XVII Legislatura

VII Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Martedì 3 ottobre 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE BUONE PRATICHE DELLA DIFFUSIONE CULTURALE

Audizione del Dr. Ugo Bacchella, Presidente della Fondazione Fitzcarraldo, del Dr. Carlo Fuortes, Sovrintendente Teatro dell'Opera di Roma, del Dr. Armando Massarenti, Direttore inserto culturale Sole24Ore, del Dr. Marino Sinibaldi, Direttore RaiRadio3, della Prof.ssa Silvia Ronchey, Ordinaria di Civiltà Bizantina – Dipartimento di Studi Classici Università di Roma Tre.
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 3 
Massarenti Armando , direttore dell'inserto culturale del ... 3 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 6 
Sinibaldi Marino , Direttore RaiRadio3 ... 6 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 9 
Bacchella Ugo , Presidente Fondazione Fitzcarraldo ... 10 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 12 
Fuortes Carlo , Sovrintendente Teatro dell'Opera di Roma ... 12 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 13 
Ronchey Silvia , Ordinaria di Civiltà Bizantina Dipartimento di Studi Classici Università di Roma Tre ... 13 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 16 
Ghizzoni Manuela (PD)  ... 16 
Bossa Luisa (MDP)  ... 18 
D'Uva Francesco (M5S)  ... 18 
Marzana Maria (M5S)  ... 18 
Ascani Anna (PD)  ... 19 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 19 
Massarenti Armando , Direttore inserto culturale Sole24Ore ... 19 
Fuortes Carlo , Sovrintendente Teatro dell'Opera di Roma ... 21 
Sinibaldi Marino , Direttore RaiRadio3 ... 21 
Bacchella Ugo , Presidente Fondazione Fitzcarraldo ... 22 
Ronchey Silvia , Professoressa Ordinaria di Civiltà Bizantina Dipartimento di Studi Classici Università di Roma Tre ... 22 
Piccoli Nardelli Flavia , Presidente ... 22 

ALLEGATO: Intervento Dr. Armando Massarent ... 23

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Articolo 1 - Movimento Democratico e Progressista: MDP;
Alternativa Popolare-Centristi per l'Europa-NCD: AP-CpE-NCD;
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà-Possibile: SI-SEL-POS;
Scelta Civica-ALA per la Costituente Liberale e Popolare-MAIE: SC-ALA CLP-MAIE;
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Civici e Innovatori PER l'Italia: Misto-CIpI;
Misto-Direzione Italia: Misto-DI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-UDC-IDEA: Misto-UDC-IDEA;
Misto-Alternativa Libera-Tutti Insieme per l'Italia: Misto-AL-TIpI;
Misto-FARE!-PRI-Liberali: Misto-FARE!PRIL;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI) - Indipendenti: Misto-PSI-PLI-I.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
FLAVIA PICCOLI NARDELLI

  La seduta comincia alle 11.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna è garantita anche dalla trasmissione in diretta sul canale web-TV della Camera dei deputati.

Audizione del Dr. Ugo Bacchella, Presidente della Fondazione Fitzcarraldo, del Dr. Carlo Fuortes, Sovrintendente Teatro dell'Opera di Roma, del Dr. Armando Massarenti, Direttore inserto culturale Sole24Ore, del Dr. Marino Sinibaldi, Direttore RaiRadio3, della Prof.ssa Silvia Ronchey, Ordinaria di Civiltà Bizantina – Dipartimento di Studi Classici Università di Roma Tre.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle buone pratiche della diffusione culturale, l'audizione di alcuni ospiti d'eccezione, la cui presenza ci fa particolare piacere. Sono con noi il direttore dell'inserto culturale del Sole24Ore, dottor Armando Massarenti; il direttore di RaiRadio3, dottor Marino Sinibaldi; il sovrintendente del Teatro dell'Opera di Roma e Commissario straordinario della Fondazione Arena di Verona, dottor Carlo Fuortes; il presidente della Fondazione Fitzcarraldo, che è anche promotore della piattaforma ArtLab, dottor Bacchella. Ci raggiungerà fra poco anche la professoressa Silvia Ronchey. Ricordo a tutti noi che il 26 settembre scorso hanno portato la loro esperienza, dando inizio a questa indagine conoscitiva, il professor Asor Rosa, il professor Cardini e il dottor Giuseppe Laterza.
  Rivolgo, naturalmente, un saluto di benvenuto a tutti gli ospiti presenti e ai colleghi della VII Commissione e a quelli che della VII non sono, ma che partecipano, e do subito la parola al dottor Massarenti. Ricordo ai colleghi che il dottor Massarenti ha portato una sua memoria, che mettiamo in distribuzione.

  ARMANDO MASSARENTI, direttore dell'inserto culturale del Sole24Ore. Grazie. Sono onoratissimo di questo invito. Non so se sia il caso che legga questa memoria, oppure semplicemente che ve la illustri in maniera molto veloce.
  Vorrei che si parlasse di cultura un poco come cerco di fare io. Il sottotesto di tutta la mia attività come curatore del supplemento della domenica del Sole24Ore, se vogliamo, rispecchia il paradosso che ha in sé tutta la cultura: noi vogliamo essere un baluardo dell'alta cultura, perché il supplemento della domenica affronta temi molto importanti di letteratura, musica, filosofia e scienza, ma vuole essere, nello stesso tempo, qualcosa di molto vivo e vicino alla pratica e, quindi, anche all'umiltà che c'è nell'idea di una buona pratica. Si tratta di un prodotto artigianale e, come ogni prodotto culturale, viene costruito ogni settimana con fatica e con costanza nel cercare di mantenere sempre un livello culturale e qualitativo molto alto. In sostanza, vorrei sottolineare che alta cultura è anche un lavoro che implica fatica. Questo si dimentica molto spesso, perché si vede solo l'aspetto «prestigioso» della cultura, che è una parola orrenda, tra l'altro. Vediamo, invece, il lavoro pratico e soprattutto come viene realizzata questa mia idea.
  Ho iniziato questo intervento dicendo che «buone pratiche» è un'espressione di Pag. 4uso comune. Con buone pratiche si intendono cose che si fanno bene, che si costruiscono ogni giorno, o, nel mio caso, ogni settimana, avendo presente, però, che una buona pratica deve essere qualcosa di molto concreto, di molto pratico, che ha una visione lungimirante della cultura e anche della politica.
  Ho sempre fatto una sorta di esercizio, da quando lavoro – sono ormai trent'anni – nel Sole24Ore, nell'ambito della cultura. Secondo me, un articolo che esce su un giornale ha la seguente caratteristica: il giornale dura un giorno o una settimana, ma, se si parla di cultura, si sta parlando di qualcosa che dura per l'eternità, teoricamente. Il mio esercizio è sempre stato quello di provare a immaginare di rileggere quello che sto scrivendo adesso tra vent'anni e vedere se abbia ancora un senso. Questo dà l'idea del perché, quando si parla di cultura, ci si debba sottrarre non alla contemporaneità, perché, al contrario, si guarda solo al futuro, ma da determinati meccanismi che sviliscono la cultura, i saperi e i meccanismi della conoscenza.
  Come scrivo in questo intervento, nel supplemento della cultura della domenica non troverete tante notizie, ma tanti spunti di approfondimento e aspetti metodologici dei vari saperi che mostrano l'importanza della ricerca. Anche se la proposta culturale è effettiva, cioè si parla di temi e di contenuti ben precisi – Petrarca, filosofi e via elencando – quello che conta è mostrare, da un lato, questa idea di presidio della cultura alta e, dall'altro, l'idea della ricerca in corso e del fatto che la cultura non è altro che qualcosa in continuo e costante cambiamento. Quello che molto spesso è mancato in Italia negli ultimi decenni è stato proprio valorizzarla in maniera concreta. A parole è stata valorizzata tantissimo ma, in maniera concreta, non sono state valorizzate, da un lato, l'alta cultura e, dall'altro, la libertà e la nobiltà della ricerca pura che non mira immediatamente all'utile. Così come la scuola e l'università non devono mirare a formare immediatamente dei lavoratori, ma devono formare menti aperte, dotate di grande spirito critico, perché i veri lavoratori di oggi e del futuro sono quelli che potranno cambiare lavoro continuamente, perché i cambiamenti in corso sono talmente rapidi e veloci che non ha senso improntare tutto in un percorso formativo verso una competenza specifica che sarà obsoleta fra tre, quattro o cinque anni.
  Tutto questo ci fa capire che non è vano pensare che investire in cultura – non spendere, ma investire in cultura – sia qualcosa di fortemente strategico per il nostro Paese, soprattutto per un Paese come l'Italia. Su questo noi sul Sole della domenica abbiamo insistito parecchio. Vi ricorderete quando, nel 2012, abbiamo lanciato un manifesto per la cultura che si intitolava «Niente cultura, niente sviluppo». Naturalmente, noi possiamo riempire di contenuti di vario tipo questo binomio cultura/economia, ma il migliore modo è forse quello che ci ha suggerito il Presidente della Repubblica emerito, allora in carica, Giorgio Napolitano che diceva, proprio commentando il manifesto, che solo se riusciamo a considerare la cultura nel suo valore intrinseco come portatrice di valori indipendenti da tutto il resto, questa avrà un grande valore nel lungo periodo e avrà un grande valore anche economico. Se, invece, ci concentriamo su valori meramente utilitaristici e di utilità immediata, allora tutto questo svanirà.
  Per questo motivo c'è bisogno di una visione di lungo periodo, che purtroppo la politica spesso non ha. Bisogna dirlo. La politica ragiona in tempi molto, molto stretti, per una serie di ragioni ovvie per il suo ciclo. Tuttavia, la politica, secondo me, sarà sempre più costretta ad avere questa visione di lungo periodo; la crisi economica che c'è stata nell'ultimo decennio ha mostrato chiaramente che i Paesi che hanno reagito meglio sono proprio quelli che hanno investito in ricerca più a lungo e da molto più tempo e che hanno continuato a farlo. Ho detto in ricerca, ma intendo nei due aspetti che abbiamo citato.
  In Italia è chiaro che investire anche in tutto il settore dei beni culturali e della loro valorizzazione e tutela è importantissimo Pag. 5più che per altri Paesi, ma è altrettanto importante investire nella ricerca e soprattutto in ciò che rende efficaci e produttivi sul lungo periodo, anche in termini di PIL, i presupposti e i metodi della ricerca.
  Ci sono studi empirici molto importanti. Questo intervento è all'insegna di quanto le cose empiriche debbano collegarsi con le cose alte in maniera molto pragmatica. Ci sono studi che fanno capire molto bene quello che gli anglosassoni chiamano critical thinking (pensiero critico): un insieme di saperi che, tra l'altro, ho anche proposto di insegnare a scuola come elemento fondamentale. La parte filosofica di qualunque curriculum scolastico dovrebbe essere il condensato della tradizione filosofica che da Socrate a oggi ci spiega come si fa a pensare criticamente, con rigore e, nello stesso tempo, in maniera antidogmatica. Questo è il nucleo anche degli studi empirici svolti dal famosissimo studioso che oggi insegna in Australia, James Flynn, che ha studiato il rapporto tra intelligenza, o capitale cognitivo, e crescita dei Paesi sul lunghissimo periodo. Sono cinquant'anni che lui fa queste ricerche. Non è l'intelligenza in generale, ma è un'intelligenza molto particolare quella che fa crescere nel lungo periodo. È l'intelligenza legata al critical thinking, di cui è parte fondamentale quello che noi chiameremmo – l'abbiamo inventato in Italia, peraltro, con Galileo – il metodo scientifico.
  Questo può ingenerare un equivoco, che è ricorrentissimo, ossia la contrapposizione tra cultura scientifica e cultura cosiddetta umanistico-letteraria. In questa trappola credo di non essere mai caduto in tutta la mia carriera. Ho una formazione di filosofo della scienza e nel supplemento della domenica, che dirigo dal 2011, ma nel quale lavoro ormai da trent'anni, ho costruito pagine che si chiamano «Scienze della filosofia», le quali fanno capire bene quanto non esista questa contrapposizione. Anzi, questa contrapposizione viene meno proprio se risaliamo alle vere origini dell'Umanesimo italiano, come ha mostrato molto bene uno studioso che, purtroppo, ci ha lasciato qualche giorno fa, Ugo Dotti. Dal Trecento al Cinquecento si è costruita, proprio in Italia, una forma di sapere molto laica, tra l'altro scollegata dalle università, che invece in altri Paesi erano molto legate alla Chiesa, con una mentalità molto libera e con uno sviluppo di questo spirito critico che in parte poi è stato tradito proprio dal Rinascimento.
  Il Rinascimento non ha portato avanti quella sorta di proto-Illuminismo – così dice Ugo Dotti – e di proto-Risorgimento, ossia l'Unità d'Italia, con le divisioni che sappiamo. Ha mandato in fumo questa grande conquista dell'Umanesimo, che invece è stata raccolta con grande efficacia da altri Paesi che sono stati i motori della modernizzazione degli ultimi secoli: la Scozia e gli Stati Uniti. Quello stesso spirito umanistico, che è identico allo spirito scientifico, ha fatto sì che anche taluni valori di fondo legati alla civilizzazione – per me cultura è sinonimo di civilizzazione, di crescita civile – si siano coniugati con maggiore efficacia con la cultura generale.
  Credo che l'Italia abbia bisogno di questo e cerco di argomentarlo nella maniera più succinta ed efficace in questo mio intervento. Credo che anche le politiche della scuola e dell'università debbano essere ripensate. Dobbiamo reintrodurre un'università che non formi persone orientate al lavoro immediato, ma degli umanisti – diciamo pure così – dei veri umanisti che non odino la scienza, altrimenti sarebbero pessimi umanisti, come ce ne sono moltissimi in Italia. Spesso influenzano anche le politiche pubbliche perché vedono nell'Umanesimo qualcosa che somiglia molto alla posterità, a queste cose di cui si parla oggi, a una forma di relativismo molto forte, che invece ha dimenticato le vere origini: un sapere rigoroso, un sapere critico che ha le sue regole.
  Di questo, secondo me, una Commissione come questa dovrebbe occuparsi. È ovvio che debba occuparsi anche di università, ma credo che quello sia un tema trascurato negli ultimi anni. Si tratta di ridare alle università e a tutte le parti che costituiscono la cosiddetta cultura quella dignità di fondo che migliorerebbe anche, a mio parere, il rapporto tra politica e cultura. Molto spesso vediamo deliberare in Pag. 6Parlamento senza la minima considerazione dei fatti pertinenti. Come, ad esempio, nell'ambito biomedico. Se si guarda all'eurobarometro che misura la percezione della scienza nei vari Paesi, si vede benissimo che gli italiani, comprese le classi dirigenti – su questo ha insistito molto anche Ignazio Visco, il Governatore della Banca d'Italia – hanno questa carenza di capitale umano e di cultura generalizzata. Noi non conosciamo il metodo scientifico. Non conosciamo i trial clinici. Non sappiamo come funziona un trial. È ovvio che poi avremo delle discussioni pubbliche infinite, in cui il ciarlatano di turno è messo sullo stesso piano di chi, invece, ha studiato tutta la vita una determinata tematica. Questo per dire quanto sia strategico questo tema per la politica.
  Concludo ricordando la proposta che avevamo fatto noi del Sole24Ore insieme a Elena Cattaneo, senatrice a vita. Quando si parlava della riforma del Senato, proponevamo un Senato delle competenze, in cui fossero maggiormente rappresentate persone di cultura della scienza e degli altri aspetti della cultura che potessero incidere, senza far perdere tempo alla politica.
  Ritroviamo il senso del perché la cultura sia utile alla politica e viceversa, uscendo da un circolo vizioso che, a mio parere, oggi è piuttosto evidente.

