XVII Legislatura

VII Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 6 di Martedì 7 novembre 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE BUONE PRATICHE DELLA DIFFUSIONE CULTURALE

Audizione di Sofia Bosco Martinez De Aguillar, Direttrice FAI di Roma; Michelina Borsari, già direttrice scientifica del Festival di Filosofia di Modena-Carpi-Sassuolo; Stefano Soliano, General Manager del Parco Scientifico Tecnologico ComoNExT; Massimo Mancini, Direttore Generale di Indisciplinarte-Centro Arti Opificio Siri di Terni.
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 3 
Bosco Martinez de Aguillar Sofia , Direttrice FAI di Roma ... 3 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 5 
Borsari Michelina , già direttrice scientifica del Festival di Filosofia di Modena-Carpi-Sassuolo ... 5 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 8 
Mancini Massimo , Direttore Generale di Indisciplinarte-Centro Arti Opificio Siri di Terni ... 9 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 10 
Soliano Stefano , General Manager del Parco Scientifico Tecnologico ComoNExT ... 11 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 13 
Rampi Roberto (PD)  ... 14 
Bonaccorsi Lorenza (PD)  ... 14 
Ghizzoni Manuela (PD)  ... 14 
Gallo Luigi (M5S)  ... 15 
Malisani Gianna (PD)  ... 15 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 15 
Bosco Martinez de Aguillar Sofia , Direttrice FAI di Roma ... 16 
Borsari Michelina , già direttrice scientifica del Festival di Filosofia di Modena-Carpi-Sassuolo ... 16 
Mancini Massimo , Direttore Generale di Indisciplinarte-Centro Arti Opificio Siri di Terni ... 17 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 17 
Di Pietro Linda , socia fondatrice di Indisciplinarte-Centro Arti Opificio Siri di Terni ... 17 
Soliano Stefano , General Manager del Parco Scientifico Tecnologico ComoNExT ... 18 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 19

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Articolo 1 - Movimento Democratico e Progressista: MDP;
Alternativa Popolare-Centristi per l'Europa-NCD: AP-CpE-NCD;
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà-Possibile: SI-SEL-POS;
Scelta Civica-ALA per la Costituente Liberale e Popolare-MAIE: SC-ALA CLP-MAIE;
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Civici e Innovatori PER l'Italia: Misto-CIpI;
Misto-Direzione Italia: Misto-DI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-UDC-IDEA: Misto-UDC-IDEA;
Misto-Alternativa Libera-Tutti Insieme per l'Italia: Misto-AL-TIpI;
Misto-FARE!-PRI-Liberali: Misto-FARE!PRIL;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI) - Indipendenti: Misto-PSI-PLI-I.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
FLAVIA PICCOLI NARDELLI

  La seduta comincia alle 11.15.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna è garantita anche dalla trasmissione in diretta sul canale web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di Sofia Bosco Martinez De Aguillar, Direttrice FAI di Roma; Michelina Borsari, già direttrice scientifica del Festival di Filosofia di Modena-Carpi-Sassuolo; Stefano Soliano, General Manager del Parco Scientifico Tecnologico ComoNExT; Massimo Mancini, Direttore Generale di Indisciplinarte-Centro Arti Opificio Siri di Terni.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle buone pratiche della diffusione culturale, l'audizione della dottoressa Sofia Bosco Martinez De Aguillar, direttrice del FAI (Fondo ambiente italiano) di Roma e responsabile dei rapporti istituzionali, in sostituzione di Marco Magnifico, che ha comunicato la sua impossibilità a partecipare; della professoressa Michelina Borsari, già direttrice scientifica del Festival di filosofia di Modena-Carpi-Sassuolo; del dottor Massimo Mancini, direttore generale di Indisciplinarte-Centro arti opificio Siri di Terni, e del dottor Stefano Soliano, general manager del Parco scientifico tecnologico ComoNExT. Sono con noi in qualità di esponenti e di testimoni di progetti di educazione alla cultura e all'ambiente a scuola e sui territori. Avverto i colleghi che un corposo volume di raccolta delle memorie pervenute è a vostra disposizione. Rivolgo un saluto di benvenuto a tutti gli ospiti presenti e comunico che le bozze dei resoconti delle precedenti audizioni sono già disponibili, anche se ancora in versione provvisoria. Presento ai nostri ospiti i parlamentari presenti: gli onorevoli Malisani, Blazina, Gallo, Bonaccorsi, Ghizzoni e Rampi, che seguono in maniera particolare i nostri temi in ambito culturale.
  Do la parola alla dottoressa Bosco Martinez De Aguillar per lo svolgimento della sua relazione.

  SOFIA BOSCO MARTINEZ DE AGUILLAR, Direttrice FAI di Roma. Grazie, presidente. Porto il saluto di Marco Magnifico, che oggi per motivi di salute non può essere presente e che, quindi, mi ha chiesto di sostituirlo.
  Non so se abbiamo la possibilità di vedere un documento che aiuti la comprensione di quello che dirò. Nel frattempo, vi ricordo che il FAI (Fondo per l'ambiente italiano) è una realtà privata, che esiste in Italia dal 1975. È cresciuto radicandosi sui territori con grande successo e ha al suo attivo l'acquisizione di 57 luoghi, di cui 37 sono già aperti al pubblico; tutto grazie esclusivamente al sostegno che offrono gli italiani che hanno creduto in questo progetto.
  Quella di cui vi parlo oggi è una delle 57 proprietà, Villa Panza di Biumo a Varese, una donazione al FAI molto particolare. Tengo a sottolineare che è stata un'operazione di coraggio estremo della nostra fondazione, perché la collezione Panza di Biumo – non so quanti di voi lo sanno – è una delle collezioni d'arte contemporanea di espressionismo astratto più importanti del mondo. È stata fatta, ovviamente all'insaputa degli italiani, a cavallo degli anni Pag. 41960, 1970 e 1980 da un signore di Varese, Giuseppe Panza, che dopo la guerra, negli anni 1950, andando a commerciare vini in America, entrò in contatto con l'espressionismo astratto americano e fu il primo a capirlo.
  Egli cercò di fare una donazione di questa collezione allo Stato italiano per ben tre volte. Oggi avremmo in Italia il più grande museo di arte contemporanea del mondo. Invece, purtroppo, è stato rifiutato per ben tre volte. Proprio per questo si rivolse a noi nel 1996, dicendo: «Almeno una parte di questo museo, la più significativa degli ultimi anni che risiede ed è frutto di installazione a Villa Panza, la do a voi».
  Vi parlo di coraggio perché è stata un'operazione per noi vista in funzione di uno sviluppo del territorio di Varese, di un'educazione alla modernità di tutti coloro che ci seguono in Italia.
  È un'operazione che ha richiesto investimenti cospicui da parte della fondazione. È composta anche da opere immateriali, come nel caso del corridoio di Dan Flavin, inaugurato, dopo quattro anni di restauro, dal presidente Ciampi. L'aspetto che ha oggi Villa Panza è veramente straordinario. Abbiamo un numero di visitatori altissimo e in crescita e cifre molto difficili da coprire, perché – lo ripeto – siamo una fondazione privata e, quindi, non godiamo di sostegni da parte dello Stato.
  Vorrei mostrarvi un trend molto interessante di un luogo difficile da lanciare perché poco capito, un luogo dove l'arte che viene esposta parla di emozioni, di luce e di ambiente. È un'educazione per la collettività su temi di grande modernità, che sono stati trattati da Panza con grandissimo anticipo.
  Le sue finanze si basano sulle grandi mostre contemporanee di livello internazionale che portiamo, che hanno visto aumentare esponenzialmente i suoi visitatori e di avere in alcuni casi risultati di esercizio molto interessanti. In altri casi ci sono state perdite, ma il modello del FAI prevede che, laddove una proprietà perde, un'altra che ha il bilancio in attivo, guadagna e, quindi, può venirle incontro.
  Dico tutto questo perché gli investimenti che il FAI ha fatto qui sono di grandissima entità. Se ci fosse stata la possibilità di ricorrere a uno strumento come l’Art bonus, di cui sto per parlarvi, avremmo potuto ingrandire moltissimo l'eco di questo luogo e l'eco che suscitano sui territori le altre iniziative del FAI.
  Infatti, il modello sul quale ci basiamo è sempre più quello del pubblico-privato, perché vediamo che anche i pubblici territoriali che ci seguono nel tempo, che sono coinvolti nel lavoro che generiamo, sono attivi anche nelle attività innovative che il FAI sta introducendo nella gestione di beni culturali in Italia e danno grandissimi risultati.
  Quelli che vedete sono esempi di installazioni poi regalate dagli artisti a Villa Panza e, quindi, all'Italia e alla collettività; essi dimostrano come gli investimenti coraggiosi in arte e in cultura diano un risultato costante in termini di consenso, di crescita e di qualità.
  Siamo finiti addirittura sul New York Times e, oggi, in Italia contiamo grazie a questo esempio, che si unisce a quella parte della collezione che sta all'estero, in particolare al Guggenheim di New York, al MOCA (Museum of contemporary art) di Los Angeles, al Museo d'arte di Lugano e in altre parti del mondo.
  È un'operazione di coraggio che il FAI ha realizzato per non far perdere questa proprietà al Paese, per la quale speriamo che un domani possano arrivarci anche contributi.
  Mi collego all’Art bonus. Esso si è dimostrato uno strumento eccezionale, un'intuizione felice, che ha portato per la prima volta l'attenzione – all'inizio in forma tiepida, discreta e diffidente, ma ormai sta prendendo corpo – di privati e aziende per sostenere iniziative per la cultura e per la conservazione del patrimonio artistico e ambientale. Tuttavia, ancora oggi ne beneficiano esclusivamente beni di proprietà dello Stato. Noi abbiamo potuto sperimentare l’Art bonus perché il FAI ha avuto in concessione sette luoghi pubblici: la Palazzina Appiani a Milano, il Castello di Avio nel Trentino, l'abbazia di Santa Maria di Pag. 5Cerrate in Puglia, che è stato un grandissimo successo, il Parco di Villa Gregoriana, che voi conoscerete già, il giardino della Kolymbetra in Sicilia, meraviglioso, il Lazzaretto di Verona, che stiamo completando, e il Castello della Manta.
  Per queste proprietà abbiamo raccolto 3 milioni e 235.000 euro attraverso lo strumento dell’Art bonus; però rimangono a carico del FAI ancora 563.000 euro, che è una cifra consistente. Effettivamente questo sistema permette di contribuire alla realizzazione di un progetto che ha un investimento previsto, ma non lo coprirà mai. L'idea del pubblico-privato è molto interessante, perché effettivamente i risultati sono consistenti, ma potrebbero esserlo di più.
  La nostra idea – stavamo ragionando su questo e vorremmo tanto che fosse fatta propria da questa Commissione, magari in futuro – è quella di favorire un'ulteriore ampliamento dell’Art bonus verso gli enti del terzo settore, impegnati quotidianamente nella tutela e valorizzazione del patrimonio del nostro Paese. Sappiamo che non si può estendere ovunque, però esistono realtà – noi siamo solo una di queste – che si stanno adoperando molto fortemente per creare valore aggiunto nei territori, per dare esempi di qualità, per inserire modernità in processi che ancora oggi sono molto legati a una quotidiana amministrazione classica e che potrebbero trasformarsi in un volano potente di crescita anche economica.
  Dunque, una possibile proposta potrebbe essere rappresentata dall'ampliamento del beneficio ai beni culturali e paesaggistici aperti alla pubblica fruizione, di proprietà degli enti del terzo settore, ovvero agli enti che accedono al riparto del cosiddetto «5 per mille pro cultura». Sarebbe un segnale forte a sostegno della cultura italiana e dell'impegno corale del terzo settore in questo campo.
  Lo dico perché il terzo settore ha avuto, anche in questo ultimo periodo, un'attenzione speciale da parte del Governo. Sarebbe pertanto auspicabile che il Governo ne potesse concludere la sua azione di riordino attraverso un'apertura a quelle realtà che, come il FAI e tante altre, stanno introducendo nuovi criteri di collaborazione pubblico-privato, di radicamento territoriale, di collaborazione di singoli a progetti di interesse della collettività, che necessitano assolutamente di questo aiuto.

