli indicatori, ma questo per fortuna oggi non ci interessa. Voglio solo farvi vedere un esempio.
  In questa slide, che è disponibile agli atti, abbiamo confrontato le diverse città metropolitane, con l'obiettivo di verificare quanto sono diverse in materia di specificità sociali e culturali. In colonna abbiamo preso una serie di variabili e in riga ci sono le diverse città metropolitane. L'intensità del colore ci dice quanto pesa la città rispetto al suo intorno.
  Per esempio, ci fa vedere come la città metropolitana di Genova, che è la prima della riga e che è molto scura come colore, quanto sia diversa rispetto a una città come Napoli, che è verso il fondo della tabella, che invece si presenta molto più diffusa. In alto a destra vedete il centro di Milano rispetto alla città metropolitana, in termini di prestiti da parte delle biblioteche di pubblica lettura.
  Questo indicatore ci mostra che le biblioteche di pubblica lettura rappresentano un importantissimo strumento per la città metropolitana di Milano per portare fuori dal centro l'attività culturale. In particolare, questo ci permette anche di vedere come, ad esempio, il sistema bibliotecario del nord della città sia particolarmente attivo. Infatti, al colore più scuro corrisponde il numero di prestiti. Ovviamente la città di Milano rispetto al suo hinterland appare colorata in modo particolarmente denso; ma, se noi andiamo a vedere lo spaccato della città, ci accorgiamo che in realtà c'è molto lavoro da fare per quanto riguarda le biblioteche anche in città.
  La disponibilità di dati e la possibilità di confrontarli in modo sistematico ci permette una prima riflessione molto utile su come fare politica culturale in una città metropolitana, con l'obiettivo, per esempio, che è quello di cui ci parlava prima Walter Dondi, di legare sempre di più centro e periferia.
  Vengo al secondo esempio. Questa Commissione ha avuto la possibilità di sentirsi raccontare «Bookcity». Come sapete bene, «Bookcity» è un evento che è stato avviato nel 2012 a Milano – mi scuso se continuo a parlare di Milano, ma è un periodo che stiamo lavorando molto su questa città essendoci dentro – e che nel 2017 ha visto una crescita quasi del 200 per cento del numero di eventi realizzati. Si è appena conclusa l'edizione 2017, con 1.620 eventi in cui si parla di libri in quattro giorni.
  Abbiamo provato a raccogliere dati pubblici disponibili per provare a rispondere a questa domanda: «Bookcity» è un'iniziativa che ha avuto successo o è semplicemente un'iniziativa ipertrofica nella quale succede un gran caos di cose? Per rispondere a questa domanda, abbiamo innanzitutto guardato alla natura degli attori coinvolti.
  L'area blu è rappresentata da enti pubblici, l'area rossa è rappresentata da enti privati, mentre in alto ci sono gli enti no profit e una fettina di enti religiosi che partecipano a questa iniziativa.
  Vediamo che nel 2012 «Bookcity» parte come una partnership pubblico-privato e che, dal punto di vista istituzionale, aumenta progressivamente il coinvolgimento di quello che chiameremmo il «fuori salone». Aumentano più che proporzionalmente, non solo il coinvolgimento di attori pubblici e di attori privati, ma anche quello di associazioni e di gruppi che spontaneamente decidono di organizzare un'iniziativa.
  Un altro aspetto interessante è stato classificare le diverse sedi di «Bookcity». Non stiamo parlando degli incontri, ma posti in cui fisicamente si è svolto un evento. L'area grigia in mezzo è rappresentata dagli attori della filiera del libro, che sono descritti qui: biblioteche, librerie, fondazioni editoriali, case editrici eccetera. L'altra fetta grande è rappresentata da altre istituzioni culturali: musei, teatri, cinema, fondazioni culturali di vario tipo. Molto interessante è l'area gialla, che è rappresentata da imprese che hanno deciso, nei giorni di «Bookcity», di organizzare eventi. Queste imprese possono essere: bar, sedi di aziende, ostelli, alberghi, ristoranti.
  Credo che sia molto importante fare una riflessione sulla natura delle organizzazioni che hanno pensato di partecipare a Pag. 11«Bookcity», perché credo che sia questa varietà che testimonia il potenziale e il successo di un'iniziativa come questa. Infatti, come giustamente diceva lei, professore, è vero che si comunica e si parla di cultura in modo profondamente diverso.
  Un'ultima tabella che voglio mostrarvi ha a che fare, invece, con la presenza geografica nei diversi quartieri della città. La cosa interessante da vedere è che negli anni è aumentato il numero dei codici di avviamento postale nei quali si sono svolti eventi legati a «Bookcity», ma soprattutto è aumentato, anche se molto lentamente, il numero di codici di avviamento postale in città nei quali sono stati realizzati più di quattro eventi. Infatti, è evidente che, se vogliamo che Bookcity esca dal centro cittadino e diventi davvero un evento pervasivo, abbiamo bisogno di fare in modo che esca dalla città e si porti fuori quanto più possibile.
  Credo che dall'insieme di questi dati si possa avere un'idea molto più precisa e molto più dedicata, da un certo punto di vista, del significato e della specificità di un evento come questo.
  Passo al Bonus cultura (detto anche 18app). Come usare i dati per valutare l'efficacia di politiche culturali? Sarebbe bello averne un po’ di più. Questi sono tutti i dati che sono riuscita a recuperare.