  PRESIDENTE. Grazie, direttore. Grazie anche per questo allargamento del quadro di riferimento; perché, come sapete, la Commissione si occupa di cultura e di beni culturali, ma anche di scuola, università e ricerca. Per noi i due temi sono strettamente collegati.
  Saluto anche la professoressa Ronchey, che è appena arrivata. Grazie della sua presenza. Prima di passare la parola al direttore Sinibaldi, vorrei presentare i colleghi che sono in Commissione, gli onorevoli Nicchi, Bossa, Vezzali, Vignali, che è ospite della Commissione per questa occasione, Marzana, Bonaccorsi, Malisani, Rocchi, Carocci, Crimì e Ghizzoni. Do la parola al direttore Sinibaldi.

  MARINO SINIBALDI, Direttore RaiRadio3. Buongiorno. Grazie, naturalmente, anche da parte mia dell'invito e anche dell'affetto, a questo punto. Il mio lavoro è fare il direttore della radio. Sono stato presidente del Teatro di Roma nello scorso triennio e faccio parte anche di organizzazioni di festival culturali. Questo è un punto di vista, secondo me, molto interessante per guardare lo stato della cultura, della diffusione dei consumi culturali e della consapevolezza culturale. Ringrazio anche perché mi fate parlare dopo Armando Massarenti, che ha sgrossato la parte culturale e storica del problema. Mi permette, quindi, di concentrarmi sul presente.
  Bisogna partire da un fatto: i problemi della cultura e della diffusione della cultura, i dati e gli elementi scoraggianti che misuriamo in questo campo, derivano da due fattori, uno di tipo simbolico e uno di tipo materiale e i due fattori si alimentano a vicenda. È difficile affrontare uno solo dei due e proporre misure e politiche concrete, se non si riesce ad affrontare un elemento di svalutazione di alcuni dei valori della cultura; o meglio, senza fare storia, se non si affronta il problema di valorizzare, ossia di dare continuamente valore, ai contenuti della cultura: lo studio, la lettura, la concentrazione e la qualità della conversazione pubblica – che è un tema gravissimo nel nostro Paese, in questo momento – il linguaggio e la cura delle cose. Penso alla tradizione e al patrimonio storico-artistico che ereditiamo. Se queste cose non assumono socialmente valore, se non sono riconosciute come un elemento di valore collettivo, è difficile poi avere misure che incidano davvero su dati, i consumi, la qualità e l'istruzione. Questo è un dato strutturale antico, naturalmente, che sembrerebbe immobilizzarci. In realtà, abbiamo molti dati che, invece, indicano una mobilità di questo problema. Abbiamo, per esempio, una controprova storica. Alcuni dei dati essenziali – mi sono occupato essenzialmente di libri nelle trasmissioni che citavate – come quello della lettura, sono cresciuti. I primi dati di cui noi disponiamo sulla lettura sono di metà degli anni Sessanta. Li produrrò quando consegnerò la memoria scritta, che stavo preparando. A metà degli anni Sessanta i primi Pag. 7dati che abbiamo – prima non c'erano statistiche – indicano che i lettori in Italia erano il 15-16 per cento della popolazione. Sono cresciuti, tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta, fino al 41 per cento circa e poi sono rimasti immobili. Uno dei problemi gravi del nostro Paese è il basso tasso di lettura rispetto ai Paesi con noi confrontabili. C'è stato un momento di valorizzazione della cultura in quanto elemento di consapevolezza collettiva e anche di mobilità e di promozione sociale. Le politiche pubbliche e quello che faccio nel mio mezzo di comunicazione possono rallentare o accelerare il processo, ma i processi, secondo me, hanno questa radice, che peraltro spiega un altro dato anch'esso provvisorio.
  Qualche tempo fa, cercando di mettere insieme i dati, da un lato, dell'investimento pubblico variamente culturale, non solo la famosa parte del PIL, e, dall'altra parte, dei consumi privati, cioè di quello che le famiglie e i singoli investono in cultura, ossia informazione ed educazione, mi sembra di aver capito questo: mentre la distanza dei dati nazionali italiani rispetto alla media dei Paesi con noi confrontabili è di circa il 20 per cento in meno (il nostro svantaggio nell'investimento pubblico è del 20 per cento) lo svantaggio dell'investimento privato è del 40 per cento. Le famiglie investono in cultura e danno valore alla cultura meno di quanto non faccia l'istituzione politica.
  Tra l'altro – questo l'ho scritto una volta – è anche una sorta di voto quotidiano che le famiglie esprimono. Mi sembra che i consumi, ahimè – non sono un consumista – siano una sorta di plebiscito quotidiano, per parafrasare Renan, del modo in cui la gente individua cose importanti e non. Dico sempre nelle occasioni pubbliche – non lo dovrei dire qui perché voi siete i responsabili – che è inutile prendersela con la politica se uno non investe in cultura. Se uno non spende in cultura, ma investe in altro, indica alla politica che quello per lui è meno importante. Come si rimuove questo problema? Considero sempre la cultura come un elemento che ha i suoi contenuti. Facendo radio, occupandomi di libri con una trasmissione e dirigendo un'intera rete, per me cultura è soprattutto una serie di contenuti: l'arte, la letteratura, la scienza – così sta tranquillo Armando Massarenti – il teatro e soprattutto la musica, a Radio3. Sono trattati innanzitutto come elemento di piacere e come elemento di socialità. So che appare generico, ma è quello che cerchiamo di fare ogni giorno. Il piacere è quella forma di gratificazione che deriva dal godimento e dalla conoscenza. Il problema è che la conoscenza ha smesso di produrre mobilità e, quindi, ha perso il suo elemento di qualità sociale, spendibile e valorizzabile all'interno delle famiglie e che quell'elemento di godimento – prendiamo la musica – chiaramente si è moltiplicato. Già nella mia infanzia dire che la cultura o la musica erano un godimento mi metteva in imbarazzo, perché mia madre godeva con delle canzonacce che mi sembravano schifezze mentre a mia volta godevo con delle canzoni sentendo le quali mia madre si tappava le orecchie. Quindi, c'è un elemento soggettivo. Questo è molto importante nel costruire la comunicazione culturale, perché questo elemento di pluralismo, che è positivo, si è moltiplicato fino a produrre, anche grazie alle possibilità del digitale e della rete, una «balcanizzazione», come si dice, – anche se è un'offesa ai poveri Balcani – intendendo, con ciò, una parcellizzazione e una moltiplicazione.
  Il caso di Radio3 è esemplare, perché è una radio nata essenzialmente per la musica classica. Quando, negli anni Cinquanta, Radio3 fu fondata – un'idea geniale, secondo me – fu il primo prodotto, come dicevano allora, differenziale della Rai. Fu il primo canale non generalistico. Allora esisteva solo la radio ed esistevano due canali radio. Non si chiamavano nemmeno Radio1 e Radio2, ma Rete Rossa e Rete Azzurra ed erano identici. È incredibile pensare che un'azienda come la Rai – spero che la Commissione di vigilanza, almeno nella parte qui rappresentata, ne prenda atto – nel 1950, quando pensò di proporre qualcosa di (come si direbbe oggi) tematico, non scelse la musica pop – ma forse negli anni Cinquanta non c'era –, non scelse le canzoni, non scelse l'informazione: scelse la cultura e non fece nient'altro. Pag. 8
  Ereditiamo, quindi, anche una tradizione ingombrante, perché quella era stata fatta per un'idea di pubblico e di educazione di pubblico completamente diversa. Negli anni Cinquanta non c'erano il miracolo economico, la scolarizzazione di massa, la modernizzazione dei consumi, i mezzi di trasporto e di comunicazione. Ereditata quella tradizione, si tratta di smobilitarla, anche in parte, e di renderla accessibile anche a gruppi e generazioni diverse. Tengo molto all'elemento della socialità, perché è un dato che, secondo me, è molto importante. Ovviamente, ciò ha a che fare con il fatto che lavoro in un mezzo di comunicazione di massa; ma per me comunque è un dato che la cultura sia qualcosa che rompe l'isolamento e la solitudine, nel senso che mette in comunicazione, dal punto di vista ideale della lettura, ma anche dal punto di vista materiale.
  Un dato che vediamo crescere molto, l'unico dato veramente in crescita nei consumi culturali, in senso netto, in questi anni, è quello che riguarda non tanto gli spettacoli dal vivo, che sono un concetto un po’ ministeriale, quanto i festival, le manifestazioni pubbliche e persino le letture pubbliche. Sto parlando della lettura dei classici, il che sembrerebbe contraddire tutta la dimensione editoriale e anche accademica della ricezione dei classici.
  Quello è un evidente valore della cultura come socialità, che non si è tradotto in un aumento dei consumi culturali – è un dibattito molto aperto; l'ha ospitato anche Armando Massarenti, qualche tempo fa, sul Sole – e, probabilmente, ci dice qualcosa. Quando sono cominciati i festival culturali e letterari, abbiamo tutti pensato che questa popolarizzazione del libro avrebbe generato anche qualche effetto. Invece no e, anzi, la lettura è diminuita, da quando esistono i festival. Hanno prodotto un effetto negativo. Ho persino una spiegazione dell'effetto negativo, ma è molto noiosa. Sta nel fatto che hanno avuto un ruolo di sostituzione della lettura. Questo è molto interessante. Ricordo, quando ancora facevo le trasmissioni, una signora di Torino che era andata a sentire una bellissima conversazione con uno scrittore israeliano: Yehoshua. Aveva sentito questa conversazione e me l'ha raccontata alla radio. Quando le ho chiesto se avrebbe comprato il libro, lei ha risposto: «No, il libro non lo compro». Ora lo capiamo tutti. È ovvio che sia così, ma prima nessuno ci pensava, tant'è che si continuano a fare presentazioni, non intuendo, o forse ormai soprassedendo sull'effetto nullo o negativo che hanno sulla lettura. Comunque, a parte l'ironia, pur non avendo letto il libro, quel tipo di contenuto emotivo, conoscitivo, sentimentale o razionale che la lettura o l'esperienza di quello scrittore suscitavano, le è stato trasmesso.
  Personalmente vivo di libri. Ho fatto per vent'anni il bibliotecario, prima di lavorare alla radio. Detesto, però, il feticismo dei libri. Ci sono dei contenuti che, per fortuna, si salvano anche se cala la lettura. È importante affrontare questo elemento, cioè pensare alla cultura, come elemento di piacere e di socialità. Ogni volta che, ahimè, c'è un attentato o un momento di tensione in questo Paese, tiriamo fuori una specie di nostro slogan – veramente sarebbe un hashtag, ma non so se posso pronunciare questa parola – che è «Più cultura, meno paura». Non si tratta solo di ascoltare Radio3 e diventare coraggiosi, anche se un poco ci credo, ma di cominciare ad avere una razionalità delle paure, che è un bell'ossimoro. Deriva dal fatto che la socialità, gli elementi di relazione che la cultura crea mi sembrano gli unici in grado di sgretolare l'ansia, l'angoscia e la paura del diverso e del futuro che, sostanzialmente, sono le due grandi paure che ci paralizzano.
  Questo ha portato, nel caso di Radio3, a una modifica, lenta ma profonda, del linguaggio, perché tutte queste cose che sto dicendo non si risolvono con proclami e nemmeno con singole misure concrete. Si risolvono con una modifica continua e faticosa del linguaggio che la cultura ha, mentre il linguaggio che la cultura aveva, per esempio, nelle trasmissioni radiofoniche era intimidatorio ed elitario. Sono cresciuto come ascoltatore della radio e ho subìto quell'intimidazione. Nel mio caso, quell'intimidazione della cultura tradizionale Pag. 9 ha prodotto il fatto che, almeno in parte, ho chiesto di accedervi; ma credo che oggi, senza entrare nel merito dei linguaggi prevalenti, un linguaggio espositivo, per esempio, puramente di trasmissione della cultura, sia un mezzo che non trasmette l'elemento di piacere e di socialità. Per esempio, nel nostro programma di Radio3, cerchiamo di spostare il più possibile la trasmissione culturale (la cosa ha un doppio senso, parlando di radio) dall'elemento dell'esposizione a quello della narrazione e della partecipazione. Si tratta di fare della cultura un elemento di narrazione – parola, ahimè, abusata – qualcosa che rompa la dimensione solo intellettuale, solo elitaria o solo razionale, e di partecipazione, lasciando che essa stessa si avvantaggi, nel caso dei mezzi della comunicazione con noi, dell'enorme possibilità di partecipazione attraverso l'infinita rete di network sociali che le persone hanno a disposizione. Questa modifica ha prodotto qualche effetto. Molto lentamente, molto gradualmente, adesso abbiamo quello che si dice un reach, ossia raggiungiamo ogni giorno 1.442.000 ascoltatori. Questo può essere scritto. È il dato del secondo semestre del 2016, l'unico che sono autorizzato a fornire. C'è un dato che non sono autorizzato a fornire, che è persino migliore, dei primi mesi del 2017.
  Nella radio gli ascolti sono calcolati in un modo molto sommario, perché derivano da telefonate nelle quali si chiede all'intervistato che cosa abbia fatto il giorno prima. Io stesso non saprei rispondere con esattezza a questa inchiesta demoscopica. Che cosa ho fatto ieri lo so, ma non sono in grado di dire che cosa ho fatto nei quarti d'ora – sapete come sono fatte le inchieste demoscopiche – per esempio che cosa ho fatto in quel quarto d'ora della mattina, io stesso, che pure lo faccio. Insomma, il grosso dell'ascolto considera le persone che ogni giorno, almeno un quarto d'ora, si connettono con noi. Non è un dato di ogni singola trasmissione, ma è un dato che cresce. Quella è la tendenza, quello che mi interessa. In genere il pubblico radiofonico cresce poco e soprattutto si distribuisce sempre di più. Già la stabilità sarebbe un elemento, dal punto di vista dello share, positivo. Il fatto che il nostro cresca, seppure poco, di qualche migliaio di persone, è molto significativo, ma soprattutto è molto significativo che cresca su piattaforme diverse.
  Vi saluto con questo elemento. Uno dei problemi della cultura è il suo collegamento troppo stretto a forme, supporti ed elementi di trasmissione che si contaminano poco con quelli nuovi. Nel caso della radio, il fatto che, per sua natura tecnologica, sia in grado – come si dice – di ibridarsi con le nuove tecnologie per noi è molto importante. Un nuovo pubblico lo raggiungiamo solo su piattaforme diverse. Esiste tutto un mondo, quello dei podcast, cioè dell'ascolto radiofonico differito, che è diverso da tutte le altre forme differite, compresa quella televisiva, che in America, per esempio, ha un successo enorme, anche per noi inspiegabile. Si personalizza l'ascolto radiofonico. Questo per me è molto significativo perché è un elemento di linguaggio, ma è anche è un elemento che torna all'essenza della trasmissione culturale, il fatto di trasmettere qualcosa in modo che venga apprezzato come elemento di qualità, di valore e di piacere della vita.
  Per questo motivo, secondo me, sono importanti, tra le tante misure economiche e culturali adottate, quelle che presuppongono che noi alla cultura diamo un valore e le attribuiamo un prezzo, cioè investiamo. Penso che nel medio periodo – non nel breve – misure come la Carta dei docenti o l’app diciottenni, ossia misure con cui si danno un po’ di soldi per la cultura perché si pensa che la cultura sia importante, possano avere risultati molto rilevanti. Bisogna avere la pazienza di aspettare il medio periodo.