  PRESIDENTE. Ringrazio la nostra ospite. In seguito le chiederemo di soffermarsi di più su questo discorso del terzo settore e di come si possa ottimizzare al suo interno questo lavoro sui beni culturali. Do la parola alla professoressa Borsari, che è stata direttrice scientifica del Festival di Filosofia di Carpi-Modena – mi pare di capire – fino all'altro ieri o quasi, ma che è soprattutto l'ideatrice e la sostenitrice di questo progetto di grande risultato.

  MICHELINA BORSARI, già direttrice scientifica del Festival di Filosofia di Modena-Carpi-Sassuolo. Grazie, anche da parte di tutti i soci del consorzio. Infatti, oggi il festival è un consorzio di enti pubblici e privati. Ringrazio la presidente Nardelli e tutti gli onorevoli componenti di questa gloriosa Commissione. Siamo felicissimi, dopo quasi vent'anni di impegno, di poter portare nel cuore del Paese la nostra esperienza. La viviamo come un vero riconoscimento. Permettete che mi presenti: mi chiamo Michelina Borsari, sono modenese e mi sono occupata sempre nella mia vita di far acclimatare nella società la piantina della conoscenza, in particolare della conoscenza filosofica.
  Una ventina d'anni fa – era la fine del secolo scorso e io allora ero direttore scientifico della Fondazione Collegio San Carlo – sollecitata dalle amministrazioni locali di Modena, Carpi e Sassuolo – sono tre le città, guidate dalla provincia – ho elaborato il progetto culturale del Festival Filosofia.
  Ho curato direttamente sedici edizioni, non la diciassettesima, che è appena finita, perché ho lasciato la direzione del festival al mio assistente, il dottor Francesconi, giusto dodici mesi fa per rimanere nel comitato scientifico, una sede ormai più consona alla mia età e alla mia storia.
  Per presentare il festival a questa Commissione mi sono fatta precedere da due Pag. 6documenti. Uno è una specie di sintesi, anche per immagini, che abbiamo costruito in occasione del quindicesimo compleanno del festival; l'altro è l'esito di una tesi di dottorato, discussa alla facoltà di economia di Modena, sul pubblico del festival e l'impatto diretto. Rimando a questi due documenti per tutti i dettagli. È difficile raccontare vent'anni di storia, ma, se avete la pazienza di scorrerli, vedrete che quei due documenti risentono entrambi del clima culturale dell'ultimo decennio.
  Il Festival Filosofia ogni anno conta più di 200.000 presenze ed è sicuramente il festival italiano più seguito, con i numeri più alti. È costantemente in crescita da vent'anni e non ha mai visto una flessione. Nonostante questo, i progetti culturali dovevano soprattutto legittimarsi dando prova di una sostenibilità economica diretta. L'espressione è stata poco felice, ma non inutile: bisognava dimostrare che con la cultura si mangia anche.
  Il Festival Filosofia, che è costato tanto ai sistemi territoriali, è generatore, come potete vedere da quei documenti, di un'economia molto brillante; moltiplica per circa 3,8 il capitale investito, cosa che succede a pochi eventi; ha un'economia che riesce a trasformare i numeri a sei cifre dell'investimento nei numeri a sette cifre di quanto si raccoglie nel territorio. Siamo molto fieri di questo ingrediente, che parla evidentemente anche della regione Emilia-Romagna e della sua capacità di agire. Tuttavia, il Festival Filosofia non si qualifica unicamente per le sue performance economiche e neppure per le sue performance organizzative, benché possa costituire un esempio per le une e per le altre.
  Le sue sfide, le ragioni della sua nascita e della sua durata e le speranze che ripone nella possibilità di estendersi come modello sono tutte sul piano della trasmissione della cultura. Certamente c'è la filosofia, ma non solo. Le ragioni del festival stanno nel suo ruolo di pedagogia pubblica, ed è anche per questo che l'accesso a questa Commissione risulta per noi così importante.
  Alla fine del secolo scorso – parlo proprio del 1999 – la diagnosi sul «Paese culturale» era sconfortante. Osservato da quella grande interruzione di continuità che abbiamo cominciato a chiamare «globalizzazione», il «Paese culturale Italia» appariva molto attardato, ripiegato su questioni che non avevano più corso nel mondo; era chiuso in spazi molto ristretti, mentre tutti gli spazi della cultura si stavano riformattando.
  Il mondo aveva in effetti cambiato formato, rendendo evidenti alcuni processi che prima restavano soltanto sullo sfondo. Non sto a ricostruirlo, prendo solo una metafora: in passato il rapporto tra il sapere, le conoscenze e la società veniva figurato in modo meccanico, con dei tiranti (le università e le scuole) che portavano i mattoncini delle conoscenze dall'alto al basso e dal centro alle periferie. Questo era già saltato completamente e il mondo della cultura somigliava ormai piuttosto a un ecosistema, dove si sa che un battito d'ali qui può provocare uno tsunami là, o, se volete – per un certo periodo anche quest'altra metafora ha fatto scuola – a una rete, ma non certo a una piramide con tanti piani.
  L'effetto più vistoso di questo cambiamento di formato era il disordine dei confini. La caduta di quelli più celebri aveva lasciato un impegno che in Italia spesso veniva sentito semplicemente come «andiamo a difendere quelli che restano». Si trattava, invece, di buttar giù anche quelli e di impegnarsi a individuare quelli nuovi, meno materiali ma non meno cogenti, soprattutto quelli che tengono lontano dall'accesso alla conoscenza, che erano nuovi e che richiedevano, quindi, un'operazione nuova.
  Gli effetti sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti: gli individui sono lasciati senza scorza, hanno cominciato tutti a diventare come palombari, che si sono messi uno scafandro difensivo. Tutto quello che stava fra gli individui (relazioni e stati gassosi, non lo stato dei muri) richiedeva l'operazione della cultura, che doveva quindi smetterla di spendere soltanto per ricostruire dei muri, perché doveva cominciare a interessarsi allo stato gassoso delle relazioni. Pag. 7
  Come si può fare cultura in un mondo così? Certamente ci vogliono tanto tempo e tante generazioni. Noi abbiamo provato a fare una eco-sperimentazione ed è andata bene. Abbiamo fatto un festival di filosofia, partendo da un territorio.
  La parola «territorio» – lasciatemelo dire – è una parola cruciale, perché i sistemi territoriali non sono stati solo quelli che hanno dato il via al meccanismo, ma anche quelli che hanno continuato a dargli fiducia e a sostenerlo. Noi negli ultimi dieci anni abbiamo attraversato la crisi e i comuni hanno attraversato i tagli, ma siamo riusciti a stare tutti insieme.
  Ciò vuol dire che noi abbiamo concepito il territorio come un insieme di legami, come un insieme di relazioni, non come la crosta in cui le radici affondano e non si possono spostare. Anche le piante vivono perché prendono ossigeno dall'aria e non solo linfa dalle radici. Noi siamo stati molto attenti a tutto quello che è al di sopra delle radici.