  Sono una delle persone che pensano che il Bonus cultura sia una cosa delle quali abbiamo un grandissimo bisogno nel nostro Paese, perché i dati di livello culturale sono imbarazzanti. Saremo anche pieni di dotazione culturale, ma siamo anche terribilmente deboli nei consumi culturali e nell'accesso alla cultura. Non fosse altro che per questo motivo, penso che il Bonus cultura sia una bellissima iniziativa.
  Mi piacerebbe, però, poter esaminare meglio in che cosa è consistito e quali sono stati gli effetti di questa politica. Gli unici dati che ho trovato provenivano da tre articoli, fortemente critici rispetto alla legge, e da due blog, uno di Tommaso Nannicini e l'altro di Maria Elena Boschi, naturalmente favorevoli all'istituto.
  Penso che una maggiore disponibilità di dati ci permetterebbe di sostenere un po’ di più quale sia stato l'effettivo risultato della legge. Vi faccio solo vedere due piccoli numeri. Nel primo anno il 61 per cento dei ragazzi che potevano accedere al Bonus cultura si è effettivamente iscritto e, quindi, si è messo nelle condizioni di utilizzarlo. La modalità di iscrizione prevedeva che si potesse accedere al Bonus cultura soltanto avendo lo SPID (Sistema pubblico di identità digitale) e, quindi, avendo un'identità digitale. Questo dato, secondo me, cioè poter avere il 61 per cento di diciottenni che in un anno hanno un'identità digitale, è di per sé un successo fantastico. Peccato che il Bonus cultura sia nato per spingere gli studenti a consumare cultura e ad accedervi e, quindi, da questo punto di vista mi spiace che il 40 per cento degli studenti non abbia goduto di questo privilegio.
  Per fare in modo che molto presto – cosa che penso succederà – tutti i diciottenni utilizzino i 500 euro di regalo, che una persona normale dovrebbe considerare una manna, credo che bisognerebbe trovare le scuole che si sono dimostrate più attive, i negozi, le librerie, i musei, i teatri che si sono dati più da fare.
  Penso che con i dati potremmo sapere queste cose, ma sarebbe estremamente utile e importante anche sapere come hanno usato questi ragazzi i loro 500 euro, perché questo darebbe una serie di informazioni e di suggerimenti all'insieme degli operatori del mondo della cultura per elaborare le loro politiche di promozione, di audience engagement e di fidelizzazione. Ecco perché credo che la mancanza di dati disponibili su questo tema sia un vero peccato, prima ancora che una cosa stravagante.
  L’Art bonus è un'altra di quelle politiche che sono state introdotte in questa legislatura a mio parere estremamente interessanti, perché per aver successo richiedono la mobilitazione di tanti attori diversi.
  I dati di Art bonus sono apparentemente disponibili. Esiste un sito che, come sapete bene, si chiama «artbonus.gov.it», dove sono elencate tutte le operazioni. Peccato che per poter analizzare questi dati e per poter cominciare a guardarci dentro, cosa che stiamo facendo, bisogna scaricare i dati uno a uno. Non è possibile. Il Ministero Pag. 12dovrebbe trasformare tutti questi bei dati in un agile foglio Excel e metterlo a disposizione della collettività. Questi dati sono pubblici, basta andarci dentro, ma dietro questa tabellina ci sono quattro settimane di lavoro di una giovane laureata che non ha ancora finito, perché i dati sono sporchi e sono ancora da ricontrollare e dobbiamo ancora cominciare a leggerli.
  In compenso, quando cominciamo a guardare dentro, troviamo delle cose estremamente interessanti. Per esempio, troviamo che a oggi, da quando è partito Art bonus, sono stati coinvolti 539 comuni.
  La cosa interessante è che la distribuzione spaziale di questi comuni che si sono mobilitati è molto diversa. Sappiamo che il 24 per cento dei comuni umbri, il 25 per cento dei comuni toscani, il 17 per cento dei comuni delle Marche e il 16 per cento dei comuni dell'Emilia Romagna si sono messi su Art bonus. Ciò vuol dire che in queste quattro regioni ci sono più comuni che hanno colto l’Art bonus come una possibilità.
  Un altro dato interessante è che in Emilia Romagna ci sono nove comuni che hanno presentato almeno quattro interventi di Art bonus, così come in Toscana. Ciò vuol dire che non si è trattato di un esperimento, ma di una strategia di coinvolgimento. Forse c'è stato un commercialista che si è dato da fare, oppure è il comune che ha voluto provare a presentare alle imprese, alle fondazioni bancarie e ai cittadini queste possibilità.
  Infatti, ho preso tre comuni che hanno caricato circa lo stesso numero di interventi: Gubbio ne ha 26, Perugia ne ha 25 e Parma ne ha 20. È interessante verificare quali sono i progetti che sono stati presentati: Gubbio ha finalizzato l’Art bonus al restauro di opere, Perugia si è dedicata ad archi, fontane e porte, cercando di coinvolgere zone diverse della città con monumenti, con qualcosa che ricordasse al cittadino, mentre Parma sembra essere andata un poco più in là.
  La cosa che a me ha fatto molto piacere è stato notare, per esempio, la capacità di alcune biblioteche di raccogliere delle somme davvero importanti: segno anche questo che in un'operazione di mobilitazione alcuni attori hanno saputo lavorare meglio di altri.