  PRESIDENTE. Grazie, direttore Sinibaldi.
  Mi pare che ci siano veramente moltissime questioni alle quali questa Commissione ha lavorato e su cui può avere dei riscontri. Lei ha parlato di piattaforme. Vorrei che intervenisse adesso Ugo Bacchella, presidente responsabile dell'area formazione della Fondazione Fitzcarraldo, ma anche fondatore della piattaforma ArtLab, Pag. 10nata nel 2006 e unica nel suo genere, perché non è settoriale e non è espressione di interessi di categoria. Do la parola al presidente Bacchella.

  UGO BACCHELLA, Presidente Fondazione Fitzcarraldo. Grazie. Buongiorno. Sono facilitato nel mio compito dai due interventi che mi hanno preceduto. Tengo a precisare che alcune cose che dirò non devono essere lette come una visione diversa e quasi contrapposta rispetto a ciò che ha detto Massarenti. Sono, invece, un altro pezzo dell'ecosistema culturale.
  Come punto di partenza, mi piacerebbe che la Commissione concentrasse la sua attenzione sulla valorizzazione, di fruizione e di partecipazione di consumi culturali, come presupposto senza il quale è difficile capire i fenomeni che sono in corso: vale a dire che tutti i fenomeni di creazione, produzione e di fruizione artistica e culturale sono radicalmente cambiati e cambieranno ancora. Questo si vede non tanto in Italia ma, ovunque altrove; è un intreccio il cui elemento detonatore fondamentale è costituito dal digitale. Non mi riferisco solo alle opportunità che offre il digitale, ovviamente, ma anche ai fenomeni di cambiamento del gusto. Ripeto, non è un fenomeno italiano. Che ci siano state delle profonde modifiche nel modo in cui le persone consumano, partecipano e fruiscono di cultura è un dato rilevabile dappertutto. Di fronte a questo bisogna stare molto attenti a non avere l'atteggiamento di chi si rinchiude nella torre d'avorio e guarda a volte con disprezzo, o comunque non vuole capire che cosa c'è esattamente dietro questi fenomeni.
  Per me questo si esemplifica in un fatto che credo sia avvenuto vent'anni fa, nella riunione annuale dei teatri. Il sistema tedesco è fondato su 55 teatri, che non sono i nostri teatri stabili, perché hanno una produzione eterogenea. In quel grande convegno si presentò un operatore, il quale disse: «Bisogna introdurre degli elementi di novità. Io porterò il musical in Germania». Ilarità generale del pubblico: il musical in Germania, figuriamoci! Questo signore, negli anni successivi, non solo ha portato il musical, ma ha costruito sei teatri finanziandosi con i ricavi, portando il musical a essere una quota significativa del consumo di musica in Germania. In quell'occasione, ricordo che l'atteggiamento del presidente dell'associazione dei teatri tedeschi era di disprezzo, del tipo «Noi siamo il Paese di Schiller e di Wagner. Il musical è un'americanata. Che cosa importa a noi del musical?» Bisogna avere l'umiltà di capire questi fenomeni anche quando appaiono legati alle mode e capire che cosa c'è dietro.
  Provo a tratteggiare rapidamente il cambiamento. La questione è che nella creazione, produzione e distribuzione di arte e cultura in Italia stanno cambiando, e sono già cambiati molto, i soggetti, l'oggetto e il campo di azione. Mi spiego. I dati ufficiali SIAE – a parte le difficoltà legate al loro reperimento ed elaborazione – non danno conto della realtà, come diceva già Sinibaldi, perché essi rispetto, per esempio, alla partecipazione ai festival culturali sfuggono in grandissima parte, pur essendo dati imponenti. Stiamo parlando non di qualche centinaio o di qualche migliaio di persone. Chi è stato al Festival della filosofia di Modena sa che si parla di migliaia di persone per ogni singolo appuntamento. Si parla di un insieme di quasi 200.000 presenze (non persone, ma presenze). Lo stesso vale per moltissimi altri luoghi.
  Alcuni degli innumerevoli – sono ormai centinaia in Italia – centri di produzione culturale, che sono a cavallo tra centri di aggregazione sociale e produzione culturale, raggiungono numeri importanti. Vi cito solo un esempio: le Officine Corsare di Torino, che non credo abbiate mai sentito nominare, sono un circolo nato come universitario che ha 22.000 soci. Ha più soci di quelli del Teatro Regio e del Teatro Stabile e svolge un'attività a vario titolo culturale, che va dai concerti dal vivo al teatro, alle degustazioni, a qualsiasi cosa. Dal mio punto di vista, non si possono trascurare 22.000 giovani torinesi che frequentano con assiduità questo posto, perché questi posti orientano poi i consumi, l'educazione al gusto e le modalità di fruizione. È molto importante, quindi, considerare questi nuovi soggetti, questi nuovi luoghi e i nuovi oggetti. Pag. 11Ci sono forme di produzione e di creazione artistica e di produzione culturale che sfuggono alle tradizionali categorie. Delle categorie di attribuzione dei finanziamenti statali non parliamo. Questo è un problema generale, non solo italiano.
  Un altro elemento, forse il quarto, ma che riguarda tutti i tre punti precedenti, sono le fonti di finanziamento. Se le andate a vedere, notate che questo tipo di creazione artistica e di produzione culturale, questi spazi fisici e questi soggetti non esistono nel panorama del finanziamento pubblico statale e non esistono quasi nei finanziamenti regionali: si fanno strada in alcune amministrazioni locali. Stanno diventando, invece, molto importanti nei finanziamenti e nelle attività delle fondazioni di origine bancaria. Non tutte, ma una quota di esse vi investe ormai alcuni milioni di euro. Parlo di singole fondazioni bancarie. Ce n'è una che ha un'area chiamata Innovazione Culturale, che ha un budget di 6 milioni di euro. Ci sono programmi come Innovazione Culturale, Culturability ed altri che, hanno, a loro volta, funder nell'insieme delle fondazioni con budget annuali di 2,5-3 milioni. Sono cifre importanti, che non esistono nel panorama pubblico. Queste fondazioni, in virtù del loro essere soggetto diverso rispetto al pubblico, hanno provato a raccogliere la domanda che veniva da questi nuovi soggetti.
  Questo è il primo punto. Bisogna cercare di capire questi luoghi, questi spazi, questi centri, perché intercettano una domanda culturale – sono pienamente d'accordo con Sinibaldi – che non è soddisfatta dall'istituzione tradizionale. Se prendete i festival culturali, i principali, dell'economia, della giurisprudenza, della filosofia, della mente, non può sfuggirvi che nessuno di questi festival è organizzato da un'istituzione culturale o da un'università.
  Il Festival della filosofia l'ha inventato il Collegio San Carlo. Il Festival della mente è nato nel Collegio San Carlo, ma fuori dall'ambito accademico. Questi festival – questa è la mia interpretazione – sono nati dal venir meno, o in alcuni casi dall'assenza, delle Istituzioni accademiche sul terreno della divulgazione culturale e scientifica, che è stato occupato, non a caso, da altri soggetti. Non solo, ma, in quasi tutti questi festival – se andate a vedere la composizione delle fonti di finanziamento, ve ne accorgete – molto spesso l'amministrazione pubblica è una quota parte, addirittura in minoranza. Questo perché, di fronte all'assoluta rigidità delle strutture di finanziamento pubbliche, alcuni soggetti privati, o semiprivati, hanno scelto di sostenere queste nuove forme di produzione e di distribuzione culturale, che producono effetti che, come diceva Sinibaldi, non sono facili da valutare.
  Vi faccio un esempio. Ero a Mantova, l'altro giorno. Come sapete, il Festival della letteratura è il più importante d'Italia, il più radicato, il più importante. Ha celebrato i vent'anni l'anno scorso. Il Festival della letteratura di Mantova non ha attività permanenti organizzate e strutturate durante l'anno. Tuttavia, se osservate i dati sui gruppi di lettura, che erano 80 vent'anni fa e oggi sono circa 1.500 – gruppi di persone che si riuniscono a leggere collettivamente – vedrete che, su 1.500 in Italia, 80 sono in provincia di Mantova. È evidente che c'è un rapporto tra le due cose. Questo indica che i meccanismi di diffusione della cultura non seguono regole meccaniche in base alle quali un festival produce direttamente delle iniziative e queste aumentano il consumo culturale nel territorio: ma c'è un effetto di lungo periodo. Su questo evidentemente bisogna lavorare.
  Il tema centrale – e con questo chiudo – resta, com'è già stato sottolineato, la ristrettezza della partecipazione del consumo. Bisognerebbe che voi e qualsiasi operatore culturale teneste sempre presenti i dati sulla partecipazione alla cultura in Italia. Finché i dati continueranno a indicare che una persona su cinque entra, nell'arco di un anno, in un teatro o in un luogo di cultura, non andremo da nessuna parte. Quello che è successo in questi anni, ossia l'aumento della domanda, non ha ampliato il pubblico della cultura, ma, come diceva Massarenti, ha aumentato la quantità di consumo dei singoli consumatori.
  A Torino c'è uno straordinario strumento, che non c'è da nessuna parte nel Pag. 12mondo: l'abbonamento musei, che ha 100.000 tessere locali, non rivolte ai turisti. Se analizzate, come abbiamo fatto negli anni, chi sono questi 100.000, notate che non sono 100.000 nuovi consumatori di cultura. Sono persone che sono state fidelizzate – per usare un termine aziendale – a un consumo di cultura e, quindi, si riconoscono in questo. Questo succede con molti altri casi di questo genere.
  Pertanto, diventa centrale intervenire sull'educazione al gusto e sull'educazione culturale. Se non ci si mette mano attraverso la scuola, non saranno certamente le audience development di alcuna istituzione culturale a poterlo fare.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Bacchella, anche per tutte queste ultime osservazioni. Do subito la parola a Carlo Fuortes, il quale ha svolto molti ruoli nella sua vita. È stato anche in audizione presso di noi come Parco della Musica, Fondazione Musica per Roma e come Commissario straordinario della Fondazione lirico-sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari e poi del Teatro dell'Opera di Roma. Quindi, ha al suo attivo una serie di esperienze per noi molto importanti. Prego, sovrintendente.

