XVII Legislatura

VI Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 16 di Martedì 21 novembre 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Petrini Paolo , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE TEMATICHE RELATIVE ALL'IMPATTO DELLA TECNOLOGIA FINANZIARIA SUL SETTORE FINANZIARIO, CREDITIZIO E ASSICURATIVO

Audizione dell'amministratore delegato di Cerved SpA, Marco Nespolo.
Petrini Paolo , Presidente ... 3 
Nespolo Marco , amministratore delegato di Cerved SpA ... 3 
Romano Guido , responsabile ufficio studi e relazioni istituzionali di Cerved SpA ... 4 
Momoni Valerio , direttore marketing e sviluppo prodotti di Cerved SpA ... 5 
Nespolo Marco , amministratore delegato di Cerved SpA ... 6 
Petrini Paolo , Presidente ... 8 
Nespolo Marco , amministratore delegato di Cerved SpA ... 8 
Fregolent Silvia (PD)  ... 9 
Nespolo Marco , amministratore delegato di Cerved SpA ... 9 
Petrini Paolo , Presidente ... 9 

Audizione del presidente dell'Associazione nazionale consulenti finanziari (ANASF), Maurizio Bufi:
Petrini Paolo , Presidente ... 9 
Bufi Maurizio , presidente dell'Associazione nazionale consulenti finanziari (ANASF) ... 10 
Petrini Paolo , Presidente ... 14 
Barbanti Sebastiano (PD)  ... 14 
Petrini Paolo , Presidente ... 15 
Bufi Maurizio , presidente dell'Associazione nazionale consulenti finanziari (ANASF) ... 15 
Giannini Guazzugli Gian Franco , componente del comitato esecutivo ANASF ... 16 
Petrini Paolo , Presidente ... 16 

Audizione del dottor Matteo Rizzi, co-founder di FinTechStage:
Petrini Paolo , Presidente ... 16 
Rizzi Matteo , co-founder di FinTechStage ... 16 
Petrini Paolo , Presidente ... 19 
Barbanti Sebastiano (PD)  ... 19 
Petrini Paolo , Presidente ... 19 
Rizzi Matteo , co-founder di FinTechStage ... 19 
Petrini Paolo , Presidente ... 20 

Audizione dell'amministratore delegato dell'Istituto centrale delle banche popolari italiane SpA, Paolo Bertoluzzo:
Petrini Paolo , Presidente ... 20 
Bertoluzzo Paolo , amministratore delegato dell'Istituto centrale delle banche popolari italiane S.p.A ... 20 
Petrini Paolo , Presidente ... 27 
Quintarelli Giuseppe Stefano (Misto-CI-EPI)  ... 27 
Boccadutri Sergio (PD)  ... 27 
Petrini Paolo , Presidente ... 29 
Bertoluzzo Paolo , amministratore delegato dell'Istituto centrale delle banche popolari italiane SpA ... 29 
Petrini Paolo , Presidente ... 30 

Allegato 1: Documentazione depositata dal dottor Nespolo ... 31 

Allegato 2: Documentazione depositata dal dottor Bufi ... 41

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Articolo 1 - Movimento Democratico e Progressista: MDP;
Alternativa Popolare-Centristi per l'Europa-NCD: AP-CpE-NCD;
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà-Possibile: SI-SEL-POS;
Scelta Civica-ALA per la Costituente Liberale e Popolare-MAIE: SC-ALA CLP-MAIE;
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Civici e Innovatori - Energie PER l'Italia: Misto-CI-EPI;
Misto-Direzione Italia: Misto-DI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-UDC-IDEA: Misto-UDC-IDEA;
Misto-Alternativa Libera-Tutti Insieme per l'Italia: Misto-AL-TIpI;
Misto-FARE!-PRI-Liberali: Misto-FARE!PRIL;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI) - Indipendenti: Misto-PSI-PLI-I.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
PAOLO PETRINI

  La seduta comincia alle 12.20.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione dell'amministratore delegato di Cerved SpA, Marco Nespolo.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative all'impatto della tecnologia finanziaria sul settore finanziario, creditizio e assicurativo, l'audizione dell'amministratore delegato di Cerved SpA, Marco Nespolo, al quale cedo subito la parola.

  MARCO NESPOLO, amministratore delegato di Cerved SpA. Grazie mille per l'invito. Sono l'amministrazione delegato del gruppo Cerved, insieme a me sono qui oggi Valerio Momoni, direttore marketing e sviluppo prodotti, e Guido Romano, responsabile dell'ufficio studi e relazioni istituzionali. Ci alterneremo in questa breve relazione.
  Inizierei con una velocissima introduzione sul nostro gruppo, per poi darvi una fotografia dello stato di salute delle imprese italiane, in particolare delle piccole e medie imprese, sulle quali abbiamo un angolo di visuale particolarmente privilegiato, soprattutto per quanto riguarda le problematicità relative all'accesso al credito; passerei poi al secondo punto del nostro intervento di oggi, relativo a come l'evoluzione tecnologica, e il settore FinTech in particolare, diano spunti in questo senso.
  Infine vi illustrerò alcune proposte, il più concrete possibile, relative a interventi di vario tipo, che possono agevolare il settore FinTech nello specifico e, in generale, l'accesso al credito da parte della piccola e media impresa italiana.
  Passando alla nostra veloce introduzione, noi siamo una vera public company italiana: siamo quotati da tre anni in Borsa, ma da un anno e mezzo abbondante abbiamo azionariato totalmente diffuso, quindi costituiamo una delle pochissime e vere public company italiane, con una governance che rispecchia appieno questo tipo di assetto proprietario.
  Siamo più di 2.000 persone, con la missione di supportare il sistema finanziario italiano, e quindi tutte le istituzioni finanziarie, nonché il sistema industriale italiano, cioè le aziende di tutte le dimensioni, dalla micro alla grande impresa, nella gestione del processo di credito – dal momento iniziale, di affidamento delle decisioni di finanziamento e di valutazione delle controparti – fino a quello di monitoraggio e gestione del portafoglio dei propri crediti, per finire, nei casi in cui questo sia necessario, con le attività di recupero. Infatti Cerved Credit Management è uno dei principali operatori industriali nel mercato italiano di recupero dei non performing loans.
  Siamo anche una credit rating agency soggetta a vigilanza da parte dei vari regolatori, che si posiziona al numero 4 in Europa per dimensioni, sempre avendo un Pag. 4particolare focus sulla piccola e media impresa italiana.
  Oltre, ovviamente, a vivere – per riuscire a realizzare quanto vi ho detto – di dati, che sono tutti quelli pubblici disponibili, unitamente a quelli che centinaia di analisti e di sistemi software di Cerved aggiungono a quelli pubblici, ci nutriamo di tecnologia per analizzarli, trarne spunti di decisione e distribuirli ai nostri ai nostri clienti di tutti i tipi, integrandoci anche con i loro sistemi.
  Ci nutriamo anche della capacità di gestire un gran numero di persone su processi industriali di gestione e recupero del credito. È chiaro che, con questa angolatura, siamo al crocevia di tutta la serie di innovazioni tecnologiche e regolamentari relative all'utilizzo e alla disponibilità dei dati – aspetto, questo, strettamente attinente alla nostra audizione odierna – e ovviamente del set informativo e della tecnologia per analizzare questi dati, che da tempo cerchiamo di mettere a disposizione della comunità di ricercatori, studiosi e policy maker, per supportare, con i fatti e attraverso dati visibili e analitici, eventuali decisioni di politica economica.
  Partendo da questo punto di vista, cedo ora la parola a Guido Romano, per fare un primo focus – che penso sia funzionale al prosieguo della discussione – sul modo in cui si sta evolvendo lo stato di salute della piccola e media impresa, in particolare in termini di accesso al credito e di gap da colmare al riguardo.

  GUIDO ROMANO, responsabile ufficio studi e relazioni istituzionali di Cerved SpA. Grazie e buongiorno. Noi abbiamo utilizzato i dati di Cerved per capire se le FinTech possano avere un ruolo in relazione a due debolezze storiche del sistema delle piccole e medie imprese, cioè la bassa capitalizzazione e l'eccessiva dipendenza dal capitale bancario.
  Abbiamo constatato che questa lunga crisi ha causato conseguenze senza precedenti sul sistema delle piccole e medie imprese italiane, ma allo stesso tempo ha prodotto un processo di deleveraging che apre anche una serie di opportunità interessanti per il mondo del FinTech.
  La crisi, per le piccole e medie imprese, si è manifestata sotto forma di crollo della domanda e di credit crunch, che ha prodotto una riduzione molto importante del numero di queste imprese (intorno al 10 per cento) e un forte calo dei ricavi e della redditività delle piccole e medie imprese che sono sopravvissute sul mercato.
  Negli ultimi anni le piccole e medie imprese hanno imboccato la strada della ripresa: si tratta di una ripresa graduale, perché non sono stati recuperati i livelli di redditività pre-crisi, ma la buona notizia è che si tratta di una ripresa che ha basi finanziarie molto solide. In questi anni i loro debiti finanziari sono rimasti su livelli non distanti da quelli pre-crisi, mentre è molto aumentata la capitalizzazione (di circa il 40 per cento), in parte perché gli imprenditori avevano difficoltà a reperire risorse finanziarie esterne, in parte perché gli incentivi fiscali hanno funzionato.
  Il riflesso sul livello di rischio delle piccole e medie imprese è stato tale per cui, mentre nel 2007 per ogni 100 euro di capitale netto c'erano 115 euro di debiti finanziari, questo rapporto è passato a 76 nel 2016, e in generale una serie di indicatori ci dice che oggi il sistema delle piccole e medie imprese è più solido di com'era prima della crisi. Questo dato è confermato anche dai nostri score, ma, se esaminiamo gli indicatori più predittivi, nei prossimi mesi questo processo di rafforzamento proseguirà, tanto che, se utilizziamo il Cerved group score, la nostra valutazione sul rischio, che prende in considerazione tutti gli elementi utili per una valutazione compiuta, osserviamo che circa due terzi delle piccole e medie imprese italiane ha una valutazione «in area di sicurezza» o in «area di solvibilità», quindi un rischio di insolvenza molto basso.
  Questo risultato è stato prodotto dal processo di deleveraging, che ha aperto degli spazi di investimento. Ci siamo chiesti che dimensioni abbiano questi spazi di investimento e, facendo un'operazione piuttosto semplice, cioè andando a valutare quante di queste imprese con uno scorePag. 5molto buono – quindi un basso grado di rischio – ci siamo chiesti quale volume di maggiori debiti finanziari queste piccole e medie imprese potrebbero affrontare senza compromettere i propri equilibri finanziari.
  Il risultato è importante, perché abbiamo calcolato che queste piccole e medie imprese potrebbero sopportare circa 100 miliardi di maggiori debiti finanziari, che, se fossero totalmente trasformati in maggiori investimenti, consentirebbero un aumento della capacità produttiva delle piccole e medie imprese del 25 per cento, quindi veramente importante.
  Abbiamo quindi esaminato quali sono queste imprese: esse sono, per lo più, imprese piccole – l'80 per cento di queste PMI ha tra i 10 e i 50 dipendenti – e hanno una dimensione complessiva pari a circa la metà dell'ammontare di 100 miliardi a cui ho accennato. Per capire come attivare questo potenziale, è importante ragionare in termini di domanda e di offerta di finanziamenti. Anche su questo aspetto alcuni dei nostri dati ci aiutano, perché molte di queste piccole imprese operano completamente in autofinanziamento. Ciò significa che non si rivolgono alle banche e non hanno fonti di finanza alternativa; quindi esse costituiscono un nocciolo duro di piccole e medie imprese e bisogna lavorare sul fronte della domanda.
  Allo stesso tempo sappiamo che in questi anni c'è stato un importante incremento delle imprese che operano in autofinanziamento, proprio a causa del credit crunch.
  Per gli aspetti relativi al tema dell'offerta finanziaria, lascio la parola al dottor Momoni.

  VALERIO MOMONI, direttore marketing e sviluppo prodotti di Cerved SpA. Grazie a tutti. Abbiamo osservato la seguente situazione: la Banca d'Italia, nell'ultimo Bollettino, ha confermato che il credito ha ricominciato ad arrivare alle imprese. La verità però è che, guardando il dato nel dettaglio, il credito ha cominciato a ritornare alle imprese medio-grandi, non alle piccole. Le ragioni per cui il credito non va alle piccole imprese sono, in primis, il fatto che, in genere e in media, le aziende più piccole sono percepite come più rischiose: esse sono più rischiose, ma la verità è che, quando si va a esaminarle più da vicino, non sono tutte uguali.
  Il secondo motivo è che le aziende piccole sono meno abituate a essere trasparenti, quindi esse vengono viste dal sistema bancario in maniera più opaca. Il terzo motivo (probabilmente anche il più importante) è che il costo fisso di un finanziamento, quando si tratta di un ammontare più basso, diventa poco sopportabile, o poco interessante per il sistema bancario.
  Stiamo vivendo, a nostro parere, un momento particolarmente positivo dal punto di vista tecnologico, della disponibilità di informazioni per superare alcuni di questi problemi, e il FinTech, cioè tutte quelle forme di finanza alternativa che si stanno sviluppando, va a far leva proprio sulla disponibilità di dati e sulle tecnologie che abbassano quelle barriere.
  L'esempio pionieristico e, probabilmente, l'esempio più virtuoso in questo momento è rappresentato dal Regno Unito, dove le forme di finanza alternativa, quindi, considerando un po’ tutto, l’invoice trading, che in sintesi è lo sconto fatture in forma moderna, il peer-to peer lending e l’equity crowfunding hanno mobilitato 4,3 miliardi di euro nel Regno Unito e hanno toccato 20.000 piccole e medie imprese, le quali probabilmente non sarebbero state sostenute dal sistema bancario. Il punto è quindi che i dati a disposizione e l'evoluzione tecnologica permette (l'esempio è il Regno Unito) di portare credito a soggetti che, altrimenti, non lo riceverebbero.
  La stessa tecnologia può essere utilizzata anche dal sistema bancario tradizionale. Noi abbiamo cominciato a investire e ad analizzare il fenomeno del cosiddetto FAST Credit. Esistono forme di finanziamento semplificate, per importi al di sotto di 100.000 euro, che possono essere strutturate sulla base di informazioni – utilizzate e analizzate in real time e attraverso sistemi di valutazione real time – mediante l'uso di tecnologie che permettono di accelerare la pratica, ridurne fortemente i costi anche per il sistema bancario tradizionale, ed erogare a soggetti che altrimenti non Pag. 6accederebbero al credito. Questo è un fenomeno che può aiutare anche il sistema bancario tradizionale.
  La disponibilità di informazioni e di dati è però un elemento chiave per colmare quel gap di conoscenza, che di solito esiste, tra la piccola azienda e il sistema bancario. L'introduzione della PSD2, quindi la possibilità per alcuni operatori e per il sistema bancario di accedere ai movimenti di conto corrente dei soggetti che danno il consenso, renderà disponibili altre informazioni relative a dati che possono essere utilizzati con profitto da entrambe le parti, perché la piccola azienda, dando accesso ai movimenti effettuati sul conto corrente, si rende molto trasparente e permette ai soggetti che la devono valutare di concederle credito in maniera più facile.
  Questi sono i trend tecnologici più importanti, dal punto di vista dei dati, per indurre a dare credito al sistema delle piccole imprese.
  Lascio ora la parola a Marco Nespolo perché illustri alcune proposte ancora più concrete.