  Ciò voleva dire che le identità e tutti questi discorsi non potevano più essere concepiti solo come un'eredità incrollabile, ma come un compito. Le identità sono i compiti che abbiamo davanti, non dietro di noi, e dobbiamo continuamente misurarci con esse; altrimenti Modena, Carpi e Sassuolo si sarebbero accontentate della Ferrari, della maglieria, della Maserati e di Pavarotti e non sarebbero mai diventate le città mondiali della filosofia.
  Abbiamo preso sul serio l'etere. Anche questo è un altro annuncio importante. In questa comunità che non conoscevamo non era possibile andare a suonare il campanello. Bisognava trovare la maniera per comunicare. Quindi, vent'anni fa abbiamo fatto il primo sito dinamico italiano di un'identità culturale. Ci siamo affidati alla rete, non alle riviste specializzate, perché il problema non era quello di fare convegni, ma fare dei festival, che sono una cosa molto differente. Ci siamo orientati verso i quotidiani, cioè verso l'opinione pubblica, che era quella che volevamo fertilizzare.
  Abbiamo assunto, per seguire la metafora climatica, un'organizzazione consapevole dell'incertezza. Questo è stato forse uno degli elementi principali di apertura al possibile, quindi anche di estrema fragilità. Non siamo mai stati più di cinque: quattro all'opera e un direttore. Bisognava trovare, semmai, le modalità di innesto, gli snodi.
  Siamo un evento di secondo livello, che lavora con quello che c'è. Bisogna immaginare, prevedere ciò che può avvenire nel bene e nel male e organizzarsi di conseguenza. Dopodiché, alla fine stavamo tutti molto tranquilli: o l'avevamo previsto o non ci sarebbe stato più niente da fare. Tutto deve essere previsto: ci sono le tende perché può piovere, bisogna tradurre prima perché il traduttore non ci capisce niente. Capire è ciò a cui noi miriamo: dobbiamo fare tutto perché la gente capisca. Queste sono le cose importanti.
  Abbiamo capito soprattutto che si entra in un evento, in una città, in un luogo, per immersione – lasciatemi usare questo termine – non c'è modo di lasciar fuori qualcosa. Non puoi limitarti a fornire merci, devi fornire esperienze: su questo non vi sono dubbi. Puoi anche fare qualche merce. Noi produciamo, in effetti, un po’ di magliette e di gadget, perché sono trofei di viaggio che si portano a casa e che consentono di raccontare la propria esperienza. Devi fornire, fra le esperienze, anche quella che per noi è fondamentale: l'esperienza sensoriale della cucina. Tutti a tavola fin dalla prima edizione, con la cucina filosofica. Il simposio non è lì per caso. A tavola sicuramente si mangiano più simboli che qualità organolettiche.
  La cosa cruciale è aver capito che in quel mondo, dove i confini crollavano, bisognava lavorare sulle integrazioni climatiche e sulle interconnessioni; essere attenti agli snodi, non tanto alle cose e a dove cominciano e finiscono. Occorreva mettere insieme pubblico e privato prima di tutto, fin dall'inizio, negli enti promotori, ma anche negli sponsor.
  Tutto quello che può lavorare con noi è ben accolto. Ci sono attori che fanno il programma, pubblici e privati, deputati e non deputati. Questa è la cosa più importante.
  Chi ha detto che bisogna far intervenire soltanto le gallerie pubbliche? Certamente Pag. 8ci sono quelle private, ma noi lavoriamo anche con gli ospedali, con gli uffici postali, con tutte le associazioni. L'anno scorso ne abbiamo integrate 196. Sanno fare. Agiamo costantemente come tutor, come soggetto che insegna a fare. Diamo anche la canna da pesca, perché non si deve solo dare il pesce. Così il territorio certamente sente che ci sei. Con che cosa si lavora? Si tratta di circa 200 eventi, 50 filosofici e 150 di carattere artistico. Non ci limitiamo evidentemente alla filosofia, si integra tutto. Dove li troviamo questi altri 150? Sono lì: c'è un mercato che è in grado di lavorare; c'è un ospedale. Ci sono, bisogna saperli connettere. Ecco la sapienza nuova: la sapienza delle connessioni, non solo la sapienza del «cosa», ma anche dell’«inter», di quello che è cascato, di quello che sta in mezzo, che sta proprio lì. È la sapienza del «fra», quella che noi stiamo cercando.
  Abbiamo visto che l'importante non è mettere confini o creare nuovi divisori, bensì tenere gli spazi larghi. Quali sono nelle nostre città gli spazi più larghi? Le piazze. Lì bisogna andare, non nella sala dove tutto è frontale, niente di questo.
  Parlo del Festival filosofia, ma non dimentichiamo tutti gli altri. Siamo stati generatori di imitazioni formidabili. Abbiamo imparato dai tifoni. Il tifone cosa fa? Trova tutto quello che c'è, lo fa suo, lo ricombina e lo risputa. Abbiamo imparato dai tifoni: abbiamo riformulato quello che c'era già.
  Viviamo in un'epoca che impallidisce rispetto al Medioevo per la quantità di resti culturali che ci sono caduti addosso. Infatti, non ci sono solo i resti di tutto quello che abbiamo dietro di noi, ma ci sono anche i resti di tutto quello che ci portano gli altri.
  Il compito futuro sarà sicuramente questo: integrarli nelle colonne delle prossime basiliche di un'era globale che sta appena iniziando. Non possiamo non sapere che sarà questo il compito della cultura: quest'integrazione capace di costruire con materiali diversi, come è stato nel Medioevo, con tutti i materiali di riporto.
  Per esempio, il festival ha insegnato che c'è un rapporto diverso tra patrimonio ed evento: non c'è il patrimonio e poi l'evento. L'evento a volte salva dalla dimenticanza museale il patrimonio antico e lo ripropone sulla prima scena. Il rapporto tra patrimonio ed evento non è o l'uno o l'altro, ma mai l'uno senza l'altro. Neanche il Louvre ce la fa senza gli eventi, perché è una modalità per essere oggi in scena.
  Che cosa ha che fare la filosofia con tutto questo? La filosofia c'entra perché i concetti non sono solo la cosa più democratica che c'è. Tutti ci capiamo e sappiamo pensare. Molto spesso, se invece di essere qualcuno che usa il sapere per creare distanza, vuoi usare il sapere per creare vicinanza, cioè sei molto bravo – noi chiamiamo solo quelli molto bravi da tutto il mondo – anche la quantità di sapere che ancora non hai ti viene offerta in un modo che per te diventa accessibile.
  Inoltre, ci sono le arti, che danno figura ai concetti. C'è un sistema che è diventato denso senza istruzioni per l'uso. Si capisce benissimo che questo mondo ha senso. Dunque, è il pensiero a fornire la temperatura di questi eventi. Direte, però, che queste finalità non sono solo affare di tre città padane. Siamo d'accordo. Non riusciamo a cambiare il clima. Saremmo lieti, quindi, se questa Commissione, dopo averci riconosciuto come una buona prassi, volesse anche partecipare al gioco.
  Non c'è un euro dello Stato centrale in questi eventi, che – badate – sono stati visti, invece, dall'Europa. Riporto solo un piccolo ricordo. Era già il 2007 quando vincemmo un bando europeo per trasferire queste buone pratiche, riconosciute come tali all'estero, e cominciammo a fare festival in Francia e in Repubblica Ceca e a creare delle reti. Questi festival durano ancora, perché sono stati innestati sapientemente all'interno di alcuni territori. Non è sempre semplice naturalmente, però l'invito è questo: ci candidiamo a diventare tutor di qualcosa che anche in Italia possa portare queste buone esperienze dentro ad altri territori.

