XVII Legislatura

III Commissione

COMITATO PERMANENTE SUI DIRITTI UMANI

Resoconto stenografico



Seduta n. 13 di Giovedì 19 maggio 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Locatelli Pia Elda , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA TUTELA DEI DIRITTI DELLE MINORANZE PER IL MANTENIMENTO DELLA PACE E DELLA SICUREZZA A LIVELLO INTERNAZIONALE

Audizione di rappresentanti della Associazione culturale «Lo spirito del pianeta».
Locatelli Pia Elda , Presidente ... 3 ,
Carcano Ivano , Presidente dell'Associazione culturale «Lo spirito del pianeta» ... 4 5 ,
Muteleu Susan Simayiai , Rappresentante del Popolo Masai ... 7 ,
Locatelli Pia Elda , Presidente ... 10 ,
Yahaya Zakaria , Rappresentante del Popolo Tuareg ... 10 ,
Locatelli Pia Elda , Presidente ... 10 ,
Cassano Franco (PD)  ... 10 ,
Cimbro Eleonora (PD)  ... 11 ,
Monaco Francesco (PD)  ... 11 ,
Locatelli Pia Elda , Presidente ... 12 ,
Muteleu Susan Simayiai , Rappresentante del Popolo Masai ... 12 ,
Cassano Franco (PD)  ... 12 ,
Carcano Ivano , Presidente dell'Associazione culturale «Lo spirito del pianeta» ... 12 ,
Locatelli Pia Elda , Presidente ... 16

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI-IDEA (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI-IDEA;
Misto-FARE! - Pri: Misto-FARE! - Pri.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
PIA ELDA LOCATELLI

  La seduta comincia alle 9.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della Associazione culturale «Lo spirito del pianeta».

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla tutela dei diritti delle minoranze per il mantenimento della pace e della sicurezza a livello internazionale, l'audizione di rappresentanti della Associazione culturale «Lo spirito del pianeta».
  Do il benvenuto a Ivano Carcano, presidente dell'Associazione culturale «Lo spirito del pianeta», a Susan Simayiai Muteleu, rappresentante del popolo Masai e a Zakaria Yahaya, rappresentante del popolo Tuareg.
  Prima di dare la parola ai nostri ospiti, ricordo che «Lo spirito del pianeta» è un'associazione che da anni contribuisce allo sviluppo di una reciproca conoscenza fra i popoli, all'avvicinamento fra culture diverse, al rafforzamento del sentimento di rispetto per la natura e per le minoranze etniche e per la diversità culturale.
  Fin dal 1998 l'associazione promuove annualmente il Festival dei popoli indigeni, delle etnie e dei gruppi etnici, nato per dare una testimonianza diretta di persone che vivono quotidianamente attraverso la propria cultura, condividendola con gli altri, attraverso il movimento delle danze e delle preghiere, e la spiritualità tipica di ognuno di questi gruppi etnici e delle tradizioni popolari dei popoli indigeni.
  Lo scopo principale è quello di favorire l'incontro, la conoscenza reciproca e la fratellanza dei popoli, contribuendo a conoscere, valorizzare e salvaguardare le culture tribali e le varie etnie, ma anche a sostenere popoli o gruppi tribali nella tutela e salvaguardia delle condizioni ambientali ed economiche necessarie a preservare la loro sopravvivenza, il mantenimento e la valorizzazione delle proprie tradizioni.
  Voglio aggiungere una cosa per dare una motivazione aggiuntiva a questa audizione, che ha gli scopi che ho appena raccontato. Due terzi delle famiglie povere appartengono a minoranze etniche, quindi c'è una ragione in più per dare un sostegno. Infatti, mentre i gruppi indigeni sono il 5 per cento della popolazione mondiale, essi rappresentano il 15 per cento delle persone in povertà. Quindi, insieme all'aspetto culturale, c'è anche un impegno per le pari opportunità nel mondo. C'è una ragione in più per questa iniziativa, che ci dà una forte motivazione.
  Cedo ora la parola a Ivano Carcano affinché ci racconti della sua associazione e del Festival che, a cavallo del mese di maggio e giugno, si svolgerà a Chiuduno, che, per coincidenza, è il luogo dove vivo. Questa audizione è stata promossa dalla collega Cimbro. Un altro festival analogo si svolgerà, a novembre, in Australia e vedrà la partecipazione di etnie indigene di diversi Paesi del mondo, ma anche di 430 tribù aborigene.
  A Lei la parola, dottor Carcano.

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  IVANO CARCANO, Presidente dell'Associazione culturale «Lo spirito del pianeta». Innanzitutto, ringrazio, in particolare, le onorevoli Cimbro e Locatelli per averci dato questa possibilità e voi tutti per essere presenti questa mattina.
  Il mio compito è raccontare chi siamo, cosa facciamo e perché lo facciamo. Questa è una grande responsabilità; spero di essere esaustivo, per permettere a voi che siete presenti di parlare con i vostri colleghi che questa mattina non hanno potuto esserci e raccontare chi avete conosciuto. Mi auguro, poi, possiate fare una riflessione con loro, per contribuire tutti assieme a far sì che questo pianeta sia più rispettoso.
  Quando parliamo di diritti umani e di rispetto pensiamo spesso a ciò che succede lontano da noi, ma ci sono molte piccole esperienze ed episodi che ci accadono da vicino e non ci fanno pensare, proprio perché succedono nel nostro quotidiano. Tuttavia, anche questi sono importanti perché, poi, le piccole cose si amplificano e diventano molto più grandi, fino a trasformarsi in problematiche di sopravvivenza fisica, culturale ed etnica.
  Ieri parlavo con un mio amico carissimo, che considero un «indigeno» di Bergamo. È nato in montagna e fino a 10 anni ha passato la maggior parte del tempo sulle montagne con le mucche e con le capre per portare al pascolo i suoi animali che gli garantivano la sopravvivenza, in perfetta simbiosi con l'ambiente, come fa ogni indigeno su questo pianeta.
  Mi raccontava che, poco tempo, fa era a Bergamo su un pullman – lui non bada molto a vestirsi; è molto pratico, perché il suo lavoro lo porta a essere più attento agli aspetti manuali, quindi non ha le mani ben curate, ha i capelli lunghi, porta una bandana –, quando una signora è stata derubata del suo portafoglio. Ebbene, lui, che era al centro del pullman, è stato subito indicato come lo zingaro che avrebbe potuto averlo preso. Non lo dico in bergamasco perché dovremmo tradurlo, ma mi ha raccontato di aver provato una sensazione veramente brutta, che non lo ha fatto dormire e lo ha fatto piangere quando è arrivato a casa, perché si è sentito discriminato per il suo modo di essere. In quell'occasione, è rimasto bloccato nel parlare, ma dopo che tutti lo accusavano di quell'azione, ha risposto in dialetto a quelle persone, che hanno capito che si trovavano di fronte a un pastore bergamasco appena sceso dalle montagne. A quel punto, le persone si sono rivolte ad altre possibilità, ma, in quel momento, ha provato il significato di discriminazione, malgrado fosse un italiano e un bergamasco. Quando me lo raccontava si sentiva ancora il sapore dalla commozione nelle sue parole. Questi sono i piccoli episodi che succedono e che ci danno un'idea di come molto spesso, per non dire sempre, si giudicano le persone dall'aspetto esteriore e si bada sempre meno agli aspetti interiori.
  Purtroppo, devo dire che le persone più sagge che ho incontrato nella mia vita vivono nelle foreste, nei deserti e nelle montagne più sperdute, perché sono ancora collegate con tutto quello che fa parte di noi e che ormai abbiamo dimenticato. Come mi diceva una volta un anziano, in un villaggio, noi occidentali stiamo correndo troppo verso il cielo, verso la luna, ma abbiamo dimenticato chi siamo, da dove veniamo; non abbiamo più la connessione. Facendo una riflessione, questa è la nostra realtà. Io stesso, da piccolo, mi sono autodiscriminato con la mia famiglia. Infatti, quando andavo a scuola per studiare da odontotecnico, i miei genitori mi dicevano di non parlare in dialetto, perché non stava bene. Sarei andato con i dottori e con le persone importanti, per cui parlare in dialetto non stava bene. Oggi di questo mi rammarico molto, perché ho perso una parte della mia identità; non ho portato rispetto ai miei antenati, che hanno combattuto nella loro vita per dare a me la possibilità di essere qui, in questo momento. Il fatto di non conoscere molto della terra, della natura e dell'ambiente in cui i miei antenati sono nati è una discriminazione che mi sono imposto da solo.
  Da questi concetti, quindici anni fa abbiamo iniziato a fare questo lavoro. Vorrei farvi vedere un filmato, della durata di sette minuti, che spero vi possa dare una piccola impressione di quello che facciamo. Pag. 5Sono, infatti, le emozioni che si provano in questo evento che sono la parte più importante di quello che facciamo.