  Credo che una maggiore disponibilità di dati ci permetterebbe di sistemare di più la nostra capacità di conoscere come si muovono i diversi territori.

  PRESIDENTE. Ringrazio la professoressa Dubini, con cui spesso abbiamo interloquito proprio su questi temi e che ci ha dato un quadro interessantissimo di come si possano utilizzare al meglio i provvedimenti su cui noi abbiamo lavorato tanto in questi anni.
  Saluto il professor Bettini, che deve andare via. Le faremo sapere se avremo dei chiarimenti da chiederle. Grazie, professore.
  Chiudiamo il nostro incontro di oggi col professor Raffaele Pozzi, che insegna a Roma 3 e che è ordinario di storia della musica e di musicologia. In queste audizioni ci siamo occupati, ahimè, relativamente poco di questi temi, quindi mi sembra molto importante che a chiudere sia proprio un musicologo.
  Do la parola al professor Pozzi per lo svolgimento della sua relazione.

  RAFFAELE POZZI, ordinario di storia della musica e musicologia presso l'Università Roma 3. Ringrazio l'onorevole presidente e la Commissione cultura della Camera per l'invito. Come storico della musica, arte che presuppone disponibilità all'ascolto, plaudo a questa iniziativa, che mi auguro possa essere di stimolo e di orientamento per il lavoro parlamentare.
  Il tema che ci occupa, le buone pratiche della diffusione culturale, è molto vasto e lo affronterò in termini generali da una prospettiva ragionevolmente più circoscritta, quella cioè del nesso tra cultura e formazione, nesso fondamentale e a mio avviso prioritario per una valida e creativa diffusione della musica.
  Un'immagine ricorrente vuole che l'Italia sia il Paese della musica. Tale immagine è più che fondata. Sul piano della storia della composizione l'opera nasce in Italia, le forme musicali (si pensi alla sonata e alla Pag. 13sinfonia) e lo stesso lessico musicale (adagio, andante, allegro e così via) sono originariamente italiani.
  Entrando in qualsiasi parte del mondo in una sala da concerto l'orchestra sinfonica in primo piano ci presenta una nutrita compagine di strumenti ad arco, la cui forma e meccanica moderna è stata messa a punto da famiglie di liutai cremonesi (gli Amati, i Guarnieri, gli Stradivari). L'orchestra domestica per eccellenza a livello planetario, ovvero il pianoforte, fu inventata da un padovano attivo a Firenze, Bartolomeo Cristofori, intorno agli anni venti del Settecento.
  Un flusso costante e sistematico di musicisti d'Oltralpe, dal Seicento fino a oggi, è sceso in Italia e ha guardato al nostro Paese come esperienza artistica ineludibile. Heinrich Schütz, il più grande musicista tedesco prima di Bach, scende a Venezia nel 1609 per studiare con Giovanni Gabrieli. Bach studia e copia la musica di Frescobaldi e trascrive quella di Vivaldi. Mozart, ovvero la figura più pura della genialità nel contempo sorgiva e profonda in musica, scende nel 1770 a Bologna per incontrare padre Martini, ritenuto al tempo grande sapiente, il quale, a dire il vero, di talento musicale ne aveva molto meno di quel ragazzino di 14 anni venuto da Salisburgo a trovarlo. Il flusso verso l'Italia arriva fino a oggi. Si pensi a un caso per tutti, quello del compositore Peter Maxwell Davies, tra le figure più interessanti e originali della musica inglese del Novecento, giunto a Roma per studiare con un musicista romano di statura europea come Goffredo Petrassi.
  Non è tutto. La musica è un'arte complessa, è una pratica, è un fare sonoro creativo, compositivo e interpretativo, ma anche un fare artigianale materiale, come quello richiesto per costruire strumenti; è un sapere teorico-scientifico e l'appartenenza della musica alle discipline del Quadrivium, in compagnia dell'aritmetica, della geometria e dell'astronomia, non è una stravaganza medievale dovuta a Boezio, bensì esprime questo singolare doppio statuto della musica, che è arte e scienza nel contempo.
  Sta di fatto che chi costruisce strumenti o li suona non può non sapere di fisica acustica. La musica non è, dunque, solo creazione sonora, fenomeno estetico, bensì patrimonio di beni culturali scritti, cartacei o materiali (manoscritti, spartiti, partiture a stampa e strumenti), la cui conservazione e la cui conoscenza a fini di diffusione culturale presuppone competenze specialistiche di musicologi bibliotecari, chiamati nel caso dell'Italia a conservare e gestire un corpus tra i più ricchi al mondo, sia per quantità sia per qualità.
  Il flusso verso l'Italia e le sue biblioteche non è stato e non è solo dei creatori o degli interpreti, ma anche di storici, studiosi e ricercatori.
  Questa polifonia, per usare un termine musicale, di modalità espressive, comunicative e di funzioni socioculturali che caratterizza la musica, alla quale va aggiunto il ricchissimo e vasto repertorio di musica popolare di tradizione orale, ha dunque in Italia alte vette, ma non ha purtroppo profonde radici nella società. Non ha prodotto livelli adeguati di cultura musicale diffusa.
  Questo iato storico che il nostro Paese si trascina dietro da troppo tempo merita una riflessione e impone correttivi non più procrastinabili. Al fondo è prevalso nella cultura italiana un forte logocentrismo e le arti della parola scritta e della letteratura in specie hanno avuto storicamente il sopravvento nel sistema della formazione e dell'istruzione. Si fa un gran parlare dell'importanza della comunicazione e dell'espressione non verbale, ma alla fine l'inerzia prevale e tutto rimane come prima.