  MARCO NESPOLO, amministratore delegato di Cerved SpA. Grazie, Valerio, partendo da questo concetto di abilitatore tecnologico che rende possibile ed efficiente anche un processo che, altrimenti, lo sarebbe meno, e sulla base delle considerazioni circa il non perfetto incontro tra domanda e offerta di credito, soprattutto per la piccola e media impresa, abbiamo una serie di suggerimenti e di ragionamenti da cui partire.
  Il primo è ancora molto generale, e mi rendo conto quasi ovvio, perché è chiaro che parlare di FinTech, di innovazione e di tecnologia al servizio della finanza vuol dire in gran parte, come in altri settori, parlare anche di start up. Le start up di questo settore, in particolare, hanno bisogno non solo di un ecosistema sul modello del venture capital, più evoluto di quello che abbiamo oggi in Italia, ma anche di una serie di skill scientifici, cioè di data science, dalla matematica alla statistica, che sono un po'sottorappresentate, secondo le nostre analisi, nel nostro Paese.
  A un livello molto «macro» e molto alto, prima di andare su tematiche più vicine a noi e più concrete, è chiaro che qualsiasi incentivo volto allo sviluppo dell'ecosistema del venture capital e di tutto quello che gli sta intorno aiuterebbe anche questo settore, quindi iniziative quali la FinTech Tower e cose di questo tipo, piuttosto che altre che ci risultano allo studio, sono le benvenute.
  Per parlare dell'ecosistema nel quale siamo attori rilevanti, inizierei con qualche idea mutuabile dal Paese che, come affermato prima, rappresenta oggi la best practice europea e quasi mondiale in termini di FinTech, cioè il Regno Unito. Avendo ascoltato le audizioni svolte nell'ambito dell'indagine conoscitiva nei giorni scorsi, mi sembra si sia già parlato di questo aspetto, cioè quello del regulatory sandbox. Esso significa alleviare, in modo parziale e temporaneo – concetti a nostro avviso entrambi molto rilevanti – il peso della regolamentazione in un settore che necessita di una regolamentazione importante, seppur in evoluzione, in quanto, per soggetti imprenditoriali nascituri o appena nati e di dimensioni non ancora rilevanti, uno sgravio parziale e temporaneo potrebbe chiaramente favorire un'accelerazione della crescita.
  Dal nostro punto di vista questo non deve diventare uno svantaggio per chi invece parte da situazioni non di start up, quindi l'asimmetria regolamentare rispetto al sistema bancario tradizionale, che sappiamo sta pianificando anche interventi di questo tipo, dovrebbe essere minimizzata il più possibile, però il concetto è: un minor peso in termini di permessi e regolamentazioni nelle fasi iniziali.
  Il secondo punto, che noi riteniamo ancora più di impatto, è quello contenuto nel cosiddetto Small business Act, emanato nel Regno Unito del 2015, che tra le altre cose obbliga l'istituzione finanziaria tradizionale che, a fronte dell'acquisizione di informazioni specifiche, rifiuti il finanziamento alla piccola e media impresa, a trasferire, con il consenso dell'impresa stessa, quel set informativo sulla base del quale ha fatto la sua istruttoria di credito, alle credit reference agencies. Esse costituiscono un Pag. 7repository centrale di informazioni, che può essere reso disponibile a tutti gli altri operatori non tradizionali, in modo da avere una sorta di database centrale a cui tutti gli investitori di lending non tradizionali possono accedere.
  Questo meccanismo crea una grande trasparenza e facilita l'incontro tra la domanda di credito, in questo caso della piccola e media impresa che fatica a ottenerlo, e chi potrebbe essere interessato a offrirlo. Ovviamente è molto importante la considerazione che si faceva prima sul perché a volte questo incrocio tra domanda e offerta non avviene, e non è per nulla detto (lo vediamo anche dall'esperienza italiana) che quando una banca rifiuta un finanziamento a un'impresa questa sia sempre non meritevole di credito.
  Questo può essere ovviamente uno dei motivi, però ci sono casi in cui o non è economico per la banca, o la banca ha una politica di rischio/rendimento sul credito particolare, o quella stessa impresa ha già altri affidamenti con la banca, che quindi ritiene di non darne altri al margine: quindi una serie di motivazioni, compreso il profilo rischio/rendimento, potenzialmente superabili da altri operatori.
  Questa forzatura (in senso positivo) in termini di trasparenza delle piccole e medie imprese che fanno fatica ad accedere al credito, e di operatori che potrebbero avere interesse a concederlo, a trasferire informazioni in un database centrale, in cui operarono soggetti regolati e regimentati, cioè attraverso le cosiddette credit reference agencies, a nostro avviso, potrebbe avere un impatto molto importante.
  Parlando di trasparenza e di abilità della piccola e media impresa a interfacciarsi con la comunità finanziaria e ai potenziali prestatori di denaro, a noi viene in mente di mutuare un'ampia esperienza positiva, rispetto alla quale siamo stati peraltro attori, cioè quella dei voucher per l'internazionalizzazione. In quel caso si è compresa la correlazione tra il successo e la crescita di una piccola e media impresa italiana, da una parte, e il suo tasso di internazionalizzazione, dall'altra. Il Governo ha quindi messo a disposizione alcuni incentivi per finanziare progetti specificamente dedicati all'internalizzazione delle piccole e medie imprese. Lo stesso concetto si potrebbe mutuare, con uguali e interessanti benefici, con riferimento alla trasparenza e alla cultura finanziaria delle piccole e medie imprese, incentivando l'attività di predisposizione di informative al mercato. Penso al rating, per fare l'esempio più formale, ma anche ad altre modalità di presentarsi, da parte della piccola e media impresa, al mercato del credito, come penso anche a una cosa semplice ma non meno rilevante, cioè alla formazione riguardo a queste tematiche.
  Le piccole e medie imprese italiane, in molti casi, non hanno infatti piena contezza di quali siano i vantaggi di questa o quell'altra forma di finanziamento o della possibile forma tecnica per ottenerlo, e sia loro sia l'ecosistema, cioè il consulente privilegiato della piccola e media impresa (penso per esempio ai dottori commercialisti), potrebbero beneficiare di un miglioramento in termini di consapevolezza e cultura.
  Un incentivo alla formazione, fino allo studio degli strumenti specifici di rappresentazione di se stessi all'esterno e ai relativi costi, a nostro avviso potrebbe avere un impatto interessante.
  Un ulteriore spunto, anche questo, se non vado errato, già illustrato da altri colleghi nelle audizioni dei giorni scorsi, è quello relativo alla limitazione delle restrizioni da parte del debitore alla trasferibilità del credito da parte del creditore. Come affermato, la componente di capitale circolante delle piccole e medie imprese italiane è importante (stiamo parlando di oltre 500 miliardi di euro di crediti commerciali), quindi la gestione di questo circolante, dal factoring allo sconto fatture e a forme tecniche similari, è sicuramente una componente rilevante.
  Ridurre i limiti che possono essere posti da parte del debitore in tal senso, agevolando la possibilità di vendere o scontare fatture, ci sembra un ulteriore aspetto da affrontare.
  Per concludere, noi consideriamo l'apertura di alcuni strumenti di trasparenza a Pag. 8un numero maggiore di operatori come un contributo al possibile incontro tra domanda e offerta di credito. Un esempio concreto potrebbe essere costituito dalla possibilità di accedere alla Centrale Rischi della Banca d'Italia anche da parte delle agenzie di rating, cioè dei soggetti che studiano e valutano coloro che chiedono credito, ma anche da parte di tutti gli operatori del FinTech, indipendentemente dal possesso della licenza bancaria.
  Di nuovo, coerentemente con il tema della trasparenza, che è il perno attorno al quale queste nostre considerazioni ruotano, anche questo tipo di strumenti potrebbe essere molto interessante.

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Nespolo. Il vostro ruolo nell'ecosistema è chiaro, ma vi faccio due domande per conoscere il vostro parere, una sui non performing loans (NPL), visto che sta accelerando molto il processo di gestione degli stessi da parte delle banche: quale pensate sia l'impatto di questo processo sul credito, anche sul fronte sociale, e se tale impatto possa essere in qualche modo contenuto.
  L'altra questione, a cui è già stato fatto cenno, su cui chiedo la sua opinione, riguarda la Direttiva sui servizi di pagamento nel mercato interno (cosiddetta PSD2): quale pensate possa esserne l'impatto sul sistema?

  MARCO NESPOLO, amministratore delegato di Cerved SpA. Inizio volentieri a rispondere io e poi mi avvarrò dei miei colleghi per scendere più nel dettaglio.
  Per quanto riguarda i non performing loans, partirei dalla considerazione che finalmente, con qualche ritardo rispetto ad altri Paesi, il mercato è diventato più liquido; mi riferisco, in generale, al mercato delle cessioni di non performing loans, quindi alla velocità con cui le banche riescono a smaltire l'enorme stock che devono fronteggiare, a fronte di deconsolidamento e cessioni.
  Ciò per anni è stato bloccato dall'incoerenza tra domanda e offerta in termini di valutazioni, mentre, per una serie di motivi – non ultimi i recenti interventi di riforma sulle procedure concorsuali fallimentari e sui meccanismi di funzionamento dei tribunali e delle aste immobiliari – oltre che, ovviamente, grazie a un intervento sempre più incisivo della BCE, questo mercato si sta sviluppando.
  A nostro avviso questo aspetto è molto importante, perché uno dei principali freni al nuovo credito per le banche italiane era rappresentato dal dover fronteggiare vincoli patrimoniali resi molto più «sfidanti» a causa dei non performing loans. Per definizione, quindi, smaltire questo problema significa dare più ossigeno al sistema economico.
  Una parte della domanda del presidente riguardava l'impatto sociale di questo meccanismo: chiaramente esso è, indirettamente, piuttosto rilevante, però, per non eludere la domanda, citerei qualche dato concreto e due riflessioni. Il dato concreto è che alla base dei non performing loans italiani c'è, per l'80 per cento dei casi, un'azienda e non un individuo, quindi l'impatto sociale di un approccio sempre più «ficcante» nel processo di recupero riguarda soprattutto il 20 per cento dei casi. Alla luce di questo dato, nonché per la relazione tra non performing loans e il complesso dell'economia italiana, non nutro, personalmente, una grande preoccupazione.
  Inoltre (questo è più di dettaglio, da operatore industriale che di mestiere fa anche recupero crediti e gestione di non performing loans per le banche) posso aggiungere che l'operatore efficiente del recupero crediti fa analisi di compromesso tra difficoltà del recupero, cioè costi necessari, e possibili ritorni: ci sono diversi strumenti e come Cerved abbiamo, ovviamente, la capacità di valutare le singole situazioni in modo molto dettagliato e preciso.
  Si va quindi ad agire in primis sulle situazioni rispetto alle quali si sa di riuscire a portare a casa qualcosa; inoltre i casi «disperati» sono numericamente circoscritti e sono quelli che di solito l'operatore industriale anche più efficace nelle procedure di recupero, «aggredisce» per ultimi.
  Sinceramente, quindi, non mi aspetterei che questi pochi casi più tristi siano più Pag. 9rilevanti del vantaggio di cui sopra, ossia maggiore ossigeno per il sistema Paese e anche minore tensione patrimoniale dal punto di vista delle banche.
  Per quanto riguarda la seconda domanda, la Direttiva PSD2 rappresenta sicuramente uno dei tanti mutamenti, a livello regolamentare e tecnologico, che potenzialmente (perché è ancora in fase di studio per tutti gli operatori) offre prospettive nuove ai servizi per la clientela, poiché, se la banca è obbligata a dare visibilità ai movimenti di conto corrente dei propri clienti – a fronte del loro consenso – a più operatori, i predetti operatori avranno la possibilità di fornire servizi addizionali al consumatore che li richiede, per esempio nell'ambito del financial planning personale, e strumenti di questo tipo.
  Nella nostra ottica, inoltre, la Direttiva PSD2 potrà anche favorire nuovi metodi di valutazione del credito. Avere accesso ai movimenti che avvengono sui conti correnti aggiunge un set informativo di particolare rilievo, si può meglio valutare la cosiddetta affordability, qual è la capienza del reddito, il tasso di risparmio e una serie di considerazioni che possono essere molto utili in un'ottica di trasparenza, a fronte del consenso, per chi deve valutare il merito creditizio. Ciò fino ad arrivare (anche questo sarà probabilmente un impatto rilevante), a tutto il business del recupero crediti soprattutto in ottica di credito al consumo, quindi di prestiti molto più piccoli, frammentati e non garantiti, dove ci potrà essere un'evoluzione, visto che, oltre alla visibilità con consenso specifico, ci sarà anche la possibilità di agire su quei conti.
  Vedo grande fermento da parte di tutti gli operatori come noi e lungo la nostra catena del valore, quindi a monte sui sistemi di pagamento, per attrezzarsi a offrire, grazie alla Direttiva PSD2, nuovi servizi alla clientela e a fare anche meglio il lavoro di valutazione o di recupero crediti.