  PRESIDENTE. Grazie, professoressa Borsari. Mi pare che siamo stati tutti molto presi ad ascoltarla e a recepire e recuperare alcune delle cose che lei ci ha detto. Pag. 9Do la parola al dottor Mancini, direttore generale di Indisciplinarte-Centro arti opificio Siri di Terni, per lo svolgimento della sua relazione.

  MASSIMO MANCINI, Direttore Generale di Indisciplinarte-Centro Arti Opificio Siri di Terni. Innanzitutto do una piccola spiegazione sul nome, visto che c'è stato questo gioco. Nasce dalla riflessione di una rivista francese, Mouvement, che aveva parlato di artisti indisciplinati, nel senso di artisti in grado di attraversare più discipline, quindi non più la multidisciplinarietà, ma la capacità di usare linguaggi diversi e forse spostare il genere da oggettivo a soggettivo. In realtà, anche Carmelo Bene nella sua Biennale di Venezia aveva detto «Voglio solo artisti indisciplinati», quindi è stato un po’ il primo a volere questi artisti che fossero in grado di attraversare più generi. Anche il centro d'arte che gestiamo ha un nome interessante: CAOS (Centro arti opificio Siri), che mette al centro la complessità, senza aver paura della complessità, della contemporaneità, dei nuovi linguaggi: cose che in parte sono state già dette prima.
  Ripercorro brevemente un po’ di storia. Siamo più giovani di chi mi ha preceduto, però riflettevo, venendo qui, che ormai sono passati undici anni da quando siamo nati, in un momento storico interessante.
  Stiamo parlando di un luogo – giusto per dare subito un punto di contatto – che si fa piazza, agorà, non forum. In questo senso, il tema della piazza è come il luogo viene attraversato. Ci si viene un po’ come ci si connette con il wi-fi: vengo, se ho voglia mi connetto, se ho voglia creo intersezioni.
  Nasciamo nel 2006 a seguito di alcune riflessioni sul riutilizzo di spazi abbandonati, spazi che, nei vari passaggi dell'economia, dal muro alle crisi successive e al post-industriale, sono stati un po’ abbandonati.
  Ci sono esempi interessanti già negli anni 1970-1990 in Europa. Cito i due estremi: la Friche la Belle de Mai di Marsiglia, spazio di residenza di artisti, poi istituzionalizzato (credo che oggi il 99,9 per cento dei fondi per la gestione siano pubblici) e, all'opposto, la Cable Factory di Oslo, che nasce dopo la delocalizzazione di Nokia sugli spazi privati di quest'ultima, che li dà in affitto ad artisti, in un sistema in cui il sussidio di disoccupazione o comunque il reddito di cittadinanza è garantito da anni. Il sistema nasce perché Cable Factory, cioè la Nokia, aveva interesse a rivalutare gli spazi abitativi che stava trasformando. Stava creando abitazioni e il centro culturale ne alzava il valore d'acquisto. Sono due estremi, che però di fatto erano autoreferenziali, nel senso che nascevano per ospitare artisti nel loro momento di creazione pura.
  Le grandi riflessioni che forse avete ascoltato anche in altri incontri nascono in Italia sull'utilizzo degli spazi, che, non solo diventano un luogo di creazione, ma sanno anche entrare nei processi di cambiamento della società, nei famosi processi di cambiamento identitario di una città. Per usare un'altra metafora – mi ricollego a Terni, che è una città di fiume – l'identità è considerata come un fiume, che si porta dietro le proprie origini, ma poi prende detriti e informazioni e continua a cambiare e ad assumere sempre una sua dimensione.
  Noi siamo nati nel momento in cui, per esempio, Torino aveva fatto una grandissima riflessione sugli spazi: nel 2006 le olimpiadi hanno consentito di fare investimenti interessanti di cambiamento. Milano aveva provato un po’ con la «Fabbrica del vapore» negli anni 2000, un progetto che non decolla ancora, ma oggi ha altri esempi molto interessanti, come «Base» e molti altri. Penso alla Puglia, dove dieci anni fa «Bollenti spiriti» cercava di attivare processi di cambiamento di luogo. Noi ci siamo inseriti in questo contesto decidendo di fare una nostra esperienza pratica, in realtà anche con Linda Di Pietro, che è l'altro 50 per cento della società. Decidiamo di andare in questa città, Terni, perché effettivamente i movimenti di spazi si verificano nelle periferie o nelle province.
  In questo momento che cosa pensiamo di questo luogo? Deve essere un attore reale di un processo di cambiamento in una città in forte trasformazione per la Pag. 10crisi della grande industria. Terni, la città dell'acciaio, è passata da 35.000 operai a 3.500 nel giro di dieci anni. In che modo la città si reinventa la propria identità? La cultura non ha la presunzione di dire quale sarà l'identità, ma accompagna i processi. Questo è il ruolo che ci siamo voluti dare.
  Come accompagniamo questi processi? Apriamo un luogo in grado anche di fornire a generazioni che cercano lavoro o che cercano di inventarsene uno, la cassetta degli attrezzi utile per quel lavoro che oggi non è definibile. Il lavoro di domani è un lavoro non prevedibile e lo era già dieci anni fa. Penso a tante persone che attraversano e che collaborano; siamo in due ad averla fondata, ma siamo ormai un movimento interno alla città, ma anche nazionale. In realtà, tutti sono stati più o meno in grado di generare una propria professionalità e di trovare lavoro in altre dimensioni. Quali sono state le difficoltà più importanti? Chiaramente quella di inventare qualcosa di multidisciplinare. Ritorno a questa parola per dire che c'è un po’ di tutto: abbiamo 6.000 metri quadri di spazi espositivi, attivatori di processi, un cinema, spazi prove, un teatro, un ristorante, perché l'equilibrio economico è importante. Cosa siamo? Siamo un modello misto pubblico-privato: quindi abbiamo fondi in parte pubblici, per uno strumento molto semplice, una gara d'appalto vinta. Abbiamo fondato una s.r.l., scegliendo la strada pura dell'impresa. Anche questo è un elemento molto interessante, perché nasce negli anni in cui l'Unione europea, con il bando cultura 2007-2013, introduce per la prima volta le imprese culturali. Decidiamo di farne una, proprio per dire: «Proviamo a essere anche noi un esperimento».
  In seguito siamo entrati nel green paper dell'Unione europea, per poi disegnare i nuovi progetti di cultura. L'Unione europea ci ha dato uno spunto, ma poi siamo stati noi spunto per l'Unione europea.
  Devo dire che oggi avremmo fatto probabilmente una benefit corporation. Dico questo perché gli strumenti che sentiamo più vicini probabilmente sono quelli del terzo settore, in quanto ci vogliamo prendere il rischio privato, che è giusto e legittimo, però il nostro profitto è nella qualità e nell'intervento sociale. Di fatto, noi siamo un soggetto fortemente politico nei territori.
  Il nostro è solo un caso, ma abbiamo tanti sorelle e fratelli in Italia. Sono veramente tanti e hanno la caratteristica di agire negli spazi dove non ci sono presìdi culturali e dove non ci sono altre strutture. Stiamo anche cercando di cambiare alcune istituzioni all'interno, per esempio i teatri – che sono dei presìdi, anche se spesso abitano le zone centrali delle città – possono diventare più piazza: non si devono limitare allo spettacolo serale, perché in quella fascia oraria ci sono altri strumenti oggi, la tv su tutti, ma devono essere aperti dalla mattina alla sera, devono essere un luogo di attraversamento.
  Chiudo cercando di essere un po’ propositivo. Ovviamente manca uno strumento che riconosca queste strutture. Non si sa mai dove inquadrarle. Dobbiamo ringraziare il coraggio di alcune amministrazioni, perché è più facile dire: «Quello che volete fare non è possibile». Noi siamo riusciti a convincerli facendo sei mesi di autogestione dello spazio; allora hanno detto: «Ah, forse è possibile». In realtà, poi gli amministratori capiscono, però è difficile inquadrarci.
  Inquadrare questi centri di attivazione sociale e di rigenerazione urbana in una normativa rigida? Un po’ ho paura, perché, se si creano le categorie, è facile escludere qualcuno e farsi condizionare dai numeri, mentre sono le idee che devono condizionare i numeri.
  Forse gli strumenti sono quelli già detti. Forse l’Art bonus è uno strumento; ho appreso che verrà ampliato a più soggetti, quindi evidentemente c'è una strada. L'altro, preso in prestito dal cinema, potrebbe essere il tax credit. Penso agli oneri sociali che noi versiamo, perché diamo lavoro a tantissime persone. Forse anche quella potrebbe essere una forma di agevolazione. Non si può perdere l'occasione di essere a sostegno di un'azione fortemente politica su territori complessi.