  (Segue proiezione filmato).

  Benvenuti ad un festival di emozioni senza confini. Attraverso danza, musica e preghiera rituale, i popoli ci hanno raccontato se stessi, la loro spiritualità e il rispetto per la terra madre che ci nutre. Grazie a loro riusciamo a sentire quell'energia unica che attraversa tutto il mondo e che scorre dal Perù ai villaggi Masai, dal Tibet all'Arizona, dal Messico al Togo. Un'energia che noi tutti abbiamo imparato a chiamare «lo spirito del pianeta».
  Solo incontrando gli altri incontreremo noi stessi. Tutti contribuiscono a rendere grandi ed emozionanti i momenti del festival.
  L'energia degli ospiti del festival «Lo spirito del pianeta» si armonizza con quello del pubblico in momenti altamente suggestivi. In istanti come questi sul prato di Chiuduno, alle porte di Bergamo, le distanze svaniscono e il tempo si annulla; noi tutti ritorniamo a essere uno soltanto.
  Un traguardo dal quale ripartire insieme. L'ultima edizione del festival «Lo spirito del pianeta» si è chiusa con una partecipazione che è andata oltre ogni nostra aspettativa: 200 mila visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Queste presenze hanno reso unici questi giorni, proiettando la sua unicità nel panorama internazionale.
  Siamo una storia di pace che scriviamo tutti i giorni. Lo spirito del pianeta è per noi il modo più coinvolgente per entrare in contatto con i popoli e le etnie lontane, che abbiamo imparato a conoscere e a sostenere. Per loro portiamo avanti progetti umanitari e culturali in tutto il pianeta; diffondiamo la cultura del rispetto reciproco fra i popoli e della salvaguardia del patrimonio culturale e ambientale. Il messaggio lo abbiamo portato al Santo Padre e altre istituzioni italiane.
  Una manifestazione sostenibile in tutti i sensi. Esserci e sostenere lo spirito del pianeta è importantissimo. La presenza del cantautore irlandese Bob Geldof, nel 2014, ne è un esempio. Con il suo concerto di apertura, la sua notorietà e il suo impegno, Bob Geldof segna un momento importante della storia della nostra manifestazione.
  «Lo spirito del pianeta» è anche un esempio di grande rispetto per l'ambiente: raccolta differenziata e riciclaggio dei rifiuti saranno il nostro modo di rispettare la natura che ci circonda.
  Non abbiamo formule segrete per essere riusciti ad arrivare a essere una delle più importanti manifestazioni tradizionali del pianeta. Abbiamo solo usato il cuore, l'energia dell'amore e del rispetto. Grazie a circa 120 cuori dell'associazione Chicuace in Tonatiuh Sesto sole, che sono i volontari che ogni anno partecipano al festival).