  SILVIA FREGOLENT. Vi ringrazio per l'audizione molto interessante. Vorrei avere un vostro giudizio sui PIR (Piani individuali di risparmio).

  MARCO NESPOLO, amministratore delegato di Cerved SpA. In termini di canalizzazione delle risorse verso coloro che, di solito, sono meno esposti alle liquidità del sistema, a nostro avviso i PIR sono stati un'ottima innovazione.
  Assistiamo a un grande fermento: devo dire che tale strumento abbraccia forse un ambito fin troppo ampio (se mi posso permettere) in termini di bacino d'utenza. Persino Cerved, infatti, con i suoi 2 miliardi di euro di capitalizzazione di Borsa, poiché rientra nell'indice Mid Cap, tecnicamente, rientra nel paniere dei PIR. Certamente tale strumento va nella direzione giusta: so che diversi soggetti, i quali operano lungo la catena del valore a cui noi ci rivolgiamo – penso ad asset manager di vario tipo, consulenti anche per la piccola e media impresa – stanno costruendo prodotti specifici, non più solo di equity, da cui si è partiti più facilmente, ma anche di debito. Si tratta quindi di strumenti, a nostro avviso, scalabili, e che vanno tutti nella direzione giusta.
  Come sempre, ci saranno code di situazioni magari non perfettamente «centrate», ma anche in termini di agevolazione dell'accesso al credito, dal lato degli incentivi alla banca, essi vanno nella giusta direzione.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal dottor Nespolo (vedi allegato 1).

Audizione del Presidente dell'Associazione nazionale consulenti finanziari (ANASF), Maurizio Bufi.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative all'impatto della tecnologia finanziaria sul settore finanziario, creditizio e assicurativo, l'audizione del presidente dell'Associazione nazionale consulenti finanziari (ANASF), Maurizio Bufi, il quale è già stato nostro ospite in relazione ad altri temi che abbiamo affrontato. Pag. 10
  Cedo quindi subito la parola al presidente dell'Associazione nazionale consulenti finanziari (ANASF), Maurizio Bufi.

  MAURIZIO BUFI, presidente dell'Associazione nazionale consulenti finanziari (ANASF). Grazie, presidente. Come lei ha ricordato, sono già intervenuto in audizione presso questa Commissione ed è sempre un piacere tornare per dare testimonianza della view della nostra associazione sui temi che riteniamo sensibili, motivo per cui abbiamo chiesto di essere auditi. Su questi temi peraltro avevamo avuto uno scambio informale di opinioni con l'onorevole Barbanti, in occasione di precedenti incontri, quindi vi ringrazio doppiamente per la disponibilità.
  Noi abbiamo consegnato un documento, di cui credo siate in possesso, che leggerò rapidamente e che, eventualmente, commenterò. Non presento l'associazione, perché credo che sia sufficientemente conosciuta, magari dando per scontato una cosa che scontata non è. Comunque mi limito a dire che ANASF è l'Associazione nazionale dei consulenti finanziari ed è l'unica associazione che rappresenta il mondo della consulenza finanziaria in Italia, più noto fino a qualche anno fa come mondo dei promotori finanziari, i quali, a seguito della legge di stabilità del 2016, hanno cambiato definitivamente denominazione, acquisendo quella di consulenti.
  Il tema del mio intervento odierno è il fenomeno del FinTech applicato alla consulenza finanziaria. Come è noto, il termine FinTech è entrato nell'uso corrente per indicare l'utilizzo di applicazioni tecnologiche nel settore finanziario, creditizio e assicurativo. In mancanza di una definizione univoca, il termine viene oggi impiegato in modo estensivo per indicare sia la prestazione di servizi in forma automatizzata o semi-automatizzata (ci sono vari esempi a questo riguardo), sia l'utilizzo delle nuove tecnologie al fine di aumentare l'efficienza del sistema finanziario e la gamma di soluzioni offerte ai cittadini.
  Una delle possibili articolazioni del più vasto fenomeno FinTech è rappresentata dal cosiddetto robo advice, cioè l'applicazione di soluzioni tecnologiche alla prestazione del servizio di consulenza finanziaria, principalmente mediante l'utilizzo di piattaforme on line, preordinate in base a specifici algoritmi.
  Il termine robo advisor rappresenta in realtà un concetto di portata assai ampia, che racchiude al suo interno una molteplicità di fattispecie. In primo luogo è possibile distinguere tra strumenti on line, più semplici, per la profilazione del cliente e la modellatura dei portafogli di investimento, e soluzioni maggiormente articolate per la prestazione del servizio di consulenza MiFID. Ricordo che la MiFID si occupa, con riguardo all'attività di consulenza, delle «raccomandazioni personalizzate» su singoli strumenti finanziari o servizi di investimento.
  Risulta inoltre necessario distinguere le varie soluzioni di robo advisory attraverso il coinvolgimento del consulente fisico, cioè il consulente in carne ed ossa. Da un lato vi è quello definibile come il robo advice tout court, ossia l'impiego di strumenti automatizzati senza alcuna forma di interazione umana nel rapporto tra l'investitore e l’advisor digitale, dall'altro vi sono i modelli ibridi, nei quali la tecnologia non si sostituisce al consulente umano, ma fa da supporto all'attività dello stesso, incrementando l'efficienza del modello consulenziale e rendendo possibile l'offerta ai risparmiatori di soluzioni d'investimento integrate.
  Il robo for advisor (questa è la definizione di quest'ultima fattispecie) può supportare l'operato del consulente umano nelle varie fasi di profilazione del cliente, di definizione dell’asset allocation, quindi della distribuzione degli attivi, nonché di individuazione degli obiettivi di investimento e di monitoraggio periodico delle scelte di investimento che sono state prese.
  In occasione delle consultazioni tenute nell'ultimo biennio dalla Commissione europea e dalle tre Autorità di vigilanza europee – consultazioni alle quali l'associazione, ogni qualvolta è stato affrontato un argomento di interesse, ha partecipato negli anni – l'ANASF ha più volte sottolineato come la distinzione ideale tra robo advisor tout court e il robo for advisor consenta di Pag. 11dare specifiche indicazioni rispetto alla questione, attualmente assai dibattuta, sull'impatto più o meno disruptive della tecnologia – portatrice di grandi cambiamenti nel sistema finanziario – e al conseguente livello di disintermediazione umana a favore del canale on line.
  Più precisamente, tale questione può essere esaminata sotto due punti di vista, riferibili rispettivamente ai rischi e alle opportunità per gli investitori, derivanti dalla diffusione delle soluzioni FinTech e al ruolo del consulente finanziario, per l'appunto in tema di rischi e opportunità.
  Il report sull'Automazione della consulenza finanziaria, pubblicato dalle tre Autorità ESMA, EBA ed EIOPA in data 16 dicembre 2016, a sua volta preceduto da una consultazione a cui anche l'ANASF ha dato il suo contributo, oltre a evidenziare l'attenzione recentemente mostrata dal regolatore europeo rispetto al fenomeno FinTech, rappresenta un importante contributo alla ricognizione dei rischi e delle opportunità per i risparmiatori, derivanti dall'utilizzo della tecnologia nella prestazione del servizio di consulenza.
  I benefìci dell'automazione nel processo della consulenza risultano, nel complesso, ascrivibili all'ampliamento delle possibilità di impiego dei servizi finanziari (fatto sicuramente positivo). Per gli investitori che già utilizzano servizi di consulenza, la tecnologia, nel suo integrarsi con il ruolo del consulente umano o fisico, può infatti contribuire a un arricchimento delle soluzioni offerte e a un aumento del grado di coinvolgimento e di consapevolezza dell'investitore. Si pensi ad esempio agli strumenti interattivi per la definizione del profilo di investimento, alla rendicontazione e al monitoraggio periodico degli investimenti stessi, e ad altre modalità in cui la tecnologia comunque ha un suo rilievo.
  La maggiore efficienza conseguibile grazie alla tecnologia può altresì consentire ai consulenti finanziari di assistere, mediante soluzioni ad hoc, anche quelle fasce di clientela retail, che oggi non beneficiano del servizio di consulenza.
  Questo è un aspetto che vorrei sottolineare, perché quando si parla di consulenza finanziaria si abbraccia un ambito molto ampio, dopodiché in subordine si fa riferimento di solito a quella prestazione del servizio che viene riservata a clienti o potenziali clienti che dispongono di importanti risorse finanziarie. In realtà, la consulenza finanziaria dovrebbe essere funzionale e avvantaggiare tutte le scelte di investimento, anche quelle del piccolo risparmiatore, e in questo la tecnologia può persino aiutare (in questo senso si fa riferimento alla clientela retail).
  La disamina dei rischi derivanti dall'automazione del processo di consulenza richiede però alcune precisazioni. Gran parte dei rischi individuati nel report delle Autorità europee risultano infatti riferibili a quello che è stato definito come robo advisor tout court, proprio a causa dell'assenza di un operatore umano che, interagendo con il cliente, possa sopperire ai limiti e ai cattivi funzionamenti dello strumento informatico.
  I rischi specifici possono essere innanzitutto legati a difetti di funzionamento dovuti a errori di progettazione o a manipolazione degli algoritmi sottostanti, che possono così condurre a un'errata profilatura della clientela e produrre criticità rispetto alla protezione degli account personali.
  Occorre altresì considerare l'eventualità che gli algoritmi sottostanti alle soluzioni di robo advisory possano dare origine a fenomeni di misselling, nell'ambito dei quali gli strumenti informatici sono strutturati per favorire la distribuzione di prodotti che generano maggiori ricavi per le piattaforme di distribuzione, senza tuttavia tenere in considerazione le reali esigenze del cliente.
  Questa considerazione, che peraltro abbiamo ricavato anche dal report delle autorità europee, merita un breve commento, cioè non vorremmo (questa è una sorta di warning) che si affermasse l'idea che semplicemente il passaggio dal rapporto umano, fisico, face to face, al rapporto affidato alla macchina salvaguardi ed escluda di per sé possibili alterazioni, o addirittura possibili attività di misselling, perché bisogna esaminare come sono concepite queste piattaforme. Pag. 12
  Laddove, quindi, riconduciamo il misselling ai cattivi e, in taluni casi, persino dolosi comportamenti degli operatori (purtroppo ne abbiamo avuti molti esempi anche di recente), ciò significherebbe trasferire tali comportamenti alla macchina, pensando erroneamente che essa sia invece asettica da questo punto di vista.
  Altri rischi riguardanti la trasparenza e la corretta attribuzione delle responsabilità del processo sono a loro volta dovuti alla mancanza di informazioni per la clientela sul funzionamento degli strumenti automatizzati o, comunque, alla limitata capacità per il singolo utente di comprendere l'ambito del servizio on line.
  Questo lo possiamo testimoniare come operatori, perché, nonostante si sia molto diffusa l'attività e l'uso delle piattaforme informatiche, in taluni ambiti c'è ancora molta resistenza, il digital divide ha ancora un suo peso, anche se, sicuramente, si sta facendo molta strada da questo punto di vista. Le difficoltà rispetto alle soluzioni completamente automatizzate vengono esacerbate dall'oggettiva impossibilità per l'investitore di rivolgersi a un operatore umano per ottenere chiarimenti o altre forme di supporto.
  Un ulteriore fattore di criticità è rintracciabile nelle soluzioni di robo investing le quali, nel formulare raccomandazioni di investimento sulla base di modelli e profili preimpostati, possono causare «fenomeni di gregge», cioè di natura prociclica, suscettibili di amplificare i movimenti di mercato dovuti all'assunzione, da parte di una molteplicità di investitori, di decisioni di investimento simili, a loro volta causate da una standardizzazione inflazionata dei profili della clientela. Anche rispetto a questo tipo di situazioni, dunque, l'utilizzo della macchina non sempre preserva da fenomeni di questo tipo.
  Risulta meritevole di specifica considerazione l'ulteriore rischio legato alla disintermediazione umana del processo consulenziale, cosa a cui noi teniamo in modo particolare. Tale rischio discende a sua volta da un'interpretazione fuorviante del significato del servizio di consulenza, ascrivibile all'erronea convinzione che la consulenza automatizzata, con specifico riferimento alle soluzioni completamente robotizzate in cui è del tutto assente il contributo del consulente, possa rappresentare un'alternativa a basso costo alla consulenza umana.
  È nell'interesse di tutti gli attori coinvolti (istituzioni, intermediari, consulenti finanziari e risparmiatori, soprattutto quando assumono la veste di investitori) evitare uno scenario futuro in cui l'eccessivo affidamento all'automazione, associato alla fuorviante impostazione che considera il professionista umano solo un costo cosiddetto «evitabile», precluda completamente al singolo risparmiatore la possibilità di interagire con un consulente fisico.
  Lungi dal paventare lo spettro del luddismo, è innegabile che uno scenario del genere non sia auspicabile, ove si consideri il diritto dei risparmiatori a ricevere un servizio completo e di qualità, in cui l'efficienza tecnologica sia coniugata con l'imprescindibile sensibilità umana.
  Devo dire che questa non è soltanto la nostra interpretazione, ma basta esaminare che cosa afferma l'ESMA a questo riguardo, a proposito delle competenze e delle conoscenze, nell'ambito di linee guida che, a breve, saranno adottate anche in Italia dalla CONSOB.
  La vera criticità insita nella predetta interpretazione è rappresentata dalla considerazione della sola dimensione di costo; la potenziale dicotomia tra umano e robot deve essere, invece, risolta alla luce del criterio principe, rappresentato dalla qualità del servizio per l'investitore, conseguibile grazie alle sinergie derivanti dall'interazione tra la componente umana e quella digitale.
  Mi avvio a concludere, non prima di aver citato tuttavia l'ambito del ruolo del consulente, nell'interazione con il fenomeno hi-tech.
  Attualmente risultano iscritti all'Albo unico nazionale dei consulenti finanziari oltre 56.000 consulenti finanziari abilitati all'offerta fuori sede. Tra questi, sono più di 36.000 gli attivi, ossia gli iscritti che operano effettivamente per conto di un intermediario finanziario autorizzato, che Pag. 13sia una SIM, un'impresa di investimento, una banca o una SGR.
  Secondo i dati recentemente diffusi da Assoreti, che è l'associazione che raggruppa i soggetti abilitati all'offerta fuori sede, sono quasi 4 milioni i clienti che affidano i propri risparmi ai consulenti finanziari. A settembre 2016 (questo dato è affidabile, perché viene pubblicato l'anno successivo, quindi si riferisce al 2016) il 15,2 per cento degli asset finanziari delle famiglie italiane risultava riconducibile all'attività delle reti di consulenti.
  Poiché nel frattempo il settore si è ulteriormente ampliato, avendo «rastrellato» (passatemi questo termine) quote di mercato, tale percentuale è certamente aumentata. A settembre del 2017 (questo è il dato più aggiornato) il patrimonio affidato alle reti ha raggiunto il nuovo valore record di 57,4 miliardi di euro.
  I dati menzionati dimostrano che, dopo aver superato le fasi più acute della crisi finanziaria che ha duramente colpito il nostro Paese a partire dal 2008, la professione del consulente finanziario ha saputo confermare il proprio percorso di crescita. Tale professione è infatti ispirata da una logica di servizio fondata sulla personalizzazione del rapporto fiduciario con i risparmiatori, che si coniuga al possesso di specifiche competenze e conoscenze – che richiamavo anche prima e su cui tra l'altro si apre anche una sfida per gli operatori – perché è evidente che tali competenze e conoscenze dovranno essere non solo monitorate, ma anche implementate ancor di più nel futuro, rispetto a oggi.
  Ciò non riguarda soltanto i consulenti finanziari, ma tutti coloro che, come afferma il regolatore europeo e affermerà anche quello nazionale, si limitano a dare un'informativa commerciale. Questa è la vera, grande ed importante novità del settore.
  Altra caratteristica distintiva è la capacità di proporre un servizio che, prediligendo soluzioni d'investimento di medio e lungo periodo, viene sviluppato nel tempo, considerando le esigenze e gli obiettivi del singolo risparmiatore. Tutti i predetti elementi permettono al consulente, da un lato, di mantenere una propria identità specifica, dall'altro di dimostrare una particolare adattabilità ai mutamenti del contesto normativo e di mercato, di cui il fenomeno FinTech rappresenta un caso emblematico. I cambiamenti conseguenti all'innovazione tecnologica rappresentano infatti una delle principali sfide per l'evoluzione della nostra professione di consulenti.
  Tornando alla questione, già menzionata, dell'impatto della tecnologia sul sistema finanziario e del conseguente livello di disintermediazione, risulta di fondamentale importanza ricordare lo specifico valore aggiunto che, come riconosciuto dal legislatore europeo relativamente alla MiFID 2, è insito nel servizio di consulenza. La creazione di tale valore aggiunto risulta a sua volta legata in modo imprescindibile alla componente umana. L'investimento in prodotti di risparmio è un'attività intrinsecamente complessa, ben diversa dall'acquisto on line di libri, viaggi o altri beni, materiali o immateriali che siano.
  La presenza di un consulente-persona fisica è importante anche dal punto di vista psicologico, al fine di generare maggiore consapevolezza nei risparmiatori, per correggerne gli errori comportamentali, i quali costituiscono un'importante causa dei rendimenti negativi negli investimenti.
  Non c'è bisogno di ricordare a questa Commissione che l'ultimo premio Nobel è stato assegnato a Richard Thaler, che sui temi della finanza comportamentale ha fatto veramente grandi passi avanti: l'elemento della psicologia cognitiva e quindi, sostanzialmente, l'elemento umano, sono di grande importanza nel nostro settore.
  L'automazione senza l'interazione umana non consente, infatti, di trasmettere alcuna forma di educazione finanziaria, tra le altre cose. Le informazioni da sole possono avere anche scarso valore, nella misura in cui non vi sia un consulente umano in grado di rielaborarle e spiegarle.
  Vorrei aggiungere che persino noi ci troviamo in uno stato di overdose di informazioni, quindi c'è la necessità di selezionarle, catalogarle e soprattutto di selezionare quelle che sono interessanti, tralasciando quelle ininfluenti. Pag. 14
  Dobbiamo poi considerare che una delle linee di evoluzione del settore più probabili e al tempo stesso auspicabili è rappresentata dallo sviluppo di un approccio consulenziale a 360 gradi. Si tratta cioè di concepire il consulente finanziario come un professionista che assiste il cliente e il suo nucleo familiare in ogni momento e in tutte le esigenze del suo ciclo di vita.
  Ad esempio, c'è il tema del passaggio generazionale nell'ambito delle imprese familiari e delle prospettive del wealth management, che includa la pianificazione fiscale e successoria, nonché l'ambito assicurativo e previdenziale. In questo senso ho affermato che il tema delle competenze e delle conoscenze non potrà che ulteriormente svilupparsi, perché in qualche modo è il mercato che lo richiede.
  Sono tutte attività che un robo advisor, completamente slegato dalla componente umana, non può certamente svolgere, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze. È allora del tutto plausibile pensare che il futuro sviluppo del settore non sarà caratterizzato da una contrapposizione fra uomo e macchina, ma da modelli di business integrati, in cui la consulenza automatizzata potrà rappresentare un efficace supporto ai consulenti finanziari, tale da soddisfare, grazie alle sinergie sopramenzionate, i bisogni degli investitori.
  In conclusione, l'Associazione dei consulenti finanziari (ANASF) condivide l'attuale iniziativa di questa Commissione, volta a riservare uno specifico spazio di riflessione alle prospettive di sviluppo del settore finanziario latu sensu intese, rispetto all'innovazione tecnologica. Sappiamo che il tema riguarda direttamente anche il mondo bancario, anzi forse lo riguarda ancora di più.
  Al riguardo l'Associazione evidenzia come, in una prospettiva di completa ed effettiva tutela del cittadino risparmiatore, il focus sul binomio umano-digitale richieda l'applicazione di regole quanto più possibile uniformi tra i vari operatori del settore, alla luce del principio di derivazione comunitaria riconducibile al concetto del level playing field, il famoso livellamento del campo di gioco, che noi abbiamo sempre richiesto ed evocato.
  Proprio in virtù dell'esperienza acquisita negli anni grazie all'operato dei nostri associati nell'ambito dell'attività di consulenza e di offerta dei servizi finanziari ai risparmiatori, la nostra associazione intende pertanto manifestare la propria disponibilità, ove occorra, ad approfondire i temi sinteticamente delineati in questo intervento, nella convinzione che l'indagine promossa dalla Commissione possa contribuire al rafforzamento delle forme di tutela degli investitori e alla fiducia del pubblico nel sistema finanziario.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Bufi, anche per la chiarezza.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  SEBASTIANO BARBANTI. Grazie, presidente Bufi, per la sua approfondita relazione. Essa riflette il suo punto di vista, che peraltro io condivido pienamente, soprattutto per quanto riguarda l'ultima parte, relativa alla collaborazione tra l'uomo e la macchina. Ho detto che il FinTech non va da nessuna parte senza le banche e viceversa, perché ciascuno di questi due attori possiede quello che manca all'altro. La stessa cosa ovviamente vale anche per il mondo della consulenza finanziaria.
  Facendo riferimento a quello che lei ha affermato, cioè, da una parte, all'immensa mole di dati che progressivamente vengono generati e, dall'altra, al mondo sempre più variegato e complesso in cui viviamo, anche dal punto di vista degli investimenti, proprio le macchine, con i big data, gli analytics e le reti neurali, sono una delle soluzioni che potrebbero consentire di elaborare i predetti dati.
  Anche i punti di vulnerabilità che ha individuato sono insiti in questo modello e soltanto uno sviluppo crescente potrà cominciare a porvi rimedio. Tuttavia, ovviamente, si tratta di elementi temporanei; vorrei sollevare di nuovo, dunque, un problema a cui lei ha giustamente accennato: c'è bisogno di un'evoluzione anche del modello della consulenza offerta dall'uomo.
  Pertanto, mi chiedo e le chiedo: come sarà il consulente del futuro che dialogherà Pag. 15con le macchine? Cosa state già facendo materialmente per creare questa nuova figura? Vorrei sapere soprattutto se ci sono interventi normativi che si possono realizzare per facilitare questo nuovo sviluppo.
  Di certo l'innovazione può far diventare obsoleti alcuni lavori che si richiamano a tecnologie superate, ma è pur vero che la mancanza d'innovazione genera sicuramente disoccupazione e perdita di occasioni di sviluppo, perché tutto ciò che fa nascere una nuova impresa produce, ovviamente, lavoro.