  Ci è voluto molto tempo perché ci si rendesse conto che il madrigale, ad esempio, onore e vanto del Rinascimento letterario italiano, circolava come forma poetico-musicale e trovava nell'attrazione per la musica unita al testo uno dei suoi principali motivi e veicoli di successo.
  Il melodramma, lo spettacolo che meglio di qualunque altro genere ci restituisce il gusto sociale dell'Ottocento italiano, adotta e diffonde a livello popolare il romanzo storico. Grazie a esso scopriamo come aspetti della drammaturgia narrativa dei Promessi Pag. 14sposi del Manzoni, ad esempio, siano di tipo melodrammatico.
  Per lungo tempo abbiamo chiesto alla letteratura di spiegarci la musica. Ci accorgiamo, invece, che al contrario è la musica spesso a spiegarci la ricezione e la circolazione della letteratura. Se tuttavia il logos, o meglio una visione angusta e ristretta di esso, ha prevalso, ciò è dovuto molto semplicemente a una mancanza di educazione al melos che ha colpito trasversalmente tutta la società italiana: classi dirigenti, intellettuali e semplici cittadini. Di qui emerge l'urgenza di potenziare la presenza del melos nel percorso di formazione del cittadino nel mondo della scuola e dell'università dove, per l'appunto, si forma il cittadino e non il musicista di professione, il cui iter segue e deve seguire evidentemente altre strade. Stabilito che il fine da raggiungere è quello di avere un cittadino colto, che frequenti concerti e si è in grado di dilettarsi con la musica, le buone pratiche devono partire dal sistema della formazione e, a caduta, investire la vita, il mercato e l'economia dello spettacolo. Sarà, dunque, attraverso la formazione musicale del bambino e dell'adolescente che si potrà costruire il profilo adulto che ci interessa. Purtroppo, i dati che emergono da indagini conoscitive socio-statistiche sul livello di educazione musicale all'uscita dalla scuola elementare e media italiana sono allarmanti. Da un rilevamento effettuato su un campione di 1.210 adolescenti, il 40,9 per cento dichiara di non aver fatto/ascoltato musica alle scuole primarie e il 31,4 per cento presenta un'identica situazione in uscita dalla secondaria di primo grado. In entrambi i segmenti della scuola, peraltro, l'educazione è obbligatoria. Il risultato è un allontanamento dalla musica dal vivo e dai suoi luoghi deputati, che colpisce senza eccezioni generi diversi: il 72,8 del campione non ha mai assistito a rappresentazioni liriche, il 73,7 per cento non è mai andato a un concerto di musica classica e il 58,8, ovvero quasi il 60 per cento diserta gli stessi concerti di musica leggera. Perciò, la disaffezione è nei confronti dello spettacolo dal vivo. Il luogo pubblico di ascolto preferito è la discoteca per il 54,4 per cento del campione e solo il 4,7 per cento e il 4 per cento preferiscono rispettivamente la sala da concerto e il teatro.
  Terminato il percorso educativo musicale offerto dalla scuola italiana, la cultura storica degli studenti presenta carenze vistose: il 60,7 per cento del campione non sa in quale secolo collocare Claudio Monteverdi, il 64 per cento Georg Friedrich Händel, il 53,8 per cento Richard Wagner, il 63,8 per cento Claude Debussy. Parliamo del più grande e importante compositore della modernità, vissuto tra Ottocento e Novecento. Infine, l'acquisizione di competenza alfabetica e di abilità pratiche che permettono di suonare uno strumento è presente solo nel 7,3 per cento del campione. Solamente sette giovani su cento praticano la musica. A fronte di questa situazione, è quantomeno improbabile che da adulti questi giovani, se non misteriosamente o miracolosamente «folgorati sulla via di Damasco», possano essere ascoltatori consapevoli, partecipare attivamente alla vita musicale, frequentare concerti, teatri d'opera, acquistare libri, CD, DVD, evitando di abbandonarsi all'ascolto casuale di prodotti di basso profilo commerciale.
  Ancor peggio è la prospettiva che l'anosia del sistema dell'istruzione si proietti su futuri insegnanti privi di quegli strumenti di base in musica necessari a collocarla nel più ampio contesto storico-culturale. La carenza di formazione culturale e musicale degli insegnanti, come è stato poc'anzi ricordato dal collega, è una criticità dalle conseguenze assai gravi. Molti miei studenti tirocinanti mi segnalano come nella scuola primaria, segmento dell'istruzione fondamentale per la formazione musicale e culturale del cittadino, le maestre accoglienti spesso dichiarano apertamente di non svolgere educazione al suono, prevista dalle indicazioni nazionali del curricolo, perché prive delle competenze necessarie. È facilmente immaginabile quanto questa lacuna produca in prospettiva adulti destinati a ripetere stancamente frasi di rito quali «la musica mi piace, ma non la capisco», oppure «la musica mi piace, ma Pag. 15sono stonato»: errate capitolazioni, entrambe inaccettabili per ogni serio educatore.