  CARLO FUORTES, Sovrintendente Teatro dell'Opera di Roma. Grazie dell'invito. In linea con quello che hanno detto coloro che mi hanno preceduto, che condivido largamente, credo innanzitutto che sia molto interessante che questa Commissione si ponga il problema della diffusione e della domanda dei consumi culturali. Questa attenzione è stata il grande assente nelle politiche culturali degli ultimi cinquant'anni e credo sia anche uno dei motivi per cui – parto dal dato che citava Bacchella – la partecipazione è così scarsa. Diceva che il 20 per cento degli italiani va una volta l'anno in un teatro. Non parlo di abbonamenti. Se parliamo della musica classica e dell'opera, siamo all'8 per cento. Diciamo che un italiano su cinque frequenta un servizio culturale finanziato dal pubblico. L'incredibile deduzione logica è che la cultura è pagata da chi non la frequenta. Non stiamo parlando della sanità che, pur con molti problemi, tutti gli italiani, o moltissimi di loro, per fortuna, la usano. Invece, la cultura pubblica è frequentata dal 20 per cento ed è pagata da tutti; perché, in larghissima parte, le istituzioni culturali di cui parliamo, ossia tutto lo spettacolo dal vivo, i musei, le mostre e via elencando hanno un'altissima incidenza di finanziamento pubblico. Il fatto che per la prima volta si guardi il problema dal punto di vista della domanda credo sia una operazione molto interessante. Perché dico «per la prima volta»? Perché, come sapete perfettamente, nell'allocazione delle risorse pubbliche, nel sistema di finanziamento pubblico, il punto di vista della domanda non è mai considerato. In qualsiasi criterio di valutazione gli unici parametri sono quelli dell'offerta. Se un teatro di opera fa 100 recite e per ogni singola recita è pieno o, viceversa, un teatro fa 100 recite di lirica con un solo spettatore per recita, il finanziamento dello Stato è assolutamente identico. Non c'è mai stato alcun parametro dal punto di vista dello spettatore. Lo spettatore, il visitatore, il cittadino è, ovviamente, il soggetto per cui c'è il finanziamento pubblico. Quando si parla di legittimazione sociale di un intero settore, la questione è abbastanza ben spiegabile. Quando si criticano questi finanziamenti, c'è una base di motivazioni.
  Faccio alcuni esempi. Per lungo tempo sono stato amministratore delegato dell’Auditorium Parco della Musica. Il Parco della Musica è un centro di offerta culturale che ha intercettato una domanda molto diversa da quella tradizionale. Ha fatto tutto quello che normalmente non si fa in un centro culturale pubblico, perché non si faceva teatro di prosa, teatro lirico, o danza classica. Si faceva musica classica. Io ero amministratore delegato di Musica per Roma, come ha ricordato la presidente. Accanto avevamo l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. La cosa straordinaria è che – non dovrei dirlo io, ma ormai è passato – è stato un successo. Abbiamo anche avuto grandi ricavi di tutti i tipi, ma non c'era alcuna possibilità di avere un euro di finanziamento statale. Tutto quello che si faceva, dai festival alle lezioni – si è creato anche un nuovo modello di gestione di un Pag. 13centro culturale – non era riconducibile all'interno dei parametri ministeriali che erogavano i finanziamenti.
  È stato detto in precedenza, anche meglio di come lo posso dire, che il mondo è totalmente cambiato e la domanda del pubblico è totalmente cambiata. La risposta dell'offerta culturale pubblica rimane, però, quella ottocentesca. Forse arriviamo al Novecento. Mi riferisco a prosa, lirica, musica classica e danza classica, perché quella contemporanea ha grandissimi problemi.
  Devo dire che si vedono dei cambiamenti, per fortuna. Il Codice dello spettacolo sta introducendo delle innovazioni, ma non so se basteranno. La cosa importantissima credo sia innovare di continuo. Lo diceva Marino Sinibaldi: lui è riuscito a innovare totalmente il progetto di Radio3 perché era all'interno di un sistema captive chiuso e, quindi, poteva farlo, protetto in qualche modo; chi, invece, si deve confrontare con i finanziamenti pubblici, è impossibilitato all'innovazione.
  Faccio un altro esempio, molto banale. Attualmente sono sovrintendente al Teatro dell'Opera di Roma. Una delle cose più belle che è andata su tutti i giornali del mondo è un progetto che si chiama «Opera Camion». Abbiamo immaginato un TIR, che può andare in qualsiasi piazza di Roma. Si apre la parte lunga e si trasforma in un palcoscenico. C'è un'orchestra sotto, ci sono dei cantanti che vengono dal nostro Young Artist Program. È un progetto che è stato citato da tutti i giornali. Il New York Times gli ha dedicato tutta la seconda pagina. Ebbene, questo progetto non può avere alcun tipo di finanziamento pubblico. Perché? Perché non rientra nei parametri, perché non raggiunge i 48 elementi, perché alcuni sono giovani, perché non si «sbiglietta». Questa è la cosa fantastica. Poiché non si sbiglietta, non può avere un euro di finanziamento pubblico. La deduzione logica è quello che dicevo: il sistema non incentiva l'innovazione alla diffusione culturale e all'allargamento culturale.
  Credo sia fondamentale che questa Commissione inizi a interessarsi al problema e a guardarlo dal punto di vista della domanda. Lo dicevano tutti quelli che mi hanno preceduto. Ritengo che le leggi delegate, cioè tutte quelle leggi che attueranno il Codice dello spettacolo, dovranno assolutamente tener conto di questo. Dovranno allargare la possibilità di innovare. È assolutamente indispensabile.
  Marino Sinibaldi e Ugo Bacchella dicevano che, in realtà, tutto questo sforzo ha prodotto poco in termini di risultati. Dobbiamo considerare, però, che tutti questi servizi consumano una risorsa che non è il denaro, ma una risorsa molto scarsa e incredibilmente competitiva: il tempo. Tutti questi servizi, a differenza dei prodotti di consumo, non possono avere un atteggiamento consumistico. Non posso, ovviamente, acquistare più di quello che consumo, che è tipico dei beni. Il libro lo consente. Quanti libri sono stati venduti che non sono stati letti? I servizi culturali questo non lo possono fare, a meno che non ci sia un matto che va a comprare biglietti all'opera e poi non ci va.
  C'è, quindi, un'enorme competizione sul tempo libero. So perfettamente che, quando faccio Fra Diavolo all'Opera di Roma, sono in competizione sul tempo libero con Netflix, con la pizzeria, se si parla di un giovane con la discoteca, e via elencando. Se il sistema non si innova, poiché il mondo cambia, succede quello che è stato detto e la partecipazione continuerà a diminuire.

  PRESIDENTE. Grazie, sovrintendente Fuortes.
  Abbiamo l'ultima ospite della giornata di oggi, la professoressa Silvia Ronchey, una medievista che insegna a Roma Tre. È anche una straordinaria divulgatrice in senso alto. Ha sempre tenuto conto, mi pare, nella sua produzione e nella sua vita sia della cultura alta, sia di un coinvolgimento verso un pubblico più ampio.