  PRESIDENTE. Do la parola al presidente Bufi per la replica.

  MAURIZIO BUFI, presidente dell'Associazione nazionale consulenti finanziari (ANASF). Questo è un bel dilemma, nel senso che la mancanza di innovazione genera disoccupazione e anche l'innovazione di per sé la genera, analogamente. È un bel dilemma, al quale ovviamente non sono in grado di rispondere.
  Rispondo, invece, volentieri sulla domanda relativa a che cosa sta facendo l'Associazione, cioè su cosa pensiamo si debba fare. Inizio parlando del quadro normativo-regolamentare. Ricordo che, dal punto di vista normativo-regolamentare, siamo tutti in attesa – e quando dico «tutti» intendo ovviamente il mondo a cui noi facciamo riferimento ma, indirettamente, anche l'intero settore del risparmio e dell'investimento, quindi il sistema finanziario – della decorrenza della famigerata o famosa, secondo come la intendiamo – MiFID 2 (Market in financial instruments directive), che dispiegherà i suoi effetti dal 3 gennaio 2018.
  La disciplina normativa è già, per così dire, abbastanza invasiva. Certamente vi sono ambiti che vanno ancora regolamentati, come il tema del FinTech; credo questo sia uno dei motivi per cui la Commissione ha voluto svolgere l'indagine conoscitiva in atto. Su questi ambiti bisogna mettere le mani.
  Cosa fa l'Associazione dei consulenti finanziari? Innanzitutto vuole essere coerente con la sua mission, cioè continuare a formare i propri iscritti attraverso un programma pluriennale di formazione, che peraltro non stiamo inventando da oggi. Facciamo queste affermazioni perché le possiamo comprovare. Attraverso le iniziative di formazione che eroghiamo ai nostri associati grosso modo noi mettiamo in aula tra i 5.000 e i 6.000 colleghi ogni anno solo attraverso le nostre iniziative. Inoltre, questi stessi colleghi, molto spesso, a loro volta fanno altri percorsi di formazione o per conto dell'intermediario per il quale operano o liberamente. Su questo versante c'è, quindi, l'impegno assoluto dell'Associazione.
  Dall'altro lato, riteniamo che i riferimenti citati nel corso della mia relazione, tutti di derivazione comunitaria, e quindi la nostra consapevolezza della necessità e dell'importanza di elevare lo standing medio delle competenze e delle conoscenze, non possano che portare a un'evoluzione positiva della figura del consulente finanziario.
  Ribadisco che ciò rappresenta per noi anche una sfida, perché, se si ritiene di adagiarsi su situazioni – mi esprimo così per essere chiaro – di rendita, probabilmente non si va molto lontano. Se, viceversa, si anticipano un po’ i fenomeni e si cerca di favorire l'integrazione tra il supporto tecnologico e l'imprescindibile supporto cognitivo, psicologico e comportamentale dell'operatore, allora sicuramente si fa molta strada.
  Questo è il nostro impegno ed è l'impegno che rappresentiamo, peraltro, anche negli ambiti in cui siamo presenti e in cui assumiamo iniziative insieme ad altri stakeholder. Mi riferisco, ad esempio, all'organismo di gestione dell'Albo dei consulenti finanziari, che si accingerà ad assumere entro l'anno prossimo anche le funzioni di vigilanza, in cui noi siamo presenti con una nostra importante rappresentanza.
  In tutti quegli ambiti dove possiamo far presente il nostro punto di vista non possiamo che favorire questo percorso di crescita, che, da una parte, consiste nel prendere atto dell'innovazione tecnologica e assumerla come alleato di un percorso e, dall'altra, nel valutare tutte le opportunità Pag. 16che proprio da questa evoluzione possono derivare.