  IVANO CARCANO, Presidente dell'Associazione culturale «Lo spirito del pianeta». Questa è una piccola presentazione importante perché possiate rendevi conto, almeno in breve, di quello che è «Lo spirito del pianeta». Si tratta, appunto, di trasmettere delle emozioni e delle sensazioni. Avere la possibilità di essere seduto con un Masai, con un Tuareg, con un indiano d'America ci fa trovare di fronte al mondo indigeno, che ha caratterizzato per migliaia di anni l'esistenza su questo pianeta.
  Come diceva la presidente, milioni di indigeni vivono ancora su questo pianeta e chiedono soltanto il diritto di poterci vivere, avendo il rispetto di tutti gli altri, cosa che, purtroppo, molto spesso non è accaduta nel passato e che ancora adesso, talvolta, non succede.
  Molto spesso gli indigeni sono le ultime persone di questo pianeta. Poco tempo fa, quando ho parlato con un capo nativo nel Nord America, dove stiamo cercando di trovare la maniera per far sì che queste popolazioni non scompaiono, mi ha detto che ci ringraziava perché eravamo andati ad aiutarlo, ma non ne aveva bisogno. Ci ha chiesto, invece, se avessimo capito che la nostra libertà dipende anche dalla loro; in tal caso, avremmo potuto cominciare a lavorare assieme. Come sempre, quando parlano, non usano parole che non servono; usano soltanto il minimo necessario che, però, ha sempre un senso importante. Invece, nel mondo occidentale non sempre succede. Partendo da questo messaggio, ho Pag. 6sempre cercato di far sì che la libertà sia di ogni essere umano.
  Nel percorso intrapreso con «Lo spirito del pianeta» ho compreso di far parte del mondo degli indigeni, cioè di tutte quelle persone che amano e vogliono preservare la propria cultura, la propria tradizione e la propria terra, la madre terra.
  La cultura e la tradizione sono la mia carta d'identità, come la conoscenza dei miei antenati, che, come discendente, devo onorare, cercando di mantenere ciò che si è conosciuto nel tempo e modificato, ma mantenendone le prerogative.
  Poi c'è l'amore per la madre terra, un dono prezioso che ci è stato affidato, per averne cura come una madre che ci nutre, che ci permette, di generazione in generazione, di sopravvivere, di poter osservare la bellezza di ogni angolo del pianeta, che nessuno uomo potrà mai imitare e la capacità connettersi con essa; essere in grado di capirla e di avvertirne le energie in ogni sua forma.
  Questo, secondo me, vuol dire essere un indigeno. Io mi sento parte di questi valori. Ogni volta che ascolto un indigeno mi rendo conto di quanto ormai il mondo degli uomini occidentali si sia allontanato, a grandi passi, da tutto ciò.
  Spero che quando oltrepasseremo il limite, come mondo civile, cosa che non succederà fra molto, gli indigeni abbiano pietà di noi e non si comportino come noi abbiamo fatto nei loro confronti, ma ci insegnino di nuovo come connetterci con la madre terra.
  Ho voluto scrivere queste parole perché per me è importante non dimenticarmi di alcuni concetti basilari. Sono onorato di essere in un luogo che rappresenta fortemente la mia gente e la mia terra, ma è importante trasmettervi queste cose, perché le ritengo basilari anche per il nostro futuro.
  Per noi, è una grande soddisfazione essere stati presi come punto di riferimento dalle persone e dei popoli indigeni. In questi sedici anni, abbiamo conosciuto centinaia di popolazioni indigene; abbiamo fatto alcuni passi importantissimi; siamo molto più piccoli di quello che stiamo rappresentando.
  Due anni fa, all'interno della nostra manifestazione, è nato un momento che abbiamo voluto chiamare «assemblea dei popoli indigeni». I popoli che vengono a rappresentarsi si sono uniti durante la manifestazione, parlando, confrontandosi e capendo che la maggior parte delle problematiche sono comuni in ogni angolo del pianeta e abbiamo voluto intraprendere una strada che chiamiamo, appunto, «assemblea dei popoli» indigeni per far sì che ogni singola comunità e ogni singolo indigeno siano rappresentati da una voce molto più forte. Questo è fondamentale per loro, proprio per riuscire a farsi ascoltare, il che vuol dire riuscire ad avere una forza, cosa che si può fare soltanto unendo le popolazioni indigene di questo pianeta.
  Da quel momento i passi sono stati diversi e quest'anno è stato importantissimo innanzitutto perché siamo stati invitati, come diceva la presidente, in Australia, a novembre. Infatti, una comunità aborigena in Australia, che è stata da noi ospite alcuni anni fa, ci ha chiesto che il Festival si tenga lì perché la situazione in Australia è ancora molto pesante. Non so se sapete che sono soltanto 47 anni che gli aborigeni australiani sono stati dichiarati esseri umani. Fino al 1967 erano tutelati dal Ministero della flora e della fauna. Alcuni anziani, quando ne parlavamo, piangendo, ci raccontavano come era pericoloso uscire dalle riserve, senza un lasciapassare, altrimenti se li avessero uccisi non c'era neanche un minimo di motivazione per fare una ricerca o scoprire cosa fosse successo. Sentendo queste cose, abbiamo capito quanto era importante andare in Australia. Molto spesso vengono create delle situazioni per dividere le popolazioni aborigene, come succede in altri continenti. Per la prima volta stiamo lavorando per avere ospiti, a novembre, i nostri amici indigeni del resto del pianeta. La cosa più importante è che stiamo lavorando per avere presenti i rappresentanti di tutte le 430 comunità aborigene, cosa che in Australia non è mai successa. È fondamentale perché si debbono finalmente sentire orgogliosi Pag. 7 di appartenere alla cultura così antica e importante, anche per far capire agli australiani quanto sia importante che gli aborigeni continuino a preservare la loro cultura e la loro tradizione e che non bisogna vergognarsi del passato, ma vivere la quotidianità.
  Io non posso, come italiano, vergognarmi perché proprio da un italiano è nata la distruzione di nativi del Nord America. Voglio soltanto ricordarvi che, da Cristoforo Colombo a oggi, sono stati 110 milioni i nativi americani uccisi. Dovremmo fare ogni giorno dell'anno un giorno della memoria, parlando di nativi del Nord America, ma non credo serva. Siamo, però, responsabili di quello che facciamo ogni giorno, adesso, anche se non abbiamo la responsabilità di quello che è successo nel passato. Per questo ognuno di noi deve riuscire a farsi prendere da questa responsabilità e lavorare per far sì che queste cose non succedano più.
  Siamo onorati di organizzare questo festival in Australia. Inevitabilmente, lo facciamo come italiani, ecco perché per noi è importante essere qui, oggi, a raccontare quello che stiamo facendo come una piccola organizzazione di volontari, di cittadini normali di Bergamo, che stanno portando questo progetto in giro per il mondo.
  Per noi era importante che voi veniste a conoscenza di quello che stiamo facendo, per valutare se è importante e magari trovare la maniera di darci un supporto per ottenere questi grandi risultati. Comunque, ci rappresentiamo come italiani. Sarebbe, quindi, importante riuscire a trasmettere e a far conoscere anche sul nostro territorio – siamo, come molto spesso succede, più importanti all'estero che in Italia – per raggiungere questi obiettivi.
  Quest'anno avremo la collaborazione di alcune scuole che ci hanno dato la grande possibilità di creare a breve un portale indigeno, che ancora non esiste. Abbiamo scoperto che esistono televisioni e radio tra gli aborigeni e tra i Maori. La sorella di Simayiai è una speaker in una piccola radio Masai in Kenya. Esistono moltissime di queste realtà in giro per il mondo.
  Il nostro prossimo lavoro sarà quello di unire tutte queste realtà, creando un portale di informazione, di modo che chiunque volesse sapere quello che succede nella terra dei Masai, dove purtroppo anche molti italiani vanno a uccidere gli animali tanto per giocare, o, magari, ancora peggio, in Sudamerica, dove ancora adesso succede molto frequentemente che da elicotteri vengono mitragliate le persone e i villaggi per poterne fare pascoli. Queste cose si devono sapere; si deve sapere che continuano e non possono più continuare. Unire tutte queste forze in un'unica voce: questo è il grande progetto che ci siamo prefissati e si sta avverando, grazie alla realtà del volontariato, che a Bergamo è importantissima.
  C'è uno stereotipo anche con noi bergamaschi, come se non potessimo capire quello che è successo a molte di queste popolazioni o come se, quando si parla degli indiani d'America, fosse giusto sterminarli perché erano brutti, cattivi e selvaggi. Spesso, quando mi capita di fare interviste in qualche televisione o radio nazionale e racconto che questa iniziativa è nata a Bergamo si mettono tutti a ridere, come se a Bergamo fossimo qualche cosa di strano o delle persone particolari. Per noi, combattere l'ignoranza è fondamentale per arrivare a un reciproco rispetto.
  Ora vorrei lasciare la parola ai miei amici. Lei è mia moglie. È una persona che, come indigena, mi insegna qualcosa ogni giorno, oltre che naturalmente amarmi. Rappresenta la popolazione Masai; peraltro, suo padre è uno dei più importanti capi di tutto il Kenya. Lui, invece, è figlio di un importante capo Tuareg. Sicuramente da loro sentirete di più la voce indigena.
  Vi ringrazio per avermi dato questa possibilità.