  SILVIA RONCHEY, Ordinaria di Civiltà Bizantina Dipartimento di Studi Classici Università di Roma Tre. Ringrazio la presidente per questa possibilità di audizione. Sarò molto breve. Come vedete, non ho portato appunti, ma ho portato persone. Ne ho portate tre, tre appunti viventi, anche perché credo che l'opportunità che viene offerta Pag. 14 a noi cittadini, a un cittadino quale io sono, di confrontarci direttamente con la nostra rappresentanza solleciti, ancor prima che un impulso a riferire su ciò che riusciamo a fare e a ottenere e ciò che studiamo di fare e di ottenere, una espressione di rammarico piuttosto profonda per quello che, invece, non riusciamo a fare o non riusciamo a ottenere, per i problemi che non riusciamo a risolvere e per i quali forse voi, nostri rappresentanti, potete aiutarci a trovare una soluzione.
  Prima si parlava delle mancate performance dell'accademia. Si parlava dei giovani, nuovi consumatori e nuovi utenti di cultura, anche se la parola «consumo» dà l'idea che la cultura si consumi, mentre per fortuna non si consuma, anzi, si alimenta via via che viene trasmessa. È vero, le università sono state e sono tuttora inerti da questo punto di vista. Fin dall'inizio io, e non soltanto io, ho un'interpretazione della funzione di docente universitario, che ci viene conferita dallo Stato, ossia dai cittadini (prendiamo uno stipendio, anche se magro, per questo, e cerchiamo di fare del nostro meglio) che non è certamente soltanto quella di porsi in un'aula e parlare di temi specialistici, senza tenere conto né dei cambiamenti della trasmissione del sapere, né dei rischi di un'interruzione della catena tradizionale di trasmissione del sapere.
  Fino a poco tempo fa, ma direi tuttora, un professore universitario che andasse a un festival di letteratura, che parlasse in pubblico, che andasse in televisione, che parlasse alla radio, che scrivesse sui giornali era un appestato. Rischiava – in genere, il rischio non era soltanto corso, ma accadeva – di non vincere un concorso universitario, perché tutto questo era visto come incompatibile. Adesso le cose sono un po’ cambiate. Esiste la terza missione, per esempio, che però malvolentieri è recepita, fra l'altro, dalle parti più tradizionali all'interno degli atenei più tradizionali. Io credo, molto brevemente, che il compito di un professore universitario, che è quello di un intellettuale che trasmette cultura, sia curare l'iniezione iniziale, l’imprinting, perché è dai banchi dell'università che nascono non soltanto i giovani intellettuali, ma anche i bisogni di cultura. Si tratta di indurre questi bisogni e di sopperire a una serie di lacune che la società evidentemente ha procurato, o che comunque il nostro mondo di oggi procura. Bisogna, quindi, fare lezione all'università, scrivere sui giornali, fare conferenze specialistiche, fare conferenze per il largo pubblico, parlare in tutti i media possibili, essere presenti sul web, tenere presente tutto quello che accade, scrivere libri estremamente scientifici e conoscere, quindi, molto bene la propria materia e anche avere una serie di relazioni internazionali che consentano ai nostri studenti di formarsi in tutto il mondo, ma poi di tornare, anche perché i nostri studenti in molte materie sono fra i più apprezzati nel mondo. Sono quelli che vincono più borse di studio. Sono quelli che più vengono promossi e anche spesso invogliati a restare, a cui vengono proposti i lavori. Credo che questo sia un dato statistico, che personalmente posso constatare. Bisogna scrivere anche libri per il largo pubblico. Tutto questo è piuttosto faticoso, ma si fa volentieri, nonostante la difficoltà che spesso l'istituzione universitaria stessa frappone sul piano psicologico dal punto di vista tradizionale. Nonostante tutto questo, alla fine di questo iter, noi falliamo quasi sempre.
  Vorrei presentarvi brevemente i tre collaboratori che ho portato. Parto dal più giovane. Il dottor Francesco Monticini è un esempio di quello che noi all'Università vogliamo fare, un esempio ben riuscito. Ha fatto un iter di studi molto brillante. Si è laureato, si è specializzato a Siena, le sue tesi hanno avuto la lode e la dignità di stampa. Ha vinto un dottorato a Roma Tre, che sta ultimando, in co-tutela con l'École des hautes études en sciences sociales a Parigi, che pure lo vorrebbe trattenere. È stato ad Harvard, ha avuto borse di studio in tutto il mondo. Ha girato, ma è tornato qui. Vuole rimanere qui e vuole continuare a lavorare qui. C'è un piccolo problema: non c'è alcuna possibilità che dopo il suo dottorato l'università gli faccia avere anche un minimo, piccolissimo, assegno di ricerca. Se vuole continuare a occuparsi di Pag. 15quello di cui si è occupato in circa dieci anni di formazione – ripeto, molto qualificata; fra l'altro, scrive anche sui giornali, quindi si è già anche addestrato a quel modello di cui vi parlavo, ossia al doppio binario della produzione specialistica, della trasmissione dei saperi specialistici, ma anche della diffusione culturale a diversi livelli, compreso quello giornalistico – e se vuole continuare a trasmetterlo, dovrà probabilmente fare il cameriere in pizzeria, avendo raggiunto comunque un'età nella quale nelle università straniere si pretende che un giovane studioso sia già in cattedra, perché dopo non si hanno le energie fresche e quelle capacità di comunicazione. La nostra università è insenilita, è invecchiata. Noi non abbiamo i trentenni, ma non abbiamo neanche i quarantenni.
  Vengo alla seconda persona che ho portato con me, la professoressa Carolla. Pia Carolla ha un lavoro. Insegna, è cattedratica al liceo di Albano Laziale, ma è anche un'importante e nota studiosa a livello internazionale. Collabora con me, con la nostra università, perché i suoi saperi sarebbero, francamente, sprecati. Non intendo assolutamente dire che sia sprecato l'investimento di lavoro di un bravissimo studioso nella scuola secondaria. Al contrario, dovrebbe essere incoraggiato un esodo di professori universitari verso il liceo, forse professori che non studiano più, che non scrivono più, che non producono più, come tanti ce ne sono, per lasciare lo spazio ai giovani quarantenni che producono e che sanno insegnare. Con Pia Carolla abbiamo un'interazione continua tra liceo e università, ma soprattutto ci sarebbe la necessità e c'è l'occasione individuale, spontanea, di farla interagire con il mondo degli studi. Tuttavia, c'è un blocco. C'è una sorta di barriera fra liceo e università, fra scuola media e università. Non esiste la possibilità di farla partecipare a livello formale. Non c'è proprio nessuna possibilità. È tutto un volontariato, che noi facciamo, naturalmente, nei due sensi.
  È un altro esempio significativo, perché qui stiamo parlando del futuro della cultura. Questo è dato dalla generazione dei trentenni e dei quarantenni. La presidente parlava di cultura alta e cultura bassa. Io non vedo poi tanto questa distinzione, ma parlo di coloro che sanno muoversi, allo stesso tempo e allo stesso modo, con la stessa agilità nei due registri, come, per esempio, un insegnante di scuola media sa fare. Sa fare, però, anche le conferenze in tedesco all'Università di Heidelberg e pubblicare le edizioni critiche dei testi greci e latini.
  Parlo di giovani che hanno questa possibilità e a cui dovrebbe, quindi, essere già fin d'ora affidata una funzione nel nostro mondo della cultura, perché tutti i vari problemi che sono stati posti, alla fine, si risolvono in questo. Si risolvono nel fatto che alcune generazioni, direi due generazioni, sono escluse dalla possibilità di fare, di diffondere e di organizzare la cultura che hanno e che noi comunque siamo riusciti a trasmettere. Ci siamo riusciti attraverso le piattaforme culturali e le manifestazioni, i festival, la radio, i giornali, i supplementi culturali dei giornali, i teatri. Questa cosa c'è, ma, se non si dà accesso, quale che sia, agli strumenti e alle istituzioni, o a quelle parti, a quei frammenti, a quegli spigoli, angoli di istituzioni, non si riesce a farla funzionare, a farla mettere in moto e, fra l'altro, a mediare fra i diciottenni che non hanno letto un libro intero quando arrivano nei banchi delle nostre aule. Le matricole non hanno mai letto un libro intero. Hanno solo letto dei pezzetti di libri a scuola, non uno intero, anche perché così funziona nelle antologie scolastiche. Non è neanche una questione di soglia di attenzione, che è stata abbattuta. No, perché basta poco. Basta pochissimo, basta un mese. Basta essere i loro sarti su misura delle letture di ciascuno studente, cosa che noi facciamo, e in un mese o due mesi i ragazzi arrivano con una pila di libri e se li leggono. Ovviamente, questo sarebbe anche proibito dal regolamento universitario, perché all'esame noi professori non dovremmo far portare più di un certo numero di pagine. Naturalmente, la disobbedienza civile in questo caso funziona e soprattutto sono loro che, spontaneamente, quando sentono parlare di cose di questo Pag. 16tipo, arrivano all'esame avendo letto dieci libri, non 100 pagine.
  A proposito di questo, vorrei presentare Massimiliano Guerrieri. Anche lui aiuta molto l'attività che svolgiamo. È un collaboratore, ma proviene dal mondo del giornalismo – è un giornalista professionista – mondo che, come si diceva, è integrante e integrale attualmente a quello della diffusione culturale che l'università e l'accademia devono mettersi a fare, se non vogliono lasciare nelle mani esclusivamente dei privati le manifestazioni culturali. È un giornalista professionista, molto bravo. Anche qui c'è un piccolo dettaglio: è disoccupato dal 2015. Pur avendo una grande esperienza di lavoro – non sarebbe un mio collaboratore – una grande capacità e una grande qualifica professionale, non riesce a trovare un lavoro.
  Queste persone sono solo tre esempi rappresentativi davanti a voi, che rappresentate tutti noi. Ce ne sono tantissimi altri. Non sono neanche stati selezionati in tutta Italia. Sono le prime persone che, standomi vicine, ho pensato di portare qui perché forse sono proprio loro che devono essere ascoltati in questa audizione, o comunque è su di loro che mi sento il dovere di fare delle domande e di porre degli interrogativi, perché, senza le persone, i discorsi astratti, i finanziamenti, non servono a nulla. Se non ci sono le persone, la cultura non può circolare. Ne basta uno, ne bastano due, come diceva il Vangelo.