  GIAN FRANCO GIANNINI GUAZZUGLI, componente del comitato esecutivo ANASF. Aggiungo una piccola considerazione. Indubbiamente cambiano le modalità con cui il risparmiatore italiano affronta le proprie esigenze di investimento. Noi siamo un popolo che tradizionalmente ha utilizzato due strumenti: immobili e titoli di Stato. Questa è stata una modalità corretta per gli strumenti che erano presenti sul mercato, ma che negli ultimi anni si è dimostrata non valida per aiutare il risparmiatore a raggiungere gli obiettivi del risparmiatore, anzi, in alcuni casi essa è stata, addirittura, fortemente penalizzante.
  Da questo punto di vista, avere la possibilità di utilizzare la tecnologia è molto importante per noi, per riuscire a dare un supporto all'investitore. Senza l'elemento umano di raccordo, tuttavia, difficilmente riusciremo a svolgere la nostra attività quotidiana di educazione finanziaria, che svolgiamo nei confronti del risparmiatore. L'educazione finanziaria non vuol dire che il risparmiatore diventa esso stesso un trader o un operatore, ma che diventa consapevole di quello che deve fare e, soprattutto, delle scelte che intende assumere per realizzare i suoi bisogni e i suoi obiettivi.
  Questo è un Paese in cui si risparmia tendenzialmente perché si è sempre risparmiato, perché risparmiava il papà e risparmiava il nonno. I soldi si tenevano alcuni per una cosa e altri per un'altra, ma non c'era una grande progettualità sul risparmio, cosa che invece gli strumenti di oggi, compreso il FinTech in qualche modo, ci aiutano a realizzare.
  Può bastare a volte un incontro una volta l'anno per definire una programmazione e farsi supportare da strumenti informatici, per poi gestire l'attività quotidiana, se ci sarà da modificare il percorso di investimento o nel caso in cui emerga una nuova esigenza del cliente. La profilatura eseguita, in automatico, da una macchina, rimane sempre quella, ma noi come soggetti cambiamo. Oggi, ad esempio, posso dare un'indicazione in base al mio sentiment nei confronti del mercato, facendo riferimento a un aspetto che spesso penalizza il risparmiatore. Mi riferisco all’overconfidence, cioè all'essere convinti che i mercati andranno in una determinata direzione e che sia vantaggioso quindi comprare un determinato prodotto mentre, molto spesso, ci si avventura in un campo che si conosce poco. Il ruolo del consulente diventa quindi fondamentale, ma è agevolato dalla presenza della macchina.
  Da questo punto di vista, l'equazione funziona se mettiamo insieme le due componenti.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti.
  Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal dottor Bufi (vedi allegato 2) e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del dottor Matteo Rizzi, co-founder di FinTechStage.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative all'impatto della tecnologia finanziaria sul settore finanziario, creditizio e assicurativo, l'audizione del dottor Matteo Rizzi, co-founder di FinTechStage.
  Do la parola al dottor Rizzi per lo svolgimento della sua relazione.

  MATTEO RIZZI, co-founder di FinTechStage. Vorrei cominciare dicendo che questo speech non sarà né tecnico, né bancario o finanziario. Io infatti sono una persona che si occupa di ecosistemi, poiché da una decina d'anni, grazie al mio passato in Swift e alla successiva creazione, nel 2008, di un brand globale di innovazione FinTech, forse il primo in questo campo, che si chiama Innotribe, ho avuto la fortuna, non soltanto di assistere, ma anche di aiutare a costruire una serie di ecosistemi nel mondo. Vorrei quindi parlarvi di ciò che ha funzionato, di ciò che ha fallito e quali sono gli ingredienti di una ricetta che può essere di successo, nei casi in cui è possibile offrire una testimonianza di successo.
  Tanto per cominciare, la prima caratteristica comune di tutti gli ecosistemi FinTech Pag. 17 è che hanno sei attori: quelli che in inglese si chiamano incumbent, cioè gli istituti finanziari; le start-up, ossia gli imprenditori; il regolatore; quelli che chiamiamo comunemente «technology partner», ossia tutte le infrastrutture di software o tecnologiche; il capitale, ossia gli investitori. C'è poi un sesto attore, che chiamerei «academia» in inglese, ovvero tutta la parte di education, talent eccetera.
  Faccio un piccolo inciso: non sono assolutamente abituato a svolgere relazioni in italiano, perciò ogni tanto userò termini in inglese.
  Assemblare i sei attori dell'ecosistema FinTech che ho citato è il lavoro di FinTechStage, la società che ho costituito tre anni fa insieme all'ex CEO di Swift. Swift stesso è un player collaborativo mondiale dell'industria finanziaria.
  Esaminiamo innanzitutto le caratteristiche di ciascuno di questi attori. Al riguardo porterò un paio di esempi di cose avvenute all'estero, nelle piattaforme internazionali, per vedere se alcune di queste esperienze sono replicabili, o per lo meno se possono costituire un'ispirazione per questo tavolo di discussione.
  Cominciamo dalle start-up e dal mondo degli imprenditori. Personalmente ho costituito società in Inghilterra, a Hong Kong, in Portogallo e in Italia. In Portogallo, ad esempio, c'è un sistema che si chiama «Companhia na hora» e ci sono venti agenzie in tutto il Paese presso le quali è possibile costituire la propria società, compresa di partita IVA, e un'ora dopo uscire da una di queste agenzie e andare in banca; la banca ha già ricevuto gli estremi della società appena creata ed è in grado istantaneamente di aprire un conto bancario. Dunque, io concretamente, dopo un paio d'ore dall'appuntamento con questa agenzia, avevo avviato una fully-functional start-up. Credetemi: ho provato a crearla qui, ma non ho trovato sufficienti vantaggi in quanto imprenditore, sia che si trattasse di vantaggi fiscali, sia di vantaggi in termini di costi di costituzione e di mantenimento dell'impresa, o anche semplicemente di vantaggi per la gestione quotidiana.
  Il Portogallo non è l'unico Paese che ha fatto una politica molto aggressiva e agevolativa nei confronti delle start-up, e ciò mi porta a fare un invito a questa Commissione, perché emerge chiaramente come in Italia ci sia un gap da colmare sotto questo profilo.
  Il regolatore è uno dei sei stakeholder dell'ecosistema e può essere il più grande ostacolo all'innovazione o il più grande enabler (abilitatore) dell'innovazione.
  Da questo punto di vista vorrei fare almeno tre esempi. Il primo è l'esempio di Singapore. Ero a Singapore la settimana scorsa a un evento che si chiama «FinTech festival». Il regolatore di Singapore, non soltanto ha lanciato una serie di iniziative verticali sul FinTech, a partire dalla blockchain, fino al lending e al crowdfunding, ma è anche andato in giro per il mondo a stringere gemellaggi con gli altri regolatori, in modo da attirare altre start-up a stabilirsi a Singapore, e ha creato una sandbox.
  La metafora della sandbox è perfetta. La sandbox è il giardino di sabbia, dove i bambini giocano e possono facilmente costruire qualcosa, disfarla e sporcarsi le mani. Una serie di regolatori nel mondo hanno costituito questo tipo di strumento. Peraltro, Stefano, che è qui presente, aveva anche proposto, se non erro nel 2016, tra le varie iniziative, di creare una cosa del genere in Italia. È stato abbastanza forward-looking e gli faccio i complimenti.
  La sandbox dà la possibilità a start-up e banche di collaborare in uno stesso environment tecnologico-tecnico, dove, ad esempio, concretamente le banche possono mettere a disposizione delle start-up una serie di dati, che queste ultime possono usare per fare degli esperimenti.
  Facciamo un esempio concreto. Se dovessi spiegare il FinTech a mia mamma lo spiegherei nella seguente maniera: oggi per una banca è impossibile prestare 10.000 euro a un fioraio due settimane prima di San Valentino. È impossibile perché il guadagno della banca nel prestare 10.000 euro in due settimane di tempo, pur avendo la certezza che il fioraio dopo il boom di San Valentino potrebbe restituire il capitale prestato, Pag. 18 fa sì che per la banca non valga la pena fare questa operazione. Grazie alla tecnologia, a strutture molto più leggere, a una maniera alternativa di fare lo scoring del cliente e, quindi, di determinare la sua solvibilità, oggi ci sono start-up che sono in grado di prestare 10.000 euro a un fioraio due settimane prima di San Valentino. Questo è il FinTech, è un esempio verticale.
  Se noi riuscissimo a coinvolgere il regolatore qui in Italia per costituire gemellaggi di questo tipo su una serie di operazioni verticali, nel momento in cui una start-up avesse bisogno di crescere, avrebbe già dalla sua parte una serie di punti di riferimento già attivi, i quali le permetterebbero di accedere al mercato in maniera molto più facile. Questa cosa in Italia non è stata ancora creata. Citavo Singapore, ma lo stesso avviene anche in Lussemburgo. Tutti hanno imparato da Londra, dove è nata la prima sandbox. Negli Stati Uniti ci sono almeno quattro regolatori che hanno creato una sandbox di questo tipo. Dobbiamo imparare da queste iniziative.
  Adesso parlerei degli investitori. Io sono stato investor per tre fondi diversi. Uno era il classico corporate venture capital, una grande istituzione bancaria che ha costituito un fondo proprio, per cui sono stato un partner. Sono stato anche venture partner, ossia una persona che aiutava nell'analisi di opportunità, per un paio di altri fondi.
  In Italia c'è un gap clamoroso fino a quella che si chiama «serie A», che va più o meno dai 2 ai 5 milioni di investimento. Per tutto quello che c'è prima, che in gergo si chiama «seed» e «post-seed», c'è un deserto abbastanza clamoroso. Peraltro, questo deserto è anche poco specializzato, nel senso che ci sono ovviamente fondi di seed qui in Italia, ma il FinTech ormai non è più un oceano generico di opportunità: esso è diventato verticale, per cui gli investitori oggi si specializzano in blockchain, in lending, in B2B (business-to-business), in scoring o in financial inclusion.
  Pertanto, in un certo senso abbiamo quasi già perso l'opportunità di costituire fondi generici FinTech in Italia, a qualunque stadio. Perché non facciamo un tentativo? Faccio un salto alla parte conclusiva del mio discorso, passando a parlare delle opportunità. L'Italia è un paese di piccole e medie imprese. A oggi non esistono hub mondiali di innovazione nel B2B, per lo meno non ne esistono di dichiarati. In quest'ambito si tratta di lending, di blockchain, assicurazioni e scoring. Potremmo pensare oggi di diventare una sorta di fucina per questo settore verticale?
  Vorrei ora spendere qualche parola per parlare della formazione e del talento. Un paio di settimane fa mi trovavo all'Università Bocconi, grazie a un'iniziativa di Anna Omarini, che ha creato la prima iniziativa verticale sul FinTech sperimentale alla Bocconi. Mi sono trovato davanti a una trentina di studenti, di cui il 70 per cento veniva da Paesi stranieri, dal Giappone al Venezuela, dalla Scandinavia alla Spagna – il sample di nazionalità era impressionante – e il 20 per cento erano italiani, tra i 21 e i 23 anni.
  Chiaramente questi studenti erano appassionati, perché erano in quell'aula, ma comunque la conoscenza che riuscivano a esprimere di un settore specialistico, che non si occupa soltanto di innovazione ma di innovazione in financial services, e il tipo di domande che ponevano dopo soltanto qualche mese di corso, mi hanno fatto pensare che ci sarebbe un'opportunità gigantesca di creare talenti nel FinTech in Italia.
  Londra nei prossimi dieci anni creerà 60.000 posti di lavoro nel FinTech. Paragoniamo la popolazione italiana con quella di Londra, facciamo un po’ di statistica e vediamo quale potrebbe essere l'opportunità che si verrebbe a creare.
  Peraltro, gli imprenditori sono quasi tutti dei digital nomad, quindi nella maggior parte dei casi indipendenti dalla posizione geografica, e l'Italia è tutto fuorché un brutto Paese in cui vivere, perciò varrebbe la pena tenere in considerazione l'opportunità di abbinare la posizione geografica, la creatività e l'oggettivo potenziale di business.
  Noi abbiamo già fatto tre conferenze internazionali in inglese qui in Italia. Vogliamo organizzare una FinTech week l'anno Pag. 19prossimo a maggio, una specie di road show verticale in almeno tre o forse quattro città italiane. Parleremo di assicurazione, di blockchain, di lending e di digital identity.
  La ragione per cui vogliamo fare questo è che, se vogliamo sviluppare davvero questo mercato in Italia, l'internazionalizzazione deve andare alla pari con gli sforzi di localizzazione. Ognuno degli ecosistemi che ho citato è a oggi tanto più influente quanto maggiore è il numero di legami che ha stretto con gli altri Paesi.
  Porterei un altro paio di esempi. Pensiamo all'Olanda e al Belgio. In Belgio è stata creata un'iniziativa che si chiama B-Hive, che tende ancora una volta, senza troppa fantasia, a fare di Bruxelles un hub FinTech in cui l'Europa si potrà ritrovare, catalizzando i player di cui ho vi parlato prima: gli investitori, gli imprenditori, i regolatori, eccetera.
  Sebbene Bruxelles sia ovviamente una città importantissima per l'Europa, nessuno gli ha dato il mandato di diventare un accentratore di conoscenza o di innovazione. Noi possiamo certamente fare altrettanto e dovremmo farlo. Basterebbe trovare il verticale giusto e i domini in modo che la massa di clienti a cui possiamo tendere con questo tipo di innovazione sia quella più ricettiva. È per questo che parlavo del B2B e delle piccole e medie imprese.
  Farei una pausa, perché ho altre cose da dire, però forse c'è qualche domanda da parte vostra o un momento di interazione con la Commissione. Posso interrompere il mio intervento e poi magari terminarlo illustrandovi un paio di altre opportunità.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  SEBASTIANO BARBANTI. Grazie innanzitutto per la sua esperienza, che ci ha riportato e che ci è molto utile, posto che la finalità di questa indagine conoscitiva è proprio quella di giungere alla redazione di un complesso di norme, da un lato, e di un progetto, dall'altro, che cerchino di sposare gli aspetti a cui lei ha fatto riferimento, soprattutto in relazione alla questione della creazione dell'ecosistema.
  Alcuni giorni fa Alessandro Curioni, direttore del laboratorio di ricerca di Ibm a Zurigo, ascoltato in audizione nell'ambito dell'indagine conoscitiva, ha affermato la stessa cosa – è come se vi foste parlati – sulla necessità di creare centri di ricerca in tutta Europa, nei Paesi in cui si è generato un ecosistema favorevole da questo punto di vista.
  Quello che sta dicendo abbraccia appieno il tipo di progetti che stiamo portando avanti. Mi auguro quindi che, quando organizzerà la settimana del FinTech, sia già operativo il comitato FinTech, l'ente FinTech o comunque una sorta di cabina di regia (ma forse è qualcosa di più) che dovrà portare l'Italia a diventare un punto di riferimento del mondo FinTech.
  Mi verrebbe da dire: abbiamo perso l'EMA (European medicine agency), cerchiamo di conquistare il FinTech. Da questo punto di vista qualunque suggerimento provenga da chi ha esperienza in questo campo non può che esserci utile.
  La mia non era quindi una domanda, trattandosi più che altro di una riflessione, perché ha affermato concetti che sono corretti e non hanno bisogno d'interpretazione o di domande, ma semplicemente di essere sostenuti.