  Su che cosa basare, dunque, le buone pratiche nel campo della diffusione musicale? Innanzitutto sulla consapevolezza che la musica è qualcosa che si fa, che si ascolta e che si studia, in quanto forma di sapere e di conoscenza. Qualunque tentativo di ridurre questa triangolazione dialettica a una delle componenti, isolandola dalle altre, risulta inefficace e perfino dannosa. Sottolineare la funzione meramente pratica della musica la riduce allo strimpellare dell'intrattenimento privo di valore culturale, la relega nella sfera dell'edonismo superficiale e in definitiva del consumismo semplicistico. Il solo ascolto onnivoro, non educato e inconsapevole, rimane impressionistico, genera insicurezza e spaesamento e non sviluppa capacità di giudizio critico e valutativo autonome. È inevitabile ricadere nella percezione di una musica, come si diceva, ritenuta un bel miraggio collocato al di fuori delle proprie capacità di comprensione. Infine, lo studio storico-teorico della musica, ove privo di verifiche pratiche e di ascolti sistematici, rimane astratto e noiosamente logocentrico.
  È attraverso l'integrazione e l'intreccio di questi tre momenti che è possibile compiere effettivi passi avanti. Il legislatore ha dunque di fronte a se stesso, con la musica intesa come arte e parte del patrimonio culturale di una comunità, il compito di rafforzarne la presenza nel sistema della formazione, nella scuola, nell'università, dove si costruisce il futuro di un cittadino colto e creativo e si abilitano insegnanti colti e creativi: non insegnanti gravati da compiti specialistici, con i quali la musica, ridotta a tecnicismo, viene allontanata dal bacino storico-culturale al quale appartiene.
  Ho tempo fa sottoposto al Ministro Giannini un progetto di ampliamento del numero di crediti formativi nei corsi di laurea della scuola primaria. Tali corsi abilitano per lo più futuri insegnanti generalisti. Questo è il punto. È difficile immaginare un nuovo quadro di economia della musica, una risposta adeguata alla disaffezione del pubblico giovanile e adulto nei confronti dello spettacolo dal vivo, a concerti, opere e balletti, se non attraverso questo investimento formativo, che nella misura in cui si applica alla maestra generalista della primaria evita il ricorso all'insegnante esterno e realizza a ben vedere un risparmio per l'erario. In molti Paesi non è l'insegnante specialista a occuparsi dell'educazione al suono, bensì l'insegnante generalista. Penso alla Svizzera, per esempio, dove, nella scuola primaria, l'insegnante generalista fa musica, è formato e, dunque, è in grado di educare dei bambini della scuola primaria alla musica. Questo favorisce la diffusione della cultura musicale e anche la rottura del cerchio specialistico nel quale viene rinchiusa e ghettizzata la musica rispetto alle altre arti.
  Guardando all'Europa e ai consumi culturali, dalla ricerca scientifica giungono conferme significative. Nello specifico, secondo tali indagini la partecipazione culturale risulta connessa a fattori quali il livello di istruzione, il reddito e il profilo lavorativo dei soggetti. Tuttavia, l'investimento che tende a favorire l'accesso agli spettacoli a un pubblico il più vasto possibile non sempre dà le risposte che si attendono. I dati mettono piuttosto in luce – e questo è da sottolineare – un'influenza più marcata dei livelli di istruzione sulla frequenza alle attività culturali rispetto al reddito dei soggetti. In altre parole, la dimensione socioculturale, quella prodotta dalla cosiddetta «società della conoscenza», sembra essere maggiormente determinante nel regolare gli accessi alla cultura rispetto alla dimensione economico-finanziaria. Ciò naturalmente non vuol dire che non si debba porre un ragionevole freno a una politica dei costi dei biglietti che, nel caso soprattutto dello spettacolo operistico, rischia di essere proibitiva per un nucleo familiare di ceto medio.
  Il legislatore dovrà infine incoraggiare il lifelong learning del cittadino. Da questo punto di vista l'intreccio tra pratica, ascolto e studio trova nella diffusione del canto corale, degli incontri di ascolto a tema e delle conferenze-concerto, che guidano il pubblico a un approccio consapevole con la Pag. 16musica, quel costante aggiornamento e prosecuzione che il mondo della scuola e della formazione devono aver già precocemente avviato e sviluppato. In particolare, la questione del canto corale è decisiva. La partecipazione ad associazioni e gruppi corali promuove una conoscenza partecipata della musica, attraverso una pratica antica e civilissima, contro la quale in un certo periodo si sono levate sgangherate critiche ideologiche. L'educazione della voce umana attraverso il canto collettivo fornisce in modo creativo e dilettevole strumenti cognitivi, attiva la concreta riflessione critica sui materiali sonori e sulla forma musicale, riporta alla cooperazione in un unico organo (l'apparato di fonazione) le funzioni della parola e del canto: logos e melos. Tale esercizio può divenire terreno ideale per attività musico-terapeutiche in senso lato, può favorire l'intervento su disturbi del linguaggio, aprendosi a soggetti diversamente abili, che trovano sovente nella musica un campo privilegiato di espressione.
  Ecco, dunque, in conclusione le indicazioni che il nesso tra musica e formazione può suggerire sul terreno delle buone pratiche e che si irraggiano nella società. Si tratta in molti casi di operazioni che non presuppongono necessariamente enormi investimenti, bensì scelte valoriali che razionalizzino e abbandonino la logica della micro-distribuzione delle risorse. La strada suggerita è in fondo semplice e diretta, ma a questo proposito prudentemente non si può non ricordare il saggio monito contenuto in un motto di Confucio, che ci invita a riflettere sulla difficoltà di essere semplici ed essenziali: «La via di uscita è dalla porta. Perché nessuno se ne serve?». La ringrazio, onorevole presidente e ringrazio tutti per l'attenzione.