  SUSAN SIMAYIAI MUTELEU, Rappresentante del Popolo Masai. Buongiorno. Vi ringrazio perché è un onore essere qui, questa mattina, per fare conoscere la nostra cultura. Vi ringrazio anche per l'impegno che ci avete messo. L'onorevole che abbiamo incontrato a Milano ha mantenuto la sua parola. Peraltro, l'onorevole Locatelli è di Chiuduno, il paese che ospita Pag. 8tutti gli anni, da 16 anni, la manifestazione de «Lo spirito del pianeta». Ringrazio anche Ivano, per l'organizzazione di questo evento e mio fratello Zaccaria, per essere qui.
  I miei nonni mi hanno insegnato che ogni parola detta o ascoltata può non essere messa subito in azione, ma, con il tempo, ricorre. Io faccio parte di una minoranza del Kenya, la comunità Masai; siamo i pastori; viviamo nella savana, non in città, quindi tutti i giorni portiamo le nostre mucche o le nostre capre a pascolare. Viviamo per quello e di quello, quindi siamo in mezzo alla natura.
  Per fortuna, i miei antenati hanno sempre mantenuto la nostra cultura, per la quale siamo conosciuti in Kenya anche grazie al turismo. Infatti, essendo gli unici ancora attaccati alle nostre radici, molti che vengono in Kenya vogliono farsi una foto con un Masai. Questo ci fa piacere, ma sarebbe bello farsi delle foto perché si è amici e ci si vuole ricordare. Spero che in futuro questa cosa si farà non perché si vuole fare una foto nel parco Masai Mara o Amboseli, ma perché andiamo in Kenya a trovare degli amici che abbiamo conosciuto.
  Ultimamente, con «Lo spirito del pianeta» abbiamo conosciuto tantissime persone che vengono per la curiosità di conoscere indigeni. Io sono una Masai molto orgogliosa di fare conoscere la mia cultura. Quando sono arrivata in Italia, venivo in un Paese molto diverso dal mio. Quando sono arrivata la prima volta in aeroporto ero spaventata. Dalla savana sono arrivata direttamente a Milano, in cui era tutto costruito, con le strade e le montagne. Sono rimasta colpita. Era bello, ma ero un po’ spaventata. Tutti erano di un colore diverso dal mio. Non parlavo ancora l'italiano, quindi vivevo tante emozioni tutte insieme.
  Sono andata a Bergamo, alla manifestazione «Lo spirito del pianeta». Anche se ancora non parlavo la lingua, le persone che abbiamo incontrato ci hanno accolto con il cuore aperto. Ci hanno dato la pasta, ma noi non sapevamo cosa fosse. Facevamo fatica a mangiare la pasta e il pane. Ero la figlia di un pastore che arrivava dalla savana, quindi facevo fatica, perché noi siamo abituati al latte e alla carne, ovvero alle cose più semplici. C'era la pizza; ci hanno portato questo pane grande con qualcosa sopra. Era spaventoso, ma è stato carino, perché ce lo offrivano con tutto il cuore.
  Li guardavamo, ma non riuscivamo a mangiare. Mia mamma non è mai riuscita a mangiare; io ho mangiato per la curiosità di assaggiare e di conoscere. La cosa più bella, però, non era la pizza, ma l'amore e l'accoglienza che ci hanno dato. Quello che ci ha colpito di più è che non ci conoscevano; eravamo un gruppo piccolo che arrivava dalla savana, ma c'erano tutti i volontari di Chiuduno e di Bergamo che ci hanno accolto e tra parole in swahili, in inglese e in italiano siamo riusciti a comunicare.
  Questo è quello che ci ha colpito di più: non ci conoscevano, ma ci hanno accolti, anche se non sapevano neanche chi eravamo. Noi siamo una piccola minoranza; in Kenya siamo considerati come indigeni, quindi quando ci hanno accolto a Bergamo siamo rimasti colpiti dalla gentilezza delle persone e abbiamo condiviso la nostra cultura perché abbiamo visto che c'erano, appunto, delle persone interessate a noi, anche se avevano una cultura diversa dalla nostra.
  Questo ci ha aiutato a ricordare da dove arriviamo. Se non avessimo mantenuto la nostra cultura forse non saremmo mai stati invitati in Italia per fare conoscere la cultura Masai. Del resto, in Italia non avrebbero avuto l'occasione di conoscere chi sono veramente i Masai, se non quelli che hanno i soldi per andare a fare un safari in Kenya ed entrare direttamente in contatto con loro. Questo ci ha dato, quindi, una motivazione enorme e una carica di energia, perché ci siamo scambiati le nostre culture; loro quella del cibo e dell'accoglienza e noi siamo riusciti a esprimere la nostra cultura e a spiegare loro chi siamo.
  Poi, abbiamo avuto l'occasione di incontrare gli indiani d'America, quelli che arrivano dal Brasile, quindi dalla foresta amazzonica, gli aborigeni. Ci siamo incontrati tutti insieme in un luogo piccolo, con Pag. 9le nostre differenti culture e ci siamo uniti. Alla fine, ci siamo sentiti una cosa unica, perché abbiamo capito che avevamo lo stesso sangue che scorreva nelle nostre vene. L'unica cosa che ci differenziava era la lingua, quindi non riuscivamo a comunicare, ma il resto era tutto uguale. Per esempio, accendere il fuoco e andarvi tutti intorno a parlare, a raccontare le storie o a pregare; il battito del tamburo ha lo stesso significato, dal Nord America in Sudafrica: il battito del nostro cuore.
  Allora, abbiamo visto che abbiamo tantissime cose in comune. L'unica maniera per tenere la pace è mantenere le nostre culture. Infatti, se manteniamo le nostre culture e siamo orgogliosi di farle conoscere, riusciamo a creare rispetto reciproco. Se rispettiamo noi stessi e abbiamo il tempo per farci conoscere, gli altri riusciranno a conoscerci e riusciremo a vivere tutti in pace, senza creare le guerre, le differenze o i muri di separazione. In fondo, abbiamo tutti la stessa idea e siamo tutti sulla stessa strada. Ognuno di noi vive la propria vita, che è un dono sacro che il creatore ci ha dato e che ognuno di noi cerca di vivere ogni giorno.
  Se, però, riusciamo a motivare e a non distruggere le minoranze indigene, ma riusciamo a farle convivere tutti i giorni e a far conoscere la loro cultura, riusciamo a creare dialogo e non ci saranno più le guerre. Una volta che ci sarà il dialogo tra etnie, non ci saranno più guerre. Infatti, negli ultimi anni, la colonizzazione in Africa è stata facile, perché i coloni mettevano un'etnia contro l'altra, anche se avevano sempre vissuto in pace. Da quando sono arrivati i coloni, hanno cominciato a finanziarie con le armi, quindi chi aveva le armi andava a combattere l'altra etnia. A quel punto, sono cominciate le piccole guerre, che poi sono diventate grandi.
  Questa è la cosa più brutta. Invece di portare il dialogo tra etnie, le hanno separate. Più aumentava la separazione, più aumentava l'odio tra etnie, perché una aveva di più dell'altra. Invece di iniziare un dialogo di pace, di fare giocare i bambini insieme e mandarli tutti nella stessa scuola, è cominciata la separazione e, quindi, la guerra che sta uccidendo il mondo.
  Adesso viviamo ancora sulla nostra pelle le guerre che accadono. Qualcuna non è stata portata dalla colonizzazione, ma quelli che vengono adesso vanno a caccia nella savana. Questa è la cosa che mi amareggia di più. Se vedo qualcuno che viene a fare turismo a Bergamo, ci fa piacere perché vanno a fare le foto nella città alta, girano e così via, ma non vedo mai nessuno che va a cacciare perché c'è la legge che governa. Ci piacerebbe vedere anche da noi lo stesso rispetto che hanno nelle loro case. Nessuno vuole che qualcuno entri nel proprio giardino o vada a toccare i fiori fuori casa sua, perché tiene alle sue cose. Allora, ci piacerebbe che anche i nostri animali e le nostre terre siano rispettate, come ognuno rispetta la propria casa.
  Due settimane fa, in Kenya sono state bruciate più di 5 mila zanne di elefanti. È veramente triste, perché questi poveri animali stanno diventando sempre meno perché c'è la siccità, quindi gli animali muoiono. Le persone vengono a caccia per divertimento. Questo rattrista molto, quindi vogliamo una legge internazionale che elimini la caccia e vieti il commercio dei prodotti animali. Questo tocca noi che viviamo lì. Questi animali vivono con noi e ci aiutano a mantenere la natura intatta. Noi viviamo con le nostre mucche. Io sono andata a scuola grazie agli animali, perché il mio papà è un pastore; ogni venerdì andava a vendere una mucca e poi, con i soldi che guadagnava, mi comprava i libri, le scarpe, le penne e così via.
  Se non ci saranno più animali che vivono nella savana con noi, non ci sarà più futuro per questa etnia. Vedo tante persone del mio continente che arrivano in Europa, ma non sanno più da dove arrivano; perdono la loro cultura e non riescono nemmeno a integrarsi. Se non riescono a farsi conoscere per quello che sono, non riescono neanche a comprendere la cultura italiana, perché hanno già perso la loro nelle difficoltà che hanno avuto per arrivare qui. Pag. 10
  In Somalia, che è vicino al Kenya, c'è la guerra da anni. Le persone non riescono più a sapere chi sono e quando arrivano qui non riescono neanche a reagire, perché non hanno più una cultura da fare conoscere e, quindi, non riescono neanche a ricevere quello che gli altri danno loro o a rispettare la cultura che trovano. Invece, se riusciamo a mantenere la cultura e a creare il dialogo per valorizzare le minoranze di popolazione indigena riusciamo a creare anche la pace. Questa è, infatti, la base della pace.
  Vi ringrazio molto per il vostro tempo. Sarei portata a continuare, ma non voglio andare oltre. Vi ringrazio tantissimo e vi auguro una buona giornata.