  PRESIDENTE. Do la parola al dottor Rizzi per la replica.

  MATTEO RIZZI, co-founder di FinTechStage. Faccio un'ultima riflessione, perché non vorrei affrontare il concetto di ecosistema in maniera eccessivamente teorica. Concluderei con un paio di esempi, che sono analogie perfette di opportunità che potremmo replicare in Italia.
  Quando noi creammo Innotribe nel 2009, parlare di innovazione in financial service era veramente come cercare di giustificare l'esistenza del mostro di Loch Ness. Le banche dovevano ancora capire se valeva la pena avere una presenza nei social media.
  Nonostante tutto, abbiamo riunito le poche persone che ci credevano – cioè pochi investitori e imprenditori, qualche Pag. 20luminare delle banche che già dieci anni fa comprendeva che la disruption del FinTech sarebbe arrivata, nonché qualche guru della tecnologia – e li abbiamo messi insieme a parlare degli albori delle crypto-currency e dell'identità digitale. Ciò accadeva dieci anni fa.
  Che cosa è successo? La creazione di un catalizzatore di pensiero e di opinione ha generato un circolo virtuoso, perché si parlava di concetti che ispiravano le persone e quelle stesse persone hanno poi formato una comunità. Da quel momento abbiamo pensato: «Ora cerchiamo le idee» e abbiamo lanciato il primo global start-up challenge, i cui vincitori sono gli «unicorni» di oggi. I due o tre vincitori dei primissimi start-up challenge di dieci anni fa sono le start-up FinTech che oggi hanno la valutazione migliore.
  Sottolineo una volta di più l'importanza di creare questi movimenti di associazione tra entità diverse, perché ciascuna apporta il proprio network e, una volta che ci si è accordati su una specie di manifesto di collaborazione, come per magia le cose succedono, perché l'unione di intenti e il guardare nella stessa direzione fanno in modo che, per così dire, «le stelle si allineino», traducendo un'espressione inglese.
  Questo è quello che stiamo cercando di fare con FinTechStage e quello che mi auguro che la nascente comunità FinTech italiana riesca a fare.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Rizzi. Il suo intervento è stato utile e chiaro. Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione dell'amministratore delegato dell'Istituto centrale delle banche popolari italiane SpA, Paolo Bertoluzzo.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative all'impatto della tecnologia finanziaria sul settore finanziario, creditizio e assicurativo, l'audizione dell'amministratore delegato dell'Istituto centrale delle banche popolari italiane SpA, Paolo Bertoluzzo.
  Do la parola al dottor Bertoluzzo per lo svolgimento della sua relazione.