  PRESIDENTE. Grazie, professoressa Ronchey. Come lei ha capito perfettamente, non siamo in grado di dare, in questo momento, la parola ai tre testimoni che ha portato. Naturalmente, lei è stata efficacissima nel rappresentare il messaggio di potenzialità e di frustrazioni che ognuno di loro porta con sé. Questa Commissione, che, come lei sa, si occupa di cultura e, come dicevamo prima, anche di università, scuola e ricerca, è particolarmente sensibile a questi temi. Abbiamo un quarto d'ora di tempo. Vorrei dare la parola ad alcuni colleghi che si sono prenotati per intervenire, chiedendo poi a voi, molto rapidamente, di dare una risposta. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MANUELA GHIZZONI. Grazie, presidente. Avevo un paio di questioni, poi l'ultimo intervento della professoressa Ronchey, che ritengo di altissimo valore politico, mi ha un poco distratta. Poiché il tempo è troppo poco, rispetto a quest'ultimo intervento e anche alla nostra posizione di decisori politici mi limito a dire due cose. Condivido la frustrazione, che abbiamo vissuto entrambe, lei dalla parte di chi nell'accademia ha lavorato in questi anni durissimi e io dalla parte di chi ha tentato, con la stessa frustrazione, di provare a risolvere alcuni problemi. Poiché sarebbe molto lungo dire che cosa fare e come intervenire, perché a problemi complessi non ci sono risposte semplici, rinvierei – odio le autocitazioni e i colleghi lo sanno – a due articoli che sono usciti nella newsletter del Sole24Ore, peraltro. È l'unico che ospiti gli interventi dei politici, perché noi parlamentari abbiamo davvero poco spazio, se non quello, naturalmente, della tribuna parlamentare. Ce n'è uno al quale tengo molto, perché era una risposta al professor Terlizzese, il quale era stato invitato dal Sole24Ore a intervenire sul dibattito, tra luglio e agosto, sul capitale umano, che io non avevo per nulla apprezzato. Avevo intitolato l'articolo «Università: oltre la retorica dell'eccellenza», che può essere un titolo anche, se volete, un po’ provocatorio, ma che credo riprendesse le linee non di difesa, ma di rispetto nei confronti del nostro sistema universitario, della necessità di fare alcuni interventi. Sarebbe facile decidere di assumere solo giovani, ma c'è molto di più, e anche questo, naturalmente.
  Quindi, rinvierei a quel dibattito. Tra l'altro, siamo in sessione di bilancio e credo che qualche cosa si possa fare, ma che lo si debba fare con umiltà e con rispetto nei confronti del sistema universitario e della fiducia che il sistema universitario dovrebbe avere e che, invece, non gli viene riconosciuto in generale, nel senso comune.
  Vengo alle tre domande. Il dottor Massarenti ha fatto un riferimento. Non ho potuto leggere la memoria, perché o vi Pag. 17ascolto, o leggiamo. Verificherò, quindi, di avere inteso bene le sue parole. Condivido la necessità – anzi è fondamentale, lo diciamo anche noi, perché ci crediamo – di fare in modo che i cittadini, a conclusione di un percorso di studi, possano avere quelle competenze critiche per cui sappiano leggere la realtà in cui sono immersi e sappiano intervenire conseguentemente. Lei, nell'intervento orale, ha fatto riferimento a questo come a un obiettivo dell'università. Penso che questo debba essere un obiettivo della formazione obbligatoria e scolastica, ancorché protratta. Qui potremmo aprire la discussione sul protratta fino a quando. Se fosse solo dell'Università, torneremmo a un avvitamento elitario e – Dio non voglia – soprattutto perderemmo i due terzi dei ragazzi, che non accedono e nemmeno pensano di arrivare all'università, forse anche perché non sono in grado di cogliere l'opportunità che può venire da studi superiori. Forse ho inteso male, o forse il suo era un riferimento più generale al sistema dell'educazione, ma su questo dovremmo veramente fare una battaglia, un'alleanza, tra decisori e chi, invece, interviene e anima il dibattito pubblico.
  Poi c'è una questione che mi attrae molto – i colleghi lo sanno – anche perché ho fatto una breve esperienza da amministratore locale, proprio all'inizio dell'avventura del Festival di filosofia. Mi prendo anche la responsabilità per aver dato la spinta a fenomeni i cui esiti ancora stiamo cercando di capire e di studiare. Avevo, a questo proposito, una domanda e una considerazione. Mi sono molto chiesta, come amministratrice, perché avesse tanto successo – Mantova lo comprendo di più – il Festival di filosofia. È più interessante anche da indagare, perché non si tratta sempre di lezioni popolari. Ci sono filosofi che salgono in cattedra e ci sono migliaia e migliaia di persone che ascoltano. Comprenderanno, capiranno? Mi ero fatta anche l'idea che il festival, così fatto, con la lezione svolta, ancorché in una piazza, replicasse un po’ il modello televisivo di colui che ti guarda in camera e che parla a te. Parla a me, come a scuola. Questo, da tempo, non si faceva nelle piazze. Vorrei sapere se, secondo voi, questo può essere, ancorché psicologicamente parlando, l'elemento che ha fatto in modo che davvero a Modena, a Carpi e a Sassuolo ci siano migliaia di persone che ascoltano i filosofi. Poi alcuni comprano i libri dei filosofi, alcuni li leggeranno – pochi, secondo me – altri li metteranno nella propria libreria o altri ancora semplicemente si accontentano di venire in piazza e di partecipare a questo fenomeno collettivo. Questo fenomeno, però, è nato, certo, in assenza dell'accademia, ma tanto Mantova, quanto il fenomeno modenese, carpigiano e sassolese nasce in territorio dove l'accademia non c'è. Orgogliosamente, potrei dire che è l'ente locale, lo spirito territoriale che si fa promotore di interventi di produzione culturale, perché lì non c'è consumo, che non è mai consumo, ma è un abbeverarsi, semmai. Questi fenomeni, soprattutto quello modenese, che coinvolge tutti gli istituti culturali delle tre città per tutto l'anno, è di produzione culturale. È un lavorio continuo, è una riflessione continua su quello che accadrà nel secondo weekend di settembre.
  Vi chiedo come percepite voi, naturalmente dalle vostre postazioni, che sono diverse dalle nostre, questa sollecitazione territoriale. I finanziamenti certo non sono residuali. Sono investimenti importanti per gli enti territoriali. Mantova è un discorso a parte, ma per quello modenese lo sono certamente. Poi è chiaro che ci sono le fondazioni bancarie che partecipano – meno male che ci sono – in questi territori, ma all'inizio la scintilla è stata data meramente da un'intuizione e da un investimento degli enti territoriali, ovviamente non in competizione con l'accademia. Magari, però, l'accademia fosse scesa. Vi segnalo, però, che c'è un fenomeno analogo a Bologna. L'unico festival, a mia conoscenza, sostenuto interamente dall'università, nato nell'università, è la Festa della storia. È troppo popolare forse perché lo si possa ricordare tra i vari festival, eppure, poiché è rivolto mediamente alle scuole, ai ragazzi e alla popolazione, non arriva mai ai più alti altari degli altri festival. Vi invito a studiare questo modello, perché è l'unico nato in Pag. 18accademia e trasferito fuori, che raggiunge ad ogni edizione migliaia e migliaia di persone.

  LUISA BOSSA. Sarebbe davvero tanta la voglia di porre a ogni singolo relatore domande e sollevare anche dubbi, perché sono veramente molto competenti. Ammiro molto il loro sapere. Comincio dal dottor Massarenti, non solo perché è campano di nascita come me, ma anche perché è stato il primo a intervenire. Mi riferisco a un passaggio della sua relazione, dottore. Lei dice: «I dati dell'eurobarometro fanno sì che emerga che ci sia una scarsa comprensione di che cosa sia un trial clinico». Le assicuro che io lo so, come credo lo sappiano tutti i membri della Commissione. La domanda è: allora lei non crede, per esempio, nelle medicine alternative, nelle culture alternative? Questa è la domanda.
  Mi rivolgo ora al dottor Sinibaldi. Lei dice che si leggono meno libri, pur essendoci tanti festival. Quest'anno sono stata a quello della filosofia, per dire. Quindi, lei, paradossalmente, sarebbe per la cancellazione di questi festival? Diversamente, ci sarebbe una contraddizione in termini.
  Dottor Fuortes, ho una figlia musicista. Ha studiato a Santa Cecilia, si è specializzata a Modena in flauto traverso, ha suonato con i maggiori flautisti mondiali, ma qui non trova spazio – forse andrà nella scuola – perché la cultura qui da noi (sono d'accordo con lei, quando ha citato l'Opera Camion, che non è finanziata) è come imprigionata da norme e da regole difficili da superare. Quindi, i giovani non trovano spazio, lei ha davvero ragione. Una cultura aperta, larga e inclusiva andrebbe non normata, paradossalmente.
  Sono stata sindaco per dieci anni e avevo un assessore che mi diceva spesso che, se avessimo affidato gli immobili comunali dismessi ai giovani, alle associazioni e alla comunità, poi col nostro aiuto loro avrebbero dovuto gestirli, altrimenti sarebbe stato il cane che si morde la coda. Non avrebbero mai potuto farlo. Anche questa generazione di trenta-quarantenni non ha molto futuro nella cultura.
  Concludo con una riflessione che farebbe ridere se non ci fosse da piangere. Sono d'accordo con la professoressa Silvia Ronchey. Quando ero al liceo e insegnavo latino, greco, italiano, storia e geografia al ginnasio, per l'estate diedi da leggere al gruppo della mia classe – mi pare che fosse una quarta o quinta ginnasiale – due libri, due di numero. A settembre mi chiamò il preside e mi disse che in sala professori c'era il papà di un'alunna che voleva parlare con me. Sono andata e lui mi ha detto, col dito accusatore, che avevo rovinato l'estate a sua figlia. Gli chiesi che cosa avessi mai fatto. Le avevo fatto leggere due libri! Ecco, questo è il tema!

  FRANCESCO D'UVA. Che libri erano, Luisa?

  MARIA MARZANA. Ringrazio molto gli ospiti per i loro interventi. Il discorso è molto ampio – lo sappiamo – ma voglio concentrarmi su un aspetto, senza togliere alla drammaticità delle esperienze che sono state raccontate e che, purtroppo, si estendono a molti professionisti del mondo della cultura.
  L'altro giorno, leggevo un articolo sui musicisti in fuga. Non ci sono solo i cervelli, ma anche altri professionisti e altri talenti che dovrebbero trovare una collocazione nella nostra nazione, considerato che ci riteniamo il Paese della cultura per eccellenza.
  Mi voglio concentrare sull'aspetto educativo, raccogliendo le riflessioni che sono state fatte sull'importanza della connessione tra scuola e cultura, del formare menti e non lavoratori, in un'ottica di cultura come strumento di sviluppo.
  Voglio chiedere una cosa in particolare a chi vorrà rispondere. Uno strumento c'è, ed è esteso in tutta Italia a livello educativo nelle scuole. Mi riferisco all'alternanza scuola-lavoro. Visto che già lo stesso binomio, la stessa espressione, fa pensare a un altro obiettivo conseguibile, ossia quello di formare proprio dei lavoratori, obiettivo che in questa sede è stato messo in discussione – correttamente, secondo il nostro modo di vedere – vorremmo capire come, secondo voi, questo strumento, già in essere e già finanziato, andrebbe modificato e modellato Pag. 19 per rispondere all'esigenza educativa emersa in questa sede.

  ANNA ASCANI. In realtà, riprendo esattamente quello che ha detto l'onorevole Ghizzoni per quel che riguarda la parte generale. L'intervento dell'onorevole Marzana mi ha sollecitato rispetto a quello che si è fatto sul versante dell'alternanza scuola-lavoro, perché credo, invece – forse i nostri ospiti saranno in grado di fornirci una loro opinione – che, se ben utilizzato, quello possa essere un ottimo strumento per mettere in comunicazione quello che si fa a scuola e che si apprende con quello che si muove nel mondo della cultura.
  Questa Commissione da poco è riuscita a far passare in Parlamento l'idea che impresa e cultura non siano due termini contrapposti, ma che oggi debbano vivere insieme e che vivono insieme e che producano gran parte del PIL di questo Paese.
  Ho una sola domanda, che in realtà è una domandona. C'è un filo conduttore in quello che avete detto, che sposta il peso della discussione dall'offerta alla domanda. In fondo, è il problema che qui ci stiamo tutti ponendo ed è anche la ragione profonda di questa indagine conoscitiva. Di fronte a un'offerta culturale che ancora in questo Paese è amplissima e che ci rende orgogliosi, perché, ogni volta che scopriamo realtà che fanno cultura e che vivono di cultura, nonostante tutte le difficoltà, che conosciamo – abbiamo l'orgoglio di un Paese che riesce a essere creativo e produttivo – come si fa, però, ad avere una domanda altrettanto imponente? Io non credo alla narrazione per cui i giovani leggono meno dei vecchi. Nell'ultima audizione ci era stato fornito qualche dato che conforta questa mia idea. Penso che gli strumenti che stiamo utilizzando, come, per esempio, il bonus cultura, siano ottimi strumenti. Mi chiedo come si faccia a generalizzarli, cioè a far sì che non siano solo per i diciottenni o per i docenti, e se esiste uno strumento. Noi abbiamo immaginato, in una proposta di legge sulla lettura che abbiamo all'esame, che forse vale la pena di riprendere in mano anche in fase di manovra di bilancio, uno strumento che aiuti magari chi ha più difficoltà economiche in un primo momento e poi, in, generale chi ha interesse ad approcciarsi al mondo della cultura a ristimolare quella domanda, perché forse abbiamo davvero un problema. L'ho detto l'altra volta. Qualcuno parla di «infarto culturale». È esagerato, evidentemente, dire che la troppa offerta blocca il sistema, ma è altrettanto evidente che i finanziamenti pubblici, di fronte a un'offerta tanto ampia, se non c'è una domanda altrettanto ampia, come diceva benissimo prima Fuortes, possono essere un problema, invece che un aiuto.