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Mancini. Do la parola a Stefano Soliano, General Pag. 11 Manager del Parco scientifico tecnologico ComoNExT, per lo svolgimento della sua relazione.

  STEFANO SOLIANO, General Manager del Parco Scientifico Tecnologico ComoNExT. Presidente, egregi onorevoli membri della Commissione, grazie dell'opportunità che ci date di raccontarvi cosa stiamo facendo.
  Partirei con un pezzettino di storia del nostro luogo, perché credo sia abbastanza irrituale pensare a un parco scientifico tecnologico come a un facilitatore di attività culturali, pertanto vi spiego che cosa stiamo facendo, partendo da chi siamo.
  Quello che vedete nelle slides è il luogo in cui ha sede il Parco scientifico tecnologico, oggi anche innovation hub, ComoNExT. Si trova a Lomazzo, un paesino tra Como e Milano. Era un cotonificio. Nasce nel 1883 dall'intuizione di un allora senatore del Regno, imprenditore illuminato, che si chiamava Francesco Somaini, che decise di costruire una fabbrica, già allora innovativa, perché, mentre di solito le si costruiva di fianco a corsi d'acqua, decise di erigerla di fianco alla ferrovia. Fu una delle prime fabbriche in Italia che sfruttò il vapore come fonte di energia per le macchine e per i telai. Di fatto, questa fu l'innovazione che ebbe luogo in questo posto. Poiché crediamo un po’ al genius loci, ci piace l'idea di portare avanti il testimone dell'innovazione che Francesco Somaini aveva innestato in questo luogo.
  Il parco è stato ristrutturato attraverso un'importante opera di recupero di architettura e archeologia industriale, tra il 2007 e il 2010, quando ha aperto i battenti. Sono in totale 21.000 metri quadri di superficie. Ospita in questo momento 125 aziende innovative, ossia piccole e medie imprese innovative e anche aziende più consolidate, tra cui ci sono in questo momento 35 start-up. Siamo incubatore di start-up ufficialmente riconosciuto dal Ministero dello sviluppo economico. All'interno abbiamo ogni giorno più di 600 persone. Sono tutti knowledge workers, con un'età media di 35 anni, che vengono a lavorare al parco. Esso ha una componente per metà pubblica e per metà privata. La Camera di commercio di Como è stato il primo motore immobile di tutto questo, nel senso che ha voluto fortemente un luogo di questo genere (poi vi spiegherò in dettaglio perché). Abbiamo alcune banche, tra cui Intesa San Paolo, che è stata la prima, le BCC del territorio, Credito Valtellinese e Banco Desio. Tutte le associazioni di categoria, quali Unindustria, Confartigianato, CNA, Confcommercio e ANCE, sono socie del nostro parco. Ci sono poi la Fondazione del Politecnico di Milano e una piccolissima quota del comune di Lomazzo, che deriva da scambi tra equity e terreno.
  L'obiettivo iniziale era quello di costruire un modello di sviluppo del territorio attraverso l'innovazione, cioè la capacità di riunire, di fare da calamita di innovazione, in un unico luogo, di aziende innovative che avessero nel proprio DNA l'innovazione di prodotto, di processo e di servizio e che fossero, però, anche in grado, grazie all'aiuto del parco, di mettere a fattor comune questa innovazione e di renderla disponibile sul territorio e sui territori.
  Evidentemente questa è un'operazione che nasce in modo molto territoriale, perché è un luogo che attira al proprio interno aziende; ma la cosa interessante è che, se si parla di innovazione, ci siamo accorti nel corso del tempo che il territorio è esclusivamente un concetto mentale, non fisico o geografico, su una cartina. L'obiettivo che noi abbiamo è quello di portare il mondo dentro al nostro parco e di portare il parco nel mondo, con una continua contaminazione tra saperi e conoscenze diverse, tra l'interno e l'esterno.
  Siamo diventati di recente Digital Innovation Hub di Impresa 4.0 con Confindustria Lombardia, in funzione del piano del Ministro Calenda su Industria 4.0 e siamo, di fatto, abilitatori di innovazione. Che cosa abbiamo fatto? Abbiamo inizialmente cambiato il nostro modello da condominio a community. Il condominio è un luogo in cui trovano spazio aziende più o meno innovative e servizi di base che possono essere utili. C'è una cosa interessante alla quale abbiamo lavorato molto e che si è poi sviluppata anche in altri luoghi d'Italia, e Pag. 12non solo, con il nostro aiuto: l'aver creato un patto di sistema vero e proprio, non solo tra le aziende interne al parco, ma tra tutti gli attori, ossia le associazioni di categoria, la Camera di commercio, le banche e le università, che rappresentano un importantissimo player. Con loro abbiamo iniziato un lavoro di messa in comune di saperi e di conoscenze per renderli poi disponibili al mondo esterno. Non entro nel dettaglio di questo patto perché sarebbe troppo lungo farlo e ci porterebbe lontano. Di fatto, lavoriamo mettendo insieme le risorse intellettuali e professionali che abbiamo al nostro interno, tra tutti i nostri 600 e oltre lavoratori della conoscenza. Le mettiamo in un modello, che abbiamo chiamato «Modello Margherita» o «Daisy model», e costruiamo petali di competenze, in grado di sostenere l'innovazione e il cambiamento nelle aziende esterne che vengono da noi a chiedere innovazione. Abbiamo così attivato e avviato un modello di circular economy territoriale, che ci dà soddisfazione e che è interessante e importante.
  Veniamo al tema fondamentale che ci ha condotti oggi a raccontarvi che cosa abbiamo fatto e cosa stiamo facendo, anche se era importante farvi capire da dove siamo partiti: dalla manifattura alla cultura.
  All'inizio di quest'anno, la Camera di commercio di Como ha effettuato la fusione di due società speciali, di cui una era la ComoNExT e l'altra si chiamava «Sviluppo Como». Quest'ultima era la società della Camera di commercio di Como dedicata allo sviluppo territoriale dal punto di vista di marketing, cultura, arte, enogastronomia, turismo e così via. L'obiettivo di questa fusione era quello di provare a prendere il modello di abilitazione attraverso l'innovazione, che il Parco scientifico ha sempre svolto e sta svolgendo nei confronti dell'impresa manifatturiera, e di mutuarlo per l'impresa culturale creativa: quindi di considerare l'impresa culturale alla stessa stregua di una manifattura e di un'impresa di servizi e di aiutarla, fornendo gli strumenti perché, attraverso l'innovazione, possa rinnovare prodotti, modalità di presentazione, modelli di business e così via, cosa che stiamo facendo.
  Quali sono le azioni sulle quali stiamo lavorando che cominciano a darci interessanti risultati? Prima di tutto, c'è la creazione di consenso. Questo è un elemento fondamentale perché, quando si ragiona su un territorio complesso, dove tanti sono gli attori nell'ambito della cultura e della manifattura, non si può fare a meno di cercare l'accordo di tutti affinché tutti remino nella stessa direzione; quindi tanto tempo e tanta energia devono essere impiegati e spesi nella creazione di consenso. Creare consenso vuol dire anche limare gli spigoli, far capire a tutti che si è una risorsa e non una minaccia. Questa è la primissima linea di azione, mentre la seconda è sicuramente la condivisione.
  Immagino che una caratteristica abbastanza simile in tutti i territori del nostro Paese sia quella di essere pieni di campanili. Qual è il problema? Ci sono numerose iniziative in ambito culturale che vengono fatte con uno scarsissimo coordinamento, quindi ci si trova spesso con inaugurazioni o conferenze stampa nel medesimo momento di cose diverse, con l'impossibilità di comunicare tutto al meglio. Sicuramente quello della condivisione è un tema importante, ma essa riesce se si crea sul territorio una cabina di regia. In questo momento, ci stiamo ponendo come cabina di regia per tutte le attività legate alla cultura che avverranno sul territorio della provincia di Como e Lecco. Stiamo provando a lavorare anche nella zona di Varese e dell'Alta Brianza e, comunque, sulle zone di impatto del nostro Parco.
  Stiamo realizzando una piattaforma, che probabilmente avete presente perché ne è stata costruita una durante l’Expo di Milano, la E015: una piattaforma di condivisione e di coordinamento di tutte le attività legate in quel caso all’Expo.
  Un tema importante è quello della formazione. Così come nell'ambito di Industria 4.0 c'è la necessità enorme di formazione all'interno delle aziende manifatturiere, anche nell'ambito dell'industria culturale e creativa è interessante e importante lavorare su che cosa l'innovazione può portare Pag. 13 in quell'industria e a quegli imprenditori, perché ci sono nuovi modelli di business e nuove tecnologie abilitanti, quindi tantissimi ambiti di difficile comprensione per chi fa questo mestiere in maniera tradizionale.
  Ovviamente non bisogna dimenticare il business, quindi stiamo lavorando sull'ideazione di nuovi modelli di business volti alla sostenibilità e alla scalabilità delle imprese culturali.
  Ho citato come esempio Art bonus, ma sarebbe molto interessante, secondo me, provare a fare qualche riflessione anche dal punto di vista del tipo di integrazioni o di contaminazioni che possono arrivare al mondo dell'industria culturale, mutuate dal decreto Industria 4.0. Lo dico perché ci sono iper ammortamenti, super ammortamenti e crediti di imposta per la costituzione delle start-up. Ci sono tanti passi interessanti che sono stati fatti e che vi assicuro sono molto utilizzati dalle imprese con cui siamo in contatto tutti i giorni. Alcuni di questi, mi pare, potrebbero essere adottati anche nell'ambito della cultura più in generale.
  In tutto ciò, come vi ho detto, siamo un soggetto abilitante. Il nostro obiettivo non è fare iniziative culturali, ma fare in modo che le iniziative culturali fatte da altri abbiano maggiore risonanza e sostenibilità e siano capaci di attrarre pubblico e di creare cultura in maniera più diffusa. Per farlo, però, dobbiamo e abbiamo iniziato a dare anche qualche esempio; quindi abbiamo cercato di far capire ad altri che cosa può essere interessante fare, utilizzando le tecnologie e l'innovazione.
  Chiudo raccontandovi brevemente due esempi, nei quali abbiamo svolto il ruolo di produttori. Quest'anno, il Teatro sociale di Como, che è uno dei teatri più importanti, ha prodotto l'opera «Majorana, cronaca di infinite scomparse», dedicata a Ettore Majorana. Si tratta di un'opera multimediale molto particolare e interessante che ha vinto un concorso per l'Opera contemporanea internazionale. È stata una produzione nostra, partita a Como un mese fa, quando c'è stata la prima e l'inaugurazione della stagione dell'Opera. Sarà poi a Trento e, successivamente, girerà un po’ in Italia. In quest'occasione, abbiamo realizzato due cose. La prima è un'installazione che abbiamo tenuto durante il periodo di rappresentazione dell'opera, all'interno del foyer del Teatro: abbiamo chiesto alle aziende interne al Parco che sviluppano tecnologie di darci una mano nella realizzazione di questo percorso. Partendo dalla teoria di Sciascia, quindi dal fatto che Majorana è scomparso perché aveva intravisto la possibilità devastante dei suoi lavori sull'energia atomica, abbiamo costruito cinque stanze con un percorso, dove le tecnologie erano a supporto di un racconto emozionale. Per esempio, c'era un braccio robotico che disegnava con una penna laser su una parete frasi tratte dalle ultime lettere di Majorana, che si leggevano per un istante e poi scomparivano, come metafora della scomparsa. Poi, abbiamo creato un ambiente di realtà virtuale, nel quale fosse comprensibile in maniera molto semplice che cosa vuol dire fissione nucleare: con il visore, le persone che hanno frequentato la mostra potevano toccare elettroni, protoni e atomi e generare di fronte a sé una reazione nucleare.
  Abbiamo inoltre prodotto quello che credo sia il primo documentario in realtà virtuale, a 360 gradi dell'Opera, posizionando una serie di telecamere all'interno del Teatro: sempre con un visore, è possibile, di fatto, essere immersi nell'Opera ed essere fianco a fianco dei cantanti o dei musicisti nella buca dell'orchestra.
  Questi due esempi, se volete, sono piccoli, ma danno l'idea a tutti gli operatori dell'industria culturale nel nostro territorio di che cosa si può pensare di diverso rispetto a quello che si sta facendo e che si è fatto fino a oggi. Questo è il motivo per cui un parco scientifico o un innovation hub digitale sta affrontando in maniera molto convinta e appassionata il tema della cultura. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie a Stefano Soliano. Mi pare ci siano molte cose su cui riflettere e molti stimoli. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