  PRESIDENTE. Grazie. Immagino che anche Zakaria voglia dirci qualcosa. Ricordo solo che abbiamo un appuntamento alle 10 per la conferenza stampa, ma l'ospitalità della Camera dei deputati vorrebbe farvi conoscere la nostra casa, quindi bisogna stringere un po’ i tempi.

  ZAKARIA YAHAYA, Rappresentante del Popolo Tuareg. Io sarò molto più rapido. Vi ringrazio dell'invito di oggi. Vengo dal Niger; sono un Tuareg nato, e poi cresciuto, nel deserto. Sono arrivato in Italia nel 1990, a Milano. Mi ha colpito molto che parliamo sempre di indigeni e raccontiamo delle storie diverse. Appena sono arrivato a Milano avevo problemi a salutare le persone, perché da noi non è così. Tutti si danno la mano. Dopo un mese ho cominciato ad avere problemi e non volevo più stare a Milano, perché le persone non mi salutavano. Io parlo francese, quindi dicevo «Bonjour» e le persone mi chiedevano se ci conoscevamo. Poi, mi hanno aiutato, spiegandomi di non salutare, perché qui non funziona così.
  Comunque, a me la parola «indigeno» piace molto, ma preferisco un altro termine. Qualsiasi popolo, sia che viene a casa mia, sia che visito a casa sua, deve capire la lingua e la storia, perché possiamo andare avanti solo mischiando le storie. Parlando del mondo Tuareg, tutti quelli che ci conoscono dicono che siamo affascinanti, che siamo un popolo storico, e così via. In cosa consiste, però, lo scambio? Non serve che veniate a casa mia e facciate le foto o il turismo, e poi, quando tornate in Europa, non avete capito niente. A me piace che un Tuareg venga qui a raccontare la sua storia. La nostra storia sta sparendo perché viviamo in cinque Paesi diversi. Viviamo di guerra, come ha detto Simayiai. Non amano i Tuareg, ma quello che è sotto di loro, cioè il petrolio o l'uranio. Non pensano al popolo che sta vivendo lì, per aiutarlo anche ad andare a scuola e a capire la sua storia. Nemmeno io conosco la mia storia. Per farlo devo andare in Francia e cercare i libri.
  Abbiamo una storia molto importante. Mi piacerebbe che un giorno un Tuareg possa venire in Europa per studiare la storia romana e scambiare la sua cultura. Non mi piace, invece, «stare in un parco». Mi piace essere altro.
  Grazie a questo festival anche la mia mente si è aperta, perché ho conosciuto vari popoli italiani, sudamericani e così via, che non avevo mai visto, se non nei film. Sono molto contento di aver conosciuto questo festival, nel quale ho portato anche un po’ della mia cultura.
  Grazie, mi fermo qui perché non vorrei andare troppo avanti.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che desiderino intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  FRANCO CASSANO. La prima domanda è proprio da professore. «Lo spirito del pianeta» ha a che fare con l’«anima del mondo» di Jung? Siccome sono espressioni che richiamano al tema della madre terra e il recupero della simbologia della madre è un tema centrale di questa psicologia, vorrei capire se è stato Lei, dottor Carcano, a collegare questa vicenda.
  In secondo luogo, riguardo alla provincia come un luogo di partenza, credo sia vero e non solo nel caso di Bergamo. Ovviamente, parlerò solo della situazione italiana, che conosco meglio. Tuttavia, Slow Food è partita da un signore che è nato a Bra; uno degli eventi culturali più interessanti Pag. 11 del Mezzogiorno è «La notte della taranta», che è partita da Melpignano, che ha 4 mila abitanti, quindi si capisce che c'è una straordinaria riserva proprio nella provincia.
  Siccome il tempo è tiranno, non posso andare in questa direzione, che pure, per certi versi, mi è molto cara, perché ha attraversato una parte della mia biografia intellettuale, quindi arrivo a porre una sola domanda. Il rispetto reciproco tra le culture è un elemento chiave. Qui, però, c'è anche una critica di una delle culture, la più potente, quella dell'Occidente – da Colombo in poi – e di tutte le culture prepotenti. Da questo punto di vista, l'Occidente è solo oppressione, oppure c'è anche qualcosa che, nel momento stesso in cui si vuole costruire una relazione ricca tra i popoli, forse va recuperato?
  In secondo luogo – lo dico proprio in quanto sociologo – l'idea che le guerre arrivino con l'Occidente mi sembra un po’ semplicistica perché sicuramente l'Occidente le ha prodotte saccheggiando (tutto quello che ha detto sulla caccia è terribile), ma nello stesso tempo i conflitti hanno tante ragioni. Del resto, c'erano anche prima. Dico questo proprio per poter ottenere un fine che è comune a tutti, quello della pace.
  Mi scuso se sono stato poco compatibile.