  PRESIDENTE. Grazie, professore. Anche questo intervento per noi è estremamente importante, anche perché in Commissione noi ci occupiamo di musica a vario titolo, dalle fondazioni lirico-sinfoniche all'AFAM (alta formazione artistica e musicale) e a una serie di problematiche che di solito riguardano i momenti di crisi del settore. Ci fa particolarmente piacere questa analisi sulla formazione che manca nel nostro Paese o che è comunque lacunosa. Abbiamo avuto addirittura problemi nel momento in cui sono state tagliate le bande, che pure rappresentano una forma di cultura popolare e musicale degna di ogni attenzione e capace di tenere insieme delle comunità. Rientrano in questo tema una serie di elementi che credo vadano considerati tutti insieme, quindi le siamo particolarmente grati.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MARIA MARZANA. Grazie per questa occasione, che ancora una volta si è rivelata molto interessante. Ringrazio tutti gli intervenuti per i loro contributi.
  Voglio porre in particolare due domande, una alla professoressa Dubini e una al professor Pozzi. La professoressa Dubini ci ha messo dinanzi alla difficoltà di attingere ai dati, che pure dovrebbero essere pubblici e, quindi, molto più accessibili. Tuttavia, è anche vero che un dato l'abbiamo appreso: nelle regioni del Sud l’Art bonus – mi soffermo su questo aspetto – è stato minimamente sfruttato, in quanto solo il 2 per cento dei soldi che sono stati donati per attività e luoghi culturali è stato destinato alle regioni meridionali. Penso che nelle intenzioni del Governo ci fosse la volontà di finanziare la cultura, anche se attraverso il contributo dei privati, ma anche quella di ridurre le differenze che ci sono sul territorio su questo piano, che invece in tal modo vengono ulteriormente marcate. Vorrei sapere che cosa può fare un ente di ricerca, oltre a richiedere una maggiore accessibilità dei dati, per fornire ulteriori strumenti al Governo affinché queste risorse siano distribuite in maniera più equa. Infatti, il patrimonio non è solamente dei cittadini che vivono nelle regioni del Sud, ma è di tutti, quindi penso che sia nell'interesse del Governo e di tutti i cittadini far sì che non ci siano queste lacune nell'elargizione dei fondi.
  Al professor Pozzi, che è stato davvero coinvolgente nella sua illustrazione, pongo una domanda sulla formazione, evidentemente carente per quanto riguarda l'aspetto musicale. Da una parte, occorre potenziare Pag. 17 i corsi di formazione per conseguire l'abilitazione dal punto di vista della conoscenza dell'ambito musicale. Sicuramente bisogna andare in questa direzione e, quindi, incidere sul piano universitario. Tuttavia, poiché la scuola già opera tutti i giorni, ci vogliono anche delle soluzioni immediate. Pensa che l'affiancamento ai docenti di esperti del mondo musicale, che naturalmente comporterebbe un maggiore finanziamento delle istituzioni scolastiche da parte del Governo, possa essere di supporto all'elaborazione di progetti di maggior respiro nell'ambito del teatro, della lirica e della musica? Infatti, non c'è solo l'aspetto della produzione che interessa l'ambito musicale, ma c'è anche quello della fruizione che, a mio avviso, potrebbero essere alimentati attraverso l'esperienza. Sicuramente il supporto di esperti di questo mondo ai docenti che non hanno delle competenze specifiche in tal senso potrebbe essere utile. Mi piacerebbe sentire il suo parere.

  MARA CAROCCI. Le mie non sono domande, perché i nostri interlocutori sono stati veramente esaustivi, però mi farebbe piacere dire due parole di sintesi, visto che questa è la nostra ultima audizione. Mi pare che dalla giornata di oggi emerga che tutto si tiene. Gli interventi che abbiamo ascoltato, secondo me, pur nella loro diversità, hanno molti punti in comune.
  Parto dal professor Bettini, il quale ci parla di oralità e scrittura. Ricordo di aver letto un libro intitolato «Oralità e scrittura» e partiva proprio da Platone e dalla sua lotta contro la scrittura. Platone affermava: «Si perderà la memoria; perdendo l'oralità, l'uomo non riuscirà più a ricordare». C'era poi un'analisi degli sviluppi successivi, in cui l'autore diceva: «Se non ci fosse stata la scrittura, non ci sarebbe stato il sillogismo aristotelico e non ci sarebbe stata la terzina dantesca». Spiegava, però, come si sia modificata, attraverso il cambiamento del mezzo, la struttura logica dell'uomo e come sia differente il pensiero dei popoli che possiedono una scrittura da quello di quei pochi ormai rimasti che ancora non la possiedono. Forse il punto su cui noi dovremmo riflettere è proprio questo. I nuovi mezzi che adesso abbiamo a disposizione, come diceva giustamente il professor Bettini, non vanno demonizzati, ma devono essere utilizzati al meglio e bisogna insegnare a utilizzarli. Riusciamo noi a immaginare già oggi come cambieranno il modo di pensare dell'uomo? Sicuramente ci sarà una modifica importante.