  PRESIDENTE. Grazie, onorevole Ascani. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

  ARMANDO MASSARENTI, Direttore inserto culturale Sole24Ore. Do una risposta molto rapida. Grazie delle domande.
  Intanto, sulla questione del pensiero critico c'è stato un fraintendimento, perché lo intendo proprio nel sistema scolastico, anzi, ho fatto la proposta di collegare questa idea del pensiero critico a Cittadinanza e Costituzione e renderla obbligatoria, in maniera che tutti faranno un po’ di filosofia, quella filosofia che serve al buon cittadino, che è la quintessenza del pensiero critico e della capacità di scovare le cattive argomentazioni, di avere un minimo di sapere probabilistico, per esempio. Mi riferisco a tutte quelle cose, compresi i trial clinici, che sono un'emanazione del metodo scientifico. Non è una cosa tanto complicata: è semplicemente la capacità di verificare la bontà delle proprie asserzioni, la capacità di argomentare e, quindi, di verificare. Sono i due ingredienti di quell'intelligenza, di cui parlavo, misurata da Flynn per tanti anni nei Paesi, e che è collegata direttamente con lo sviluppo.
  Sentendo i vari interventi successivi al mio, mi viene da fare un'osservazione che in parte risponde anche ad altre domande. Quando Fuortes parlava, mi veniva in mente un parallelo tra il mondo dello spettacolo e l'università. Tutto il mio discorso mirava a quello, ossia a dire che l'università e il sistema dell'istruzione sono la cosa più importante in assoluto. Da questo dipendono anche tutti i consumi culturali. È Pag. 20proprio l'università che, a volte, pone dei problemi. Il mio sembrava quasi un discorso da conservatore, una proposta di conservare l'alta cultura. In realtà, è un'idea di innovazione che fa sì che, se noi recuperiamo proprio quelle radici umanistiche di cui dicevamo, capiamo anche che la divisione disciplinare dell'università di oggi è una cosa completamente assurda. È un retaggio della riforma Gentile, la parte peggiore del modo gentiliano di interpretare l'organizzazione dei saperi. Gli studenti bravi pensano alle intersezioni dei saperi, pensano a una visione molto più innovativa della cultura di quella che l'università stessa offre loro o che offre solo in parte, quasi clandestinamente, magari facendo un seminario in cui si intersecano un po’ di cose che è chiaro che stanno insieme. Io qui propongo anche, a proposito sempre del pensiero critico, un'idea alla Dewey: la scuola deve essere una specie di palestra della democrazia dove si risolvono problemi. Si impara insieme a risolvere dei problemi in maniera che tutti siano uguali di fronte al problema che si deve risolvere. Si possono usare persino i telefonini per fare questo, se vogliamo dire una cosa di grande attualità. Adesso non sono più proibiti, quindi usiamoli, invece che sfruttarli come passatempi consumistici, che poi non vanno nei consumi culturali veri che vogliamo noi, ma vanno su altre cose molto più futili. Concentriamo l'attenzione anche sugli strumenti che hanno in mano questi ragazzi.
  La questione dei giovani, che era una delle altre domande, è fondamentale. Dobbiamo catturare gli young adults. C'è stata una ricerca dell'ABI, molto recente, che ha mostrato che gli young adults sono consumatori di cultura, lo sanno bene Marino Sinibaldi e Carlo Fuortes, consumano moltissima cultura, ma noi non riusciamo a intercettarli. Con questo sistema così incancrenito, in cui le forme disciplinari sono di un dato tipo e l'offerta stessa dello spettacolo è di un altro tipo, non riusciamo a creare innovazione.
  Sulla questione dell'impresa e della cultura vado velocissimo. Spero poi di rispondere a tutto. Sull'eurobarometro e i trial clinici, la questione non è tanto quella delle medicine alternative. Anche quella c'entra, ma parlo di casi come il caso Stamina e il caso Di Bella di tanti anni fa. Questi fatti hanno inquinato fortemente il rapporto tra politica e cultura, politica e conoscenza e produzione della conoscenza più affidabile.
  Come motore di tutto questo e anche dei consumi culturali ci deve essere l'idea che ci sono delle persone che studiano seriamente e altre che non studiano seriamente, o che addirittura approfittano dei difetti del sistema per introdursi con ciarlatanerie di varia natura, che riguardano tutte le possibili discipline. Per questo motivo, ancora una volta, dobbiamo tornare sulla questione di quanto si debba investire in Italia, come non è stato fatto e come Silvia Ronchey ha sottolineato facendo degli esempi assolutamente perfetti, che disegnano tutta la possibile casistica. Ci sono due generazioni buttate via e l'università non dà segni di rianimazione. In questo momento, sinceramente, non vedo che cosa si stia facendo per l'università. Si è fatto qualcosa per la scuola, secondo me non abbastanza, ma comunque si è visto qualcosa muoversi, sull'università, invece, mi sembra il nulla. Questo è un segnale assolutamente indicativo di cosa si pensa dell'università. Probabilmente si pensa di chiuderla. Allora bisognerebbe chiuderla e basta. A questo punto, avremmo un'offerta di altro genere – potrebbe anche essere un'idea – in cui davvero quell'incontro tra varie discipline avviene più chiaramente, senza troppe pastoie. Avremmo finalmente una rinascita culturale, che oggi io non vedo partire sicuramente dalle Istituzioni pubbliche.
  Scusate la franchezza eccessiva e tranchante, ma non vedo questa ripresa. Lo dico in generale. Non riguarda certo questa Commissione, che, anzi, se ne occupa in maniera molto chiara e netta. Il problema, però, è che, complessivamente, il sistema politico non riesce a produrre delle scelte di lungo periodo che dovrebbero partire da qui, ossia dalle autorità epistemiche, dall'università, dai saperi seri, dall'intersezione delle discipline. Deve innovare fortemente nel senso di una cosa tradizionalissima Pag. 21 che è la solidità della cultura di base, sostanzialmente.

  CARLO FUORTES, Sovrintendente Teatro dell'Opera di Roma. Molto velocemente, rispondo all'onorevole Bossa. Ho citato Opera Camion. Il secondo fiore all'occhiello del Teatro dell'Opera credo sia uno Young Artist Program che si chiama «Fabbrica». Riguarda 18 giovani cantanti. A tutta la filiera dell'opera diamo una borsa di studio, per 18 mesi, di 1.000 euro al mese. Adesso si stanno facendo le selezioni. Sono 900 persone da tutto il mondo che prendono l'aereo per venire a fare la selezione. Ovviamente, su 900 ne possiamo selezionare 18. Anche questo progetto, che credo sia un progetto veramente bello, è un progetto post-accademia. È un progetto per giovani formatissimi e bravissimi, ma che non riescono ad accedere al mondo musicale. Anche questo è assolutamente fuori da qualsiasi possibilità sia di valutazione, sia di finanziamento. Da questo punto di vista è la stessa cosa.
  Per quanto riguarda quello che diceva l'onorevole Ascani, il bonus cultura a noi sta funzionando, perché abbiamo dei ritorni. Il sistema di voucher, ossia attribuire più potere alla domanda per finanziare indirettamente le istituzioni, credo sia un modello che può funzionare. Sulla domanda sono molto ottimista. A fronte di un'offerta qualificata, c'è una risposta straordinaria. Al Teatro dell'Opera, negli ultimi tre anni, siamo passati da 7,2 milioni (non avevamo mai raggiunto e superato questa cifra nella storia) a 12 milioni. Quindi, c'è stato un aumento del 60 per cento. Secondo un'indagine Doxa, il 40 per cento dei frequentatori non frequenta il teatro da più di due anni. Quindi, è tutto pubblico nuovo. Il problema è trovare i finanziamenti per fare questa offerta innovativa.

  MARINO SINIBALDI, Direttore RaiRadio3. Rispondo solo alle provocazioni dell'onorevole Bossa rispetto ai festival da chiudere e anche a quella dell'onorevole Ghizzoni. Dicevo che i festival non servono a far salire altri consumi culturali perché sono essi stessi uno spazio culturale. Ci hanno insegnato che la domanda forse sta da altre parti. Per esempio, qui non ne abbiamo accennato, ma il digitale è un enorme campo culturale. È sterminato. Tra l'altro, c'è la più grande impresa culturale del nostro tempo che si chiama Wikipedia, un'impresa cooperativa e gratuita, anche per chi la fa. Lì noi abbiamo una domanda che non riusciamo a valorizzare, perché non riusciamo a offrire prodotti, o anche solo a capire i prodotti che vengono lì generati.
  Qui servirebbe davvero, onorevole Marzana, un'idea. Il progetto studio-lavoro potrebbe servire da questo punto di vista per immaginare non solo nuovi lavoratori della cultura, ma anche nuovi fruitori consapevoli della cultura. Il fatto che quel progetto sia – mi sembra – poco praticato in aziende di tipo culturale o in imprese anche pubbliche di tipo culturale, per esempio, produce uno svantaggio e produce quella caduta di alcuni consumi culturali, come la lettura, cui accennava l'onorevole Ascani.
  È vero, i giovani leggono più dei vecchi. Non so che cosa intenda lei per «vecchi» e preferisco non saperlo! Il dato, però, è che, a un dato punto, il numero dei lettori, molto velocemente, già in età giovanile, cade, proprio perché diventano fondamentali le cose a cui mi sembra che qui abbiamo accennato, ossia il tipo di domanda che riusciamo a creare e anche il tempo. Succede che la competizione sul tempo, cui accennava Carlo Fuortes, diventi decisiva, perché è in quell'età in cui si vede che la lettura cala. Tra l'altro, è interessante che prima calasse a 18, poi a 17, poi a 16, poi a 15, poi a 14 e a 13 anni, perché a 13 anni si diventa adult – altro che young adult – da tutti i punti di vista, dei consumi e soprattutto della competizione digitale. Il problema è capire che lì c'è una domanda di cultura. Per esempio, nel digitale, se si vedono le classifiche dei podcast di iTunes, i prodotti educational così chiamati, cioè culturali, per esempio alcuni che vengono dalle proposte di Radio3, sono classificati molto bene in quelle categorie. Si tratta, però, di un pubblico che è quello che frequenta poi i festival, che noi non vediamo.

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  UGO BACCHELLA, Presidente Fondazione Fitzcarraldo. Parlando di un livello di lungo periodo, secondo me, la ricetta è passare dalle politiche culturali alle politiche a base culturale. Un maestro per molti di noi, Augustin Girard, colui che ha fondato gli osservatori culturali quarant'anni fa, quando è andato in pensione, ha pronunciato e poi scritto un'espressione molto provocatoria in cui diceva: «La prossima volta che nasco e per quarant'anni faccio questo mestiere, il mio obiettivo sarà quello di ridurre ai minimi termini il Ministero della cultura e i Dipartimenti cultura per trasformarli in uffici di progettazione e uffici cultura nella sanità, nelle politiche sociali, nel welfare, nell'urbanistica, dappertutto». Questo è fondamentale, perché, se la cultura diventa un settore, è finita, in particolare in questo momento in cui nel disegno delle politiche pubbliche è fondamentale il rapporto tra i diversi ambiti.
  Invece, una cosa che si può fare, che è quella cui accennava Fuortes prima, riguarda gli incentivi. Si tratta di prevedere che le organizzazioni o le istituzioni che si pongono il problema della domanda e introducono degli elementi di costruzione di altro siano premiate.

  SILVIA RONCHEY, Professoressa Ordinaria di Civiltà Bizantina Dipartimento di Studi Classici Università di Roma Tre. Vorrei commentare rapidamente quello che ha detto Marino Sinibaldi in merito a Wikipedia. Noi all'università abbiamo questo problema. La valutazione di Wikipedia non è una cosa semplice. Come trattare Wikipedia? C'è un rapporto di odio-amore. Wikipedia può essere uno strumento di grave repressione culturale e può essere, naturalmente, quello che è: una straordinaria opportunità per tutti di accedere alla cultura.
  Volevo dire che, per esempio, fra le cose che bisognerebbe fare e che noi, per iniziativa individuale, facciamo, nella persona del dottor Guerrieri, è cercare di spiegare in classe i meccanismi di Wikipedia e di portare, al termine del corso, ciascuno studente alla capacità di intervenire su Wikipedia, di essere interattivo con Wikipedia, indipendentemente dal dibattito su quello che c'è o non c'è di buono. C'è, e un operatore culturale, anche giovane, deve poter partecipare. Questo, per esempio, manca totalmente all'università; noi lo facciamo individualmente, facendo partecipare Massimiliano Guerrieri.
  Per quanto riguarda l'alternanza scuola-lavoro, aggiungo una battuta molto semplice. Sempre per iniziativa individuale, io non accetto tesi di laurea se lo studente, o la studentessa, non mi promette di lavorare part time, di trovarsi un lavoro. Prima di tutto, perché sappiamo che la laurea non lo porterà da nessuna parte, ragion per cui non mi prendo la responsabilità di dargli una laurea. In secondo luogo, perché, ovviamente questo stimola enormemente le qualità etiche che sono necessarie per qualsiasi lavoro intellettuale, tanto più nel mondo della scuola e per quanto riguarda il disegno di cui parlava l'onorevole.

  PRESIDENTE. Grazie, professoressa Ronchey. Ringrazio davvero tutti per questa vostra presenza. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal dottor Armando Massarenti (vedi allegato).
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 13.30.

Pag. 23

ALLEGATO

Intervento Dr. Armando Massarenti – Indagine Conoscitiva sulle buone pratiche della diffusione culturale – Audizione del 3 ottobre 2017.