  ELEONORA CIMBRO. Sarò anch'io rapidissima. Innanzitutto, vorrei ringraziarvi per essere qui, oggi perché siamo abituati a fare audizioni completamente diverse. Ogni tanto avere delle visioni del mondo così autentiche ci aiuta a fare riflessioni che vanno oltre la lettura oggettiva della realtà, per provare poi a invertire il corso di certi fenomeni.
  Credo che il lavoro che state facendo sia fondamentale, nonostante si stia parlando di minoranze e di culture che, purtroppo, anche da quello che avete raccontato, si stanno disperdendo, per cui il tema di valorizzarle e di mantenere viva la memoria di queste storie è davvero importante.
  Vi ringrazio, dunque, per il lavoro che state facendo, perché mi rendo conto che è estremamente difficile, in un mondo come il nostro, che fa della omogeneizzazione anche delle culture la via dominante, per cui si perdono le differenze in questo magma, appunto, indifferenziato, che poi ci porta ad avere dei parametri che sono spesso legati all'economia e nulla hanno a che fare con il rispetto per la terra e le diverse culture.
  A me interessa capire – se ci avete pensato – come intendete portare avanti questa vostra storia rispetto alle nuove generazioni. Dalla vostra unione nasceranno dei figli che vivranno in un contesto molto diverso rispetto alle vostre vite individuali. Come verrà portata avanti questa storia dai vostri figli?

  FRANCESCO MONACO. Intervengo per mostrare la mia gratitudine per la vostra testimonianza. Vorrei porvi due domande. La prima è molto semplice. Ho inteso che l'evento clou della vostra attività è questo festival che si celebra ogni anno. La domanda è se, oltre a questo evento catalizzatore della vostra attività, ci sono altre iniziative che fanno capo alla vostra associazione.
  La seconda domanda è stata anticipata dal collega Cassano. Se doveste svolgere la sigla, che cos'è, volendo definirlo in forma concisa, «lo spirito del pianeta»? Lo chiedo perché mi incuriosisce la concettualizzazione della sigla.
  La terza è una domanda che mi chiama a fare l'avvocato del diavolo. La vostra testimonianza e la vostra riflessione sono molto suggestive. Credo, quindi, sia difficile non apprezzarle. Un tempo si sarebbe detto la «convivialità delle differenze», il «rispetto e la valorizzazione della pluralità delle culture e delle tradizioni». Insomma, è suggestiva e convincente.
  Tuttavia, mi domando se in questa tornata specifica della storia del mondo non ci sia anche il problema non dico opposto, ma è un tempo in cui c'è anche l'esplosione delle differenze tra loro incompatibili e dei particolarismi. È un mondo privo di un principio di ordine. So perfettamente che le due cose si richiamano l'una con l'altra.
  A ogni modo, qui si introduce inesorabilmente la questione del rapporto con l'Occidente, che è un rapporto critico, di cui voi lamentate – credo giustamente – la Pag. 12propensione omologante, per un verso, quindi mortificante del pluralismo delle tradizioni e delle culture, nonché la presunzione prepotente, ovvero una tensione all'egemonia, che è stata, però, largamente praticata nel tempo dalla colonizzazione e lo è ancora oggi, in forme nuove. Questo non ci sfugge.
  Tuttavia, nell'Occidente c'è anche altro. C'è anche un universalismo buono, non solo la presunzione e la prepotenza che mortifica e omologa il pluralismo delle culture. C'è anche l'universalismo dei diritti, che è maturato in Occidente, ma che forse esso non ha testimoniato affatto.
  C'è il tema dell'universalità. Lo dico a Susan (scelgo il nome più semplice). Chi conosce la storia, conosce le tragedie della colonizzazione. Non mi pare di poter dire, però, che la fine di quella stagione abbia prodotto il paradiso terrestre e la pace universale anche in quei territori, soprattutto in Africa. Le guerre, purtroppo, esistono ancora e sono prodotte da fattori altri. Stando alle notizie che conosciamo, la fine dei conflitti non è coincisa con la fine della colonizzazione, perché abbiamo ancora a che fare con conflitti di natura diversa.
  Lo scenario è più problematico. Questa è l'osservazione da avvocato del diavolo.

  PRESIDENTE. Le domande che avete posto indicano l'interesse per la vicenda. Allora, perché non ci organizziamo per andare al festival, visto che abito proprio a duecento metri da lì? Do ora la parola ai nostri ospiti per la replica.

  SUSAN SIMAYIAI MUTELEU, Rappresentante del Popolo Masai. Vorrei solo rispondere rispetto ai figli. Lei, onorevole Cimbro, ha chiesto come sarà la nuova generazione. Questa è una cosa che ci riguarda direttamente, essendo coppia mista. Noi riteniamo che sia una ricchezza, perché i figli di misti hanno la fortuna di conoscere le due culture.
  Per quanto riguarda noi due, quando nascerà il bambino gli insegneremo le due culture, quindi, in pieno, sia la mia cultura Masai sia quella italiana. Credo che sia una ricchezza per i bambini che verranno, quindi insegneremo loro la lingua italiana e la mia madrelingua perché ritengo importante che riescano a comunicare con i miei genitori che non parlano l'inglese, né lo swahili, ma solo masai. Vorrei che andassero in Kenya, a giocare con la terra, a costruire le capanne, come facevo io, o che andassero in campagna a far pascolare gli animali. Insomma, ritengo che sia molto bello. Allo stesso modo, gli insegneremo la cultura italiana, che mi ha dato tantissimo; mi ha arricchito tanto. Ho trovato tantissima apertura nel mondo occidentale proprio in quegli italiani che mi hanno ricevuto con entrambe le mani.
  Il fatto che in Occidente siano accadute delle cose durante la colonizzazione è vero, ma quello che succede adesso è diverso. Io ho avuto un'esperienza molto importante. Per esempio, in Occidente c'è più rispetto per la donna che in Africa. Mi sono innamorata subito di mio marito proprio perché lui aveva una sensibilità per la donna. La prima volta eravamo un gruppo di sette persone invitate; io ero l'unica donna; gli uomini tendevano a parlare solo loro della cultura e così via; invece Ivano cercava di far parlare della cultura femminile, quindi ha fatto uscire di più la parte femminile della mia cultura. Questo mi ha mostrato la sensibilità che ha l'italiano e mi ha fatto vedere che l'uomo italiano rispetta molto la donna. Insomma, ti apre la porta, ti porge la sedia quando siedi; sono piccole cose che apprezziamo.