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  ROBERTO RAMPI. Con la collega Ghizzoni stavamo discutendo di una cosa: non è una domanda. È chiaro a tutti che l’Art bonus è partito in maniera sperimentale, con un vincolo di bilancio, nel senso che si partiva dall'idea che la tenuta dei conti derivasse dal fatto che lo Stato, prima o poi, su quei beni, quindi sugli oggetti di sua proprietà, avrebbe dovuto fare un intervento e che, prima o poi, a bilancio quelle risorse ci sarebbero state, sgravando il 65 per cento delle tasse alle imprese. In realtà, invece che mettere il 65 per cento, si stava risparmiando il rimanente. Allora, in modo un po’ polemico, qualcuno sostenne che fosse stato fatto un passo indietro dello Stato rispetto al proprio patrimonio. Credo che finalmente, col tempo, si sia capito che è esattamente il contrario e che, in realtà, si è generato un volano, che, spero, riusciremo ad estendere alle attività culturali. Come colleghi di differenti forze politiche, ho presentato diversi emendamenti che vanno nella logica di estendere l'Art bonus ad altre realtà, rafforzando una norma che ha valore nel rapporto pubblico-privato. A mio avviso, qualificare un'iniziativa come pubblica o privata dipende dalla finalità dell'iniziativa medesima e non dalla sua proprietà o dalla sua forma giuridica. Le vostre sono pertanto tutte iniziative di finalità pubblica (almeno quelle che ci avete raccontato) e l'idea che la tassazione venga sgravata perché si stanno già pagando le tasse a sostegno di iniziative di questo tipo mi sembra molto valida.
  Il Parlamento italiano sta consegnando, con la fine di questa legislatura, un'esperienza su cui lavorare. Ci si domandava se il tax credit e l’Art bonus possano essere strumenti efficaci in casi come i vostri e mi sembra che la risposta sia stata positiva. Ovviamente non è semplicissimo farlo, ma, se ci si mette, si riesce a delimitare il campo per individuare le iniziative da cui partire. Avevamo anche fatto qualche tentativo in fase emendativa, ma ci hanno detto di fermarci. C'è stato un lungo confronto col Viceministro Morando, lo scorso anno, in Commissione bilancio, nel corso del quale ci disse esplicitamente che il risultato ottenuto era già molto significativo, ma che era opportuno fermarsi lì. Noi intendiamo andare avanti un poco per volta.

  LORENZA BONACCORSI. Mi riaggancio a quest'ultimo intervento, rispetto alle parole del professor Soliano, sulla difficoltà che abbiamo, come legislatori e per come è impostato il lavoro parlamentare, sulla contaminazione che si può innestare tra start-up culturali e il mondo delle start-up. Abbiamo lavorato per mesi su una proposta di legge per le start-up culturali, trovando numerose difficoltà per adeguare e portare i mondi della Commissione attività produttive dentro la nostra e viceversa. Secondo me, questo è un tema su cui dovremmo lavorare molto di più e l'apporto di queste esperienze è fondamentale. Il concetto di scalabilità dell'impresa culturale mi ha fatto un po’ strabuzzare gli occhi: non si era mai neanche posto il problema della scalabilità dell'impresa culturale, che, invece, è una delle sfide e dei traguardi che ci dobbiamo porre; quindi, più che una domanda, la mia è una richiesta, da fare sicuramente in altra sede, per ulteriori riflessioni su questi temi. Grazie.

  MANUELA GHIZZONI. Vorrei fare un'integrazione alla «non-domanda» del collega Rampi, oltre che ringraziare naturalmente gli ospiti perché ci stanno portando delle esperienze di successo straordinario. In primo luogo, al di là della natura pubblica o privata di delle vostre diverse esperienze, tutte hanno una finalità pubblica e il vostro successo è conclamato oggettivamente. In realtà, anche nelle sedute precedenti e nelle audizioni svolte, è trapelata una necessità di riconoscimento da parte dello Stato. Ci sono soggetti che hanno creduto in voi fin dall'inizio, o quasi fin dall'inizio, che sono soprattutto le reti territoriali, ma c'è un grande assente. Non credo si tratti solo di finanziamenti, ma anche di un riconoscimento. Michelina Borsari ci ha ringraziato all'inizio del suo intervento dicendo «essere qui è per noi un riconoscimento, dopo quasi vent'anni».
  Prima di passare al tax credit, vorrei sapere quali altre forme di riconoscimento, se non quello finanziario su cui dirò qualcosa, potrebbe esserci? Pag. 15
  In secondo luogo ho bisogno di capire come dare gambe al titolo e all'obiettivo. In effetti, non è sufficiente dire «bene l’Art bonus e bene il tax credit»: bisogna capire come potremmo ricondurre le vostre realtà – che sono non ambigue, ma nuove, e che sono difficilmente classificabili – in meccanismi che nascono per situazioni un po’ più definite. Le imprese industriali cinematografiche sono una cosa, per cui farei fatica a vederle abbinati a un festival con natura di consorzio. Lo sgravio fiscale a chi lo affidiamo? Nel caso del FAI, l'esperienza mostrata è meravigliosa, ma, come tutte le altre, a che cosa lo possiamo abbinare? All'attività del museo, che è particolare, non solo per la sua natura, ma anche per la natura del proprietario?
  Bisogna svolgere meglio questo compito in modo che possa essere inserito nella nostra relazione da affidare a chi verrà dopo di noi e a chi resterà: questo mi sembra veramente un elemento urgente. Non c'è l'ambizione di inserirlo in questa legge di bilancio, non solo perché ci hanno detto che stavamo correndo troppo già l'anno scorso, ma perché dovremmo davvero affidare al Parlamento della nuova legislatura una serie di compiti ben definiti.