  PAOLO BERTOLUZZO, amministratore delegato dell'Istituto centrale delle banche popolari italiane S.p.A. Buongiorno e grazie dell'invito. Mi accompagnano Saverio Tridico, direttore corporate and external affairs dell'Istituto centrale delle banche popolari italiane SpA e Lorenzo Malagola, responsabile relazioni istituzionali dell'Istituto centrale delle banche popolari italiane SpA.
  Inizierei la mia relazione parlando brevemente di me, perché credo che ciò aiuti a inquadrare meglio alcune considerazioni che farò sul mondo del FinTech. Io sono nuovo nel mondo della finanza, sicuramente nuovo nel mondo delle banche e un po’ meno nel mondo della tecnologia. Infatti, ricopro il ruolo di amministratore delegato dell'Istituto centrale delle banche popolari italiane e anche di CartaSì da circa quindici mesi, venendo però da un'esperienza di diciassette anni nel settore delle telecomunicazioni, in particolar modo in Vodafone, dove ho coperto diversi ruoli, tra i quali amministratore delegato per l'Italia e poi ho lavorato a Londra, a capo di tutte le attività commerciali in tutto il mondo.
  Credo che ciò sia importante perché l'incrocio tra tecnologia e banche, creato dal mondo del FinTech, è in sostanza un fenomeno che, in qualche modo, le telecomunicazioni stanno vivendo da diverso tempo, anche se non viene chiamato «telcotech» o qualcosa di simile.
  Spenderei ora qualche parola sul gruppo bancario ICBPI (Istituto centrale delle banche popolari italiane) per poi illustrarvi come l'azienda si sta evolvendo, ma solo dopo aver fatto qualche considerazione sul mondo del FinTech.
  Questo gruppo bancario ha ottant'anni di storia e rappresenta quindi un'istituzione nel mondo dei servizi finanziari italiani. Essa nasce dall'intuizione delle banche popolari, che all'epoca crearono questo polo tecnologico, per individuare la scala necessaria per svolgere al meglio i servizi più tecnologici e di back office. Mi riferisco a quello che oggi chiamiamo business process Pag. 21 outsourcing. Questo succedeva ottant'anni fa.
  In ottant'anni questa azienda ha vissuto mille evoluzioni, acquisizioni e cessioni. Credo che l'acquisizione più rilevante sia quella di CartaSì, a metà degli anni 2000. Oggi la nostra è una realtà che serve in Italia più di 150 banche – ossia tutte le banche italiane, in vari modi – e si è costruita nel tempo una posizione particolarmente forte nel mondo dei pagamenti digitali. Infatti, oggi l'ICBPI gestisce più o meno 27 milioni di carte per conto delle banche italiane, nonché gli incassi di 700.000-750.000 commercianti italiani, sempre per conto delle banche, un terzo degli ATM (automated teller machine) italiani e più o meno un terzo dei bonifici e delle transazioni tra imprese, privati e banche. Nell'arco di un anno esegue transazioni per circa 120-130 miliardi di euro a nome e per conto delle banche, dei clienti privati e delle aziende.
  Questa era un'introduzione. In realtà, l'Istituto centrale delle banche popolari italiane non esiste più. Oggi esiste un'azienda che si chiama Nexi, della quale vi parlerò più tardi. Il cambiamento del nome fa parte di un'evoluzione che riguarda certamente la missione dell'Istituto, ma anche l'impostazione e, soprattutto, la «focalizzazione» dell'azienda.
  Vorrei svolgere alcune considerazioni sul mondo del FinTech. Credo che esso si possa definire in un miliardo di modi, ma ritengo che il più semplice sia quello di definirlo come una qualunque forma di incrocio tra il mondo dei servizi finanziari e quello della tecnologia. La tecnologia ha un impatto su ogni singolo settore dell'attività bancaria, esattamente come sta avendo un impatto su ogni settore di qualunque altra industria.
  Si parla però, in prevalenza, del FinTech, più che di altre aree: si parla a volte anche di MetTech, MediaTech e RegTech, però si parla molto di più del FinTech. Credo che ciò sia dovuto a due motivi, di cui il primo è che c'è un clash particolarmente forte. Per molti motivi, la tecnologia ha determinato una forte innovazione nelle banche solo in alcuni contesti particolarmente virtuosi, quindi l'arrivo di una tecnologia che consente di fare cose completamente nuove è particolarmente dirompente, sia in senso positivo sia in senso negativo.
  Il secondo motivo per il quale credo che si parli molto più del FinTech, rispetto agli altri settori, è che esso coinvolge anche temi regolamentari particolarmente delicati, visto il settore a cui attiene.
  Il FinTech è diventato una realtà materiale rilevante, fondamentalmente in quattro aree dei servizi finanziari: il mondo dei pagamenti, sul quale mi concentrerò più avanti; quello degli advisory service legati agli investimenti (si parla moltissimo di advisoring e di cose di questo tipo); quello del lending (prestiti aziende-privati o chi per loro); il mondo assicurativo.
  Quello del FinTech è considerato molto spesso un mondo che crea nuovi business, sostituendo, a volte anche in modo aggressivo, business esistenti e creando nuovi prodotti.
  In realtà, quello del FinTech è un settore che, molte volte, non è visibile ai clienti. Essi, infatti, non ne hanno percezione, ma il FinTech aiuta moltissimo sia i clienti sia le banche, in molti casi specifici, perché, attraverso l'applicazione delle tecnologie, è in grado di aumentare moltissimo l'efficienza e la sicurezza delle transazioni, nonché la semplicità dell'esperienza che i clienti compiono.
  Credo che, nel nostro settore, l'esempio più lampante sia quello della tecnologia, in particolar modo quello dei big data e analytics, applicata per esempio alla gestione delle frodi; si tratta di un aspetto che nessuno di noi vorrebbe conoscere, anche perché, quando lo si conosce, è troppo tardi, nel quale la tecnologia funziona benissimo.
  Numerosi specialisti FinTech con i quali lavoriamo consentono di rendere molto più agevoli e sicure le transazioni (per esempio, con l’e-commerce e non solo) perché, nel giro di frazioni di decimi di secondo, si può verificare che una transazione sia sicura, consentendo più rapidamente al cliente di acquistare e al commerciante di chiudere un acquisto. Così si riducono i costi di Pag. 22sistema, anche perché si elimina chi lucra sulle aree potenzialmente a rischio del sistema stesso.
  Credo che FinTech e tecnologie, se applicati alla finanza, possano rappresentare una grande opportunità per il settore, ma anche per il sistema in generale.
  Quando si parla di FinTech, si tende a pensare sempre a start-up o a ex start-up, come PayPal, che sicuramente non è più una start-up, e ad aziende piccole che sono nate facendo solo e soltanto quello. Credo sia importante riflettere sul fatto che, in realtà, ogni operatore finanziario degno di questo nome, il quale voglia avere un futuro, sta diventando una FinTech e deve diventarlo perché, altrimenti, non avrà futuro, allo stesso modo in cui un'azienda di qualunque altro settore, la quale oggi non sfrutta la tecnologia e, in particolar modo, il digitale, facendone il proprio core business, in qualche modo è destinata a non avere futuro.
  Questo è un mondo in cui c'è un fermento assolutamente straordinario.
  Raccogliendo qualche numero, anche se credo ce ne possano essere anche altri, posso dire che, per gli ultimi dodici mesi, si parla di 300 miliardi di dollari di transazioni finanziarie, investimenti, acquisizioni, fusioni, start-up e venture capital confluiti nel cosiddetto Fintech.
  Stiamo parlando di una cifra enorme, che è probabilmente il doppio di quella di due anni fa e che continua a crescere.
  Credo sia interessante tornare al punto di prima per focalizzarci sul fatto che, di questi 300 miliardi, più o meno, la metà sono stati investiti in aziende mature, quindi in aziende che ce l'hanno fatta, hanno una determinata dimensione e si stanno sviluppando, mentre l'altra metà è stata investita in start-up che stanno ancora cercando una loro dimensione e un loro spazio.
  Un'altra stima ci dice che in Italia, negli ultimi due o tre anni, ci sono state circa 500 start-up nel mondo del FinTech, inteso in modo molto ampio. Si tratta di un numero enorme, anche perché credo che questa sia l'area di maggiore fermento in questa fase.
  Tuttavia, c'è anche da ricordare che, probabilmente, in questo momento tanta energia, che è sicuramente positiva, porta con sé anche un tasso di abbandono abbastanza importante.
  Tenete conto che, mediamente, nei settori Tech le start-up che ce la fanno sono una su dieci o una su dodici, ma statistiche più recenti parlano di una stima che è di una su quindici o su venti, quindi è chiaro che tanto fermento e attività comportano anche un tasso di mortalità un po’ più alto; credo che ciò faccia parte di questa fase.
  Spesso, al FinTech è associata inevitabilmente, soprattutto dagli operatori tradizionali del settore, un'accezione un po’ negativa: si parla delle imprese FinTech come operatori che arrivano sul mercato e non rispettano necessariamente tutte le regole del settore, i quali, non avendo una base di ricavi o una base economica preesistente, possono essere, come si suol dire, disruptive nei loro modelli economici, non facendo, ad esempio, pagare i propri prodotti, o cercando di acquisire rapidamente basi di clienti per poi eseguire operazioni finanziarie.
  Tutto ciò crea istantaneamente una percezione un po’ ostile e negativa, che credo stia, un po’ alla volta, cambiando: gradualmente, soprattutto per quanto riguarda le start-up e le nuove aziende che nascono incentrate sul digitale, si sta iniziando a comprendere che le FinTech rappresentano una vera opportunità, per via della loro cultura e del loro background, ma anche per il ruolo che svolgono.
  Tanto per cominciare, si tratta di aziende che nascono e vivono per l'innovazione e che sono basate sulla tecnologia: credo che questo sia un valore assoluto. Penso che non ci sia nessun dubbio sul fatto che l'innovazione e la tecnologia sono il motore dello sviluppo del mondo. Ci sono ancora tanti temi da affrontare e da gestire, anche perché nulla è perfetto, però è evidente che innovazione e tecnologia sono il motore dello sviluppo.
  Le imprese FinTech nascono digitali, per definizione, e sempre più mobili. Questo è un altro elemento di fortissimo stimolo, Pag. 23 che esse portano sui mercati finanziari.
  Esse, di norma, nascono mettendo al centro la relazione con il cliente e l'utilizzo dei dati per migliorare le relazioni con il cliente stesso. Si parla tanto di big data e di analytics, ma una FinTech è fondamentalmente basata su questi elementi perché, altrimenti, non è in grado di operare.
  Come molte start-up, un'impresa FinTech cresce e vive di velocità, agilità ed efficienza, valori che vanno molto al di là di una start-up e che un'azienda deve fare assolutamente propri.
  Come ho già detto, essa normalmente pone al centro la customer experience e la semplificazione dell'esperienza del cliente.
  Non da ultimo, le imprese FinTech – forse, questo è il messaggio più importante che il sistema delle banche deve cogliere – sono più focalizzate, rispetto a chi fa banca. Le FinTech, infatti, normalmente fanno una cosa o, comunque, partono da una cosa per poi allargarsi, però investono tutte le loro energie, tecnologie e competenze per fare molto bene una cosa, sfruttando al meglio ciò che la tecnologia è in grado di offrire. Credo che questo sia un altro grandissimo valore.
  In sintesi: le FinTech sono pericolose, disruptive e così via? Forse lo sono, ma credo che la cosa importante sia quella di coglierle come un'opportunità, cioè come un fortissimo stimolo a migliorare, per coglierne gli aspetti positivi e come un grande stimolo a essere «focalizzati» o, comunque, a farsi aiutare da specialisti che lo sono. Ciò perché, un po’ alla volta, com'è successo nel settore delle telecomunicazioni, anche le banche stanno comprendendo che non possono essere specialisti in tutto se arriva qualcuno così forte e specializzato nel fare qualcosa che si basa sulla tecnologia.
  Credo che una delle migliori sintesi sia una ricerca pubblicata, non ricordo da chi, qualche tempo fa, che rispondeva ad alcune domande. Una FinTech che cosa invidia a una banca? La dimensione, la capacità di investire, l'accesso al mercato e una customer base. Che cosa una banca invidia a una FinTech? La competenza digitale, la focalizzazione e la velocità di esecuzione. È evidente che saper collegare questi due mondi crea un valore straordinario per l'intero sistema.
  In questo panorama si inserisce l'avventura della nostra azienda, che, come dicevo prima, nasce tanti anni fa, ma sta cambiando pelle in modo molto rapido, a valle di un passaggio avvenuto un paio d'anni fa, quando l'azienda è stata comprata da tre fondi di private equity: Bain Capital, Advent International e Clessidra. Questi fondi sono specializzati su diversi settori, ma hanno fatto operazioni molto importanti nel mondo del FinTech, per cui, di fatto, hanno sempre avuto la caratteristica di acquisire aziende malate appartenenti al mondo bancario e renderle grandissimi specialisti, attraverso investimenti in tecnologia, competenze, persone e focalizzazione.
  Abbiamo voluto cambiare il nome della nostra azienda in «Nexi» per simboleggiare una proiezione verso il futuro, verso la next generation del mondo dei payment, e una vicinanza al mondo delle banche e al mondo dei clienti: si tratta di una combinazione tra la tecnologia e l'essere umano, in qualche modo.
  La nostra azienda nasce con una visione molto semplice, secondo cui ogni pagamento sarà digitale. Da questo punto di vista, siamo profondamente convinti che si tratti una visione forse un po’ ambiziosa, ma dobbiamo dire che, molte volte, questo tipo di realtà si generano con semplicità, il che è anche un po’ disarmante: se diciamo che ogni pagamento sarà digitale, possiamo discutere del «quando», ma non ha molto senso discutere del «se» e del «ma» perché, come per la forza di gravità, sul fatto che ciò accadrà non c'è assolutamente alcun dubbio.
  La missione che ci siamo dati come azienda è di fare in modo che ogni pagamento diventi digitale nel più breve tempo possibile.
  Crediamo che questa sia una grande opportunità per l'intero sistema Italia.
  Nel mondo dei pagamenti digitali, l'Italia è partita molto indietro. Vi do un dato: fatti 100 i pagamenti delle famiglie italiane, soltanto il 20 per cento transita attraverso Pag. 24strumenti digitali. Questo stesso dato, se riferito ad altri grandi Paesi europei, è mediamente del 40 per cento e per l'Inghilterra è del 65 per cento.
  Occorre tenere presente che, quando parliamo dell'Inghilterra, non ci riferiamo solo a Londra, che rappresenta sempre una punta avanzata, ma anche a città che non hanno nulla in più rispetto alla città italiane.
  Nei Paesi scandinavi, il dato è dell'80-90 per cento. Un articolo di ieri su un importante quotidiano italiano faceva l'esempio della Svezia, dove ormai ti trattano male se tiri fuori il portafoglio con il cash o vuoi pagare in modo diverso dalla carta, perché hanno compreso il valore degli strumenti digitali.
  Quanto diciamo che il processo avverrà è perché questo sistema è più semplice per le persone, ma è anche più sicuro ed efficiente. Il giorno in cui ogni pagamento sarà digitale, significherà anche per il nostro Paese essere diventato più moderno, progredito e trasparente, quindi siamo assolutamente convinti che questo succederà.
  Tornando al valore del FinTech, di cui ho parlato, siamo profondamente convinti che, per fare in modo che questo accada, serva una straordinaria focalizzazione. Questo business sta diventando ad altissimo contenuto tecnologico e sta prendendo una velocità straordinaria, in termini di innovazione.
  Credo che, in questo caso, ogni statistica sia valida, ma certamente non sbagliamo dicendo che, nell'ultimo anno, c'è stata tanta innovazione quanta ne è stata prodotta nei cinque anni precedenti e che, nel prossimo trimestre, ci sarà più innovazione di quella dell'ultimo anno eccetera, per motivi assolutamente chiari.
  Di questa specializzazione e di questa focalizzazione, in qualche modo, Nexi fa il suo cuore. C'è un modo di esprimerci che usiamo spesso con le banche per sintetizzare la nostra missione: vogliamo essere non la FinTech, ma la PayTech delle banche, cioè un'azienda che investe in tecnologia, innovazione e competenze per portare alle banche il meglio di ciò che si sta realizzando, e che si realizzerà, nel mondo, grazie all'evoluzione tecnologica e all'evoluzione di modelli di business. Faremo così in modo che le banche possano offrire ai loro clienti i servizi migliori e ci sia un beneficio per tutti, per i clienti e, indirettamente, per le banche stesse.
  Su questo, nei prossimi quattro o cinque anni, investiremo circa un miliardo di euro, una cifra enorme per questo settore, e li investiremo fondamentalmente in tecnologia.
  Abbiamo assunto, negli ultimi otto o nove mesi, circa 150 persone e ne assumeremo altre 200, con competenze nel mondo del digitale, quindi in information technology, big data, analytics, innovazione e quant'altro; continueremo a costruire in questa direzione.
  Vi faccio soltanto alcuni esempi per darvi il senso concreto di alcuni prodotti e servizi che stiamo portando sul mercato, anche per farvi capire facilmente che cosa voglia dire ragionare con mentalità FinTech in un business con tanta storia e tanto vissuto, il che sicuramente richiede la focalizzazione di cui stavo parlando.
  In quello che noi chiamiamo «mondo delle issue», ossia nel mondo delle carte e degli strumenti di pagamento per i clienti privati, sono in atto due grandissimi evoluzioni.
  La prima è la trasformazione dell'oggetto «carta» da un incidente di percorso a una relazione digitale con i clienti, come credo stia succedendo per tutti i beni di servizio.
  Vi faccio l'esempio più concreto: il nostro prodotto di base, ossia la carta di credito classica che tantissimi italiani possiedono, dall'anno prossimo, nelle banche che lo vorranno, avrà al suo interno, non solo una app con cui gestirla, cosa che succede da diverso tempo, e non solo la capacità di gestire la spesa, fissando un limite di spesa e distribuendola nel periodo di riferimento nonché tra e-commerce e physical commerce. Oltre a ciò essa darà anche la possibilità al cliente di scegliere, dopo aver fatto gli acquisti, per quale di questi acquisti dilazionare i pagamenti, su quanti mesi e con quali condizioni e di modificare, nel tempo, queste scelte. Pag. 25
  È ovvio che quello che noi chiamiamo «easy shopping» è un'esperienza completamente diversa rispetto a quella di inserire una carta di credito in un bancomat o firmare uno scontrino.
  C'è un secondo esempio che credo sia noto a tutti: non c'è nessun dubbio che le carte di plastica verranno sostituite dagli smartphone. Crediamo che ciò avverrà dapprima con i circuiti che conosciamo oggi, quindi con i circuiti tradizionali, come ad esempio Visa, MasterCard, AmEx, e (lo speriamo) con i bancomat, per poi avvenire su circuiti alternativi che nasceranno. Non c'è nessun dubbio che questo avverrà.
  Offriamo alle nostre banche la possibilità di portare sullo smartphone il momento del pagamento, cosa che, in realtà, semplifica moltissimo la vita, sia alla persona che paga sia al commerciante, perché quella transazione si trasforma in una molto più semplice e veloce.
  Il secondo filone di investimenti per noi importantissimo è rappresentato dal lato commercianti.
  In Italia, molte volte, si dice che i commercianti non vogliono accettare le carte di credito, cosa che, per carità, qualche volta è anche vera, anche perché credo che su questo ci sia molto vissuto delle persone e una forte percezione di questo, giusto o sbagliato che sia. Noi stiamo affrontando tale aspetto facendo dei passi avanti e non guardando ai problemi bensì alle soluzioni.
  Vi faccio tre esempi molto concreti di cose che stiamo facendo con una mentalità FinTech. Innanzitutto, dal mese prossimo, daremo la possibilità a tutti i nostri commercianti, che – lo ripeto – rappresentano il 50-60 per cento dei commercianti italiani, di avere sullo smartphone una app che si chiama «Nexi business», dalla quale i commercianti potranno controllare, in real time, tutte le transazioni che avvengono sui loro POS e su tutti i POS della loro azienda dal loro sito e-commerce, avendo la possibilità di tracciare l'andamento della propria azienda in modo istantaneo.
  Faccio l'esempio più semplice di tutti. Ogni mattina, si potrà ricevere una notifica dalla quale si può avere accesso alle seguenti informazioni: performance di fatturato dal giorno precedente, mix di clientela ricevuta (numero di clienti già ricevuti e di clienti nuovi); Paese di provenienza (se rilevante); confronto con i periodi storici precedenti; confronto con il benchmark dei concorrenti.
  In tal senso, una farmacia di Milano si potrà confrontare con le altre farmacie d'Italia o con gli altri negozi e le farmacie di Milano.
  Lo facciamo per aiutare i commercianti a capire che i pagamenti digitali non sono un costo, ma un'opportunità: quella digitale è una transazione viva, che li aiuta a gestire meglio il loro business, mentre quella cartacea è una transazione morta, perché, una volta ricevuta la banconota, non sai che cosa è successo nel tuo negozio, quindi non riesci a utilizzarla in modo migliore.
  C'è un secondo esempio, altrettanto ovvio per chi viene dalla telefonia: se ci pensate bene, vent'anni fa, c'erano i Nokia 6310 e Motorola StarTAC e c'era un POS sul tavolo del negozio; oggi, dopo vent'anni, c'è sempre un POS sul tavolo del negozio, però abbiamo l'Apple Watch, gli smartphone iPhone, Samsung, e chi più ne ha più ne metta. È chiarissimo quindi che c'è stata troppo poca innovazione nel settore dei pagamenti.
  L'anno prossimo lanceremo sul mercato il primo SmartPOS, che abbiamo realizzato con una start-up californiana, che si chiama «Poynt» e che si occupa soltanto di quello. Su questo POS, ci sarà un ecosistema e uno store, da cui i commercianti potranno scegliere le applicazioni, che vanno molto al di là dei servizi di pagamento e che li aiuteranno a gestire le loro attività.
  Il terzo esempio è quello dei micropagamenti. C'è molta confusione sulla questione del costo connesso all'accettazione delle carte in Italia, e questa confusione è dovuta a tanti motivi.
  Per facilitare le cose, noi abbiamo un punto di vista semplice: le microtransazioni devono fare parte di un pacchetto di offerta unico, togliendo il pensiero al commerciante di quanto spende ogni volta che effettua una microtransazione. Per quanto ciò rappresenti poco (circa l'1 per cento), Pag. 26ciò che, nel tempo, ci aspettiamo è che il mercato vada verso le logiche di bundle.
  Ci crediamo talmente tanto che, dall'anno prossimo, daremo alle banche che accetteranno questo tipo di ragionamento l'opportunità di offrire a tutti i commercianti che lavorano con noi la possibilità di incassare micropagamenti sotto i 10 euro a costo zero, cioè senza commissioni, per un anno.
  Si tratta di un investimento di svariati milioni per noi, ma crediamo si tratti di un elemento legato all'abitudine e all'educazione che è essenziale, in coerenza con quanto dicevamo prima: far capire ai commercianti che la transizione al digitale vale di più.
  La terza e ultima area, rispetto alla quale faccio solo un accenno, si riferisce al mondo dei pagamenti tra aziende, dei pagamenti tra privati e aziende e, per citare lo strumento più noto, al mondo dei bonifici.
  Porteremo sul mercato un'innovazione, che parte da domani: l'innovazione degli instant payment.
  Viviamo in un mondo nel quale tutto avviene in tempo reale e qualunque tipo di attività o di servizio, quando è basato sul digitale, è disponibile 24 ore su 24 e sette giorni su sette. Oggi per fare un bonifico occorrono due o tre giorni lavorativi. Inoltre non si può fare un bonifico durante i weekend o, meglio, si può anche provare a eseguirlo, ma il bonifico non viene eseguito, e non si viene poi a sapere se il bonifico è andato a buon fine, a meno che non si cerchi personalmente quell'informazione o si venga informati in merito da qualcuno.
  Per le banche che lo vorranno, da domani sarà possibile – commercialmente quest'innovazione inizierà a essere diffusa nel mercato dall'anno prossimo – fare pagamenti istantanei.
  Ciò significa che ogni pagamento e ogni trasferimento di denaro tra conti, quindi tra clienti privati e aziende, tra aziende e all'interno della stessa azienda, o con le banche, saranno fattibili, nel nostro caso, in 1-1,5 secondi, avendo altresì certezza dell'avvenuto pagamento, dell'avvenuta ricezione e della transazione conclusa. Da ciò si aprirà un mondo di applicazioni.
  È ovvio che il bonifico veloce costituirà l'applicazione più istantanea: dall’home banking personale sarà possibile eseguire un bonifico veloce e si saprà se è andato a buon fine. Per le aziende, soprattutto quelle medio-grandi, ciò offrirà la possibilità di fare cash pooling, di pagare gli stipendi all'ultimo momento ed essere certi che siano stati pagati in tempo perché le persone lo hanno ricevuto, o di pagare i fornitori senza che ci siano i giorni di valuta.
  Si tratta di una rivoluzione che consentirà al mercato di far circolare molto più rapidamente il cash. Credo che ciò faccia parte di questo tipo di mentalità.
  Finisco con due considerazioni sulle regole e poi ovviamente, se ci sono domande, posso tornare su altri temi. Il mondo delle banche in generale, come credo anche il mondo del FinTech, sta per affrontare una rivoluzione importante, quella della nuova Payment Services Directive, che sarà applicata nei prossimi mesi, attraverso diverse fasi, anche in l'Italia.
  Credo ci sia ancora una discreta confusione su che cosa significa e che cosa non significa la nuova PSD, la quale è composta da varie componenti.
  Credo che l'aspetto che in questo momento interessa e preoccupa di più le banche sia l’open banking, che, di fatto, consente a terze parti di accedere, previa autorizzazione da parte del cliente, alle informazioni relative alle transazioni e allo stato dei conti correnti, anche attivando pagamenti dal conto corrente stesso, oltre a consentire di fare molte altre cose.
  Crediamo ci possa essere anche un'opportunità per il mondo bancario. Sicuramente c'è un tema da affrontare, motivo per il quale stiamo facendo una proposta insieme al Consorzio Customer to Business Interaction (CBI), un consorzio nato nell'alveo dell'associazione bancaria, che è un fiore all'occhiello italiano. Si tratta di un progetto volto a creare un gateway di sistema completamente basato su tecnologie FinTech, che consenta alle banche italiane di aprirsi al mondo esterno, in maniera intelligente, gestita e semplice, e che consenta anche alle terze parti di iniziare a sviluppare dei servizi in modo intelligente, Pag. 27avendo a disposizione i tool tipici di chi vuole sviluppare servizi digitali.
  C'è una seconda e ultima considerazione, a me cara dai tempi delle telecomunicazioni, che voglio fare sulle regole. Credo sia giusto che i diversi settori si aprano all'innovazione tecnologica e a modalità operative nuove, le quali dovranno essere sempre curate, nei tempi e nei modi; ritengo che ciò sia giusto e anche inevitabile. Allo stesso modo, penso si debba essere equilibrati nel modo con cui si guardano queste cose.
  È ovvio infatti che, anche se il mood che circonda il mondo delle web company e delle imprese FinTech è tendenzialmente positivo per tanti buoni motivi, bisogna mantenere un equilibrio e assicurarsi che venga mantenuta una cosa semplicissima: l'equilibrio delle regole.
  Esiste un principio semplicissimo che afferma «same service same rules» e credo che esso non debba mai essere dimenticato da nessun regolatore italiano, sovranazionale, europeo o di qualunque altra natura, perché, altrimenti, si rischia di creare disequilibri forti e importanti.
  Benvenuto, quindi, l’open banking e benvenute le FinTech. Tuttavia, credo sia giusto pretendere che i soggetti che provengono dal mondo della tecnologia e del digitale abbiano la possibilità di offrire servizi di natura FinTech, ma, allo stesso tempo, bisogna pretendere che essi, oltre a rispettare le regole del settore FinTech, in termini di privacy, di sicurezza e di regolamentazione dei pagamenti, si aprano all'esterno seguendo le stesse regole.
  Faccio due esempi, prima di concludere il mio intervento. Credo che il più semplice da fare riguardi l’open banking: attraverso questo processo si chiede alle banche, una volta concessa l'autorizzazione dai clienti, di aprire i dati presenti nei propri sistemi alle web company, quali possono essere le piccole start-up o le grandi aziende, come Google. Perché, allo stesso modo, previa autorizzazione del cliente, le banche non devono avere la possibilità di accedere ai dati delle società che fanno tecnologia, per poter offrire servizi migliori FinTech a loro volta?
  Credo ci sia un'asimmetria da sanare e un tema che va assolutamente affrontato, anche se è complesso farlo perché coinvolge sistemi tecnologicamente complessi.
  Ci ritroveremo molto presto a discutere sui temi che si stanno affrontando, per esempio, in relazione alla webtax. È più facile infatti regolamentare chi sta fermo in un Paese piuttosto che strutture sovranazionali, magari basate in qualche posto strano, in giro per il mondo, ma il tema deve essere affrontato. Lo dico perché, altrimenti, l'innovazione è giustissima, ma non è bilanciata.
  C'è un secondo esempio a me molto caro. Stiamo offrendo, in questi giorni, alle nostre banche la possibilità di offrire ai loro clienti anche Apple Pay, per pagare dalla telefonia mobile. Perché la Apple non consente, alle banche o alle aziende come la nostra, di utilizzare la tecnologia NFC (Near Field Communication) del suo telefono, come fanno invece Samsung, Huawei e tutti quanti gli altri operatori?
  Ben vengano l'apertura, la competizione e l'innovazione, ma manteniamo l'equilibrio sulle regole, anche perché, altrimenti, il processo diventa monodirezionale.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Bertoluzzo. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIUSEPPE STEFANO QUINTARELLI. Vorrei segnalare all'amico Paolo Bertoluzzo che c'è una proposta di legge, approvata con voto unanime dalla Camera, la quale ha concluso il suo iter in Commissione al Senato e che, da giugno, è calendarizzata al Senato per l'Aula, la quale non è stata ancora approvata. Questa proposta di legge afferma proprio che l'utente ha il diritto di installare il software che vuole sul proprio device.