  Venendo al tema della formazione, noi dobbiamo formare gli insegnanti, rendendoci anche conto, però, che non è facile in questo momento di passaggio, in cui probabilmente chi studia queste cose non è ancora in grado di capire che cosa sta succedendo e dove arriveremo. Tuttavia, la formazione è fondamentale. Come diceva il professor Pozzi, lo è anche per quello che riguarda la musica. Già dovrebbe essere così, perché nella secondaria di primo grado ci sono due ore di musica alla settimana, ma anche nella primaria si fa o si dovrebbe fare musica. Credo che dovrebbe esserci un piano strutturale, non episodico o a progetto. Ben vengano magari gli specialisti, ma come un di più rispetto a quello che si fa quotidianamente.
  A proposito di memoria storica, pensavo ai Giardini Luzzati, che è una realtà che conosco perché sono genovese, all'archeologia e alla memoria che viene vissuta dagli abitanti e, quindi, riattualizzata. Mi sembra che tutto questo si leghi a tutto quello che abbiamo sentito e anche alla questione dei dati pubblici. Io sono convinta che tutti, ma soprattutto i decisori politici, abbiano bisogno di dati. È stato illuminante l'esempio di Art bonus: o detrattori totali o sostenitori totali. Ci sono sicuramente cose molto buone e ce ne sono altre che saranno da modificare e da migliorare, per quanto buone possano essere. Da parte soprattutto dei decisori politici, ci deve essere la volontà di conoscere bene la situazione. Quel 60 per cento di giovani che hanno utilizzato il Bonus cultura, per esempio, per che cosa l'hanno utilizzato, per comprare libri o per andare a concerti? Sarebbe interessante saperlo. Da che fasce sociali provenivano? Infatti, il Bonus cultura aveva l'intenzione di allargare la fruizione dei beni culturali, ma se poi si scopre – io spero di no – che Pag. 18è solo una fetta di popolazione, che già in qualche modo era partecipe della cultura, che la utilizza ancora di più, mentre l'altra ne rimane esclusa, il decisore politico si deve porre qualche domanda per il futuro su come è meglio utilizzare le leggi e i mezzi che mette a disposizione. Sono solo una serie di riflessioni che mi sembrava fossero particolarmente utili oggi.

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

  PAOLA DUBINI, associata di Economia aziendale nonché direttrice del corso di Laurea in economia per le arti, la cultura e la comunicazione presso l'Università Bocconi di Milano. L'onorevole Marzana mi chiedeva che cosa può fare un centro di ricerca ove abbia migliore disponibilità di dati. Innanzitutto, secondo me, li può organizzare in modo sistematico e poi deve fare ricerca, nel senso che ci deve guardare dentro. Per esempio, nel caso di Art bonus, che è un lavoro che stiamo facendo in questo momento, una delle cose che saltano all'occhio è che dobbiamo fare un ragionamento complessivo sull'utilizzo di Art bonus e poi dobbiamo fare un altro ragionamento togliendo le risorse che riguardano i teatri e in particolare le fondazioni lirico-sinfoniche. Infatti, in quell'ambito ci sono i numeri notevoli, ci sono organizzazioni più abituate a essere in relazione con i privati e che hanno rapporti spesso privilegiati con fondazioni di origine bancaria. Un'altra cosa che possiamo andare a vedere è che cosa succede dove ci sono fondazioni bancarie particolarmente attive e anche questo dai dati si può estrapolare. Un centro di ricerca può fare tutto questo in modo ordinato, ma secondo me questa è la parte meno interessante. La parte più interessante, trattandosi di cultura, viene fuori a livello successivo: quali sono gli esempi che non ci aspettavamo? Come hanno fatto tutte quelle biblioteche che sono riuscite a tirare su centinaia di migliaia di euro per restaurare libri o per restaurare monumenti? Che cosa è stato mobilitato in territori dove forse la fondazione bancaria non c'è? Vediamo che questi contributi sono fatti da tanti piccoli contributi, anziché da un unico contributo molto sostanzioso. Un centro di ricerca, se lavora bene e, quindi, ha un minimo di autorevolezza, può sostenere o mettere in evidenza alcune aree e alcuni esempi particolarmente virtuosi oppure suggerire dei cambiamenti al legislatore. Per esempio, una cosa che suggerirei a chi gestisce Art bonus è di immaginare il sito più come una piattaforma di crowdfunding, facendo in modo che il sito stesso sia, non tanto una raccolta amministrativa di operazioni, ma uno strumento che solleciti la raccolta. Queste sono cose che si possono fare.
  Una cosa che mi è venuta in mente è che quando ho fatto quel piccolo lavoro sul Bonus cultura, che vi ho presentato e che ho messo agli atti, perché era per un'iniziativa durante Bookcity, finito il lavoro, ho pensato di suggerire alla mia università di sollecitare i diciottenni con i quali ha a che fare perché segnalassero e contribuissero in qualche modo a rendere la comunità dei diciottenni attenta e partecipe di questa iniziativa, che è un'opportunità per loro. Credo che un po’ più di pubblicità in questo senso aiuti anche le persone di buona volontà a darsi un po’ più da fare e a partecipare a un processo di cambiamento. Del resto, quando parliamo di cultura è proprio di questo che stiamo parlando: di cittadinanza e di partecipazione.