  FRANCO CASSANO. Abbiamo capito che ha molto apprezzato questo atteggiamento di suo marito. È una storia che è finita bene.

  IVANO CARCANO, Presidente dell'Associazione culturale «Lo spirito del pianeta». Ho seminato bene; devo dire che il risultato è stato importantissimo.
  Vorrei intervenire brevemente sull'aspetto delle attività. Poi cercherò anche di dare una risposta che racchiuda le vostre due domande. Pag. 13
  Ovviamente, il festival è l'attività principale. Ci vuole circa un anno e mezzo di lavoro per completare una manifestazione. Abbiamo, infatti, moltissimi problemi di relazione con le istituzioni di provenienza dei nostri invitati. La prima volta che ho avuto il piacere di conoscere l'onorevole Cimbro era proprio per questa ragione. Infatti, le chiesi cosa potessi fare per avere, non dico delle facilitazioni, ma per poter essere visto come una realtà che organizza un evento e non come una persona che invita dei Masai, degli aborigeni o degli indios dell'Amazzonia in quanto persone che poi eventualmente restano in Italia. Questo è un aspetto che le nostre ambasciate considerano molto quando rilasciano i visti, ma è ovvio che quando do delle rassicurazioni posso farlo per parte mia. Quando parliamo di un indio dell'Amazzonia che non ha mai visto neanche una bicicletta, mi diventa difficile dimostrare al nostro funzionario dell'ambasciata quali sono le caratteristiche per cui mi assicuro che questa persona torni. È ovvio che non ha un conto corrente, né un lavoro, come lo vediamo noi occidentali. Queste sono delle grandi difficoltà che ci prendono tantissimo tempo e denaro. Più di una volta mi è capitato di acquistare i biglietti aerei, l'assicurazione sanitaria e tutto quello che è previsto dalla legge, ma alla fine, qualche giorno prima dell'evento, non ci hanno dato il visto, non essendo tenuti nemmeno a dare una risposta. Questo crea delle grandi difficoltà. Peraltro, alcune di queste persone che portiamo qui non esistono neanche nel proprio Paese; non sono registrati neanche come nati. Due anni fa con i Huichol del deserto del Messico abbiamo dovuto mandarli a 400 chilometri per registrare la nascita, anche se avevano palesemente 50-60 anni. Insomma, vi sono in difficoltà in questo senso.
  Dopodiché, portiamo avanti dei progetti umanitari. Con Simayiai abbiamo cominciato il nostro rapporto perché, dopo che abbiamo conosciuto i Masai, lei, con la sua grande forza di donna che voleva essere emancipata, mi ha raccontato le difficoltà, quindi abbiamo cominciato a fare dei progetti culturali e sociali. Per esempio, abbiamo cominciato a costruire un pozzo per l'acqua, che per loro è la cosa principale; abbiamo costruito un dispensario medico. Abbiamo, però, coinvolto direttamente le comunità. Ciò tocca alcuni aspetti delle vostre domande. Noi lo abbiamo fatto chiedendo il permesso. Invece, molto spesso noi occidentali facciamo che l'errore – non facciamo solamente errori, per fortuna; dobbiamo, però, essere consapevoli dei nostri sbagli – che quando portiamo avanti dei progetti su quei territori lo facciamo dal nostro punto di vista.
  Per esempio, se si tratta di fare un progetto per un dispensario medico o per qualsiasi altra cosa, lo vediamo alla nostra maniera e non proviamo quasi mai a guardarlo dal loro punto di vista. Noi, invece, abbiamo cercato di lavorare su tale aspetto, perché abbiamo un'esperienza e una conoscenza diretta. Quindi, ci siamo proprio approcciati con il consiglio degli anziani, che loro rispettano moltissimo, perché pensano siano loro a portare avanti la comunità.
  Abbiamo detto che avremmo voluto aiutarli in quella maniera e abbiamo chiesto cosa ne pensassero e come volessero che andassimo avanti. Non è detto che la nostra visione sia quella corretta. Anzi, in molti aspetti, secondo me, non lo è. Loro hanno una visione impressionante della madre terra e non sono disposti a barattarla, nemmeno con enormi quantità di denaro.
  Recentemente, vogliono distruggere la montagna sacra degli Apache in Arizona, perché hanno scoperto che è ricca di rame. Ebbene, sono centinaia di migliaia di anni che gli Apache vanno a far partorire lì le loro donne perché già prima sapevano che era ricca di energie; non c'era bisogno di fare dei sondaggi per capirlo.
  Questi aspetti sono importanti quando ci relazioniamo con loro, perché diamo loro un valore. Noi siamo gli occidentali che governano il mondo, ma ci «abbassiamo» al loro livello e dialoghiamo, cosa Pag. 14che quasi mai, purtroppo, facciamo.
  Giusto o sbagliato che sia, quando siamo andati – malgrado abbiano un'altra considerazione del rapporto tra uomo e donna, per loro l'uomo ha una sua responsabilità nel condurre il tutto, rispetto alla donna, che invece segue quello che fa il marito – noi abbiamo portato avanti il progetto grazie a Simayiai. Noi non siamo andati quasi mai. Lei ha costruito il primo pozzo, ovviamente anche con il nostro aiuto. Ha seguito tutto lei. Quando siamo andati per l'inaugurazione del pozzo costruito a 170 metri, c'era una comunità di migliaia di persone, ma lei era la figura principale. Ricorderò sempre che quando siamo andati, eravamo di fronte a tutti gli anziani di vari villaggi attorno per tale inaugurazione e un anziano disse: quanto è stato importante aver mandato a studiare anche una donna. Lei è stata la prima ragazza che è stata mandata a studiare dalla comunità, che da quel momento ha incominciato a mandare molto più frequentemente le donne a studiare. È stata un esempio.
  A ogni modo, non sono andato a imporre il fatto che dovessero rispettare le donne perché è giusto farlo. Abbiamo cercato di dare a lei la possibilità di far vedere quanto la donna è importante e capace di poter gestire la comunità, come hanno sempre fatto anche gli uomini, malgrado le vicissitudini della vita quotidiana del passato imponevano agli uomini, che erano più forti, di dare la possibilità di sopravvivenza alla famiglia e quindi di avere un certo tipo di autorità. Ecco, vivendo con loro si capisce perché certe cose funzionavano in una certa maniera: soltanto in quel modo, infatti, c'era la possibilità della sopravvivenza della comunità. Questa è una comunità incredibile. Tre anni fa, dopo una siccità di tre anni, abbiamo dato loro, tra i nostri progetti, tonnellate di derrate alimentari che ci siamo attivati per comparare sul loro territorio. Ebbene, quando siamo andati con i container di prodotti alimentari, gli anziani si sono riuniti e mi hanno ringraziato per quello che abbiamo portato, perché il cibo era scarso e mangiavano una volta ogni due-tre giorni, però, siccome la siccità non colpiva soltanto loro, ma anche le altre comunità attorno, ci hanno chiesto di distribuire gli alimenti anche a quelle.