  L'espressione «buone pratiche» mi fa molto piacere. Onora me, Il Sole 24 Ore, la testata per cui lavoro, il suo direttore Guido Gentili, e i miei redattori e i miei collaboratori del supplemento Domenica, anche perché, nel suo manifestare un apprezzamento da parte di questa Commissione per il nostro lavoro, è fatta di parole semplici, di uso comune, quasi banali. Sembrerà un po’ paradossale ma a me paiono le più adatte per parlare di «alta cultura» e per provare a ricollocare l'alta cultura nel novero delle attività più degne di essere perseguite, e sulle quali investire politicamente, soprattutto in un Paese come l'Italia.
  Cosa purtroppo per niente scontata. Oggi si ha una visione distorta di ciò che è «pratico», e lo si confonde con l'immediatamente utile.
  Chiediamoci: perché oggi all'università non ci si iscrive più a matematica? O perché si pensa che iscriversi a filosofia sia una perdita di tempo? Perché si pensa che sia meglio la pedagogia, considerata come «filosofia applicata». Si sta perdendo il gusto vero, e con questo anche il valore, della conoscenza e della ricerca pura e disinteressata a favore di una scuola e di una università «professionalizzanti» che si preoccupiamo di formare «lavoratori» e non cittadini dotati degli strumenti mentali per orientarsi nel loro tempo e per adattarsi a cambiamenti che diventano sempre più rapidi.
  L'amore per la ricerca e per la conoscenza è insieme la più alta e insieme la più umile delle attività umane perché implica una concentrazione e uno sforzo intellettuale molto maggiore, che in fondo è molto più umile, visto che un buon ricercatore è consapevole che i risultati dei suoi sforzi non sono affatto garantiti. Altrimenti che ricerca sarebbe? Lo dicevano già Socrate e Platone e più di recente Einstein.
  Un supplemento come quello che io dirigo, che costituisce nel suo farsi settimanale una pratica assai artigianale, vuole essere un baluardo per l'alta cultura e vuole trasmettere nel contempo il carattere costitutivamente aperto della ricerca. Per questo vi trovate poche «notizie» (delle quali comunque ovviamente si tiene conto) e molte riflessioni sui saperi e sui loro metodi, in una prospettiva problematizzante e transdisciplinare, scommettendo che ciò renda la lettura meno scontata e meno noiosa.
  La cultura non ha bisogno di una retorica altisonante ma appunto di «buone pratiche» perché lavorare nella cultura e nella ricerca è sì un privilegio, ma implica fatica, costanza, pazienza, concentrazione, perseveranza. È un lavoro quotidiano da svolgere avendo in mente una strategia di lungo periodo, una visione lungimirante che purtroppo spesso manca alla politica ma che – e ciò è più grave – ha cominciato a mancare anche alla cultura.
  «Niente cultura, niente sviluppo» è il titolo che il supplemento Domenica, di cui sono responsabile dal 2011, diede, nel febbraio 2012, al Manifesto per la cultura. Un documento programmatico che ha avuto una certa influenza anche nelle decisioni della politica degli ultimi anni e credo sia, nelle sue linee di fondo, ancora attuale. Pag. 24
  Cultura ed economia sono strettamente legate, è quasi ovvio ripeterlo. Ma bisogna capire bene in che modo. I Paesi che nel mondo hanno saputo meglio affrontare la crisi dell'ultimo decennio sono quelli che hanno investito di più in formazione e ricerca nei decenni precedenti, e che hanno continuato a farlo. L'Italia invece continua a registrare dati preoccupanti sul versante della cultura (e la ripresa economica non sembra poggiare, anche da questo punto di vista, su basi molto solide): scarsi investimenti in ricerca e università; pochi laureati, i migliori dei quali non trovano modo di rimanere in Italia, in quanto Paese poco attrattivo – anche per gli stranieri – dal punto di vista della ricerca; ci distinguiamo inoltre per l'alto tasso di analfabetismo funzionale, sia nei giovani che negli adulti, e, sul versante etico, per incapacità di seguire le regole di base della convivenza (e forse – lo dico per inciso – le due cose sono collegate), ecc. ecc. Sono cose che sappiamo.
  Per rovesciare questa tendenza bisogna prendere sul serio un semplice fatto, spesso evocato a parole ma da cui non si traggono le dovute conseguenze: la conoscenza è l'ingrediente fondamentale della società contemporanea. E per acquisirla è necessario un altro ingrediente che per semplificare possiamo riassumere nel termine «intelligenza», così come è stata misurata per mezzo secolo da James Flynn. Il quale ha mostrato che a crescere, nelle società in cui congiuntamente è aumentata la ricchezza, è una forma ben precisa di intelligenza, che somiglia molto da vicino a quell'insieme di saperi che gli anglosassoni chiamano «pensiero critico» e implica una buona dose di un ulteriore elemento (manco a dirlo assai scarso nella cultura italiana) come il metodo scientifico. Se aggiungiamo che dai dati dell'Eurobarometro emerge anche una scarsa comprensione di cos'è un trial clinico (e che queste carenze riguardano anche drammaticamente la classe dirigente) capiamo perché è così facile che in Italia ci troviamo spesso invischiati in dibattiti pubblici di carattere biomedico in cui – più che in ogni altro paese – la ciarlataneria acquisisce la stessa importanza mediatica dei saperi seri e verificati.
  Il Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco ha sottolineo più volte la carenza di investimenti in quello che gli economisti chiamano «capitale umano» come fattore critico dell'intero sistema italiano.
  Il capitale umano può far pensare a un uso strumentale ed economicistico della cultura. Va dunque ribadito che la cultura ha e deve avere un valore intrinseco. Non strumentale. L'istruzione non va immediatamente orientata al lavoro. Solo se sapremo riconoscere il valore intrinseco e non negoziabile della cultura e della ricerca (che deve essere autenticamente libera) potremo avere ampi effetti sulla crescita economica e questa potrà andare di pari passo con la crescita civile. È un concetto che il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano ha enunciato proprio a commento del Manifesto per la cultura del Sole-24 Ore.
  Molti studi empirici mostrano che il «capitale cognitivo» – che è un concetto ancora più preciso – di un Paese è positivamente correlato non solo con il PIL, ma anche con l'efficienza delle istituzioni, il funzionamento dello stato di diritto, il tasso di criminalità, il tasso di corruzione, ecc. Pag. 25
  Se guardiamo al nostro ideale di crescita civile, ritorniamo al significato più autentico della parola cultura, che è sinonimo di progresso e di civilizzazione, e che getta le radici nel nostro Umanesimo, motore di quello spirito critico di cui si diceva, e che non implica alcuna divisione tra cultura scientifica e cultura umanistico-letteraria. Né deve spaventarci la digitalizzazione della cultura se siamo in grado di affrontarla a partire da una visione e da strumenti autenticamente umanistici.
  Nel volume «Università futura. Tra democrazia e bit», Juan Carlos De Martin, nel delineare un futuro possibile delle «humanities» nell'era digitale non manca di soffermarsi sulle pagine che Eugenio Garin dedicò alla rivoluzione educativa che tra la fine del ’300 e l'inizio del ’500 «ha lasciato tracce profonde nella storia d'Europa e oltre», introducendo un'educazione laica più attenta allo sviluppo degli individui, alla loro felicità personale, unendo lo spirito critico di stampo socratico all’«eudaimonia» aristotelica di una vita vissuta per la conoscenza.
  Non è purtroppo questa la vocazione dell'università italiana di oggi, che non è riuscita a coniugare i propri fini utilitaristici e professionalizzanti con i valori intrinseci della cultura. Quella evocata da Garin è stata «Una rivoluzione incompiuta», per dirla con il titolo di un libro di Ugo Dotti – lo studioso che ci ha lasciato qualche giorno fa – il quale parla di un protoilluminismo e un protorisorgimento italiano, con Dante, Boccaccio, Petrarca e Machiavelli protagonisti, traditi dal Rinascimento, per non essere riuscita l'Italia di allora a costruire uno stato unitario e per aver subito più di altri paesi le conseguenze del Concilio di Trento.
  I frutti di quel nostro Umanesimo sono maturati altrove, prima in Scozia, poi negli Stati Uniti, dove quella rivoluzione umanistico-giuridico-letteraria si è coniugata naturalmente con i saperi della modernità e con i metodi della scienza, mentre ancora oggi in Italia è popolare tutt'altra interpretazione dell'Umanesimo, assolutamente deleteria, che si nutre della strana alleanza tra neospiritualismo, relativismo postmoderno, «biopolitica» e post-verità, attingendo alle radici di un certo modo di interpretare il Rinascimento, e poi da Vico e da Gentile, e configurando l'idea di «un'altra modernità», e che vede ancora nell'America e nella Perfida Albione i principali nemici da abbattere.
  Ma a ben vedere è proprio lì invece che sono cresciuti, fino a diventare sinonimo di crescita economica e civile, i frutti di un umanesimo che non nega il valore intrinseco della conoscenza e dei metodi logici ed empirici per conseguirla, e che li considera ingredienti fondamentali per la formazione dei cittadini di domani.
  Si pensi a quanto può essere preziosa la lezione del filosofo e pedagogista John Dewey che pensava alla democrazia come a un medium cognitivo, modellandola sulle procedure di una comunità scientifica, e alla scuola come una vera palestra per la democrazia in quanto luogo in cui si impara collettivamente a risolvere problemi.
  Sarebbe interessante provare ad applicare i metodi e le idee di Dewey alla scuola italiana di oggi e al progetto di digitalizzazione in corso. Perché non provare a usare ipad, computer e smartphones (visto che ora in classe non sono più proibiti), come strumenti per il problem Pag. 26solving collettivo e connesso, distogliendo così i ragazzi dall'uso più deleterio e consumistico di questi strumenti di comunicazione?
  Poiché il modello di Dewey è quello del funzionamento di una comunità scientifica – come anche la società aperta di Popper – ciò contribuirebbe ulteriormente a eliminare l'arbitraria separazione tra cultura umanistica e scientifica. E anche tra cultura alta e cultura pratico-empirica. E sarebbe anche rilevante rispetto alla perdurante partizione accademica della cultura in settori scientifico-disciplinari non comunicanti, che in Italia crea chiusure e rende impossibile qualsiasi forma di transdisciplinarità. Quella transdisciplinarità su cui insiste in particolare un sociologo come Edgar Morin, cui fa eco l'economista Pierluigi Ciocca, che comincia il suo «Ai confini dell'economia. Elogio dell'interdisciplinarità» con una citazione da Einaudi: «chi cerca rimedi economici a problemi economici è sulla falsa strada».
  Ed è proprio così, non solo dal punto di vista disciplinare, ma dal punto di vista pratico. Potrei fare molti esempi, a partire dai risparmi possibili di una sanità che sempre di più si dovrà confrontate con l'invecchiamento della popolazione potrebbe risparmiare se i consumi culturali fossero fortemente incentivati in ogni strato sociale e ad ogni età. Vi sono moltissimi studi empirici che dimostrano quanto minore sarebbe l'incidenza delle patologie neurodegenerative e non solo.
  Vorrei concludere tornando al critical thinking. Tra le proposte in cui credo di più, tra quelle che abbiamo lanciato nello spirito del Manifesto per la cultura, una riguarda appunto il pensiero critico, un insegnamento trasversale e fondamentale per formare «lavoratori» capaci di autoeducarsi per l'intero corso della propria vita. La proposta è di rendere obbligatorio per tutti questi strumenti trasversali magari legandoli a quell'insegnamento poco praticato che è Cittadinanza e costituzione.
  Un'altra proposta da noi lanciata, elaborata insieme alla Senatrice a vita Elena Cattaneo, è quella della riforma del Senato nel senso della costruzione di un Senato delle competenze, il quale prevedesse una quota significativa di scienziati e di esperti, espressione del mondo della ricerca e della cultura. Cito questa altra proposta per sottolineare il nostro impegno, che credo sia in armonia con il senso di questo nostro incontro, nel cercare di ripristinare un dialogo fruttuoso tra politica e cultura.
  Le indagini conoscitive, come questa meritoriamente promossa dalla Commissione cultura, dovrebbero essere ispirate al famoso motto di Luigi Einaudi «conoscete per deliberare». Troppo spesso la politica sembra essere disinteressata alle basi fattuali e conoscitive delle scelte pubbliche. E troppo spesso la cultura, e persino la scienza, faticano a mostrare di sé il carattere più autorevole e attendibile. La politica ha le sue responsabilità anche in questo. Se saprà fare le scelte giuste per ridare autorevolezza e dignità alle attività intellettuali e culturali e al loro valore intrinseco, di cui essa stessa deve nutrirsi nell'interesse dei cittadini, anche la propria prassi quotidiana – che naturalmente è fatta anche di tanti altri elementi – non potrà che trarne motivo di elevazione e di giovamento.