  RAFFAELE POZZI, ordinario di storia della musica e musicologia presso l'Università Roma 3. Ringrazio l'onorevole Marzana, perché ha messo il dito nella piaga, nel senso che ha perfettamente compreso qual è il problema che abbiamo di fronte, ovvero la questione di un affiancamento da parte di esperti della maestra o dell'insegnante generalista per quanto riguarda la musica.
  Per quello che riguarda la musica in termini generali, dobbiamo uscire dall'emergenza. Questo è il punto. È chiaro che l'affiancamento di un esperto in una fase di transizione può anche essere un provvedimento utile, ma dobbiamo in qualche modo uscire dall'emergenza cercando di affiancarci ai modelli più avanzati e più significativi, che sono quelli che prevedono l'intervento Pag. 19 dell'insegnante generalista nella musica, così come avviene, per esempio, per l'educazione all'immagine. Noi non chiamiamo nella scuola primaria un esperto esterno per l'educazione all'immagine o per la dimensione visiva. Perché dovremmo farlo per la musica? Il problema è proprio questo: dobbiamo sottrarci a questa idea che la musica sia un corpo separato e che, proprio perché ha una caratteristica particolarmente tecnica la dobbiamo trattare diversamente. Non è così: è parte della cultura, così come lo sono la cultura dell'immagine, la cultura visiva, le arti visive e, come tale, dobbiamo riuscire nel lungo termine a trattarla.
  Nella nota che avevo presentato all'allora Ministro Giannini sottolineavo proprio questo aspetto. Perché un aumento dei crediti universitari per quello che riguarda la formazione degli insegnanti è importante? Avere un insegnante generalista che è in grado di intervenire con una formazione di base – qui parliamo al solito di un'educazione di base alla musica – ha un doppio vantaggio. Da una parte, ci dà insegnanti più colti, che poi sono anche frequentatori di concerti. Infatti, noi non dobbiamo mai dimenticare che la crisi della frequenza ai concerti e allo spettacolo dal vivo non riguarda solamente i giovani, ma anche la fascia adulta. Dunque, da una parte abbiamo un investimento che ci ritorna in termini di una maggiore partecipazione alla vita musicale. Dall'altra parte, ciò ci permette soprattutto di evitare un'erogazione di denaro per l'esperto esterno, che peraltro molto spesso, soprattutto quando è musicista professionista – mi si perdonerà se scendo in faccende di basse cuisine – va nelle scuole con un approccio frustrato, perché in realtà vorrebbe fare il direttore d'orchestra o il grande pianista e poi, come si suol dire «gli tocca» andare a insegnare ai bambini.
  Da questo tipo di emergenza noi dobbiamo uscire. Con il mio collega che ora è in quiescenza, che è un noto pedagogista italiano, il professor Benedetto Vertecchi, abbiamo scritto un articolo nel quale abbiamo sottolineato l'importanza di far crescere, sin dalla prima classe della primaria, la conoscenza del repertorio dei simboli matematici, linguistici e musicali parallelamente. L'unica difficoltà è con gli insegnanti, perché i bambini non hanno alcuna problema a portare avanti l'acquisizione di questa formazione di base a livello musicale. Dov'è l'agenzia formativa degli insegnanti? È all'università? Benissimo, facciamo in modo allora che, accanto agli importanti crediti formativi riservati alle discipline letterarie e scientifiche, si potenzino anche quelli per la musica. In tal modo avremo il doppio vantaggio, in termini di ricaduta culturale e anche economica, di avere degli insegnanti più colti, che andranno magari anche a concerti, cosa che non sempre fanno, e nel contempo di realizzare un risparmio per l'erario, perché saremo in grado di non fare ricorso all'esperto esterno.
  Voglio aggiungere, se il presidente mi dà questa opportunità, anche una piccola nota a proposito della bella annotazione dell'onorevole Carocci, che ha ripreso il ragionamento del professor Bettini, che si è riferito indirettamente a un magnifico saggio critico, «From Homer to Plato» di Havelock Ellis, che è un cardine dell'analisi del passaggio tra oralità e scrittura nella Grecia classica. Certamente queste sono variazioni di storia della mentalità e di pensiero. È chiaro che quando passiamo dall'oralità alla scrittura noi cambiamo pensiero, così come lo cambiamo quando passiamo dal testo all'ipertesto. Sono senz'altro nuove opportunità, non le demonizziamo, anzi le dobbiamo far nostre, però avendo ben coscienza che la scrittura, che per un certo periodo è stata anche demonizzata a vantaggio dell'oralità. Noi oscilliamo – molto spesso anche gli intellettuali lo fanno – per cui a un certo punto abbiamo riscoperto l'importanza dell'oralità e demonizziamo un po’ la scrittura, che diventa una sorta di vessazione di tipo grammaticale imposta ai discenti. Non è affatto questo, perché il passaggio da camion che il bambino esprime con «brum brum» a camion, è un passaggio enorme in termini di crescita Pag. 20 cognitiva da un simbolismo primario a un simbolismo secondario.
  L'acquisizione della scrittura è stato un enorme passo avanti per l'umanità, così come lo è per la musica. Oggi è tutto orale: dobbiamo applicarci all'oralità e favorire i processi orali. Senz'altro facciamolo, ma non dimentichiamo l'importanza della scrittura, che è un potente mezzo analitico e di crescita cognitiva.

  PRESIDENTE. Vi ringraziamo per i vostri contributi veramente importanti per noi. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 13.15.