  Queste sono cose che ci devono far pensare; dobbiamo uscire fuori da un certo tipo di logica. Siamo veramente sconnessi; non abbiamo più il contatto con queste cose, che loro invece hanno. Adesso stiamo facendo un passaggio, forse siamo arrivati a un certo tipo di benessere e di consapevolezza. Ecco, 220 mila persone che vengono per un'iniziativa di questo genere mostrano che c'è un movimento, un pensiero e una motivazione. Qualcosa sta cambiando. Perché vengono 220 mila persone a vedere e ad ascoltare queste persone, che abbiamo sempre pensato come selvaggi che non servivano a niente?
  Questo passaggio, per noi, è fondamentale. La nostra esperienza è importantissima. Come dite voi, dobbiamo essere consapevoli di quello che abbiamo fatto come occidentali. Tuttavia, molto di quello che succede in giro per il mondo è colpa nostra, dal punto di vista del cambiamento nel pensiero degli indigeni. Il fatto che il denaro e il potere siano la cosa principale è un pensiero che molti di loro stanno acquisendo; ecco perché ci sono conflitti che nascono spontaneamente nelle varie comunità, senza bisogno di noi. L'uomo bianco, in giacca e cravatta, è la persona importante perché è forte. Ricordo un indiano d'America a cui dicevo che non sopportavo John Wayne per quello che rappresentava; ebbene, mi rispose che quando vedeva i film tifava per lui, perché è quello che vince. Tutti vogliono vincere e sentirsi importanti. Abbiamo contaminato negativamente le persone anche in questa maniera, facendo vedere che la persona forte è quella che agisce in un certo modo, discriminando e non portando rispetto a questi valori. Al festival facciamo questo; portiamo soprattutto gli anziani per far raccontare la loro esperienza e riescono ancora a trasmettere gli aspetti legati a queste cose, che noi abbiamo perso.
  Queste sono le particolarità della manifestazione. Diamo la possibilità di ascoltare. Ci sono persone che si avvicinano a Pag. 15me e mi ringraziano per aver vissuto un'esperienza che non avrebbero mai immaginato. Magari si sono accorte che stavano piangendo, avendo a fianco un anziano e un bambino, che pure stavano piangendo, senza riuscire a capire il perché. L'emozione e le energie che ci trasmettono queste persone sono così forti che producono questo effetto. Ci fanno pensare; cerchiamo di far arrivare questo messaggio.
  Quando sento lei, Zakaria, gli anziani, ma anche il mio amico bergamasco delle valli, riesco ancora a sentire queste emozioni, che noi non riusciamo più a provare. Pensiamo di essere arrivati perché abbiamo più denaro e più possibilità, ma forse è il momento di cambiare questa idea. La speranza è in queste 220 mila persone che ogni anno crescono. Purtroppo, le nostre possibilità sono scarse. L'entrata al festival è gratuita. Non abbiamo quasi sponsorizzazioni e sono anni che non facciamo neanche più le domande per avere contributi istituzionali, perché non ci sono mai arrivati, neanche quando non c'era la crisi. Non so perché, ma sicuramente ci sono delle motivazioni.
  Secondo me, è importante che prendiamo consapevolezza rispetto a cosa vogliamo veramente fare nel futuro. Allora, cambiare il telefonino ogni sei mesi può essere meno importante che avere un fiume vicino a casa dove poter andare a bere. Stiamo distruggendo il pianeta. Tra un po’ non ci sarà più.
  Andando in giro tra i popoli, per invitarli, ci stiamo accorgendo cosa succede quando distruggiamo una foresta in Malesia, in Indonesia o in Thailandia, per far produrre, dai locali, l'olio di palma. Stiamo distruggendo il più grande e più antico polmone del pianeta in quelle zone, perché l'olio di palma costa di meno per realizzare i prodotti alimentari. Anche questa è una maniera di agire, magari inconsapevolmente, sulla realtà del pianeta. Allora, la sensibilizzazione e l'informazione sono veramente importanti. Noi facciamo, appunto, un lavoro di sensibilizzazione, cercando di dare la possibilità alla gente di ascoltare e di riflettere. Vogliamo che la gente rifletta; non vogliamo dirle cosa pensare.
  L'anno scorso, nella nostra manifestazione, abbiamo recuperato il 77 per cento di differenziata, perché parliamo di ambiente; siamo l'unica realtà a Bergamo – siamo piuttosto duri di testa – che ha messo insieme 140 associazioni ambientaliste che vengono a raccontare qual è la situazione ambientale locale e internazionale, proprio per dare informazione.
  È più difficile gestire la gente con un certo tipo di consapevolezza, ma non abbiamo altre possibilità. Tutti abbiamo dei figli o nipoti; che cosa vogliamo lasciare loro? Siamo sicuri che con un po’ più di denaro e con il cellulare nuovo ogni sei mesi si stia meglio?
  Questa è la nostra responsabilità; abbiamo fatto già un certo tipo di esperienza che loro non hanno fatto; per questo siamo gli unici che possono guidare questo cambiamento. Li abbiamo abituati a chiedere. Invece, io non voglio dare loro l'aiuto, ma voglio che lavoriamo assieme per cambiare questo pianeta. Devono abituarsi ad autogestirsi, a pensare e a prendersi le loro responsabilità, come è giusto che sia e come dobbiamo fare anche noi.
  In certi momenti, mi sento anche io offeso, perché mi sento criticato in quanto occidentale e come cristiano. Mi devo, però, rendere conto di quello che abbiamo fatto. Ci sarebbe da vergognarsi per quello che è successo. Tuttavia, non voglio vergognarmi per cose che hanno fatto gli altri; mi devo vergognare per quello che faccio io oggi. Visto che ho avuto la possibilità di fare questo passaggio culturale, il mio dovere è cercare di trovare la maniera di far capire loro che è giusto che facciano le loro esperienze, stando attenti. La nostra cultura ha portato a tante situazioni positive, per cui è importante porsi leggermente «sotto» di loro per far vedere che non siamo soltanto prepotenti, ma abbiamo anche un aspetto positivo.
  Questo è quello che cerchiamo di fare con «Lo spirito del pianeta». Sappiamo di aver fatto certe cose nel passato, ma adesso stiamo cercando di essere diversi, quindi chiediamo loro di lavorare assieme. Pag. 16
  Queste sono le nostre particolarità. Spero di aver racchiuso sinteticamente quello che siamo. Per il resto, vi invitiamo a venire ad ascoltare. Sarebbe un onore avervi con noi.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti della presenza e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 10.10.