  SERGIO BOCCADUTRI. Vorrei fare una domanda al dottor Bertoluzzo.
  Mi sembra chiaro che, nel suo intervento, lei abbia voluto sfatare un mito, secondo cui, sostanzialmente, grazie al FinTech, Pag. 28 si può distruggere ogni intermediazione.
  Effettivamente, se vogliamo approfittare dei vantaggi del FinTech, attraverso una gestione di quegli stessi vantaggi e flessibilità, è utile che ci sia qualcuno che elabori quei dati e li restituisca, anche in modo leggibile.
  Questo è il vero problema: non c'è soltanto la raccolta dei dati, ma occorre saperli restituire, restituendo quel valore di cui lei ci ha fatto alcuni esempi, sia al cliente sia al commerciante, attraverso una lettura di tutte le transazioni ricevute ed eseguite. Questo mi sembra molto importante perché si sfata il mito secondo cui il FinTech comporterebbe la distruzione di ogni intermediazione e la semplificazione delle relazioni, anche economiche, mentre il FinTech probabilmente le complica, perché rimette al centro i dati, che devono essere sempre interpretati e gestiti.
  Dico questo anche con riferimento al livello di maturità del sistema. L'idea di disintermediazione, invece, può portare i soggetti anche a non comprendere la portata dell'innovazione.
  Affermo questo anche alla luce del possibile utilizzo della ricerca del consenso attraverso i dati presenti sui social network, come se tutto fosse disintermediazione, mentre l'utilizzo di certi dati può avere finalità ben precise.
  Sono d'accordo sull'affermazione circa la necessità di un equilibrio delle regole, nell'ambito di quanto previsto dalla Direttiva PSD2. Abbiamo inserito queste considerazioni nel parere espresso al Governo sullo schema di decreto legislativo che recepisce in Italia tale Direttiva, ma, secondo me, è utile che anche la Commissione ne parli. So che, giovedì, essa ha iniziato a discuterne per capire come collegare e far funzionare al meglio la relazione tra la direttiva sui pagamenti e il nuovo regolamento.
  In occasione dell'espressione del citato parere sullo schema di decreto con il quale si recepiva la Direttiva PSD2, rispetto alla questione delle regole, abbiamo chiesto al Governo che la polizza delle terze parti sia resa pubblica. In alcuni casi, tuttavia, ci hanno risposto: «questo non è previsto dalle norme tecniche di regolamentazione dell'Autorità bancaria europea (EBA)». È fondamentale che, se per la politica delle terze parti, che, in questo caso, non garantisce il cliente, ma garantisce la banca, è necessaria l'autorizzazione, questa debba essere resa pubblica.
  Affermo questo anche alla luce della questione delle responsabilità: la banca ha una responsabilità verso il cliente, però deve avere anche la possibilità, se dell'errore della mancata autorizzazione è responsabile la terza parte, di potersi rifare perché, altrimenti, oltre alla questione, da lei citata, dei dati, ci sono questioni su cui occorre intervenire immediatamente.
  Si tratta, quindi, di una materia in cui anche il policy maker può commettere degli errori e penso che la PSD2 stia già scontando mancanze e difetti, che probabilmente – lo suggerisco in ogni sede – dovrebbero essere oggetto di una revisione, anche semplicemente prevedendo che la revoca al consenso della terza parte si possa rivolgere direttamente al conto di radicamento: in Italia lo vogliamo fare.
  Per me, questo è un tema fondamentale perché, anche se tutto ciò non sarebbe risolutivo rispetto a quello che lei ha detto, si metterebbe quantomeno il cliente nella condizione di andare sul sito della banca e controllare a chi ha dato il consenso, in modo da poter decidere eventualmente di revocarlo.
  Ormai spesso la natura degli smart contract fa sì che, una volta dato il consenso, si dimentichi di averlo fatto e, anche dopo aver disinstallato la relativa applicazione, questa continua ad avere i nostri dati.
  Nella prima parte del suo intervento lei ha illustrato, secondo me in modo egregio, l'impostazione del business che deve adottare chi vuole fare FinTech.
  Vorrei capire da lei, affinché condivida il suo pensiero con me e con la Commissione – che non considera il FinTech soltanto come un limite, anzi sta svolgendo questa indagine conoscitiva per coglierne tutte le opportunità – verso quali aspetti il policy maker deve indirizzare la propria azione per far sì che il FinTech sia un'opportunità Pag. 29 per tutti, prima di tutto per il sistema Paese e, in secondo luogo, per i consumatori.
  Al di là di tutte le questioni relative alle regole interne, alle sandbox regolatorie, alle autorizzazioni e tutto il resto, in che modo, secondo lei, il tema dei dati, che ancora non abbiamo affrontato, a mio parere, appieno, deve diventare il centro anche dell'azione del policy maker?
  Mi sembra di capire dal suo intervento che questo sia un punto fondamentale e vorrei sapere se lei è d'accordo.

  PRESIDENTE. Do la parola al dottor Bertoluzzo per la replica.

  PAOLO BERTOLUZZO, amministratore delegato dell'Istituto centrale delle banche popolari italiane SpA. Torno sugli aspetti cui ha fatto riferimento l'onorevole Boccadutri.
  Senza aprire discussioni infinite sul tema della privacy, credo che quello dei dati sia un valore ormai palesemente riconosciuto dal cliente, che beneficia realmente dell'utilizzo, in modo sano, dei dati sui suoi comportamenti.
  Lei ha usato le parole «disintermediazione» e «relazione con il cliente». Credo che ciò che il digitale e i dati consentono di realizzare sia la relazione diretta con il cliente, che, per una FinTech o per una technology company in generale, è normale, ma per chi viene da un mondo fisico non lo è, perché è abituato ad avere canali distributivi, call center eccetera.
  Credo che la lezione sia chiara: sebbene la presenza fisica abbia ancora un valore enorme, a seconda dei diversi settori, qualunque azienda che affronta oggi questi temi, venendo da una sua infrastruttura preesistente, deve aver presente la relazione diretta con il cliente come un mantra, per cui questa relazione non può che essere basata su canali di contatto digitali e un utilizzo intelligente delle informazioni.
  Per «intelligente», si intendono due cose: l'utilizzo deve essere consapevole, in termini di tutela della privacy del cliente e così via, e profondamente basato sulla tecnologia, capendo benissimo che oggi si possono fare, con pochi soldi, cose straordinarie, utilizzando i dati che sono a disposizione e che, a volte, non si ha neanche contezza di possedere; incrociando quindi le migliaia di fonti di informazione attualmente esistenti.
  Secondo me, questo filone è straordinariamente importante per qualunque azienda di qualunque settore ed è fondamentale che le aziende stesse, anche quelle diverse dalle start-up, focalizzino questo aspetto, perché può dare loro molto più valore: in realtà, esse possiedono già buona parte delle informazioni e dei permessi dei clienti che servono per fare meglio il proprio mestiere.
  Sul tema del contributo, penso che l'equilibrio delle regole sia davvero il punto fondamentale e ritengo che focalizzare la riflessione, da parte delle istituzioni, sul tema dei dati possa essere un passaggio altrettanto fondamentale.
  Da questo punto di vista a mio parere costituisce un esempio eclatante ciò che la Direttiva PSD2 consente di fare a una terza parte (FinTech o meno), mentre non consente, in modo dunque non reciproco, di fare altrettanto all'altra parte. A partire da questa riflessione, ci si dovrebbe chiedere perché non è così e che cosa bisogna fare perché ciò accada.
  Ciò sarebbe un valore aggiunto importantissimo per il sistema, anche perché si deve dare uno stimolo al sistema nel suo complesso, perché, altrimenti, esso tende a leggere queste novità in una logica più difensiva, perché sono imposte, mentre quel valore potrebbe essere un'opportunità.
  Pensiamo a quanti servizi finanziari migliori una banca potrebbe offrire al proprio cliente, se avesse il permesso dal cliente di usare le informazioni, per esempio, di Google o di Apple relative, ad esempio, a dove va, e a che cosa fa o non fa, una persona. Ovviamente, c'è il tema della privacy, rispetto al quale però mi domando: se il cliente accetta di fornire queste informazioni a Google, perché non dovrebbe fornirle alla sua banca, che già possiede informazioni Pag. 30 anche più intime che lo riguardano?

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Bertoluzzo, anche per la chiarezza con cui ha affrontato l'argomento.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14.35.

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ALLEGATO 2

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