  LUIGI GALLO. Ringrazio gli ospiti. Sulla scia di quanto detto dalla deputata Ghizzoni e riprendendo i dibattiti svoltisi nella nostra Commissione, è evidente che ci troviamo ad avere due modalità. C'è una modalità che ci consente di riconoscere una certa esperienza culturale, facendo sostanzialmente una scelta politica basata sulla conoscenza specifica di alcuni deputati del territorio, che poi diventa appannaggio di una forza politica e portata all'interno del Parlamento, per diventare legge, sostenuta da risorse economiche. L'altra modalità prevede una strada differente che metta in competizione quel soggetto con altri non riconosciuti o non in grado di essere appoggiati da qualche forza politica. Vorrei quindi ampliare la domanda dell'onorevole Ghizzoni chiedendo quali possono essere i criteri e gli strumenti da adottare per premiare attività private nei diversi settori. Il tema che la Commissione si trova spesso ad affrontare è proprio quello dell'individuazione di criteri che permettano di valorizzare le migliori esperienze del territorio.

  GIANNA MALISANI. Stimolata dagli interventi precedenti, vorrei rivolgermi soprattutto alla rappresentante del FAI perché ritengo che sia una delle associazioni più importanti che si occupano di paesaggio (nessuno se ne occupa) e di architettura. Mi piacerebbe sapere quali altre erogazioni liberali ci sono oltre agli esempi inseriti nella relazione. In particolare, se queste sono consistenti oppure se c'è una compartecipazione più larga. Si tratta di capire qual è il pubblico affezionato al FAI.
  In secondo luogo, collegandomi alla questione del riutilizzo delle strutture statali abbandonate, vorrei riferirmi alla questione della cessione dei fari oppure a quelle strutture, molto diffuse in Italia, come le ex carceri. Per esempio, guardando i risultati di San Fruttuoso, posso dire che c'è un legame tra restauro, riutilizzo e valorizzazione dei beni; ma ci vorrebbe forse anche l'abbinamento a un'attività privata che possa sostenere questi luoghi.
  Da parte del FAI, potrebbe scaturire una proposta: è sempre aperta la questione su pubblico-privato e su arte e non arte, oppure sull'utilizzo commerciale di alcune strutture e su questo si potrebbe lavorare. In effetti, penso – San Fruttuoso potrebbe esserne un esempio – a come potremmo abbinare o come lo stesso FAI potrebbe proporre di abbinare una proposta di utilizzo e valorizzazione alla rendita del bene. Sollecitata da queste osservazioni, al di là del tax credit o dell’Art bonus, penso potrebbe esserci qualche altra soluzione. Grazie.

  PRESIDENTE. Mi permetto di aggiungere un'osservazione: dovremmo avere qualche informazione in più, come vi dicevo prima, sulla nuova legge del terzo settore rispetto al suo impatto sui beni culturali. Lo chiedo perché, di nuovo, c'è bisogno di una serie di contaminazioni fra quello che si fa in ambito culturale strettamente inteso e quello che, in realtà, già è presente in altra maniera. Prima di dare rapidamente la parola ai nostri quattro ospiti, Pag. 16vorrei aggiungere che mi pare venga da tutti i colleghi una richiesta di ulteriori indicazioni da parte vostra, quindi vi chiederemo di darci un supplemento di notizie, di informazioni e di proposte, per venire incontro agli aspetti che sono stati chiariti molto bene dai colleghi. Do la parola agli ospiti per la replica.

  SOFIA BOSCO MARTINEZ DE AGUILLAR, Direttrice FAI di Roma. Prima di rispondere alle richieste dell'onorevole Malisani a proposito della tipologia di contributo che riceviamo, faccio un passo indietro per rispondere a una domanda dell'onorevole Ghizzoni. Perché proponevamo l'estensione dell’Art bonus anche a realtà come la nostra? Secondo noi, dell'estensione dell’Art bonus, potrebbero beneficiare immediatamente interventi di manutenzione, protezione e restauro dei beni culturali pubblici e di quei beni culturali paesaggistici aperti al pubblico e di proprietà di enti del terzo settore: già questo darebbe una finalità ben precisa e ben specifica a quello che l’Art bonus potrebbe fare. In tal senso, l’Art bonus avrebbe un interlocutore e una finalità, ma anche una funzione strepitosa perché si permetterebbe poi la continuità del lavoro che la fondazione svolge nel tempo per la collettività.
  A questo si aggancia molto bene la seconda domanda dell'onorevole Malisani su come il FAI potrebbe intervenire, facendosi carico con proposte o progetti in merito ai luoghi abbandonati. Se ci fosse uno strumento, quale un contributo dello Stato che consenta alla fondazione di prendere in considerazione anche luoghi che non siano di sua proprietà, per esempio concessioni di altri enti o collaborazioni con enti che già li gestiscono, il FAI potrebbe studiare il modo di dare un apporto sul metodo di gestione e di progetto per la conservazione continuativa nel tempo. Tuttavia, finché siamo una realtà privata che sopravvive solo con i contributi raccolti da privati o dalle manifestazioni, ci risulta molto difficile farlo.
  In questi anni, abbiamo sviluppato un metodo di gestione che porta l'89 per cento delle risorse necessarie ai luoghi per la loro manutenzione ordinaria, il che non è poco: si tratta quasi del 90 per cento. Il nostro è un modello di successo che ci è costato fatica creare, sperimentando molte strade, e che oggi sta dando grandi risultati. Stiamo cercando sempre di più, come si è visto, di accettare in carico luoghi non di proprietà della fondazione, ma dello Stato, a cui estendere la nostra azione. I sette progetti che ho elencato prima hanno appunto un costo di progetto complessivo di 3,2 milioni e, grazie all’Art bonus, hanno già ottenuto circa 600.000 euro di contributi. Noi abbiamo messo gli altri 500.000 euro, ma, un grande apporto potrebbe derivare se a questi si potessero affiancare anche progetti di privati.
  Le elargizioni pervenute per i beni beneficiati dall’Art bonus, quindi beni pubblici affidati al FAI, sono state di media entità, salvo una o due un po’ più consistenti. Questo proprio perché si tratta di uno strumento che, a nostro parere, ancora oggi mira alla media-piccola entità e non a grandi elargizioni. Nelle proprietà private del FAI, dove c'è per chi investe la garanzia di solidità nel tempo nella conduzione e nella gestione, le contribuzioni sono più elevate sia da parte delle aziende, sia da parte dei cittadini che ci appoggiano occasionalmente o attraverso le sottoscrizioni delle iscrizioni annuali.
  Notiamo che, laddove possiamo in qualche modo dimostrare la nostra azione e garantire il nostro lavoro nel tempo per la collettività, la prima realtà che reagisce immediatamente a tutela di ogni best practice sul territorio, è il territorio stesso. Da lì, si arriva agli individui e si sale fino alle aziende. Quindi, se ci riferiamo ai contributi che arrivavano tramite l’Art bonus, dico che si tratta di entità piccole e, per ora, di più persone. Se invece parliamo di interventi di ragguardevole entità e di affidamento al FAI di beni importanti per lunghi periodi o, addirittura, in proprietà, effettivamente la credibilità raggiunta in questi anni dalla fondazione con il suo modello di gestione permette erogazioni molto più grandi.

  MICHELINA BORSARI, già direttrice scientifica del Festival di Filosofia di Modena-Carpi-Sassuolo. Ringrazio per questo supplemento Pag. 17 e chiarisco la struttura economica del Consorzio, che attualmente è questa: ci sono tre enti pubblici, i tre comuni di Modena, Carpi e Sassuolo che, nel loro complesso, mettono nel salvadanaio del Festival circa 150.000 euro, che sono molto pochi, però consentono di condurre l'iniziativa in porto. Lo sforzo che chiediamo di fare anche al Ministero è di trovarne altri, per esempio attraverso le fondazioni bancarie, che sono quelle che possono mettere insieme altri 400.000 o 450.000 euro.
  Abbiamo due fondazioni: la Fondazione di Carpi, che è socia, e la Fondazione di Modena, che copre anche il territorio di Sassuolo. Poi, abbiamo finanziatori puramente privati: prima c'era la Camera di commercio che, a seguito delle ristrutturazioni, è uscita; c'è Confindustria. Soltanto da quest'anno, c'è qualche piccolo finanziamento delle Coop; c'è Hera e ci sono le multiutility. Non chiamiamo mai «sponsor» perché siedono al nostro tavolo. Si tratta di cifre che si aggirano intorno ai 20.000 euro, per cui piuttosto modeste.
  Questa operazione si impernia su soli sei soci, ma consente di trovarne altri perché si dà un riconoscimento all'operato che, pur non essendo particolarmente costoso, tuttavia è in grado di generare ottime possibilità di trovare altri soci. Per noi sarebbe cruciale attivare quelle iniziative, che sono molto innovative e anche di successo, ma non sono quelle consuete, quelle su cui un legislatore può operare. Per tale motivo, occorrerebbe probabilmente una linea apposita, che faccia tesoro dei finanziamenti europei e li orienti verso queste iniziative. L'Europa ragiona di sette anni in sette anni, quindi non c'è una legge a carattere permanente, ma bandi che riconoscono il carattere a volte non permanente e non strutturato delle iniziative, che tuttavia meritano di diventare più diffuse. Faccio un piccolo esempio: ci sono strutture enormi dal punto di vista culturale anche nel sud, ma come le riempiono? Lo sanno davvero come si fa a gestirle? Non avranno magari voglia o bisogno di qualcuno che dia consigli e spieghi che queste iniziative danno il meglio di sé e poi si ritirano? Ecco, si tratta di concepirle come iniziative che fertilizzano e non semplicemente come «personcine» che devono avere un premio. Abbiamo bisogno che il Paese vada avanti e le nostre finalità pubbliche devono essere sostenute: deve essere sostenuta la diffusione e non soltanto la premialità.

  MASSIMO MANCINI, Direttore Generale di Indisciplinarte-Centro Arti Opificio Siri di Terni. Vorrei sottoporre poche suggestioni: la prima di esse riguarda il tema della sostenibilità economica perché è piuttosto difficile mantenere l'equilibrio tra entrata commerciale e valore culturale, di fatto sociale. Spesso sono state fatte anche politiche di concessione gratuita di alcuni spazi, che, alla fine, sono degenerate in pura attività commerciale: in questo caso il ruolo dell'ente pubblico è importante perché deve dare degli obiettivi, essendoci questo rischio. Chiaramente è difficile farlo, ma, a parte i soldi, qual è il ruolo che può avere uno Stato centrale per dare indicazioni? Chiedo aiuto a Linda Di Pietro per dividerci l'intervento.
  Ho lavorato anche per la candidatura di Nuoro a capitale italiana della cultura. Nuoro è una delle diciotto città che ha vinto il Piano per le periferie. Questo potrebbe proprio essere l'esempio di uno strumento che mette nella presenza di centri culturali un valore aggiunto o una valutazione in più; quindi senza intervenire con risorse, ma dando una valutazione qualitativa.
  Ho parlato di connessioni che per noi sono importanti, però spesso è più facile la scalabilità o lo spostamento di un progetto o di un processo in un altro luogo che rimanere esistenti nel luogo in cui si è partiti, perché spesso, con il cambio delle politiche, ci si sente soli. Forse, essere inquadrati in una dimensione nazionale fa capire anche a chi fa politica sul territorio che quello è un privilegio ed è uno strumento utile per una politica attiva nel territorio.

  PRESIDENTE. Prego.

  LINDA DI PIETRO, socia fondatrice di Indisciplinarte-Centro Arti Opificio Siri di Pag. 18Terni. Sarò velocissima. Che cosa ci insegnano il CAOS di Terni, il Farm Cultural Park di Favara, il BASE a Milano o la caserma archeologica a Sansepolcro? Ci insegnano che esiste un arcipelago di soggetti già attivi sul territorio e che già da anni operano in connessione con le politiche esistenti, ripensando completamente l'istituzione culturale. Stiamo parlando di istituzioni culturali perché ciascuna di queste lo è: l'istituzione culturale è un soggetto artificiale e non un soggetto naturale, inventato dall'uomo, per cui, così come l'ha inventato, lo può reinventare.
  Ci sono tre modelli di tutti questi luoghi in Italia. Uno si basa sulla resistenza: ci sono soggetti che da anni ripropongono un modello, che, dopo tanti anni, viene legittimato, diventa politica, e ci sono soggetti che, come nel nostro caso, negoziano con la pubblica amministrazione sin dall'inizio e vivono in questa negoziazione costante, quasi in una situazione di «in between», in un tempo sempre fluido. Ma ci sono anche soggetti che ignorano il sistema esistente, come l’ex asilo Filangieri di Napoli, e si pongono anche in una forma illegale che pone delle questioni rispetto all'agibilità o alla non agibilità del loro esistere e della loro azione sul territorio.
  Che cosa proponiamo, anche a fronte del movimento esistente, che fa massa critica ed è sempre più presente e che la politica deve osservare? Forse, la creazione di un policy lab, cioè di un luogo connesso con la Commissione cultura o magari un'espressione della Commissione stessa, che possa accogliere altri soggetti esterni, seguendo quello l'esito di questa indagine conoscitiva, quindi della parte conoscitiva che è stata già portata avanti. Il policy lab diventa luogo dove le sperimentazioni possono trasformarsi in politiche ed essere messe a sistema.
  Accanto a ciò, c'è anche la necessità enorme di un forum dedicato agli amministratori pubblici perché gli amministratori locali, nazionali e di tutti i livelli hanno bisogno di essere parte di questo policy lab. Lo dico perché, altrimenti, le azioni territoriali non avranno mai il giusto riconoscimento e verranno sempre fotografate ad anni di distanza. Che cosa può succedere dieci anni dopo? Può succedere che siamo tutti esausti e che le esperienze siano arrivate a un livello di saturazione, che non permette neanche più di far emergere i valori più vivi insiti nella nascita della start-up.
  Chiudo dicendo che questo policy lab potrebbe diventare un grande piano di rigenerazione dell'Italia, cosa che il Piano periferie in alcuni territori sta già facendo. Tuttavia, la cultura non è il centro del Piano periferie. Esiste una direzione generale del MiBACT dedicata a periferie e cultura, a periferie e arte contemporanea, architettura e paesaggio: quella DG forse si potrebbe fare promotrice di un ulteriore spin-off del piano periferie più dedicato a questo tipo di azioni.

  STEFANO SOLIANO, General Manager del Parco Scientifico Tecnologico ComoNExT. Prendo spunto da un paio di interventi che sono seguiti ai nostri e dalle riflessioni e non-domande. Che cosa può pensare lo Stato centrale rispetto al riconoscimento e alla promozione di quello che svolgiamo tutti noi che siamo qua? Siamo partiti da due concetti fondamentali nel ripensare completamente il ruolo di un luogo come il nostro. Un primo concetto riguarda il tema della fiducia perché, avendo messo insieme un sistema fatto da tanti soggetti diversi, il fatto che tutti si fidino di quello che fanno gli altri è assolutamente importante. Il secondo concetto riguarda la generosità, il che vuol dire non aver paura, nel momento in cui stiamo facendo qualche cosa di «pubblico», che qualcun altro faccia qualcosa di simile. Tuttavia, questo non è né semplice né scontato. Per noi, questo sarebbe importantissimo, dal momento che, in maniera spontanea, tanti territori ci stanno chiedendo che cosa abbiamo fatto e cosa stiamo facendo o di dargli una mano per farlo anche da loro. Cito, per esempio, Ivrea con l’ex fabbrica di Olivetti e, per rimanere in Piemonte, cito Novara con le rotative e la legatoria della De Agostini. Dove ci sono anche privati interessati a fare qualche cosa per il pubblico, la generosità è fondamentale. Dobbiamo raccontare nel dettaglio che cosa Pag. 19abbiamo fatto e dobbiamo mettere a disposizione tutta quella che è stata la nostra best practice fino adesso, quindi avere solo voglia di essere copiati. Per farlo, abbiamo bisogno che non solo i singoli territori per un passaparola ci conoscano e sappiano cosa stiamo facendo, ma anche di un riconoscimento formale e ufficiale da parte dello Stato. Nel momento in cui dovesse esserci una sorta di endorsement nei confronti delle iniziative che stiamo facendo, una volta valutato che effettivamente si tratta di iniziative meritevoli e copiabili, questo ci renderebbe ancora più credibili nei confronti di altri che vogliono replicarle e la possibilità di far crescere il Paese sarebbe moltiplicata.

  PRESIDENTE. Grazie ai nostri ospiti e grazie a tutti voi per questi contributi così importanti nella giornata di oggi. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 12.55.